Quadrimestre 45 - pagina 11
Leila Premuda Todeschini, ascendenza e discendenza lussignane di Maria Teresa Todeschini Premuda LUSSIGNANI SI NASCE O SI DIVENTA quando
si ha la fortuna di avere una madre così. La prima volta che noi sei bambini: Giambi, Maria Teresa, Paolo, Cecilia, Lorenzo e Cristina, e il papà Gregorio Todeschini vedemmo Lussin fu nel 1962, appena la Jugoslavia di Tito cominciò ad aprire le frontiere all’Occidente. Finalmente tutti i racconti che ci faceva la mamma sulla sua meravigliosa infanzia e giovinezza si posizionavano nel loro sfondo reale! Fu un viaggio lungo e avventuroso. Allora il traghetto, poco più di una chiatta, partiva da Porto Albona e arrivava a Cherso. Da Cherso a Lussino la strada non era asfaltata. Il rosso della terra che ci riportammo indietro, al ritorno a Padova, appiccicato all’auto, ci fece molta impressione. La mamma ci raccontò allora come, allo stesso modo, lei fosse rimasta colpita, al suo arrivo a Padova per frequentare l’Università, dalla terra chiara delle campagne venete, essendo lei sempre vissuta in mezzo a quella terra rossa. La mamma ci ha trasmesso da subito l’amore per il mare e aveva coinvolto in questa passione anche e soprattutto il papà, padovano terricolo e montanaro incallito. Le estati della nostra infanzia (tranne qualche breve soggiorno in montagna) le passavamo, infatti, tutte a Jesolo. Anche se la mamma diceva “non xè mar questo”, ci insegnò ad andare in barca a vela su un dinghi che avevamo naturalmente chiamato Cigale; ci insegnò a pescare e tutte le domeniche, la mattina presto, trascinava il papà e qualcuno di noi figli a sgombri al largo del faro, sgombri che venivano poi deliziosamente cotti alla brace per pranzo. Col trascorrere degli anni, completamente entrato nella parte, era il papà a trascinare la mamma a pesca. Anche alla sera pescavamo, al tramonto, sulla spiaggia, con le reti a strascico. Un capo si caricava sul dinghi, l’altro a terra e poi si chiudeva il cerchio e si tirava a riva. Tutti tiravano: la mamma, noi bambini, la tata Maria, gli amici, Toni, il bagnino della spiaggia e chiunque passasse in quel momento. Secchi colmi di pescetti, moleche, sardelle, sogliolette si tramutavano poi, in un attimo, in meravigliose fritture. Per tutta l’estate si mangiava solo pesce: quello pescato da noi e quello di Romano, il pescatore col bragozzo al Faro, da cui la mamma si recava tutte le mattine presto, in bicicletta. A Jesolo, al mare, la mamma riproduceva il più possibile la sua vita quotidiana di Lussin. Si mangiavano anche
gli gnocchi coi susini, sapore un po’ controverso per noi bambini, ma che ora mi ritorna in bocca con terribile nostalgia. Quando dunque vedemmo il mare di Lussino, capimmo perché la mamma di Jesolo dicesse che “questo non xè mar”. Ne fummo veramente conquistati per sempre, noi e il papà! Con il Violincich, sulla sua passera lussignana, andammo per tutte le vallette – Artatore, Candia, Crivizza, Cigale, Valdisole, Valdargento, Valdarche, Valleoscura, Lischi – e dovunque lei raccontava ricordi e aneddoti con gli occhi luccicanti di nostalgia, ma con la gioia per i luoghi ritrovati. Le stradette, le case della Paoletta Vidulich- Vidoli, della Clara Stenta, della Clara Duse, della Renè Piccini della Luisa Cosulich, della Livia Boldi, della Luisella Matatia, della Cristiana Martinolli, il suo gruppo di amiche inseparabili; e poi il Duomo, San Nicolò, la scuola, Squero, Prico, Bocca Falsa, Bocca Vera, il Chalvien, la Crociata… tutto divenne da quel momento in poi familiare e anche un po’ nostro. Andammo a stare nella vecchia casa della mamma in via Oberdan: era stata fortunata (!), la sua affezionata domestica, la cara vecchia Giovannina Cessich, era rimasta lì. L’avevano lasciata vivere in una piccola parte, il resto era occupato da altre famiglie mentre il laboratorio del papà della mamma, dove lui ridipingeva gli scuri e faceva altri lavoretti tra un imbarco e l’altro, non c’era più, era stato bombardato. Nostro nonno Giovanni Premuda, capitano di lungo corso ad appena ventiquattro anni, era comandante delle navi della società Liburnica di cui era anche socio armatore assieme al zio Luigi (così lo chiamava la
Nonno Giovanni al timone