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La Grotta dell’orso di Claudio Suttora

Nei nostri giorni di vacanza, non so come, tra un bagno e l’altro, tra le gite in barca e la pesca e le cento occupazioni di una villeggiatura rustica come la nostra, abbiamo trovato anche il tempo per leggere diverse interessanti pubblicazioni sulla natura delle nostre isole. Il nostro interesse per l’aspetto naturalistico delle cose che ci circondavano, era cresciuto in modo tale da farci ricercare con avidità, tutto quanto fosse stato detto e scritto su questo argomento. Con l’aiuto di amici e parenti siamo riusciti a trovare le opere più importanti pubblicate negli ultimi settant’anni e leggendole ci siamo lasciati prendere dal sacro fuoco dei neofiti per la geologia, la botanica, la speleologia ecc. ecc., tant’è vero che comunicammo il nostro entusiasmo ai ragazzini che villeggiavano con noi, tra i quali, vispo come un Pierino, nostro nipote Enrico. Infatti quante volte poi li abbiamo intesi andare in giro per Lucizza affibbiando nomi pseudo scientifici alle varie piante della valletta, nomi in latino maccheronico inventati lì per lì come: smircicius simplicius, s’ciulacius vulgaris e spuzzus spuzzulentis e così avanti, divertendosi un mondo. Persino le storielle che ero solito raccontare loro nelle sere tranquille, godendoci il fresco davanti alla casetta dei Martinolich, presero quest’impronta particolare, cosicché dignitosi professori con tanto di barba e baffi, lente di ingrandimento e acchiappafarfalle, ne diventarono i protagonisti, sostituendo i precedenti: pirati, contrabbandieri, pescatori e frati. Anche i nuovi protagonisti però, per forza di cose, finirono con l’incappare nelle medesime disavventure di quelli che li avevano preceduti. Anche la fantasia ha i suoi limiti. Comunque, come narratore, la palma la riportò il signor Biagio raccontandoci la storia, seria e vera, del­ l’esplorazione della Grotta dell’Orso, una grotta situata proprio nelle immediate vicinanze di Lucizza. Nel lontano luglio del 1926, egli insieme al Toni, al Bepi Nonzolo ed a qualcun altro, guidati dal Signor Mario Martinolich, scesero in quella caverna come dei veri speleologi e vi rinvennero un teschio di orso preistorico, vissuto quasi un milione di anni fa. Per calarsi nella grotta, passando attraverso una stretta apertura, dovettero armare sul posto una specie di traliccio fatto con dei tronchi d’albero; sopra vi assicurarono una carrucola nella quale scorreva una robusta fune con appeso ad un capo un bilancino. Seduti su questo, ad uno ad uno si infilarono nella cavità profonda circa 18 metri, misura che corrisponde all’altezza di un palazzo di cinque piani. Il

primo fu costretto a fare un mezzo bagno nell’acqua gelida di una grossa pozza che si trovava proprio al di sotto dell’apertura – era lui, il nostro narratore in persona: “Che impression, mama mia, che fredo e che scuro iera là drento!” Gli altri invece, escluso il Bepi Nonzolo rimasto a far la guardia in superficie, aiutati dal Biagio, poterono tutti scendere sui bordi della pozza senza bagnarsi i piedi. Naturalmente si erano portati dietro delle lampade per poter esplorare l’antro. La caverna si presentava a forma di imbuto, lunga circa 32 metri e larga 14, non aveva particolari interessanti, era priva di stalattiti e stalagmiti, comuni invece nelle grotte del Monte Ossero. Quando però in mezzo a un mucchio di sassi scopersero un grosso cranio animale tutto coperto da incrostazioni terrose, capirono subito di aver tra le mani qualcosa di molto importante. Esultanti allora per la scoperta, si passarono di mano in mano l’immancabile fiasco di vino e fecero una bella cantata tra le risonanti pareti della grotta. Con gran fatica perché pesantissimo, riuscirono poi a portare alla luce il loro ritrovamento. Il cranio dovette essere inviato a Trieste presso il Museo di Storia Naturale affinché venisse studiato e classificato. La conferma non tardò ad arrivare: si trattava proprio dei resti, in ottimo stato di conservazione di un preistorico orso delle caverne, il favoloso “Ursus spelaeus”, appartenente ad una razza estintasi da almeno 600.000 anni. L’importante pezzo da Museo, restituito all’Isola, fu sistemato nell’atrio della casa comunale di Ciunski, dove fece bella mostra di sé per molti anni. Oggi non si sa dove sia andato a finire. In seguito a quel ritrovamento la grotta, fino allora chiamata dai paesani semplicemente “lokvica” (loquiza = pozza), fu ufficialmente riconosciuta e catalogata con il nome di “Grotta dell’orso”.

Lucizza

Foto Maura Suttora