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La maestra Giuseppina di Franca Martini
La maestra Giuseppina Ivancich ci ha accompagnato per tutte le cinque classi elementari con il suo insegnamento. Ancora oggi la ricordo, nonostante siano passati molti, ma molti anni. Mia mamma mi raccontava che insegnava già ai suoi tempi, e doveva essere molto giovane, probabilmente ai suoi primi anni di insegnamento. Aveva fama di essere molto severa, perché quan-
do passava lei tutti tremavano… Veramente, quando andavo a scuola io, continuava a meritarsi quella fama, anche se probabilmente era un po’ meno severa. Noi sue alunne, tuttavia, avvertivamo di meno la sua severità, perché conservava con tutte noi un dialogo affettuoso. Aveva un metodo speciale di insegnare, per renderci meno astruse le materie, perché fosse meno difficile ritenere le nozioni, specialmente quando dovevamo imparare a memoria le tabelline, l’abaco, la tavola pitagorica, come le chiamavamo a quei tempi. 2 x 2, 5 x 8, 6 x 8, e così via. Lei allora a ogni scolara assegnava una tabellina, così quando ci interrogava si riferiva al nome dell’alunna, ed era più facile ricordare il risultato, con meno fatica, quasi fosse un giochetto… Quando in geografia dovevamo ricordare i nomi di tutti gli affluenti del Po, le città e le regioni che attraversava, lei “personificava” il fiume più importante d’Italia, lo immaginava come un viaggiatore che doveva intraprendere un lungo viaggio e nel tragitto incontrava altri passeggeri e li invitava a unirsi a lui, nominandoli con i loro nomi, con un discorso ameno, divertente, per non annoiarsi e aggiungersi alla compagnia, fino al termine del viaggio. Tutto era meno noioso e addirittura divertente per noi alunne. Poi non si limitava solamente alle materie in programma, ma ci teneva informate degli avvenimenti più
importanti, come il taglio del canale di Suez e di Panama, che congiungeva gli oceani Atlantico e Pacifico, o il progetto per il traforo del Monte Bianco, tra Italia e Francia. Quando qualcuna di noi si comportava male, a mezzogiorno, quando finivano le lezioni, per castigo la faceva rimanere mezz’ora in più, e anche in quel breve tempo leggeva sempre qualche storiella. C’era l’ora del disegno e quella del lavoro. Così in seconda classe ci insegnava l’uncinetto, in terza il lavoro a ferri. Generalmente si faceva una sciarpa: il punto sempre dritto, però. Quei punti che sempre scappavano… e com’era difficile riprendere la riga! Bisognava ricorrere all’aiuto della maestra, che aveva un bel da fare… In quarta classe imparavamo il punto croce: altra difficoltà… In quinta era il turno del cucito: o una sottoveste, o una camicia da notte, tutte lavorate a mano. A un certo punto interrompeva le lezioni, ci faceva uscire dal banco e, nello spazio tra un banco e l’altro, ci faceva fare degli esercizi, specialmente di rotazione delle braccia e delle scapole, per evitare che le nostre schiene si curvassero, stando tanto tempo sul banco. Lei stessa camminava ben dritta, lungo la Riva. Era alta di statura, ma non so perché vestiva sempre di nero e portava sempre il cappellino. In primavera, poiché la nostra scuola era vicina al Calvario, ci portava a fare la passeggiata all’aria aperta, facendo lezione lungo il percorso. Pensandoci bene, considerando i tempi passati, ho sempre pensato che quella nostra maestra aveva metodi molto moderni per l’epoca, e mi azzarderei a dire che, nonostante la fama di severità, era molto democratica, vocabolo che a quei tempi non credo si usasse. Naturalmente per San Giuseppe, il suo onomastico, non mancavamo di visitarla – abitava in Piazza in una bella casa di più piani – ossequiandola con un mazzo di fiori. Ci riceveva, noi bambine, nel tinello “diario”, ossia di tutti i giorni, mentre le mamme venivano ricevute nella stanza da pranzo riservata per le grandi occasioni. Così lei passava da una stanza all’altra, alternandosi per intrattenere un po’ noi e un po’ le nostre mamme. Ci offriva le gallettine, che noi educatamente quasi rifiutavamo… ma appena lei se ne andava nell’altro tinello, ecco che approfittavamo, birichine, per mangiarle. Chissà quante altre cose ci sarebbero da dire, ma la memoria non mi aiuta.