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“Addio, mamma cara” testo di Tarcisio Cucich e di don Domenico Corelli riduzione e adattamento di Maura Lonzari Quando terminò il II conflitto mondiale e il dominio italiano sull’Istria e le isole del Quarnero cessò, la popolazione fu costretta ad abbandonarle, perché atterrita dalle formazioni partigiane croate di Tito e da altre fazioni slave, che vessavano gli abitanti con l’arrogante ignoranza dei dominatori. La gente viveva nel terrore, privata come era del diritto alla libertà di pensiero e alla aperta manifestazione della loro italianità. Le comunità di quei luoghi cercarono la fuga dalle loro terre con ogni mezzo possibile, perché afflitte da continui sbarchi di soldati invasori; intimorite dagli ininterrotti combattimenti sull’isola; continuamente minacciate e non più difese dalle truppe regolari italiane né da quelle appartenenti alla repubblica di Salò, che anzi furono massacrate dalle orde comuniste dell’ex Jugoslavia sull’isola di Lussino. L’abbandono delle loro case, dei loro famigliari, del loro paese era tenuto segretissimo, perché chi tentava la via della fuga, se catturato dall’OSNA, (dipartimento per la protezione del popolo), era punito con la detenzione e con la deportazione. Terrore e circospezione aleggiavano sugli abitanti, che temevano di essere traditi anche da chi essi avevano considerato un amico. E ognuno sa quanto sia terribilmente amaro sopportare “frode contro chi si fida”, di dantesca memoria. Nel settembre 1956, i miei preparativi di fuga e quelli di mia moglie, Fides, procedevano molto cautamente e prudentemente sia per proteggere le nostre persone sia per non insospettire nessuno. La nostra esistenza, allora, era grigia, perché senza alcuna prospettiva. Vivevamo in uno stato di continuo pericolo e di deprimente incertezza che ci amareggiarono a tal punto da convincerci ad abbando nare i nostri cari e quella terra che amavamo così tanto. La nostra esasperazione era enorme, se fummo capaci di deci dere di rischiare anche la nostra stessa vita, affrontando i flutti insidiosi dell’Adriatico con una modesta barca a vela, Ondina, il cui scafo era lungo 5 metri. A bordo non aveva mo né motore né bussola, ma solo tre remi, di cui uno scheggiato. Per dire la verità, avevamo tentato di associarci, nel nostro tentativo di fuga, ad amici e parenti, che aveva no palesato le nostre stesse intenzioni e possedevano im barcazioni a motore, indispensabili per garantire il succes so dell’impresa, comunque, temeraria, ma non riuscimmo ad accordarci. Tuttavia Fides e io non ci scoraggiammo, anzi eravamo sempre più fermamente determinati ad an darcene, anche da soli, con la nostra Ondina. Ormai la no stra unica speranza era il soffiare di un vento favorevole,
che avrebbe facilmente spinto la nostra imbarcazione ver so il porto di Ancona, distante circa 45 miglia da Lussino, dove speravamo di approdare. Senza il vento, le nostre due sole forze non avrebbero retto alla fatica di remare chissà per quanto tempo, prima di toccare la riva italiana. Per caso, eravamo venuti a sapere da nostri amici fida ti, riservati e discretissimi che Toni (Antonio Knesic), un giovane diciottenne che abitava a Chiusi, era intenzionato a fuggire, quando gli si fosse presentata una occasione op portuna. Toni lavorava nel cantiere navale di Lussinpiccolo e vi si recava, ogni giorno, con la sua bicicletta, per rientra re a casa, la sera. Ci accordammo tramite un nostro inter mediario con Toni, senza mai conoscerci personalmente, per non destare sospetti in nessuno. Gli facemmo sapere che saremmo partiti da Studiencich, insenatura sicura, si tuata a ponente di Chiusi, popolata da rare rustiche casu pole, con la nostra Ondina, non appena si fosse levata la bora o la tramontana. Ulteriori preavvisi non ce ne sareb bero stati, né ce ne furono, per non mettere a repentaglio la traballante sicurezza di alcuno. Toni, ben volentieri, si rassegnò, ogni sera, dopo il tramonto, al buio, a percorrere quel viottolo sassoso, che da Chiusi conduceva a Studiencich, per vedere se noi fos simo arrivati. Nel frattempo io chiesi al direttore dell’ufficio dove ero impiegato, una settimana di vacanza, indispensabile per approntare e coprire la nostra fuga per qualche giorno. Un’assenza dal lavoro, giustificata o no, era già motivo, per gli organi di controllo, di assumere un atteggiamento im prontato a diffidenza e bisognava evitarlo, adottando ogni forma di precauzione e di assoluta riservatezza. Il sabato mattina, 4 settembre 1956, ottenni le sospirate ferie per tutta la settimana seguente. Il vento a Lussino, in settembre, di solito, soffia, da uno a tre giorni, più o meno continui. Ci affidammo alle mani della Provvidenza, che non tardò a stenderci le Sue. La sera di domenica, 5 settembre, tenemmo una riunione di famiglia di tristissimo congedo e di necessari accordi. Il nonno di Fides, il più esperto marinaio e il più prudente della famiglia, ci sconsigliò vivamente di partire l’indoma ni, perché il vento incerto e le instabili condizioni atmosfe riche non gli ispiravano fiducia e lo stesso barometro non annunciava tempo stabile e bello. Quanto siano da tenere in considerazione le previsio ni atmosferiche degli anziani lupi di mare lussignani, chiunque li abbia frequentati, lo sa bene!