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Nives Rocchi Piccini, la detenzione “Non piangere come chi è privo di ogni speranza” (Dostoevskij, Delitto e castigo) di Maura Lonzari
Una notte, Nives Rocchi Piccini, dopo il suo tentativo fallito di fuga, trovandosi sola nella sua casa, sentì scricchiolare la porta di ingresso e, dalle persiane socchiuse, vide un uomo, vestito in divisa, nel suo orto. Immediatamente afferrò Matteo assonnato, lo avvolse in un panno e, senza dirgli nulla, uscì dalla porta di casa, opposta a quella che dava nell’orto. Corse per la strada buia, si sentiva impazzire, le sembrava che la testa le si dividesse in due parti, avrebbe voluto afferrarla con le sue due mani per tenerla strettamente unita, ma non poteva farlo, perché le sarebbe caduto il bambino che sorreggeva tra le sue braccia. Entrò nella prima porta che vide aperta. Era la casa di suoi amici, che la accolsero ben volentieri, ma Nives sapeva di essere in grave pericolo, perché i tentativi di fuga venivano puniti con la detenzione di sei anni. Dopo avere fatto perlustrare la sua casa dagli amici che fraternamente la avevano accolta, ritornò nella sua abitazione il dì seguente. Pochi giorni dopo, la polizia venne a prelevarla e la condusse alla villa Tarabocchia, oggi villa Perla, allora sede della polizia, le cui cantine furono trasformate, dopo il trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, in celle. Nives, questa volta, nonostante le sue insistenze al comando di polizia, dovette lasciare il suo bimbo a casa ai parenti. Accettò la prigionia, pregando solo di potere prima ritornare nella sua abitazione, per provvedere alla sua naturale indisposizione. Zetina, una buona persona, capo degli affari esteri dell’UDBA locale, già OSNA, (la polizia segreta jugoslava), con il quale Nives parlava in dialetto, non se la sentì di accollarsi una responsabilità così pesante e telefonò al suo superiore, che venne subito al I piano della sede dell’UDBA. Questi urlò, con quanto fiato aveva in gola, di fare scendere immediatamente le scale alla signora e aggiunse con un ghigno indisponente che domani si sarebbero fatte le pulizie nella cella. Nives scese le scale, che dal primo piano conducevano alle piccole celle, al buio, non c’era la luce, mentre i poliziotti la spingevano senza quel rispetto che ogni uomo dovrebbe avere per una donna in qualsiasi situazione essa si trovi. Anzi i poliziotti ridevano, forse la beffeggiavano, mentre la giovane donna procedeva, capendo poco del loro croato e senza vedere nulla nel buio più profondo. Poi sentì un catenaccio aprirsi, scricchiolando rumorosamente, fu spinta dentro la cella con una mana-
ta pesante sulle spalle, il cui ricordo la fa ancora rabbrividire. La porta si chiuse, con un rumore secco e terribilmente fastidioso, alle sue spalle. Al buio cercò il muro a tastoni, per conoscere la grandezza della cella che era situata sulla stradina che dalla strada, dove c’è ancora oggi la chiesa di S. Nicolò, conduce al mare. Lo trovò immediatamente e capì che l’ambiente era minimo. Si appoggiò al muro e pianse, nell’incredibile silenzio della cella, disperatamente, come chi è privo di ogni speranza. Strappò la fodera del suo cappotto, per fare fronte al suo disturbo, non disponendo di un catino per lavarsi, né di un piccolo asciugamano, mancando totalmente di luce. Eppure pensava Nives con rancore che i suoi carcerieri avevano pur moglie e figlie! All’improvviso sentì provenire dalla cella, attigua alla sua, una voce croata di uomo anziano che la sollecitava a non piangere, perché c’erano altre tredici persone, lì accanto, condannate alla sua stessa sorte. Alcuni anni dopo venne a sapere che i dodici uomini, suoi vicini di cella, avevano tentato la via della fuga, mentre il tredicesimo era un modesto ladruncolo di coperte. Quella notte, la giovane donna si distese sul tavolaccio, avendo addosso sempre il cappotto e le scarpe, ovviamente senza lacci, vuoi per proteggersi dall’umidità e dal freddo, vuoi per non presentarsi scomposta, perché chiunque dei suoi carcerieri sarebbe potuto entrare all’improvviso. Non dormì quella notte, come pure molte delle successive, ma pianse calde lacrime, a dirotto. Neppure la Fede o la preghiera la confortavano; dimenticò in quei momenti di totale abbandono che il Signore mette alla prova le anime buone, altrimenti come queste dimostrerebbero la loro bontà e la loro tempra? Al mattino, vide una fioca luce, che non riuscì a confortarla, provenire da una finestrella rettangolare e stretta, il cui vetro era rotto, e scrisse con le sue unghie sui frammenti di lastra, “non piangere come chi è privo di ogni speranza”, per tentare di sorreggersi e di non abbandonare definitivamente il suo Matteo. Non ci pensò neppure a lavarsi, perché l’acqua di un rubinetto, che proveniva da una cisterna, era oltremodo fredda. Una volta alla settimana, per i detenuti, era previsto il bagno in una vasca, abbandonata in cantina, probabilmente dalla famiglia. Nives non la usò mai, perché non aveva né sapone né asciugamani, ma soprattutto l’ambiente mancava di intimità.