che cosa ti sei perso

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nario e Damiano sembrava per certi versi averne raccolto l’eredità. Non solo fisicamente, quindi. «Vieni, vieni» mi disse allungando le braccia verso di noi per chiederci un aiuto ad alzarsi. Si sollevò facendo leva sulle mie braccia. Attraversammo il giardino e rientrammo in casa. Lo seguimmo curvandoci ed infilandoci in una porticina nel sottoscala. Ci ritrovammo nel suo laboratorio. Decine di quadri, uno sull’altro, riempivano le pareti e il pavimento. Al centro, i barattoli di colore aperti sembravano funghi in un prato. Il tema dei suoi quadri era sempre la natura: montagne, prati, nuvole aggrovigliate, bianche come avorio, vallate infinite facevano da sfondo a questi salici enormi, approssimativi, potentissimi e violenti, realizzati con i colori più improbabili. Contrastavano con il resto della composizione, così minuziosa, iperealistica. Erano un elemento esterno, surreale, incomprensibile, sbattuto nella realtà. Forse così lui intendeva la vita: l’imponderabile, il bizzarro che si staglia sul reale. Damiano sembrava sereno lì in mezzo. Soddisfatto. Pareva guardare lontano, come se si trovasse in cima a una montagna e contemplasse tutto il paesaggio attorno. Osservare i propri quadri era per lui come guardarsi da un’altra angolazione, perché in quei dipinti c’era una parte di se stesso. 172


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