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Bambini in carcere al tempo del virus
di Tommaso Ciuffoletti illustrazione di Dootcho
La maggior parte dei bambini impara una parola prima di tutte le altre: mamma. Ed è giusto così. Ma ci sono altri bambini che imparano un’altra parola, prima di tutte le altre: APRI! Sono i bambini che vivono in carcere, che sentono quella parola ogni giorno riferita alle sbarre. E forse così non è giusto. Anche ora, nel momento in cui scrivo, sono una cinquantina i bambini che si trovano nelle carceri italiane. E intanto il virus è arrivato anche là. Ha impiegato più tempo, perché sono luoghi lontani, nascosti, separati dal resto della società, ma sono anche luoghi sovraffollati, fragili al proprio interno, pericolosi. E in quei luoghi vivono anche dei bambini. La ratio della legge che condanna i bambini a stare in carcere con le madri, fu originariamente quella di permettere il loro allattamento e poneva un limite d’età: 3 anni. Nel 2011 si pensò di alzare l’età a 6 anni e però istituire gli Icam - Istituti di custodia attenuata per detenute madri. Il bel risultato è stato che i bambini adesso possono stare più a lungo in quelle che si chiamano “istituzioni totali”, mentre gli Icam presenti in Italia sono solo 5. Una situazioni grottesca anche per i canoni del nostro sistema carcerario. Tuttavia, in alcuni istituti penitenziari, sono presenti dei reparti nido. In tutta la Toscana ce n’è solo uno ed è a Sollicciano. Lì, nel momento in cui scrivo, alloggiano due mamme coi loro bambini di pochi mesi. Le mamme in carcere coi propri figli sono
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le ultime fra le ultime. Se non possono accedere a pene alternative è perché solitamente non hanno un domicilio. Sì, se sono in carcere è perché hanno commesso dei reati e magari sono state anche considerate pericolose. Spesso vengono dalle periferie, d’Italia e del mondo. Finito di scrivere questo pezzo ne ho parlato con gli amici dell’associazione L’Altro Diritto, che da anni dedicano tanto del proprio tempo alla difesa dei diritti dei detenuti. Mentre parlavamo cercavano di spiegarmi i rischi per la salute e la crescita di un bambino in carcere ed io ho troncato la discussione dicendo “Perdonatemi, ma credo chiunque sia in grado di capire che il solo dire che c’è un bambino in carcere è un orrore”. La loro risposta è stata molto più lucida della mia boria: “Illuso”.
Il senso dello spazio alla Romola
di Jacopo Aiazzi
Alla Romola, paesino sulle colline sopra Scandicci più noto per la vicina Chiesanuova e la mitologica schiacciata di Giotto che per il cimitero che conserva il noto fumettista Jacovitti, il silenzio non è mai stato una novità. Ricordo di un antico retaggio tipicamente toscano, il paese circondato da uliveti e boschi è tacitamente diviso da due circoli: quello Arci gestito da un gruppo di giovani e quello sportivo, o detto “del prete”. Torneo di briscola il mercoledì e DiscoRomola un sabato al mese. Gli assidui frequentatori oggi si alternano uno alla volta a sedere sulla panchina alla fermata della Sita, tutti gli altri ritti, a distanza come fossero i cavalieri di Camelot in udienza da Re Artù. Anche l’unica bottega rimasta aperta negli anni, la parrucchiera per signore, ha smesso di applicare bigodini. Le teste disordinate sono per le clienti di antico contegno una motivazione valida quanto la pandemia per non uscire di casa. Alla Romola, in condizioni normali, le persone mantengono una distanza di almeno 5 metri, per semplice senso dello spazio. Tranne al torneo di briscola, dove ogni mercoledì l’apocalisse veniva chiamata a suon di carichi.
L’identità delle Sieci
di Daniele Pasquini
Le Sieci è un paese privo di interessi e con un problema nel nome. A differenza di “La Spezia” o “L’Aquila”, l’articolo determinativo è costante fonte di dubbio. Ci starà o no? Sieci o Le Sieci? Gli autoctoni, orgogliosi e un po’ sovranisti, per tagliare corto preferiscono il nome storico: Remole. Gli abitanti sono detti sieciolini, o più spesso siecesi, da cui il gustoso scioglilingua: “alle Sieci al treno delle sei e dieci sono scesi sei siecesi”. Purtroppo gli esercizi di stile raramente trovano spazio nel gruppo “Sei delle Sieci se”, dove la gente passa il tempo a rimpiangere la vita di prima (ma non del virus, il lutto da elaborare è ancora la Svolta della Bolognina): riaffiorano i ricordi delle sagre, le immagini in bianco e nero della pescaia, le foto di classe degli anni ‘70. Ma i siecesi in quarantena sono meno uniti di quanto si intuisce da Facebook: gli anziani bramano fughe al circolino, ai bambini manca il prato del Parco Berlinguer, i ragazzi sono privati delle impennate in motorino. Tutti gli altri sognano di poter tornare presto a consumare il proprio tempo lontani dal paese: che ha un nome buffo, e poco altro.