Lori Adragna
Il Corpo delle Donne #1
[archivio di una curatrice di performance]
INSIDEART T
Questa pubblicazione prende vita dal desiderio di mettere insieme i materiali della mia ricerca sulla Performance Art. Senza lasciarmi imprigionare dalla necessità di spiegare tutto, ho ripescato dall’archivio dove conservo la variegata documentazione del mio lavoro la cartella “Performance 2009-2017”. Ne è scaturita una raccolta eterogenea di scritti, immagini, proposte progettuali, e-mail, testi critici e poetici. Documenti residuali della mia esperienza sul campo come curatrice di una serie di azioni che hanno avuto luogo a Roma negli ultimi otto anni. Nel libro, l’illustrazione delle performance non segue uno schema cronologico, ma si correla alle autrici, presentate secondo un ordine alfabetico. Le artiste coinvolte sono: Tiziana Cera Rosco, Laura Cionci, Francesca Fini, Eva Gerd, Silvia Giambrone, Tamar Hayduke, Chiara Mu, Ginevra Napoleoni, Francesca Romana Pinzari, Paola Romoli Venturi, Alice Schivardi e Silvia Stucky.
A mia madre
Lori Adragna
Adesso esisto: questa certezza mi giustifica e mi conferisce quella libertà in cui ho creduto da sola. Tutte le distinzioni, le categorie che esprimevano il costituirsi della mia identità non mi appartengono più: faccio ciò che voglio. Questo è il contenuto che mi appare in ogni circostanza, non aderisco a altro che a questo. Capisco quanto posso avere lasciato cadere nel percorso fatto finora, ma capisco che niente mi avrebbe dissuaso dal rivolgermi all’essenziale. Ora il superfluo attira tutta la mia attenzione e i miei desideri. Carla Lonzi, Taci, anzi parla, 1978
Il Corpo delle Donne #1
[archivio di una curatrice di performance]
Prefazione
Maria Giovanna Musso
Postfazione
Mona Lisa Tina
Contributi
Tiziana Cera Rosco, Laura Cionci, Francesca Fini, Eva Gerd,
Silvia Giambrone, Tamar Hayduke, Chiara Mu,
Ginevra Napoleoni, Francesca Romana Pinzari,
Paola Romoli Venturi, Alice Schivardi, Silvia Stucky
Indice 66 7
L’origine
Prefazione di Maria Giovanna Musso
11 12 17 18
72
archivio di una curatrice di performance
Pieghe #1 Pieghe #2
Una raccolta eterogenea
Il corpo delle donne Tiziana Cera Rosco
86
Laura Cionci
Francesca Fini
96 102 108
Eva Gerd Viola/Purple
54
115
60
Tamar Hayduke Oggi [Un luogo dove accadono i mondi]
Postfazione di Mona Lisa Tina
119 124
Silvia Giambrone Viste e riviste – Rosa Luxemburg
Silvia Stucky Getterò in mare il cuore che ha qualche desiderio
Skin/Tones
48
Alice Schivardi Soffio
Fair and Lost Mother Rhythm – The Lunchbox
Paola Romoli Venturi We
Cry Me Meccanimus [About Equality]
Francesca Romana Pinzari Memorie apocrife – All of Me
La vita è un coriandolo
30
Ginevra Napoleoni Un quinto corpo
In principio era il volto – Butterfly
24
Chiara Mu
125 127
Note Per approfondire la biografia e l’opera delle artiste Crediti fotografici RINGRAZIAMENTI
PREFAZIONE
Come messo in luce da Gina Pane, «le language du corps est, entre autre, un language feminin»1. Performance è una parola di origine latina, composta dal verbo “formare” e dalla preposizione “per” e il suo significato è “dare forma attraverso”. La sua specificità non è tanto nella creazione di forma – dato che la forma può ottenersi mediante i più disparati mezzi – ma è tutta in quell’attraversare, o nel lasciarsi attraversare, che passa per il corpo (o le sue tracce). In questo carattere “femminile” sta forse il primo elemento alla base del legame strettissimo che unisce la Performance Art e il corpo delle donne. Il fatto di avere un corpo significa disporre del primo objet trouvé reperibile in natura. Ma il fatto di avere un corpo di donna è il primo tassello di un mosaico in movimento che dalla “condanna” di avere un corpo (femminile) conduce allo stupore e al privilegio delle sue trasformazioni. Il corpo è il ready-made per eccellenza. Il corpo sessuato e socialmente definito della donna è al tempo stesso una creazione biologica e un artefatto culturale, un luogo di attraversamento fisico e simbolico in cui transita la vita in tutte le sue forme. Il corpo delle donne è performativo, si potrebbe dire, per natura. È metamorfico per natura e per cultura (si pensi solo alla gravidanza). Il rapporto con il tempo, con la distanza e con la relazione è un altro elemento significativo che marca la connessione tra la Performance Art e il corpo delle donne. La specificità della performance è anche nel suo rapporto con il tempo, quel tempo diverso e irripetibile in cui avviene il mutamento della forma. Quel tras-formare passando da cosa a cosa – incluso il trasfigurare della cosa in simbolo e viceversa2 – è un momento di rivelazione che segna una frattura nell’esperienza, ed è associabile al kairós piuttosto che al tempo lineare e puntiforme di chronos. È un tempo di sospensione che accorpa, letteralmente, nell’immediatezza dell’accadere, l’opera e il corpo, il soggetto vivo del performer – con la sua potenza espressiva, la sua vulnerabilità, il suo domandare – e il corpo dello spettatore, chiamato a essere, oltre che a guardare, convocato a esistere nel vortice dell’accadere, trascinato nell’incertezza e nell’inatteso, esposto all’epifania dei risvolti incontrollati del reale. È un tempo kairologico quello della performance, come quello del gioco e dell’amore, delle stagioni e della nascita. Un tempo “femminile”, potremmo dire (qualunque sia il sostrato di genere in cui si esprime). È grazie a questa sospensione del tempo lineare che la performance artistica ha il potere di incidere sulla fissità (presunta) del reale, producendo una modifica della forma attraverso l’azione e l’esperienza. Perciò non è mai pacificante. Evoca metamorfosi e catastrofi, svela verità nascoste e inconfessabili, fruga negli aspetti più scabrosi dell’esistenza, rende visibile ciò che socialmente siamo portati a rimuovere o ad accettare inconsapevolmente. Inoltre, diversamente da altre forme di rappresentazione artistica che implicano la riproduzione di un oggetto in absentia o di un concetto per astrazione – e perciò obbligano a una distanza spazio-temporale (ed emotiva) tra forma e oggetto rappresentato, tra creatore e fruitore, producendo una diffrazione a tre poli tra il soggetto che crea, l’oggetto della creazione e lo spettatore –, la performance è un gioco generativo che riunisce in una relazione immediata
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tutti e tre i poli della creazione artistica (creatore, opera, fruitore) nell’imprevedibilità (sia pur controllata) che caratterizza l’hic et nunc dell’azione. L’estetica relazionale3 e il gioco generativo sono anch’essi attributi, al tempo stesso, della performance e del femminile. Ma veniamo al corpo delle donne. Fin dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento, quando nasce la Performance Art, il corpo delle donne, da sempre associato alla natura e alla materia, irrompe sulla scena come luogo di verità, vettore privilegiato dei contenuti rimossi della vita individuale e collettiva. Si rivela non solo “luogo e simbolo di ogni conflitto”, ma anche strumento di indagine ed espressione delle pieghe più nascoste della vita e della società; non solo oggetto di contese, di rivendicazioni e riconoscimento sociale, ma simbolo di un’altra faccia della storia: quella rimossa e quasi cancellata dal tracciato della civiltà. Il corpo delle donne recupera, nel suo manifestarsi sulla scena pubblica, il volto polimorfo del reale e fa irruzione nell’arte e nella storia con il suo mistero e la sua eccedenza, con il suo carico di indicibile, a rivendicare differenza e alterità, a tentare di ritessere la tela strappata del rapporto con la natura, a ricomporre la frattura tra il femminile e il maschile, a ridurre lo iato che separa vita e linguaggio, realtà e rappresentazione. L’opera delle artiste, e specialmente delle performer, da allora non ha smesso di intersecare questa complessità includendovi il versante polimorfo della vita, cercando di dipanare l’intricata matassa che collega il corpo delle donne alle istanze del potere e della libertà, al rapporto con l’alterità, alla nascita e alla morte, alla trama delle relazioni e ai loro grumi di significato. Alcune lo hanno fatto incidendo nella propria carne ferite altrimenti invisibili allo sguardo collettivo (si pensi alle storiche performance di Gina Pane o di Marina Abramović, per citare solo le più famose) o rievocando la violenza e l’aggressività riservata al corpo femminile, un “oggetto” troppo a lungo negato, represso, violato, asservito, idealizzato (valgano per tutte le opere di Regina José Galindo o di Ana Mendieta). Altre hanno rielaborato in forma artistica la trama invisibile delle relazioni, della cura e del materno in tutte le loro sfaccettature (da Amalia Del Ponte a Meret Oppenheim, da Louise Bourgeois a Sophie Calle), già in un’epoca in cui quei temi non erano considerati neppure degni di attenzione. L’eco di quel sommovimento epocale che ha il corpo delle donne come vertice di una visione diversa e complessa dell’esistenza si ritrova pienamente in questo testo, in ognuna delle opere delle artiste di cui Lori Adragna ha curato e documentato le performance. Ognuna di esse rappresenta una pagina significativa della Performance Art degli ultimi decenni in Italia, ma è anche un frammento di quel grande mosaico che la creatività artistica delle donne ha disegnato nel breve volgere di poco più di mezzo secolo. Ognuna singolarmente, ma tutte insieme con più forza, offrono uno spaccato di ciò che la Performance Art ha espresso dall’inizio a oggi, con riferimento ai temi, alle ispirazioni, alle tecniche e alle fratture del linguaggio artistico contemporaneo, compresi quelli connessi all’uso delle tecnologie. Rinnovamento, ciclo morte-rinascita, metamorfosi, scardinamento di forme e liberazione dalle catene, capacità di volgere in splendore anche la sofferenza di chi è chiusa in gabbia, tessitura relazionale e recupero del legame originario con il corpo e con la vita, sono i contenuti prevalenti che riecheggiano nelle performance illustrate nel libro, in una sorta di continuità genealogica che lega le artiste più giovani alle maestre che le hanno precedute. Anche i testi di presentazione delle opere, sia quelli scritti dalle artiste sia quelli della curatrice, sono piccole gemme letterarie, capaci di restituire la bellezza, il senso e la profondità dell’azione performativa pure a chi non ha avuto la possibilità di assistervi. Anche al di là degli specifici sviluppi formali, coraggio e generosità sono una costante del lavoro
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PREFAZIONE
artistico delle performer incluse nella raccolta. La performance in generale, ma quella delle donne soprattutto, implica l’assunzione di un rischio, un’attitudine allo svelamento e all’offerta di sé, una disposizione alla metamorfosi e all’attraversamento, un’accettazione del fluire della vita in ogni suo aspetto (compresi dolore e morte), che rimangono, nel bene e nel male, patrimonio delle donne e delle artiste in particolare.
Maria Giovanna Musso docente di Sociologia del mutamento, della creatività e dell’arte Sapienza, Università di Roma
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ARCHIVIO DI UNA CURATRICE DI PERFORMANCE
Una raccolta eterogenea La relazione curatore-artista
Questa pubblicazione prende vita dal desiderio di mettere insieme i materiali della mia ricerca sulla Performance Art1. Senza lasciarmi imprigionare dalla necessità di spiegare tutto, ho ripescato dall’archivio dove conservo la variegata documentazione del mio lavoro la cartella “Performance 2009-2017”. Ne è scaturita una raccolta eterogenea di scritti, immagini, proposte progettuali, e-mail, testi critici e poetici. Documenti residuali della mia esperienza sul campo come curatrice2 di una serie di azioni che hanno avuto luogo a Roma negli ultimi otto anni. Nel libro, l’illustrazione delle performance non segue uno schema cronologico, ma si correla alle autrici, presentate secondo un ordine alfabetico. Le artiste coinvolte sono: Tiziana Cera Rosco, Laura Cionci, Francesca Fini, Eva Gerd, Silvia Giambrone, Tamar Hayduke, Chiara Mu, Ginevra Napoleoni, Francesca Romana Pinzari, Paola Romoli Venturi, Alice Schivardi e Silvia Stucky. I testi che compongono questo libro costituiscono un unicum di immagini e parole. Ho voluto distinguere quelle delle artiste ponendole tra virgolette. Attenta alla lezione di Harald Szeemann, ho cercato di dar voce ai singoli eventi, irripetibili, ma anche al vissuto delle artiste con le quali ho condiviso «l’esigenza di mettere in scena le tracce e le immagini belle, irrinunciabili mitologie individuali»3, provando a interpretare il lavoro critico come «pratica creativa che non si limita ad analizzare il significato dell’arte, ma lo rende attivo e lo trasforma»4. Performate all’interno di spazi differenti, tutte le azioni sulle quali mi soffermo fanno parte di Il corpo delle donne, un progetto-contenitore itinerante, nato da una mia idea nel 2008, a oggi arricchito di contributi e sinergie5. Una sorta di laboratorio concepito per indagare l’universo femminile e i suoi mutamenti attraverso un focus su artiste che operano nello scenario contemporaneo, dove l’azione è intesa quale strumento per impegnarsi con la realtà sociale, confrontarsi con le specificità dello spazio e della politica dell’identità. Parafrasando una recente osservazione di Jonah Westerman, che condivido, la performance tra le espressioni creative è quella che più si configura come «un insieme di domande e di preoccupazioni su come l’arte si rapporta con la gente e con la sfera sociale più ampia»6. Usare il corpo come mezzo espressivo fa dell’arte un fondamento della comunicazione, uno specchio e un esercizio dei cambiamenti in atto. Il corpo è l’agente fisico delle strutture dell’esperienza quotidiana, il trasmettitore e il ricevitore dei messaggi culturali, «il luogo per eccellenza per trasgredire i vincoli del significato che il discorso sociale prescrive come normale»7. Con le dodici artiste che presento ho avuto modo di incontrarmi/scontrarmi, di immaginare insieme, di relazionarmi, di stare, insomma, in contatto. Spesso ho preso parte al momento della genesi e negoziazione delle prassi operative, nella fase di passaggio tra idea iniziale e concreta realizzazione degli eventi che inevitabilmente rinserrano lo spazio delle relazioni8. Muovendomi sia nelle vesti di organizzatrice sia come complice del processo artistico, sono stata interprete di una vicinanza creativa, quasi di co-autorialità, sempre consapevole, però, dell’autonomia dei ruoli e senza mai (almeno nelle intenzioni) voler essere artista tra gli artisti9.
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A prescindere dalla qualità e dalla durata temporale, il percorso di co-costruzione dei progetti ha innescato tra me e le autrici rapporti partecipativi che vanno dalla totale comprensione, profondo scambio umano, emotivo e di crescita personale, alla più accesa conflittualità, intossicati dall’ego e dalla competizione. Quella curatore-artista, sottolinea Virginia Zanetti, è una relazione d’amore, di intelletto e di scoperta del nuovo, e «non c’è rapporto d’amore senza odio, come non c’è rapporto di amore-odio che resti entro confini tracciati a priori. C’è un bisogno di attraversamento continuo delle zone liminari che in fondo appartiene allo stesso progetto»10. Senza avere qui la pretesa di ideologizzare la discussa figura del curatore, arrivando a considerarlo un maestro di caosmosi alla Obrist11, non si può negare l’influenza che individui o elementi contigui esercitano gli uni sugli altri qualora intervenga una reciproca compenetrazione di idee, atteggiamenti, esperienze. Curatore e artista, di fatto, coesistono in un sistema di relazioni e di azioni che li concepisce presenti in modo contestuale. Lo afferma, rispecchiando con efficacia il mio pensiero, Pietro Gaglianò, che sostiene: «il curatore individua il necessario termine di verifica della propria argomentazione; l’artista chiarisce e amplifica il senso e la forma della propria visione»12. Si tratta di un reale scambio effettuato da due dimensioni differenti, chiarisce in proposito Martina Cavallarin, e «ciascuna parte deve assumersi propri diritti e doveri»13. Un’ulteriore concezione sull’atto del “curare” – nel senso di mostrare/gettare luce sui lati più oscuri dei nostri universi epistemici – la offre Marko Stamenkovic: «curare contiene in sé la potenzialità di evocare aspetti della vita umana che sono trascurati o sottovalutati»14 rischiando di essere sottorappresentati e tenuti nascosti da una «visualità prescrittiva generata da idee razziste e sessiste, tipiche delle culture dominanti»15. Dal punto di vista squisitamente psicologico, si può aggiungere che questo rapporto funziona quando riproduce la consapevolezza inter- e intrapersonale, che implica reciprocità, ma anche differenziazione, coinvolgimento ed empatia, ma non fusione e/o identificazione. Relazione, quindi, intesa come riconoscimento e capacità di accogliere l’Altro pur conservando la propria dimensione.
Documentare la performance Al centro del processo e dell’esecuzione della Performance Art c’è la presenza viva dell’artista. L’azione reale del corpo produce un’esperienza creativa inedita interagendo con il pubblico. La sua peculiare «natura effimera, intangibile, a volte puramente concettuale», secondo la studiosa femminista Peggy Phelan, «nega alla prestazione ogni possibilità di essere archiviata, salvata, registrata, documentata», se non costringendola a subire «un’inevitabile trasformazione ontologica»16. La posizione assunta da Phelan nel ’93 ricorda quella dei performer degli anni Settanta, i quali, arrivando dopo l’apertura all’effimero di fine anni Cinquanta-Sessanta, fanno della performance in senso stretto il loro unico campo d’azione. D’altra parte, «tra documentazione e performance vi è uno stretto rapporto di complicità»17, tanto che essa è spesso realizzata proprio partendo dalla volontà dell’autore di documentarla, creandone una sorta di estensione. Basti pensare agli artisti che la immettono sul mercato non come materiale informativo ma come opera stessa. Quasi un intervento complessivo, per quanto implicito, che include al suo interno sia la performance sia il fotogramma. Le azioni di Gina Pane, ad esempio,
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erano rigorosamente testimoniate attraverso i constats photographiques, da lei concepiti come storyboard ed elaborati con cura da perfezionista: la fotografia, secondo l’artista, è un oggetto “sociologico” che permette di cogliere sul vivo una realtà e con essa quella dialettica per cui un componimento diventa significativo attraverso la comunicazione a una collettività18. Alla fine degli anni Novanta, Marina Abramović propone di affrontare la documentazione delle performance modificandola in modo che si possa vedere l’inizio, il climax e la fine, oppure, sulla falsariga di Joseph Beuys19, creando prestazioni solo per il video affinché il punto di vista della fotocamera ne rappresenti lo spettatore principale20. A confutare la tesi che vede la testimonianza diretta come unico veicolo per accedere alla “verità” di un lavoro performativo è Amelia Jones, la quale sottolinea l’importanza dei “documenti performativi” nel garantire il ruolo dell’artista21. Si avvicendano, intanto, nuove generazioni di critici che, avendo studiato le azioni storiche solo dai materiali documentaristici, prospettano teorie basate sugli stimoli offerti, tra gli altri, da Michel Foucault, Jean-Luc Nancy, Jacques Derrida e Paul Ricoeur. Si fa via via luce sulle differenti modalità attraverso le quali le arti performative diffondono tracce della loro esistenza e possono essere archiviate, riattivate e anche esposte nei musei22. Per Foucault, l’archivio governa l’enunciato e il taciuto, il registrato e l’omesso; l’obiettivo “dell’archeologo del sapere” è dunque quello di apprendere il passato attraverso i suoi residui materiali, di recuperare e ricostruire l’archivio rivelando come esso sia funzionale a modellare la costruzione del significato23. Gli archivi, sostiene Nancy, non vanno «consultati ed esaminati per trovarvi una presenza passata, né l’unica testimonianza dell’assenza – semplice rovescio della presenza – ma per esser trascinati entro un movimento fatto in parte di oblio e in parte di slancio verso l’a-venire»24. Anche per Derrida, nonostante lo sguardo apparentemente rivolto all’indietro, l’archivio riproduce sempre l’idea del futuro: un desiderio di eternità che va al di là della morte25; mentre Ricoeur lo considera uno spazio dell’esperienza nel quale si produce la coscienza storica26. Come fa notare Susanne Franco27, tra i primi a rilevare quanto i movimenti espressivi siano delle vere e proprie «riserve mnemoniche» è Joseph Roach, precisando che la trasmissione di queste forme di sapere corporee avviene grazie alla triangolazione tra memoria, performance e surrogato28. Diana Taylor propone invece una struttura binaria, secondo la quale l’archivio, come insieme di materiali stabili (testi, documenti e così via), si oppone a quello che definisce «repertorio effimero di pratiche/saperi incorporati» (cioè, linguaggio verbale, gesti o rituali)29. Philip Auslander, basandosi sugli studi linguistici di John L. Austin30, ma anche sulle concezioni derridiane, ha esplorato la complessa interrelazione tra performance, documentazione e autenticità, adottando una visione diametralmente opposta a quella di Phelan31 enunciata poco sopra. Auslander sostiene che ogni report su un progetto di ricerca – incluse la documentazione, l’analisi e la scrittura critica – è sempre un’ulteriore performance in sé che non reifica la dimensione viva e attiva dell’azione. Lo studioso ritiene, infatti, che la presenza e la veridicità del documento non dipendono dal considerarlo una traccia di eventi passati, ma dal percepirlo nel qui e ora, come una vera e propria prestazione che riflette il progetto dell’artista32. È in tale ottica che gli stessi lettori di questo libro, non più passivi ma reale audience determinante nella creazione di senso, muovendosi tra segni e icone di natura diversa sono chiamati a decodificare la trama di questa produzione ex post facto, riattivandone la potenza creativa e la performatività.
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UNA RACCOLTA ETEROGENEA
L’arte può generare il cambiamento? Per secoli le rappresentazioni artistiche hanno mostrato per lo più il corpo femminile attraverso lo sguardo maschile. Quando, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, il femminismo irrompe nella scena artistica internazionale, l’oppressione della donna diviene materia centrale. La reazione di molte artiste che sostituiscono quello sguardo con una visione autodeterminata si traduce nel rivendicare il diritto a essere protagoniste di un sistema che da sempre le ha emarginate, o relegate alla funzione di oggetto e non di soggetto; nel mettere in atto la protesta, in modo più o meno radicale. L’arte viene ripensata nel suo ruolo e nella sua essenza. In particolare, sono numerose le interpreti che scelgono di utilizzare il corpo – luogo della differenza per antonomasia – come mezzo espressivo. La metamorfosi da oggetto di piacere a una versione emancipata serve da riflesso per la mutazione del ruolo della donna nella società. Al centro del processo e dell’esecuzione della performance sono la presenza viva dell’artista e le azioni reali del suo corpo, considerato il medium primario e concettuale su cui si basa la Performance Art. Di fatto, con la sua evidenza materiale capace di significazione, il corpo assume in quel contesto un profondo contenuto ideologico, diviene inoltre strumento per mettere in gioco la resistenza fisica e psicologica dell’artista. Chiosando il celebre manifesto di Barbara Kruger33, il corpo della donna si trasforma in un vero e proprio “campo di battaglia”. La rappresentazione del dissenso si fa statuto34 anche per conquistare la propria completezza identitaria contro una civiltà maschile e una società dei consumi che tendono a omologare e a mercificare l’immagine della donna. Attraverso la performance, che è la messa in scena del nostro corpo-mente, secondo Turner è possibile produrre una riflessione su certe forme fossilizzate del sociale; essa può dunque rappresentare una risposta critica al mutamento socioculturale e nello stesso tempo generarlo, se assume caratteri oppositivi35. Superato il retaggio femminista, nel mondo contemporaneo occidentale, che si illude di aver raggiunto la parità dei diritti e delle opportunità nell’arte, il testimone della protesta sembrerebbe passato «a quelle donne che vivono condizioni di disagio non solo in quanto tali, ma anche perché parte di un popolo globalmente emarginato»36. Culture oscurantiste dove il corpo delle donne è ancora luogo e simbolo di quel conflitto che verte sull’esigenza, maschile e patriarcale, di controllare e perfino annientare – simbolicamente ma anche fisicamente – la specificità femminile37. D’altra parte, basta guardare la cronaca del femminicidio, statisticamente in aumento, «una questione grave, una questione filosofica»38, che riguarda l’omicidio di donne, “perché donne”, da parte di uomini; oppure, tornando in campo artistico, consultare i cataloghi dei musei di arte contemporanea, dove prevalgono nettamente i nomi degli autori piuttosto che delle autrici, per rendersi conto che è ancora lungo il cammino da percorrere per una reale parità. La questione femminile è tuttora terreno fertile di analisi e riflessioni, nella consapevolezza che non si esaurisce nella sfera artistica ma che riguarda in modo molto più esteso la storia sociale delle donne. Tralasciando le norme di genere e gli stereotipi che ovviamente rischiano di evidenziare le differenze invece di annullarle, rimane comunque aperto il quesito se l’arte è davvero in grado di cambiare qualcosa, sia che un’opera nasca da un uomo sia che nasca da una donna.
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Il Corpo delle Donne
Tiziana Cera Rosco
Nata a Milano dove vive, Tiziana «continua a crescere nel Parco nazionale d’Abruzzo», come scrive lei stessa. Attratta fin da bambina dalle Sacre Scritture e dalla natura, è esponente della poesia mistica e selvatica che traspone nelle sue opere fotografiche e nelle performance. Nel suo lavoro si rintraccia l’idea umanista di artista totale che usa ogni mezzo per esprimere una visione legata al “sacro” in ogni sua manifestazione. Affronta da sempre il tema del corpo con le installazioni, la musica, la fotografia, la parola, l’immagine, la performance. Collaboriamo per la prima volta nel 2009 in occasione dell’evento Nigredo Poesia1. Sono letteralmente fulminata dall’intensità di questo incontro, ma dovrà passare molto tempo prima che si riesca a lavorare di nuovo insieme. Il momento giusto arriva nel 2015 con la rassegna Duende2 alla quale la invito a prendere parte con una personale e la live performance Butterfly.
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In principio era il volto – Butterfly, 2015 Installazione e live performance Roma, Mondrian Suite
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Oscurato, riflesso, sfondato, raddoppiato, custodito o alterazione dietro l’apparenza delle forme, sacrificato o salvato nelle sintassi dell’immagine, il volto pare essere di noi la parte più vicina all’anima perché dedito allo sguardo. Non potendo guardare sé stesso se non riflesso, è l’organo della visione centrale e se guardato direttamente si viene accecati. Il titolo che vorrei dare alla mostra è In principio era il volto (l’incipit del vangelo di Giovanni dice: in principio era il verbo e il verbo era presso Dio e il verbo era Dio): l’imprendibilità del volto sconvolge il corpo. Io lavoro sempre e solo su autoscatti e impronte della mia figura, l’immagine del corpo nella sua moltiplicazione seriale ma mai meccanica (i calchi vengono eseguiti di volta in volta, uno per uno, a crudo, non esiste una matrice se non la mia figura direttamente). Il lavoro della mostra comprende tutte le declinazioni in cui ho, consapevolmente o meno, affrontato questo tema: dalle fotografie in cui interagisco con i miei primi testimoni silenti, i manichini, a quelle in cui il fiore è uno specchio, o dove plastiche e corde intervengono come scudi, fino ai calchi di bende e gesso, a volte scavati e divelti dal fuoco, per arrivare a piccoli specchi in cui il volto, stampato a doppia parte su una plastica bombata con il fuoco, viene sfondato nel suo centro. Quando lo spettatore sbircia dal buco, il suo occhio diventa il viso dell’immagine. Il percorso comprende anche memorie del mio lavoro sulle azioni performative: da Patientia, che è un’intercessione in forma di performance che viene eseguita solo nei boschi, una preghiera metamorfica che sfigura il volto nel suo bisogno di contatto in luoghi naturali, passando per Abluzione, in cui il lavaggio del manichino con il latte è l’immagine della deposizione del corpo del mondo, fino a coprirne gli occhi perché nulla più può essere guardato. Da te voglio fare una performance che si intitolerà Butterfly. È in realtà il secondo atto di un lavoro iniziato in monastero in cui mi costruivo un calco in diretta che appesantivo con della lana grondante di rosso sulla testa, fino a scioglierne i connotati riconoscibili, finché il volto non scompariva sotto l’ammasso. Questa volta voglio fare una cosa che non ho mai fatto, un’interazione che, per il mio tipo di concentrazione, è anche un rischio. Ma soprattutto uno svelamento e un passaggio attraverso le mani di un’altra persona. Mi spiego: si tratta sì della costruzione del calco durante l’atto, la grande crisalide che mi contiene e che potrebbe essere scambiata ancora per me e non per una forma residuale, se non fosse che il calco, la crisalide, viene poi aperto dal centro su tutto lo sterno, mantenendo la sua forma ferita come tutti gli involucri fino a che non stacco da me il calco lacerato. Allora si vedrà la mia figura passata per il gesso. Ricucio il calco fatto di garze, lì proprio dove è aperto, con un filo rosso. Ma prima che il calco venga deposto ai piedi – perché anche il dolore dopo essere stato vissuto, guardato, compreso anche nell’impossibilità di essere compreso, deve essere abbandonato – passerà per il pubblico. Nascere è abbandonare un morto, diceva Artaud (questa frase regge tutto il mio lavoro con i calchi) e mi avvio a fare questo. Se qualcuno vorrà baciarlo prima che venga deposto, vorrà dire che la performance avrà raggiunto il suo punto di grazia. E noi, Lori, in questo speriamo, in questa grazia selvatica che sfigura per riconquistare la sua forma prima. In principio era – infatti – il volto.
In qualunque luogo sarà il corpo Là si raduneranno le aquile. Per questo ti dico “Non Tremare” “Non Tremare” sarà il tuo tuono. Quando sarai morto, corpo mio, perfettamente tenero perfettamente quieto perfettamente spaccato nel mezzo Ricordati di me. Raggiungimi. Tiziana Cera Rosco, da Anatomia del solo, 2015
”
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TIZIANA CERA ROSCO
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L'occhio dello spettatore è catturato dalla postura regale di Tiziana seduta su uno sgabello alto, dai suoi lineamenti minuti in contrasto con la sontuosa ampiezza della gonna nera e dal ritmo solenne con cui le pieghe cadono e si spezzano sul pavimento. Lentamente l’artista ricopre il volto e il busto denudato con garze immerse nel gesso liquido, fino a esserne del tutto avvolta. Come una bianca statua in fieri, contenitore della memoria e della trasformazione, diviene mezzo per visualizzare l’inconoscibile e l’invisibile. Attraverso quella corporeità che Husserl definisce Leib “corpo vivente” – per distinguerlo dal Körper “corpo oggetto” – la coscienza aderisce e si apre creando lo spazio intorno, ne riproduce la traccia in una tensione dinamica tra le prospettive dell’essere e dell’avere, di sperimentare il sé come un oggetto tra gli oggetti. Ed ecco che la metamorfosi è compiuta: il calco si è indurito, il bozzolo squarciato che giace a terra è la spoglia mortale di un essere nuovo. L’evoluzione della farfalla, che secondo la visione junghiana è allegoria e simbolo della psiche, descrive qui un emergere che è soprattutto un esporsi affinché qualcosa si mostri non come parte di ciò che è assente ma come un venire alla luce, uno schiudersi. «Allo stesso modo nasce la coscienza a ricordarci che la creazione è mutamento di forma, una forma in cerca del suo proprio farsi»3. Quel che rimane dell’azione forsennata e riparatrice, esiziale e amorevole, adesso che la scorza è abbandonata, non è solo scarto del corpo né raschiatura dell’anima come direbbe Artaud (Œuvres, 1946). Insieme custodita ed esibita, guadagnata ma perduta nella sua stessa esposizione, l’opera è accolta da Francesca che la porge a qualcun altro fra il pubblico per baciarla prima che venga deposta. Questo passaggio ne annuncia il suo secondo momento, quello di rigenerazione, ne fa una parte del processo introiettivo, conferisce espressione, consistenza, trattiene, giusto nel momento della separazione. E infine, l’io e l’altro, l’io e gli altri si fondono.
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TIZIANA CERA ROSCO
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Laura Cionci
Laura nasce a Roma, vive e lavora tra l’Italia e il Sudamerica. La sua ricerca fin dagli esordi si sviluppa intorno ai fenomeni sociali, approfondendo gli aspetti antropologici che rendono leggibili i diversi codici culturali, sociali e politici. Di recente approda a uno studio più specifico sulla sensibilità energetica dell’umano attraverso gli spazi, la biodiversità e il territorio. Difficile descrivere in poche frasi il nostro percorso intessuto di allegria, stupore, complicità fertile di progetti (tra gli altri, XYZ, White not?, Nigredo, 10 ragazze per Freud, L’artista come rishi). Complesso svelarne il nucleo dei sentimenti, la profondità e l’incostanza, l’evoluzione di un’amicizia nata quasi per caso, alimentata da desideri comuni, cementata da condivisione e ritualità, esposta all’incedere del tempo e alla lontananza, erosa dalle tante variabili e dagli accadimenti, ma sempre parte di un universo relazionale che non ha mai minacciato la solidità acquisita.
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La vita è un coriandolo, 2009 Murga, live performance Roma, Ex Manicomio Santa Maria della Pietà
“ Per Nigredo , oltre alle opere esposte, vorrei proporre una performance di murga porteña con Los adoquines de Spartaco, murga romana nata dal laboratorio del centro sociale Spartaco nel cuore del Quadraro. 4
La murga come fenomeno nasce in Spagna mescolando strumenti dell’area mediterranea con balli e ritmi africani e latinoamericani. Un bagaglio che ci è sempre appartenuto e che si è poi sviluppato fortemente in Sudamerica in modi diversi tra loro. Il mio intento come artista, dunque, non è spiegare che cos’è la murga, ma cercare di indurre nello spettatore un’emozione improvvisa, ricreando un’atmosfera completamente fuori del contesto corrente, proprio come accade quando ci si trova ad assistere a una murga, quel momento di comunione che distrugge le barriere sociali e che dà importanza all’individuo come parte integrante di un gruppo, di un’entità che si esprime. Se solitamente il teatro divide gli ascoltatori dagli attori, nel caso della murga il palco si abbassa e si allinea con il terreno: la strada. Il murguero è di fronte a ognuno di noi. Bacia per salutarti. Il suo trucco rimane come un timbro sulla faccia dell’anonimo interlocutore. Come un piccolo virus, un cambiamento esterno che inizia un processo interno. Quella canzone che rimane nell’orecchio e si inizia a canticchiare, quelle braccia aperte, i movimenti, i salti e i sorrisi sono l’eredità di chi li guarda. Quelle voci che trapassano il petto. Quell’istante che si vive è il vero piacere e il bagaglio che la murga regala al suo passaggio. Credo nelle potenzialità della murga come momento di libero sfogo dei sensi, come spettacolo che comunica, come un’arte a 360 gradi dove chiunque può partecipare. Un autentico mezzo di denuncia e di pura satira. La murga porteña è un fenomeno del Carnevale di Buenos Aires. È stata portata in Argentina dalla Spagna, si mescola al Carnevale italiano, all’immigrazione africana e alle tradizioni latine, ma le sue origini precise sono difficili da stabilire data la sua nascita migrante. Durante la dittatura militare in Argentina le murga furono bandite in quanto nate come strumento di ribellione alla schiavitù e ai soprusi dei potenti. Passata la dittatura, la murga poté tornare a esprimersi e a diffondersi. Nonostante il tentativo di tarparle le ali, dimostrò ancora una volta il suo potere di comunicazione e rinascita. Questo più o meno è quello che è successo in Argentina. In Italia, circa una quindicina di anni fa, un gruppo di italo-argentini creò la prima murga italiana, proprio a Roma: la Sin Permiso. Fu una parte di loro a insegnarla ad altri creando la Malamurga che per sette anni circa è stata l’unica murga italiana ed europea. Una murga è composta da musicisti e danzatori e ha un proprio nome, i propri colori, i propri passi e la propria musica, alla creazione dei quali partecipano tutti gli elementi. Scimmiottando gli abiti dei “padroni”, i murgueri sono vestiti con una levita di raso e indossano un cilindro e guanti bianchi, perché la natura stessa della murga è la satira al potere. Mostrano le mani e ballano a corpo libero rappresentando il bisogno di libertà, espresso anche dai musicisti che portano gli strumenti legati al corpo in modo da poter sfilare e suonare allo stesso tempo. Gli strumenti principali sono il bombo, il surdo, il rullante e il repique.
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LAURA CIONCI
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L’atmosfera è densa di umori. Gli ambienti hanno assorbito la memoria del luogo: stratificazioni di violenza e annientamento dell’umana diversità rinchiusa per decenni nei padiglioni dell’Ex Manicomio di Roma. D’un tratto, un’esplosione di suoni lacera il silenzio. Penetra in ogni minuscola crepa delle pareti e nelle fessure del pavimento, tremola all’interno del tunnel di veli, si inoltra su per le scale fino a raggiungere la sala dove sono allestite le opere5: nell’ex lavanderia dell’antico nosocomio, i quadri oscillano nel vuoto come camicie di forza stese ad asciugare. Da un universo percettivo che sembra schiudersi al perturbante, come apparizioni della psiche emergono figure indistinte. Ed ecco Laura, traboccante di vita e di colore, insieme con il gruppo dei murgueri. Come gli altri, indossa abiti dai colori sgargianti, il viso molto truccato innesca una riflessione sul tema della maschera come strumento di congiunzione tra il vissuto dell’io e la sua manifestazione. Gli artisti suonano e danzano a ritmo frenetico, incalzante, un movimento fatto anche di salti e calci nell’aria. Con animo carnascialesco, la murga descrive un forte spirito di protesta, di liberazione, vuole risvegliare gli animi sopiti utilizzando lo “scandalo” del corpo. Un momento particolare nella “struttura” murguera è la matanza, che significa “uccisione”, quando i ballerini in cerchio simulano prima la costrizione delle catene e poi la loro distruzione rinascendo liberi: il messaggio della murga arriva nella maniera più evidente e dirompente e permette a coloro che suonano e ballano di liberarsi e comunicare a tutti e per tutti il bisogno di essere sciolti dai vincoli e di seguire il cuore. Mentre le pelli delle percussioni vibrano con forza e i movimenti dei danzatori si fanno concitati e febbrili, la sfilata abbandona quegli ambienti chiusi e oscuri, si offre alla luce dello spazio aperto, alla strada, alla vita. Anche chi guarda e ascolta, ormai coinvolto, si lascia trasportare da questo rito profano, catartico, dal forte contenuto emotivo, attraverso cui l’inconscio può affiorare alla coscienza. «Così accade al piede che compie il passo di danza, alla vista e all’udito, alla parola e al pensiero: è un impulso oscuro quello che alla fine decide della configurazione, un a priori inconscio che preme verso il divenire della forma»6.
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Francesca Fini Francesca è nata a Roma dove risiede, ma lavora, ricerca, espone e performa in tutto il mondo. Nel suo bagaglio formativo anche la regia televisiva e cinematografica. Artista digitale, tende a ibridare l’arte del corpo con raffinate tecniche di new media. Dà così vita a performance e installazioni dove una parte fondamentale è affidata al video. Ci conosciamo nel 2012 quando la invito a presentare live la performance Cry Me all’interno di una mostra-laboratorio che curo al Palladium7. Dopo questa prima esperienza, seguiranno Fair and Lost, del ciclo With an Helmet8, che Francesca realizza per la prima volta dal vivo nello spazio Mondrian Suite di Roma per l’evento Save the Beauty9; Meccanimus, costruita appositamente per il MAAM e ospitata fra gli eventi per il Rebirth-day, promosso dalla Fondazione Pistoletto; Mother Rhythm, sempre da Mondrian Suite; infine, Skin/Tones (Toni/di pelle) eseguita all’ateneo di Roma Tre10 sul tema La pelle dell’artista, lo spazio dell’arte11. Francesca è una forza della natura: sempre piena di idee e sanamente ambiziosa. Tra noi ci sono da subito comprensione, rispetto e riconoscimento dei reciproci ruoli. Lavoriamo tanto e bene, senza mai perderci in eccessivi fronzoli.
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Cry Me, 2012 Live performance Teatro Palladium – Università Roma Tre
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La performance si ispira all’arte viscerale di Frida Kahlo e ai videoclip anni Ottanta di Laurie Anderson. Il video oltre lo schermo televisivo è stato girato con una dvdcam e manipolato in Photoshop frame by frame, con la risultante di un’animazione dipinta in digitale. Sul palco, gioco con un display che trasmette la mia stessa immagine. Dialogo con il mio doppio, il mio riflesso, il Super Avatar a cui sono legata attraverso un tubo catodico, rivelo me stessa attraverso la videoarte, giocando con uno schermo televisivo, frontiera oltre la quale il mio alter ego vive e canta: amore disperato, lacrime a fiumi, desiderio di confessione e di vendetta, una femminilità ipertrofica che trionfa nell’esibizionismo esasperato con cui mi apro il petto, mentre il mio corpo viene lacerato attraverso l’artificio della stop motion.
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Il foyer è invaso da una folla vociante. L’atmosfera è elettrica, non annunciamo la performance. Francesca si posiziona incidendo con la sua presenza lo spazio dell’azione. È pronta: indossa un abito elegante e calamita gli sguardi. Attraverso un display, che trasmette la sua stessa immagine manipolata in una grafica pop dalle tinte acide, mette in scena il suo corpo amplificato dalla tecnologia pur mantenendone la natura biologica. In un dialogo serrato con il suo doppio, innesca un gioco perverso che squarcia il suo involucro corporeo e ne rivela l’inferno interiore. La cornice rossa del dispositivo marca, una alla volta, le tre parti sostanziali dell’essere donna: la testa, il cuore, il ventre. È qui racchiuso il mistero del femminile che si esprime con il travaglio dell’anima e la fioritura del corpo che genera vita. Ma è anche lo sviluppo della coscienza attraverso le lotte interiori, una lenta metamorfosi. Ora ci sono silenzio e una spasmodica attesa.
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Fair and Lost, 2013 Installazione, video, live performance Roma, Mondrian Suite
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L’azione che ti propongo fa parte di un progetto più ampio costituito da performance, video e installazioni fotografiche. Nasce con un video realizzato nell’ottobre del 2012. Nel video applico sul mio braccio destro elettrodi terapeutici, regolati al massimo della potenza, che determinano forti contrazioni muscolari. Le contrazioni fanno danzare sulla mia pelle una minuscola bandierina da cocktail al ritmo dell’inno nazionale. A un paese malato non restano che la routine della retorica e lo spasmodico appello a un rispetto preteso ma svuotato di ogni sentimento autentico. L’azione è basata sul tema del condizionamento sociale, ma anche sull’isterica e grottesca meccanicità di alcuni gesti rituali, semplici ma profondamente simbolici, come nel caso di Fair and Lost, che vorrei presentare per Save the Beauty, quello di truccarsi, rendersi presentabili, prendersi cura di sé, in un contesto devastato e sull’orlo del baratro. Il movimento parkinsoniano, eterodiretto, della mano rappresenta il disagio di una società al collasso in cui si è interrotto il collegamento tra mente e corpo, tra volontà e possibilità di scegliere.
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La scenografia è surreale. Sul parquet di travi bianche, lievemente scrostate, un tappeto di quotidiani e un leggio di legno. Tre webcam riprendono il primissimo piano del volto di Francesca e ne proiettano i dettagli sulle pareti della galleria12. L’artista, vestita di bianco, una rossa cintura stretta in vita, indossa su entrambe le braccia un elettrodo. Li regola al massimo della potenza. Intanto, dinanzi allo specchio, cerca ostinatamente di truccarsi il viso, ma le fortissime contrazioni causate dall’impulso elettrico le impediscono di calibrare i movimenti. Il trucco si sparge sulla faccia trasformandola in una maschera: vuole rappresentare il caos, la violenza e il degrado di un mondo, il nostro, vanamente imbellettato. In sottofondo, il coro del Nabucco porta con sé il fantasma di antiche lotte per la libertà che nessuno ricorda più: «Oh mia patria sì bella e perduta...». Francesca piange: sono lacrime provocate dal rimmel e dalla matita colati negli occhi. Un pianto involontario che, attraverso i dettagli ingranditi nelle proiezioni sulle pareti, si traduce nel senso di sofferenza e disagio di chi ha assistito alla performance in una sorta di legame empatico condizionato, inconsapevole ma autentico.
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Meccanimus [About Equality], 2014 Installazione, video, audio, live performance Roma, MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz
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L’ispirazione iniziale per la costruzione di Meccanimus è stato il libro Dell’uguaglianza di Bertolt Brecht, di cui però ho mantenuto solo qualche citazione perché volevo allontanarmi dal manifesto politico, seppur ironico, per avere uno sguardo più benevolo nei confronti dell’umanità con i suoi difetti. Ho pensato di scegliere questo titolo perché la macchina, una volta impostata, agisce ripetitivamente ed è prevedibile, mentre non lo è lo spirito umano, la cui libertà è viatico per la creazione. Due polarità accompagnano tutta la performance, a cominciare dall’inizio in cui sia io sia Anna (la ballerina) teniamo in mano due maschere di ghiaccio, una blu e una rossa. I due colori rappresentano maschile e femminile, macchina e spirito, polarità elettriche. Il ghiaccio delle maschere richiama la storia iniziale raccontata dal sonoro: una donna deve scalare una parete di ghiaccio per giungere alla realizzazione personale. La parola, veicolata dalla voce, è il momento centrale e continuo della performance. Attraverso la parola l’umanità evolve... verso il bene e il male, verso grandi opere d’arte e la bomba atomica. La parola è anche cantata: grazie al laringofono il mio canto viene decodificato in immagini, altre proiezioni sono collegate ai tasti di una vecchia macchina per scrivere che emette suoni. Come formulazione più evidente della meccanizzazione dell’essere umano, nella parte finale farò riferimento a un episodio realmente accaduto nel 1951 a Roma, in via Savoia. Duecento dattilografe erano ammassate sulla scala di un edificio dove si doveva svolgere un colloquio di lavoro finito in tragedia. La scala è crollata sotto il peso di tante aspiranti: molte di loro morirono o rimasero ferite. Quel lontano e drammatico appuntamento diviene metafora del disagio di tante donne di oggi.
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Si fondono qui i linguaggi del teatro, della danza contemporanea, della performance e della videoarte. Corpi pulsanti e presenti, gesti, immagini in movimento, suoni e visioni generati dal vivo, sollecitazioni improvvise, congegni elettronici interattivi. Una vecchia Olivetti Lettera 32 scrive con il sangue, il laringofono trasforma il canto in immagini. Sono questi gli ingredienti di una sorta di Gesamtkunstwerk che guida le azioni della danzatrice, Anna Bastoni, e del musicista, Pierpaolo Caputo, che interagiscono con Francesca. Sono come i vertici di una coreografia triangolare, un meccanismo a orologeria che si muove puntellandosi al Meccanimus, Anima e Macchina allo stesso tempo, la grande casa-scultura che incombe al centro della scena.
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Mother Rhythm – The Lunchbox, 2014 Installazione, video, live performance Roma, Mondrian Suite
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A questo punto della mia esistenza ho deciso di dedicare a mia madre un progetto perché penso di aver raggiunto la consapevolezza per superare i disturbi e le nevrosi legati al rapporto conflittuale con la figura materna – dall’anoressia all’autolesionismo – creando attraverso il lavoro artistico una catarsi intima. Partiamo dall’ingresso della galleria: ad accogliere la gente ci sarà un maxi display digitale che trasmette in loop il mio video con il rituale della colorazione delle uova d’oro. Intanto una mia alter ego, vestita con il costume bianco che indosso nel video (compresi cappello e occhialoni), dipingerà alcune uova sode con colorante alimentare dorato. Tutto inizia quando io, vestita come una versione in “negativo” del mio doppio, interrompo il video delle uova dal display e faccio partire il video Mother Rhythm. A quel punto metto in bocca un uovo dipinto (questa volta però crudo). Con questo uovo, che mi impedisce di parlare e che devo tenere stretto tra i denti, facendo attenzione a non romperlo, prendo un paio di forbici e guido la gente verso il corridoio. Daniele13, vestito di nero, fornirà ai primi che si avvicinano delle forbici dalle punte smussate, di quelle per bambini. Nel corridoio ci sarà una specie di giungla di scontrini che scendono dal soffitto, con su scritte le “maledizioni”, incantesimi maledetti trasmessi a me da mia madre. Mentre taglio gli scontrini, parola per parola, e metto i pezzetti di carta in una tasca del vestito, i presenti, con le forbici, sono invitati a fare lo stesso. Chi non ha le forbici può strappare con le mani (Daniele darà istruzioni perché io non posso parlare: la mia voce è idealmente quella che viene da due lettori mp3). Una volta arrivata nella sala grande, nel cui centro c’è già mia madre (reale) vestita di nero, raggiungerò lentamente la sedia davanti a lei. Comincerà così la performance madre-figlia (che si chiama The Lunchbox) basata sul concetto di nutrizione attraverso il ventre, il cuore e la testa. Le “maledizioni” sono ciò che mia madre mi ha trasmesso, nel bene e nel male. Sono come incantesimi che si depositano dentro, si sedimentano nel tempo e condizionano il rapporto con l’esistente.
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Maledizioni abitudine amarezza ansia apatia autocommiserazione bellezza bruttezza caparbietà cinismo coraggio coscienza cuore
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determinazione devozione dolore estasi forza freddezza frustrazione gioia gratitudine immaginazione impazienza integralismo
io ira isolamento lentezza livore madre misticismo narcisismo notte padre pietà resistenza
ribellione rimorso saggezza sensibilità severità sfiducia testa torto turbamento veleno vita vuoto
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Il progetto trae origine da una riflessione sul rapporto conflittuale tra l’artista e sua madre, due donne forti, dai caratteri assolutamente opposti, destinate a ferirsi reciprocamente senza saperlo. Con un linguaggio sperimentale che mescola documentario di creazione, manipolazione di materiale di repertorio e Performance Art, l’idea di Francesca si è andata sviluppando come un diario aperto che ha assemblato nel corso del tempo materiali eterogenei: video, interventi performativi, elaborazioni digitali, testi, manufatti, installazioni. Punto di partenza un trolley zeppo di fotografie. Qui erano conservate come reliquie foto/testimonianze che la madre dell’artista ha raccolto insieme con la storia di famiglia e che l’autrice ha paragonato al suo scarno patrimonio personale: poche decine di immagini di vita privata, nulla che riguardi la sfera personale ma, invece, l’ossessione quasi maniacale nell’archiviare materiali che appartengono al proprio lavoro. Ecco allora che tra le due donne si innesca una possibile chiave di contatto nel territorio quasi sacrale della catalogazione, smorzando contrasti, producendo inediti rimandi e connessioni. Utilizzando gli strumenti dell’arte, la performer costruisce un cammino fuori e dentro sé stessa lungo il quale interrogarsi sulla madre, quella reale e quella interiore, senza timore di destrutturarsi. Il percorso si dipana dal video nella prima sala della galleria, a partire dal simbolico pasto con le uova d’oro. Ogni tappa successiva serve a sviscerare una sorta di “tema del materno” enunciato nel video. Come l’installazione nel corridoio: strisce di carta bianca appese al soffitto con su scritte le “maledizioni” trasmesse da madre in figlia. Nella sala grande, tre videoinstallazioni, oggetti performativi utilizzati nel video come la macchina per scrivere con i chiodi al posto dei tasti, un pezzo di torta con l’immagine del sorriso materno, sbocconcellato e congelato su un piatto, la maschera utilizzata all’inizio della performance come in un rituale psicomagico. Ognuno degli oggetti riverbera vissuti personali ma, al tempo stesso, immagini archetipiche interiori legate al doppio, al femminile dell’inconscio protettivo/divorante. In fondo alla sala, un’installazione realizzata con le foto originali della famiglia che compongono una sorta di albero genealogico. La storia familiare, per certi versi, assume i toni della fiaba domestica ed è affidata alla manipolazione digitale delle vecchie immagini. Una rielaborazione creativa che dal linguaggio documentaristico si trasferisce nel reame della videoarte diventando espressione. Così i meccanismi del documentario sono disinnescati dal surrealismo videoperformativo e l’artista trova il modo di avvicinarsi alla madre intrufolandosi nelle sue vecchie fotografie, accompagnandola nelle diverse età della sua vita. Stili e modalità diversi di racconto si sovrappongono e si compenetrano in un viaggio in cui il tempo si flette fino a consentire alle due donne di ritrovarsi in una dimensione a-storica ma piena di senso. Un cortocircuito in cui MOTHER, pronunciato al contrario, ha lo stesso suono di RHYTHM, parafrasando anche il titolo di una delle opere più conosciute di Marina Abramović, Rhythm 014, dove l’artista serba offriva il proprio corpo agli spettatori che potevano usare su di lei tutti gli oggetti appositamente collocati su un tavolino. Ed eccoci all’ultima tappa: a sorpresa, un incontro dal vivo tra le due donne avviene nella performance The Lunchbox. Francesca, seduta di fronte alla madre, ripercorre in metafora le fasi salienti di quel legame viscerale che coinvolge tutte noi. Fulcro dell’azione è il cordone ombelicale, quel filo di lana rosso dalla mano dell’una alla bocca dell’altra e viceversa, come il latte bevuto e offerto, e, alla fine, le forbici per tagliare proprio quel cordone, così come deve essere. L’acquisizione da parte della figlia dell’ordine simbolico della madre consente alle donne di aprire lo spazio per la dicibilità dell’esperienza femminile, sostituendo i sentimenti negativi – rivalità, avversione e invidia – con la gratitudine15.
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Skin/Tones, 2016 Installazione, suoni, live performance Roma, Aula Magna della Facoltà di lettere e filosofia della Sapienza Università di Roma
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Sono nuda, tra due colonne di luci al neon, dando le spalle al pubblico in modo che solo il contorno del mio corpo sia visibile. Passo un microscopio digitale su tutto il corpo, analizzando le diverse trame della mia pelle. Il software da me programmato registra il colore medio di ogni segmento della mia pelle, trasformando il flusso di dati in audio e video generativo dal vivo (i diversi suoni e campionamenti si fondono e si mescolano esattamente in base al mix di rosso, verde e blu, cioè il codice RGB che viene registrato in tempo reale dal microscopio). La proiezione che osservo è il risultato dell’immagine proveniente dal microscopio, che viene elaborata in un rendering caleidoscopico che trasforma anche la più piccola imperfezione in arte vivente. Cicatrici, ferite, nei e rughe diventano mandala, cristalli, gioielli. La performance gioca ironicamente sul concetto di biometria, che è quella disciplina che studia le grandezze biofisiche per l’identificazione certa delle persone, celebrando al contrario il caos, l’errore, l’imprevedibilità dell’identità individuale. Il colore della pelle, analizzato dalla lente del microscopio ed elaborato dal flusso digitale, diventa una varietà infinita e imprevedibile di combinazioni di colori, perdendo ogni possibile connessione con la realtà cartesiana, stretta e separativa, visibile a occhio nudo. Inoltre, sotto il microscopio digitale, corpo maschile e femminile perdono la loro identità sessuale.
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La pelle è il fondamento più antico dello sviluppo psichico. È l’involucro, il confine, la membrana limitante che tiene insieme le varie parti dell’Io disgregate, percepite alla nascita prive di legami reciproci e con il mondo esterno. È attraverso la pelle che si stabiliscono i contatti tra mente e corpo, in un dialogo interiore reso possibile dal riconoscimento della differenza tra il Sé e l’Alterità. È sulla consapevolezza di questa scissione che si è basata la performance di Francesca, frutto di una ricerca multidisciplinare sull’ibridazione corpo-tecnologia. L’artista utilizza un microscopio digitale e un software da lei stessa realizzato per scansionare la sua pelle centimetro per centimetro. Ecco che il corpo unitario, come rappresentazione dell’essere e dell’identità, si converte in un insieme di sfaccettature dove la sostanza si assoggetta alla superficie, il contenuto alla forma. La performance postmoderna, scrive Teresa Macrì, si afferma come dislocamento di corporeità, lasciando la dimensione rituale e intimista dell’inconscio molecolare e tessendo una dimensione inorganica, una smaterializzazione della carne che, nel fantasmatico processo di sintesi, diviene manipolazione, alterazione, trasformazione di sé16. Dalla policromia della pelle si produce una sorta di paesaggio sonoro e visuale in progress dalle infinite varianti; un video mostra il colore dominante rilevato, il codice RGB e l’ingrandimento macroscopico dell’epidermide. Le luci, strategicamente teatrali, inquadrano l’artista mentre si scruta nelle immagini davanti a sé, proiettandosi in quella dimensione narcisistica dove il corpo femminile è equiparato a un oggetto di cui si sono modificati il senso e il valore. Come di fronte a uno specchio, allude alle origini della visione egocentrica del mondo occidentale contemporaneo. Si evidenziano, nella struttura dell’azione, forti legami tra linguaggio performativo e analisi della nostra società lanciata verso una dimensione artificiale, dove le applicazioni di realtà virtuale computerizzata e d’ingegneria genetica saranno sempre più in rapporto con l’estetica. La tecnologia, come suggerisce Luisa Valeriani, renderà possibile rimodellare i nostri corpi e potenziare le nostre menti, ma l’arte dovrà procurare l’ispirazione per ciò a cui i nostri corpi dovranno assomigliare e ciò che le nostre menti dovranno fare17.
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Eva Gerd
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La ricerca artistica di Eva è focalizzata sul femminile e sull’intimità, sul gesto e il suo potere di trasformazione, sulla fragilità intesa come forza. L’artista danese, che da anni risiede a Viterbo, guarda al corpo nei suoi più essenziali elementi come strumento di elaborazione della memoria, come campo di riflessione fisica ed emotiva. Apprezzo e seguo il suo lavoro da tempo: da quando poi l’ho vista performare da VOLUME!18 sono rimasta folgorata. Per conoscerla meglio, scrivo su di lei e finalmente trovo l’opportunità per un progetto condiviso: mi sembra perfetta per costruire un’azione performativa all’interno dell’incontro Materia. Tra apparire sensibile e intelligenza manuale19.
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Viola/Purple, 2017 Installazione, suoni, live performance Roma, Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti
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Nella creazione delle mie opere utilizzo di solito materiali come tessuti e fili, matite e carta; il mio è un lavoro manuale, pacato, svolto in uno stato di raccoglimento. All’inizio ho spesso gli occhi chiusi, per non distrarmi da quello che vedo. Allora le mie mani diventano canali dove scorre un flusso di memoria della vita passata che scaturisce dai materiali fino al mio profondo essere. Le mie dita, più che seguire una costruzione della mente, sentono da sole dove devono andare e che cosa devono fare. Anche nelle performance le mie mani hanno questo ruolo di aprirsi e trasmettermi quello che c’è sotto la superficie che sfiorano. Quando realizzo un'azione parto da un’idea di base, ma non so mai nel dettaglio che cosa farò esattamente. Dipende dalla situazione, dal tempo disponibile e dallo spazio. La performance non è teatro! Però posso dire che per questo progetto indosserò vestiti che fanno parte dell’azione. Forse anche un cappello. Mi accompagneranno dei suoni (gong, campane tubolari... a volte immersi nell’acqua di una bacinella) eseguiti in presa diretta da Paolo Turchetti. Questo, per distaccarmi dalla vita quotidiana ed entrare mentalmente in un altro spazio che chiamiamo performance. Lavoro più con la mia presenza, magari ferma o con pochi movimenti, che non con grandi azioni.
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La performance ha come cornice un’installazione di indumenti manipolati. Vecchi vestiti femminili in disuso che, attraverso il silenzioso e meditativo lavoro di ricamo dell’artista, hanno ritrovato vita e dignità di aspetto e di contenuto. Eva appare in questo scenario indossando un abito viola, il colore della trasformazione che simboleggia l’unione degli opposti: natura psichica e materiale, forza e fragilità, eleganza e umiltà. È raccolta in sé stessa, curvata, chiusa. Nulla rivela che tra le pieghe del tessuto si cela il teschio di un animale che rappresenta la rinascita e la trasmigrazione, la fonte della crescita e, insieme, del decadimento. Le membra della performer sembrano muoversi in autonomia riproducendo i gesti insiti nelle qualità naturali del femminile. Perché «la donna è vita, la donna ha ben presente che non siamo individui singoli e isolati», ma che il nostro essere umani si esprime attraverso le relazioni. È per questo che «sono sempre state le donne ad avere cura dei riti funebri, perché le donne sanno cosa è la pietà»20. Ricoprendo quella nudità esanime di carezze e fiori secchi, Eva la nobilita, la rigenera, la rianima. Gli oggetti-reliquia che utilizza durante l’azione evocano “immagini primordiali”, quei segni tangibili di una presenza ininterrotta, tramatura di contenuti archetipici dell’inconscio collettivo21. Patrimonio intatto da ogni differenziazione ed evoluzione, che appartiene a tutti – umani, animali, vegetali –, frutto di una comunione che misteriosamente ci lega agli universi che ci hanno preceduto.
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EVA GERD
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Silvia Giambrone Sono installazioni, performance, sculture, incisioni, gli strumenti che Silvia usa per indagare le pratiche del corpo, le tramature fra linguaggio e stati di forza, centrando il suo interesse sugli aspetti più reconditi attraverso i quali il potere si insinua nel nostro quotidiano e interferisce nelle relazioni umane. Le sue azioni, dalla forte valenza simbolica, mettono in scena l’autorità, la memoria, l’identità, gli stereotipi, la bellezza, il senso di appartenenza, l’imposizione dei ruoli, la violenza. Il talento e lo spessore dell’artista siciliana, che vive tra Roma e Londra, mi sono noti fin dai suoi primi lavori. Vorrei tanto coinvolgerla in progetti condivisi, ma la nostra conoscenza rimane ancorata a una condizione di possibilità, premessa necessaria ma ancora non sufficiente per costruire un legame. Nel 2012 accetta di prendere parte alla mostra-laboratorio che organizzo al Palladium22 con l’installazione Viste e riviste e l’audioregistrazione di una lettera di Rosa Luxemburg.
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Viste e riviste – Rosa Luxemburg, 2012 Installazione, audioregistrazione Roma, Teatro Palladium – Università Roma Tre
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Lettera di Rosa Luxemburg, dicembre 1917
Ieri sono rimasta a lungo sveglia – adesso non riesco ad addormentarmi prima dell’una, però devo essere a letto già alle dieci –, così, al buio, i miei pensieri vagano come in sogno. Ieri dunque pensavo: quanto è strano che, senza alcun motivo particolare, io viva sempre in una ebbrezza gioiosa. Me ne sto qui, ad esempio, in questa cella oscura, sopra un materasso duro come la pietra, intorno a me nell’edificio regna come di regola un silenzio di tomba, sembra di essere rinchiusi in un sepolcro: attraverso la finestra si disegna sul soffitto il riflesso della lanterna accesa l’intera notte davanti al carcere. Di tanto in tanto si sente, cupo, lo sferragliare di un treno che passa in lontananza; oppure, più vicina, proprio sotto la finestra, la guardia che si schiarisce la voce e per sgranchirsi le gambe fa lentamente qualche passo con i suoi stivaloni. La sabbia stride in modo così disperato, sotto quei passi, che nella notte scura e umida si sentono risuonare tutta la desolazione e lo sconforto dell’esistenza. Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigionia invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito. E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità. E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è soffice come il velluto, a saperci guardare. E anche nello stridere della sabbia umida sotto i passi lenti e pesanti della guardia risuona un canto di vita piccolo e bello, se solo ci si presta orecchio. In quei momenti penso a voi, a quanto mi piacerebbe potervi dare la chiave di questo incanto, perché vediate sempre e in ogni situazione quel che nella vita è bello e gioioso, perché anche voi possiate sentire questa ebbrezza e camminare su un prato dai mille colori. Non intendo in alcun modo saziarvi di ascetismo, di gioie immaginarie. Vi concedo, anzi, ogni reale piacere dei sensi. Vorrei soltanto donarvi, in aggiunta, la mia inesauribile letizia interiore, così da poter essere serena riguardo a voi, pensando che attraversate l’esistenza avvolta in un mantello trapunto di stelle, in grado di proteggervi da quanto è meschino, dozzinale e angosciante.
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SILVIA GIAMBRONE
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L’installazione di Silvia è composta da una serie di collage realizzati estrapolando da riviste femminili d’attualità titoli e scritte che ha poi detournato su foto di famiglia con graffiante ironia. Nell’incontro tra volti tratti dalla cosmogonia personale e messaggi comuni del presente, s’innalza la voce di una donna simbolo di forza e di resistenza: in connessione con le opere cartacee, infatti, l’artista presenta un testo, stralciato da una lettera dal carcere di Rosa Luxemburg23. Interpretate e registrate da Silvia su un file audio, quelle parole si possono ascoltare in cuffia durante l’evento; si instaura così un forte legame perturbante e intimo con lo spettatore in un cortocircuito tra identità e identificazione, passato e presente, memoria individuale e collettiva. Era il terzo Natale che la filosofa e sindacalista trascorreva in prigione. Eppure riusciva a conservare in quell’inferno, una «ebbrezza gioiosa», una sorta di fiducia che persisteva in lei a dispetto del luogo e della situazione. Nella lettera di Rosa, piuttosto, sembra prevalere una stoica attenzione al presente come affermazione di una promessa di futuro: vivere la gioia, il dolore, la bellezza del mondo, in un intreccio con l’azione politica intesa come responsabilità personale e sociale24.
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SILVIA GIAMBRONE
Come ci insegna Derrida, il segno scritto «è una marca che resta, che non si esaurisce nel presente della sua iscrizione» e può dare luogo a un’iterazione in assenza, al di là della presenza del soggetto che l’ha emessa in un determinato contesto25. Se una lettera di un secolo fa è per noi ancora intelligibile è perché, sempre secondo il filosofo, la nostra competenza come lettori e come soggetti parlanti poggia su un substrato di citazioni senza virgolette che compongono il linguaggio. La scrittura, a sua volta, si contrappone all’interiorità della voce, intesa come espressione diretta dell’identità del significato in quanto contenuto di coscienza. Nel passaggio di carattere performativo dalla testualità all’azione, Silvia adotta una tipicità comunicazionale che esplora il testo come atto in sé; dilatando il senso del linguaggio, lo consegna alla dimensione vocale. La parola, così, persa la fissità della scrittura, «si ricongiunge al dinamismo del corpo in un legame primitivo, originario»26.
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Tamar Hayduke
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Tamar, siriana di origini armene, giornalista, artista-performer e scrittrice, ha studiato canto sotto la guida di insegnanti di tecnica vocale in Armenia e in Italia, dove attualmente vive tra Roma e Pesaro. Nel 2015 mi propone un progetto per una residenza breve di Bridge Art presso la Tenuta La Favola27: durante il soggiorno intende completare il lavoro di sonorizzazione del suo poema Oggi insieme con Arsen Babajanyan, compositore armeno, esule da anni in Germania. Entrambi figli di terre offese e ferite, i giovani artisti si incontrano in un luogo crocevia di linguaggi e culture, la Sicilia, in uno spazio che, come scrive Maria Arcidiacono nel testo che accompagna la performance, ha a cuore il dialogo e il confronto tra mondi e civiltĂ differenti.
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Oggi [Un luogo dove accadono i mondi], 2015 Live performance in parole e musica Noto, Chiostro dell’Ex Convento dei Cappuccini Roma, Canova 22
“ Oggi è un’opera poetica nella quale la parola “oggi” si ripete continuamente; ritorna 279 volte, come il numero dei giorni di una gravidanza... ma in realtà è un numero “qualsiasi”, anche se, simbolica28
mente (o fisiologicamente) parlando, sa di “umano”. L’ho adottato per interrompere un flusso che avrebbe potuto continuare ancora a lungo. Oggi è scritto per frammenti e per sms, solitamente in luoghi e mezzi pubblici di Roma, in altre città e su internet. I destinatari sono amici: uno, poi due e poi nessuno... È un poema composto di sequenze di immagini sovrapposte che riflettono una “geografia” del tempo inteso quale luogo dove “accadono” i mondi. Come evento dal vivo, Oggi ha la forma di un recital per voce e computer. La declamazione (realizzata da me) scorre con un ritmo apparentemente astratto, senza forti accentuazioni o enfasi. La musica, composta da Arsen Babajanyan, generata ed eseguita con l’utilizzo del computer, consiste di vari movimenti. La scenografia (quando è impiegata), nel suo modo di tagliare e ricomporre lo spazio, vuole alludere all’idea/ equazione “uomo = contesto”. L’uomo percepisce il mondo sullo sfondo di uno “spazio scenico” personale; il punto di intersezione delle coordinate è lui stesso.
”
Oggi Oggi è il futuro è il sempre che non si attraversa dal futuro. Oggi eternità che si incatena con altra eternità e io sono. Oggi solchi di memoria e io sono. Oggi senso, che soffia nelle narici del tempo e tempo che cammina e si fa storia e io sono. Oggi tu e ti coltivo nel tempio oltre la mia gabbia dove io non sono.
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TAMAR HAYDUKE
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Oggi tu e ti coltivo nel tempio oltre la mia gabbia dove io non sono. La cornice barocca del chiostro dell’Ex Convento, così come l’antica fornace29 del famoso scultore si fanno cassa di risonanza della poesia performativa di Tamar, esaltata dalla sua voce. Sonorità e timbri che agiscono dentro di noi in modo quasi subliminale: senza essere distratti dal significato corrente delle parole, essi acquistano una propria autonomia30. Nell’atmosfera vibrante, in bilico tra lo spazio-tempo, la composizione di Babajanyan, concepita per incentivare l’ascoltatore ad accogliere e a “sentire” le immagini evocate dal testo, si esprime attraverso una musica strumentale varia; in contrasto armonico, la voce di Tamar, seduta in posa ieratica e incorniciata da una nicchia, mantiene sempre il suo tono. Con quel “rigore interpretativo” del quale scrive Artaud31, che al di là di ogni spontaneismo affida il processo espressivo all’emissione vocale controllata: dal respiro alla regolazione delle cavità risonanti, dalla modulazione di altezza-intensità-timbro alle alterazioni del ritmo, fino agli interventi coscienti sull’andamento prosodico32. È un lavoro di equilibrio e di continuo spostamento dell’energia aerea, finalizzato a incanalarla in una struttura vitale e feconda. La fisicità con la quale viene trattato il movimento voce-parola fa apparire del tutto coerente il passaggio dalla scrittura all’attività performativa. La valenza metalinguistica dei testi poetici sembra rifarsi al concetto di atto linguistico inteso come atto performativo. Avvalendosi di vari supporti intermediali, la poesia qui travalica e trascende la sua tradizionale collocazione – la pagina – per tradursi e innervarsi in dimensioni altre.
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TAMAR HAYDUKE
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Chiara Mu
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Nata a Roma, Chiara ha completato la sua formazione a Londra dove ha vissuto per dieci anni. L’artista opera esclusivamente nell’ambito di interventi specifici su luogo e/o situazione utilizzando installazioni, performance e video come modalità preferenziali di lavoro. Si definisce una time-based artist che abita spazi e tematiche creando strategie relazionali tra luogo, oggetti e presenza fisica, sua e dei visitatori. Il nostro incontro risale al 2012: subito avvinta dal suo innegabile talento e dall’intensità – quasi dolente – della sua pratica artistica, le propongo di prendere parte a un progetto33. Il rapporto tra noi non funziona: la sua natura ipersensibile confligge con certe mie rigidità. Ci perdiamo di vista volentieri, se ci incontriamo ci salutiamo a denti stretti, fino a quando un suo abbraccio performativo durante un evento squarcia la mia corazza di affettata indifferenza.
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L’origine*, 2012 Installazione e live performance Roma, Bibliothé Bhaktivedanta
“
Mi relaziono con luoghi e situazioni operandone un rovesciamento per restituire un punto di osservazione differente, una presa di coscienza altra rispetto alla visione consueta che li accompagna. Baldo metterà il suo frottage al centro della galleria, avevo quindi pensato di ambientare la mia performance (mi interessava anche concettualmente) nel giardino34, ma non ci permettono di usarlo, quindi dovrò dividere lo spazio con qualche materiale, penso una stoffa. La performance consisterà nel posizionarmi nel miglior luogo dove realizzare un ritorno all’essenza, alle origini della mia pratica artistica. Vorrei usare una valigia per entrarci dentro arricciandomi come una lumaca, riempiendo ogni mio spazio per diverse ore. Non preoccuparti, Lori, posso farlo! Una lampada in terra illuminerà un testo di Bachelard35 sul valore del rannicchiamento. Per rendere più confortevole la lettura, mi servirebbero alcuni bicchieri e una caraffa di tè che vorrei offrire a ogni visitatore. Nel momento in cui apro una dimensione di incontro e metto in mezzo un contenuto nel quale il visitatore può entrare, è la sua capacità di interagire con il contenuto stesso che lo definisce.
”
* Il testo del progetto, espresso in forma colloquiale durante un incontro brain storming tra me, Chiara e Baldo, è frutto degli appunti da me presi in quella circostanza. Potrebbero quindi esserci imprecisioni delle quali chiedo scusa fin d’ora all’artista e ai lettori.
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CHIARA MU
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Nella “stanza” di Chiara si può accedere uno alla volta e solo attraverso una fenditura nei tendaggi rosa, drappeggiati con le forme di una vagina. È un passaggio-soglia tra la dimensione manifesta e quella celata, tra il mondo reale e quello inconscio. Nella semioscurità, lo sguardo è catturato dalla luce di una lampada che illumina alcuni fogli di carta sul pavimento. Man mano che lo sguardo si adatta, ecco emergere dalla penombra la testa e il braccio dell’artista. Tutto il resto del corpo è costretto in una piccola valigia che allude al senso del viaggio, reale e metaforico. Chiara rimane chiusa al suo interno per quattro estenuanti ore mentre, imperterrita, continua a celebrare i suoi incontri con il rito del tè. Con un’azione che si impone oltre il gesto autolesionistico, l’artista mette in rilievo il sacrificio, l’offerta di sé, come incontro con l’Altro. Sosteneva Gina Pane che vivere il proprio corpo vuol dire scoprire la tragica e impietosa schiavitù delle propria usura, precarietà e debolezza. Significa prendere coscienza dei propri fantasmi, riflesso dei miti creati dalla società. Il corpo (la sua gestualità) è una scrittura a tutto tondo, un sistema di segni che rappresentano, che traducono la ricerca infinita dell’Altro36.
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CHIARA MU
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Ginevra Napoleoni
Nata a Roma, Ginevra si è formata a Venezia e in Francia, dove dal 2012 è artista residente37. La sua ricerca nasce dall’esigenza di indagare ciò che vive nelle profondità nascoste della natura umana, lacerata sin dall’origine da un dualismo di tenebra e luce. Il suo lavoro unisce immagine video, o il virtuale, con il corpo vivo, il segno materico e lo spazio teatrale. Collabora come performer alle opere di Luigi Presicce e Jonatah Manno. A partire dalla prima collaborazione nel 2015 con Un quinto corpo38 – progetto nato in tandem con Massimiliano Siccardi, ma performato dagli artisti separatamente, in modi e tempi diversi – il nostro incontro si trasforma in un rapporto partecipativo di totale comprensione, rispetto reciproco e scambio umano, intellettuale ed emotivo. Lavoriamo di nuovo insieme per Pieghe durante la residenza dell’artista a Villa Pamphilj39. È una creazione site-specific, dunque, in cui l’ambiente è stato parte integrante del lavoro. Da quel primo momento, che si è compiuto con una live performance all’interno del Casale, la ricerca di Ginevra si è poi sviluppata e diversificata approdando negli spazi del Lanificio40.
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Un quinto corpo, 2015 Installazione, video, audio e live performance Roma, Mondrian Suite
“ Il progetto scaturisce dalla necessità di sondare le reazioni dei corpi sottoposti a condizioni di disequilibrio fisico-emotivo. Il performer, sospinto in uno stato ancestrale di coscienza, prende possesso della 41
sua troppa nudità e ripercorre la sua nascita e la sua “morte” per raggiungere una resurrezione creativa. La performance è da iscriversi in una categoria e in una strategia composite, con riferimenti, da un lato, alla tecnica e all’estetica e, dall’altro, a un rigore etico e morale dal significato profondamente mistico. La divisione in scomparti (stanze) parte da un progetto ben meditato e rimanda a certe immagini del mondo orientale. Non a caso la rappresentazione si sviluppa in una sequenza che attraversa quattro fasi, un ritmo quaternario simile alle raffigurazioni simboliche dei mandala. L’azione avviene all’interno di un parallelepipedo, sui cui lati vengono proiettate le immagini in modo tale che chi guarda prova l’“illusione emotiva” di essere presente in modo attivo all’evoluzione di un percorso interiore. Il corpo del performer, intrappolato nel parallelepipedo, si manifesterà interferendo con la visione su un piano di finzione-realtà mai davvero svelato, divenendo il quinto corpo attivo insieme ai corpi degli stessi osservatori. Il ritmo temporale concentrato e spezzato – al di là di ogni implicazione estetica – potrà provocare una profonda risonanza.
”
Mi sono moltiplicato per sentirmi per sentirmi ho dovuto sentire tutto ho straripato, non ho fatto altro che traboccare mi sono spogliato, mi sono dato. Álvaro de Campos/ Fernando Pessoa da Passaggio delle ore, 1916-1923 ca.
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GINEVRA NAPOLEONI
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È Un quinto corpo un’opera concepita come un percorso estetico-emozionale. Gli artisti, utilizzando il corpo come luogo di sperimentazione, producono un ponte elettrico con lo spettatore invitandolo all’esplorazione emotiva oltre che tangibile. È la mise-en-scène di una sorta di “teatro dell’anima”: il mettersi a nudo attraverso l’azione artistica per rappresentare le visioni che emergono dall’inconscio grazie a quel potere che Jung definisce “immaginazione attiva”. L’installazione, costituita da un complesso insieme di elementi simbolici quaternari, stravolge letteralmente lo spazio. Si snoda come in un viaggio iniziatico attraverso stadi che convergono verso le “quattro stanze” in cui si articola la sala più grande. Qui gli artisti, alternandosi nell’azione performativa – quasi contemporanei psicopompi – accompagnano i partecipanti a sfidare l’inconscio, l’indistinto, per conquistare una coscienza reintegrata e la perduta unità. Perché “quinto corpo”? Perché c’è un corpo vivo al centro della galleria, il corpo trasformato/trasformante dall’esperienza creativa. Un lavoro, quello degli artisti, frutto di due anni di ricerca su sé stessi, sperimentando le reazioni dei corpi sottoposti a stati di instabilità fisico-emotiva, e di più di quindici ore di riprese video. Che qui, in sintesi, saranno proiettate sulle pareti del dispositivo centrale, dove si svolge l’azione performativa. Immagini materiali e insieme oniriche, in bilico tra illusione e realtà: quelle forme intermedie che evidenziano gli stati di movimento e mutamento, là dove un’energia si trasforma in un’altra. Si comincia dalla sala d’ingresso: modificata nella percezione, appare quasi una sorta di camera reflexionis, luogo in cui, prima di intraprendere un viaggio iniziatico o quello junghiano dell’eroe42, si può eseguire una interiorizzazione. Nella stanza, foto in bianco e nero ritraggono alcuni momenti delle “prove” affrontate. Il corpo è protagonista, plastico, e sembra emergere dall’oscurità densa di un caos primordiale in cerca di luce. Nel corridoio, tessere di fotografie intercalate ad altre specchianti riflettono la figura umana frammentata. Si prosegue verso le quattro stanze varcando una soglia: simbolicamente il vecchio viene abbandonato per andare incontro al nuovo, al cambiamento. Ed ecco le stanze. Stanza dei veli: con il passaggio attraverso un bozzolo, che può alludere al regressus ad uterum, condizione necessaria per la rinascita, si raggiunge il primo stato di conoscenza. Stanza degli specchi: lo specchio è il mezzo reale e metaforico per esplorare il territorio dell’identità. La sua frammentazione ci riflette sfaccettati in un mutevole e scintillante caleidoscopio. L’uomo è un insieme di parti diverse non necessariamente omogenee, ci ricorda Jung. Solo accogliendo e integrando tutto ciò che emerge dall’inconscio si può progredire nello sviluppo personale. Stanza della realtà: qui la memoria del corpo invaso, impregnato, messo alla prova, è rappresentata dall’olio che gocciola incessante. Stanza dei segni: è l’atto finale del processo di trasformazione. Come nei riti iniziatici il superamento di prove psicofisiche è rintracciabile in un segno impresso sul corpo, qui si entra in contatto con la nuova realtà del superiore livello di coscienza. Siamo così giunti al centro, dove nel parallelepipedo semitrasparente l’azione avviene. Come ogni fase della trasformazione si manifesta con il passaggio a un suono diverso, alla performance si accompagna l’installazione audio live Membrane [ˈmɛmbreɪn] del musicista Luca Longobardi43. Elemento unificante e regolatore, la musica, forza universale e invisibile, congiunge tutto ciò che vibra.
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Pieghe #1, 2015 Installazione, video, audio e live performance Roma, Project Room – Casale dei Cedrati, Villa Pamphilj
“
Questo lavoro nasce da una ferita (che preferisco definire una piega) del mio corpo e della mia anima. Questa non è spiegabile, né tangibile e forse proprio per questo ha bisogno di una forma. In un luogo naturale e armonioso come lo spazio di Villa Pamphilj la ferita piegata, incavata, nascosta in sé emerge come una memoria antica, come una condizione esistenziale che è sempre stata e che preme per essere, appunto, armonizzata. Per questo ho lavorato con il mio corpo trovando una posizione di strana sofferenza ma allo stesso tempo di grande armonia ispirata alla scultura di Santa Cecilia di Stefano Maderno. Una scultura la cui materia è marmorizzata, così come la sua anima. La posizione della santa è stata la chiave del mio lavoro. Solo attraverso questa posizione potevo esprimere il mio rapporto con il mondo e con lo spazio e, attraverso questa, l’ho potuto far entrare dentro me. Ho abitato la villa, spazio simbolico di incontro tra la materia naturale e quella plasmata dall’uomo, senza più differenze tra interno ed esterno. Così gli elementi del parco e del mio corpo si compenetrano, si attraversano e si mescolano in un’armonia né prestabilita, né paradossale. Il mio lavoro quindi è questo: una stanza con teli bianchi, fatti di pieghe come i ripiegamenti della materia e le pieghe dell’anima. Tra queste tessiture, pur rimanendo separate, vediamo le immagini del corpo a contenere gli elementi dell’ambiente del parco che, a loro volta, contengono ancora altri organismi. Le membra di questo corpo vivente sono piene di altri viventi, piante, acque... C’è un’unica simbolica apertura verso l’esterno: la finestra, in alto, sulla quale ininterrottamente scorre la proiezione della cascatella del Canale del lago di Villa Pamphilj. In un angolo della stanza lo stesso corpo nella stessa identica posizione delle foto è reale, per terra, vivo, ma questa volta velato. Su di esso e da esso nascono e si muovono proiettati i medesimi elementi del parco che ritroviamo già nelle foto e nelle immagini della stanza. Durante questo susseguirsi di immagini che si muovono l’una dentro l’altra, il corpo viene man mano svelato fino a essere completamente scoperto. Solo allora la posizione del corpo si potrà distendere, attraverso una rotazione del volto, aprendosi simbolicamente verso il mondo affinché questa piega possa finalmente spiegarsi.
”
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È interamente bianca la stanza creata da Ginevra. Rivestita da teli drappeggiati – suggestione in bilico tra moderna scenotecnica e addobbo funebre –, del panneggio conserva la foga e l’audacia delle composizioni barocche, la tensione nel rendere stabile l’effimero, piega per piega. Qui emerge come memoria antica, segnata, incavata, nascosta in sé, una ferita44 , condizione esistenziale che è sempre stata e che preme per essere armonizzata. Sulla tessitura, elementi raccolti nel parco: foglie, muschi, terriccio, edere trasformano questa stanza in una realtà porosa, rugosa, una primordiale cavità uterina, matrice e madre. Ancora, immagini del corpo dell’artista, questa volta abitato dagli elementi naturali che a loro volta ne racchiudono altri. Seppure in modalità virtuali, attraverso l’uso di new media, la performer qui sembra rifarsi alle concezioni di Mendieta45 quando si riferisce a un’arte fondata sulla credenza di un’energia universale che corre attraverso tutto: dall’insetto all’uomo, dall’uomo allo spettro, dallo spettro alla pianta, dalla pianta alla galassia. Ed ecco in un angolo della stanza lo stesso corpo, adagiato nell’identica posizione delle foto «ma adesso reale, per terra, vivo». Ispirandosi alla scultura della martire Cecilia, di Carlo Maderno, la performer ha plasmato il proprio corpo costringendolo all’assoluta immobilità per l’intera durata dell’azione, mantenendo una postura che prevede l’innaturale torsione del collo. Ecco, dunque, che in una manipolazione corporea avviene l’unione tra sacro e profano, passato e presente. L’antica iconografia religiosa diventa il rituale di una partecipazione collettiva, per condividere, in un gesto di totale apertura nei confronti dell’Altro, sofferenza e, infine, sollievo.
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Pieghe #2, 2016 Installazione, video, audio e live performance Roma, Lanificio159
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Cara Bella,
ecco alcuni pensieri sul mio lavoro Pieghe, su come sta evolvendo... Ci sono luoghi solitari in cui il mio corpo si abbandona... è come un lasciare orme sulle superfici ruvide e pietrose attraverso le membra che, pur offrendosi, prendono e mantengono una posizione salda e precisa che proviene dalla memoria della scultura antica (sempre la Santa Cecilia di Maderno), indicando un modo di abitare gli spazi del corpo e del paesaggio. I luoghi questa volta sono rovine o deserti, paesaggi di plastica o di rifiuti, dove l’essere umano ha lasciato le sue tracce e in cui si crea un piano di incontro tra paesaggio naturale e configurazione umana. Qui il corpo giace divenendo tutt’uno con i frammenti architettonici che nella loro forma sono deteriorati ma solidi: corpo e spazio come una solida rovina vivente. È proprio il corpo che, vivendo nella sua forma i luoghi, restituisce vita a ciò che sembrerebbe ormai dimenticato, lasciato andare, è il corpo che “recupera” e “riqualifica” la dimensione desolata e abbandonata.
”
Il lavoro di Ginevra è frutto di un lungo tempo di ricerca solitaria, di una riflessione sul rapporto corpo-paesaggio, in cui l’unica “presenza altra” è stata la fotografia. Un singolo scatto a cristallizzare quel microsecondo della prolungata azione performativa (avvenuta sempre all’interno di scenari scelti e meditati). Quelli che l’artista ha abitato sono spazi abbandonati, preda dell’incuria e dei rifiuti. Ruderi dove la natura ha ripreso il sopravvento. Macerie che vibrano di silenzio. A volte qualcosa di inesplicabile si mostra fra le rovine di antiche chiese. L’incombere di lontane presenze: lo sguardo di ampi occhi di Madonna, una Grande Madre che osserva e vigila dall’alto. Ed ecco che nella sala dove la performance prende vita si crea una sospensione che annulla lo spazio e insieme si fonde con esso. Attraverso le videoproiezioni, l’essenza vibratile di quei luoghi remoti entra in dialogo con quelli del quartiere romano di Pietralata. Fluisce sulla pelle dell’artista che diviene contenitore e spazio bianco ad accogliere e a raccontare. Si fa corpo trascendente che aspira alla “santità laica” di Grotowski46 attuando quel processo di svelamento e di “autopenetrazione” di sé che consente anche allo spettatore di compenetrarsi. Mentre sembra staccarsi visivamente da sé stesso, come per osservarsi dall’esterno, il corpo di Ginevra si libera da ogni resistenza agli impulsi psichici e si offre in sacrificio ripetendo l’atto della Redenzione. Diviene corpo dell’assenza quale traccia generatrice di tutti i corpi possibili. I corpi degli altri: sofferenti, nudi, inermi, separati, diversi, neri, cenciosi, scampati al mare o alle guerre, ma pur sempre intrecciati, in una continuità vivente, al nostro stesso destino spazio-temporale.
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GINEVRA NAPOLEONI
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Francesca Romana Pinzari
Francesca Romana è una pittrice, performer e scultrice romana, nata a Perth in Australia. Negli ultimi anni ha intrapreso una profonda indagine sul proprio corpo, che vive come luogo di sperimentazione e ricerca sui fenomeni identitari della società contemporanea, utilizzando diversi media quali video, performance e installazioni. Seppure intessuto di stima e promettente sintonia, il nostro rapporto resta per anni confinato all’interno dei convenevoli da vernissage. Quando nel 2015 la invito a prendere parte alla rassegna Duende47, si allestisce tra noi una prossimità che, dopo la condivisione dei “segreti”, si trasforma in qualcosa di più partecipato, molto simile all’amicizia. Nasce così Memorie apocrife.
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Memorie apocrife – All of Me, 2015 Installazione, live performance Roma, Mondrian Suite
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Durante la performance All of Me il mio corpo diventa il mezzo con il quale il pubblico si può liberare di un segreto mantenendo comunque l’anonimato. Dopo essermi bendata mi siedo a un tavolo dove ho già appoggiato alcuni fogli di carta e una penna. Gli spettatori sono invitati ad avvicinarsi, uno alla volta, per sussurrarmi all’orecchio un loro segreto. Restando sempre bendata, scrivo il segreto su un foglio che poi capovolgo, nascondendolo alla vista del partecipante successivo. Vado avanti così fino a quando l’ultima persona presente mi ha confessato il suo segreto. Poi mischio tutti i fogli in modo che non siano riconducibili a un ordine, sparpagliandoli sul tavolo. Solo a quel punto mi alzo, mi levo la benda e per la prima volta posso vedere i volti dei presenti. Infine, abbandono la stanza in silenzio. Ho ripetuto questa performance più volte a partire dal 2014 e quando lascio la stanza succede sempre la stessa cosa: i presenti si accalcano intorno al tavolo per leggere i segreti, chi per curiosità morbosa, chi per vedere se il suo segreto in mezzo a quelli di tutti gli altri sia ancora al sicuro. Con le performance partecipative, il vero protagonista non è l’artista (che a mio avviso non lo è mai) ma le persone presenti, soprattutto quelle che si vogliono mettere davvero in gioco. Ho raccolto moltissimi segreti e ogni volta è sempre sorprendente scoprire quante persone rispondono alla chiamata in maniera attiva e quante restano chiuse nel loro guscio e ti confessano segreti sciocchi o frasi non in tema. Il pubblico è sovrano e io sono solo un tramite. Ho scritto quindi ogni singolo sussurro. Sono rimasta colpita da segreti intimi e dolorosi che riguardano lutti, malattie e problemi familiari, mi sono rattristata per il senso d’inadeguatezza e di paura che impera, così tanti bisbigli mi hanno portato la parola “paura” all’orecchio. Mi aspettavo, ma non in maniera così massiccia, i segreti riguardanti il sesso e i tradimenti e mi hanno divertito delle timide avances che riguardavano me però, essendo bendata, non ho mai saputo da chi provenissero. Quando progetto e penso una performance raramente so dove questa mi porterà. Spero sempre in una partecipazione emotiva da parte dei presenti. La difficoltà non è solo cercare di scrivere velocemente quello che mi viene detto senza uscire con la penna dal foglio, ma anche trattenere le emozioni che quei segreti dolorosi o gioiosi mi procurano all’istante. Non è facile restare impassibili quando il tuo corpo, la tua anima e la tua mente sono totalmente aperti a ricevere un segreto bisbigliato da qualcuno di cui non puoi vedere le sembianze, soprattutto quando il messaggio porta dolore.
”
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I segreti Io amo una persona che non mi ama Nelle notti di luna piena mi chiudo in camera a osservare la luna Continuo a dire che lo amo ma non è vero Non dimenticherò mai il rantolo prima che morisse Io sono il fulcro degli anelli Stanotte ho amato Ogni giorno mi trovo a lottare, non so se ucciderlo o sposarlo Il mio segreto è quello di pulcinella Ogni notte mi trasformo in una persona diversa La stimolazione prostatica è il mio segreto Un altro uomo che non è il mio compagno mi ha confessato di amarmi e io sono sconvolta A volte ho paura di avercelo troppo piccolo Anche se ho fatto lo spavaldo e ho fatto finta che tutto andasse bene, in realtà ho avuto paura Fondamentalmente io non sopporto la mia inquilina L’arte per me è la vita Sei capace di portare con te tanti segreti? Raccontare un segreto è una ferita Una volta ho amato Io non ho segreti, ma sei molto bella e ne approfitto per dirtelo così in un orecchio A volte penso che se potessi mollerei veramente tutto e me ne andrei a fare una vita diversa Voglio cambiare la ragazza che ho, sei impegnata? Viva la libertà Una donna mi ha pagato per fare sesso I segreti sono fatti per non essere rivelati Ho fatto il vento in un bar all’aeroporto di Barcellona Ho il lupus Ho tradito per due volte mio marito Sono sempre innamorato dell’arte Fingo di non avere l’orgasmo Ho amato una donna che non mi ha amato mai Mi piace Carmela Non scopo abbastanza Non amo il mio ragazzo Una volta ho rubato Ho desiderato che mia madre morisse Voglio liberarmi del peso di avere ucciso un animale anni fa Non voglio avere figli Ho paura del buio Ho fatto sesso con mia cugina e l’ho messa incinta Ho avuto un tumore e ho appena fatto un trapianto di cellule staminali, sono guarita Sono così timida che è stata un’impresa venire fino a quaggiù Sono stata con due uomini Sono insoddisfatto, avrei voluto vivere in un altro tempo e in un altro luogo Fare uscire il verme Non sopporto il mondo dell’arte Mi sono fidata, ma non dovevo!
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Quando ero piccolo ho rubato dei giochetti da un… Il mio migliore amico tradisce la mia migliore amica e lo so solo io Non confesso i miei peccati da 25 anni Voglio mandare a fanculo tutti Avrei voluto avere un fratellino più piccolo Ho iniziato a fare rapporto con l’inconscio Resettare la mia vita e ripartire dal 1993 Non uso la vagina da 5 anni A Francesca le voglio tanto bene Dopo i sedici anni ho iniziato a capirci sempre meno dell’amore Non esiste, non posso! Anche se mi piacciono le donne, il primo corpo che ho esplorato è stato di un ragazzo Voglio diventare invisibile A volte penso di non valere niente Fondamentalmente non ho segreti, sono talmente libero che dico sempre quello che penso Tu non vedi, io sono completamente sorda Una gioia inaspettata, una gioia incontrollabile, un’aspettativa di misericordia e speranza, una nascita Non voglio soldi, voglio solo dieci anni di vita in più Trovo maleducato che gli altri parlino mentre loro stanno esponendo i loro pezzi Uccidevo le lucertole appendendole per la coda, bagnandole con l’alcol e facendole bruciare vive! Domani sera farò una cena molto romantica Io come al solito non ho segreti Mi sono innamorata e sto facendo sesso ogni sera Sono stata invidiosa Sono solo nei guai, sono sposato e ho un’amante Una volta ho tradito Amo ancora chi mi ha fatto del male Vorrei una casa sul mare con un bel giardino di mimose Voglio diventare ministro della agricoltura Il cielo splende Ho conosciuto la mia anima gemella ma nessuno lo sa Ho tradito moltissime persone, tranne me Sono stanca, stanca e mi fanno male le scarpe Mio marito mi tradisce Io non ho segreti e questo è un problema Mi piace rubare Una volta ho ucciso il pesce rosso di un mio amico e l’ho cambiato senza dirgli niente A volte ho tanta paura Mi piacerebbe trovare una persona giusta in amore Ceterum censeo, Carthago delenda est Ho paura Sono innamorato ma pochi lo sanno Con tutto questo rumore ci si sente un po’ a disagio Avrei voluto essere una spogliarellista Non ho detto tutta la verità a C. Anche i tramonti sono tramontati Cerco la strada ma sono nel buio
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FRANCESCA ROMANA PINZARI
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Nell’installazione che fa da scenario alla live performance All of Me Francesca conclude idealmente il percorso iniziato con l’azione performativa Passione residuale48: ai visitatori, accolti da un’urna e da un paio di forbici, aveva rivolto l’invito a sacrificare una piccola parte di sé, alcuni capelli. “Materia prima dell’arte”, quale Body Art residuale. Custoditi come reperto, fanno ora parte dell’installazione Una ciocca dei tuoi capelli in cambio del tuo cuore49, serie di teche in plexiglass realizzata appositamente per questa mostra e che ne rappresenta il punto focale e il climax. Le teche, sorta di reliquari apocrifi e, al tempo stesso di time capsule, conservano la memoria individuale e collettiva per connettere passato, presente e futuro. Grazie ai geni custoditi nel nostro DNA, la memoria ancestrale non patisce il trascorrere del tempo, consegnando all’umanità il “ricordo” universale che condensa in sé tutta l’essenza della genesi e dell’uomo stesso. Lo sfondo, il pavimento, i vestiti della performer sono nei toni del bianco-bianco sporco. Francesca ha un portamento regale, i lunghi capelli neri sciolti formano un lucido manto; scolpisce lo spazio con la fisicità potente di una Abramović, mentre le sembianze di sposa o vestale richiamano le prestazioni di Gina Pane. Dietro le sue spalle, con le ali spiegate una Chimera: scultura eterea, frutto di un paziente lavoro manuale dell’artista che unisce la fragilità del crine di cavallo alla resistenza di una struttura metallica. Tra mito e storia, tra utopia e realtà, quasi arcana Themis al di sopra d’ogni giudizio, la performer raccoglie i segreti di chi desidera disfarsene. Gli spettatori si avvicinano a lei, uno alla volta, per bisbigliare al suo orecchio le loro rivelazioni senza volto, confidenze che lei trascrive su carta. Rappresentazione visiva delle parole-pensiero, il “segreto” si fa così segno impresso sulla pagina varcando quella barriera-contatto che separa e mette in comunicazione l’attività inconscia e quella conscia. Un’esperienza che ha il potere di ricreare e rendere condivisibile ciò che non ha mai potuto trovare espressione.
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FRANCESCA ROMANA PINZARI
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Paola Romoli Venturi
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Paola è nata a Roma, dove vive e lavora. La sua ricerca artistica è legata al valore della trasparenza come mezzo per comunicare. «La trasparenza e la sospensione predispongono il visitatore a “guardare attraverso”, a non distogliere lo sguardo, a osservare le cose per riflettere»: questo il suo pensiero ispiratore. Crea spazi disegnati da luci, ombre e suoni utilizzando diversi mezzi espressivi, pittorico-scultorei, video-audio e installazioni site-specific e performance. Ci conosciamo durante un evento al MAAM. La punteggiatura della comunicazione rimane per mesi all’interno di schemi più o meno convenzionali. Nel 2016 il riconoscimento di valori comuni come il forte senso etico ed ecologico che traspare dal suo progetto (presentato per il bando Bridge Art) dà colore alla nostra relazione. Tanto che nel 2017 collaboriamo per realizzare una performance al MACRO sul tema Arte, reazione e resistenza50.
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We, 2017 Installazione video e live performance Roma, MACRO
Il progetto WE è composto da diversi elementi: “ uno spaziale
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un video due fotomontaggi la performance Insieme al testo base, vi sono foto, un discorso del papa e alcuni passaggi della “supplica”, elementi raccolti nel tempo tra le notizie di cronaca con la modalità dell’Instant Art. Questa ricerca, che ho teorizzato nel 2008, è preambolo di tutti i miei lavori. Partendo dalla cronaca di attualità la trasformo in immagini/ sensazioni/riflessioni che sottraggono le notizie al destino fugace delle informazioni mediatiche. Arte, reazione e resistenza è il macro-argomento giusto per realizzare una mia performance. Credo che tutti i miei lavori possano essere intesi come “reazione” (attraverso l’Instant Art) e “resistenza” attraverso l’azione. La performance WE sarà una dimostrazione del mio pensiero di azione che si propaga. Azione-definizione dello “spazio WE” Mi posiziono nello SPAZIO, pianto i piedi al suolo e dico I (io), poi guardo di fronte a me e dico YOU (tu), poi allargo lo sguardo e dico YOU (voi), prendo un nastro [vorrei usarne uno di quelli bianchi e rossi che si adoperano per delimitare le aree pericolose] e, partendo dalla mia destra, faccio un cerchio che ci racchiude TUTTI, WE (noi). we we we we we we we we we we we we we we we we we we we we we we we we we WE (noi) non ascoltiamo > NESSUNO ci ascolta WE (noi) non riusciamo a PARLARE WE (noi) non abbiamo più voce CAMBIO di mezzo di comunicazione: il GESTO sostituisce la PAROLA Testo performance WE Testo del breve discorso SUPPLICA di attenzione alle questioni delle popolazioni che premono alle frontiere dal titolo ‘...’ . Lo “leggerò” facendo uso dei segni della LIS. L’ultima frase di speranza – NOI abbiamo un sogno (WE have a dream) – sarà ripetuta da tutti i partecipanti. Le frasi virgolettate sono tratte dal discorso di papa Francesco all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (New York, 25 settembre 2015).
”
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PAOLA ROMOLI VENTURI
NOI siamo tutti nella stessa barca Guarda cosa succede... uomini, donne e bambini annegano; uomini, donne e bambini sono accolti da barricate. I popoli migrano. «...bisogna consentire loro di essere degni attori del loro stesso destino.» Alle frontiere ci sono soldati con il fucile puntato… Non posso credere a quello che vedo! «...negazione totale della fraternità umana...» Come faremo a riconciliarci con chi fugge da una guerra e trova ad accoglierli guerra? «La guerra è la negazione di tutti i diritti...» NOI abbiamo un sogno.
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La performance We può essere intesa come la “resistenza” descritta da Foucault: un processo creativo in grado di generare una reazione: «creare e ricreare, trasformare la situazione, partecipare attivamente al processo, ecco che cos’è resistere»51. L’“azione” (video, testo, immagine, installazione e performance), originata da una “reazione”, è soprattutto volta a stimolare altre “reazioni” da parte di chi fruisce del lavoro, come spiega l’artista stessa: «Lo spettatore coinvolto può riflettere e automaticamente interessarsi di un argomento o è invitato a diventare attore entrando nell’azione». L’Instant Art è per Paola una ricerca che parte dalla cronaca d’attualità e si trasforma in immagini/sensazioni/riflessioni che sottraggono l’argomento trattato al destino delle informazioni presentate quotidianamente dai media e che durano nella nostra personale memoria alla stregua di un lampo, subito sostituite dalle news successive. In questo modo, per l’artista, «l’arte diventa cassa di risonanza che vibra nel tempo».
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PAOLA ROMOLI VENTURI
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Alice Schivardi
Alice è originaria di Erba e vive a Roma. La sua ricerca abbraccia diversi linguaggi artistici che «confluiscono tutti in una visione, un’unica grande tela», come lei stessa asserisce. Il mezzo usato è sempre funzionale all’idea che intende sviluppare. Al centro del suo lavoro, l’indagine sulle relazioni umane, sui temi come la condivisione, la spiritualità, la diversità. Ci conosciamo nel 2012 grazie a un’amicizia comune. Non è difficile entrare in rapporto con lei: sentirsi e far sentire a proprio agio gli altri è un suo talento. Più complicato entrare in reale intimità, superare una sorta di impercettibile diffidenza, raccontarsi, trovare quegli invisibili legami che ci accomunano.
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Soffio, 2012 Live performance Roma, Teatro Palladium – Università Roma Tre
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Ho incentrato il mio progetto sull’esibizione in pubblico di Nicoletta Salvi. Ho conosciuto la cantastorie femminista romana mentre cantava un pezzo da lei scritto e composto dal titolo La fica, accompagnando la sua voce con le note di un violino, e ho provato subito una speciale affinità. Nel testo interpretato da Nicoletta sono contenuti elementi fondamentali per descrivere l’autonomia di un femminile che si appropria del suo organo genitale. Nicoletta Salvi è al settimo mese di gravidanza e canterà e suonerà in nudo integrale alcune ninnenanne. L’esibizione avverrà all’interno di un perimetro da me delimitato affinché il pubblico possa osservare la futura mamma come se fosse davanti a una vetrina, mentre dietro il vetro la donna gravida ripete in loop la sua esibizione. Si inserisce in una serie di lavori a carattere performativo che da qualche anno caratterizza la mia ricerca e che hanno il fine di raccogliere e raccontare storie e memorie delle persone comuni. La performance dal titolo Soffio segue, infatti, Black Man, del 2010, e Aquilone rosso, del 2011, che hanno come filo conduttore la presenza di personaggi semplici, con una storia di vita vera carica di insegnamenti o significati, persone che magari vediamo tutti i giorni ma alle quali non prestiamo attenzione né dedichiamo tempo. Come se in realtà non li vedessimo affatto. Il tema della diversità è per me fonte da cui attingere per una corretta collocazione sociale della persona e per sanare le attuali ingiustizie etiche. Uso la diversità, che oggi crea distanza, quale megafono per l’affermazione di un nuovo sentire, il sentirsi un tutt’uno. La diversità può essere uno strumento di arricchimento anziché motivo di impoverimento culturale, un valore prezioso e non un male comune.
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ALICE SCHIVARDI
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Al teatro Palladium, salendo su per la scala in fondo al foyer, c’è una mansarda con una finestra a oculo. È qui che Alice ha scelto di ambientare l’azione di Nicoletta, cantastorie femminista al settimo mese di gravidanza. Nicoletta si muove calpestando un tappeto rosso che allude al mistero del sangue, simbolo dello sviluppo psicobiologico del femminile: è attraverso il sangue della mestruazione che l’adolescente diventa donna e sempre attraverso il sangue partorisce. L’esibizione del corpo nudo mette in scena il garbuglio di teorie e contraddizioni insite nel tema della maternità, a partire da quella negata perché ostacolo all’emancipazione femminile, rifiutata perché vista come sottomissione alla “società/uomo”, passando per l’Etica della cura52, fino all’eccessiva retorica posta sulla fertilità quale elemento costitutivo della donna. Nella sua semplice nudità, il corpo gravido è un punto di transizione, un crocevia in cui si intersecano forze contrapposte. È un luogo di alta tensione – evidenzia Rosi Braidotti – perché, se da una parte rappresenta quanto di più naturale e “normale” vi sia, dall’altra sfugge a ciò che il simbolico patriarcale vorrebbe che esso fosse53, da sempre percepito nell’immaginario maschile come qualcosa di orribile e meraviglioso, affascinante e mortalmente temibile, qualcosa di molto inquietante che è sempre al margine. Ed ecco che Nicoletta, accompagnandosi con un violino, interpreta una ninnananna. Riscopre con quel canto la potenza del femminile che è anche capacità di donare la vita, l’amore. Attraverso la voce esprime liberamente sé stessa e la sua differenza, si prende cura dell’essere che custodisce in grembo, ricongiungendo la ragione all’emozione, la mente al corpo, il sé alle relazioni, gli uomini alle donne.
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ALICE SCHIVARDI
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Silvia Stucky
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Silvia segue con attenzione e pazienza elementi della natura e delle diverse culture del mondo, facendosi percorso di comprensione che esclude ogni forma di sopraffazione sull’Altro. La sua pratica artistica implica un atteggiamento etico e sociale profondamente a favore della pace. Il lavoro dell’artista romana spazia dalla pittura ai libri d’artista, a installazioni, giardini, video, fotografia, fino alle performance. La ammiro da lontano per anni. Da quando nel 2011 la invito a prendere parte a una mostra al MNAO54, la comune esperienza riduce la distanza tra noi, rompendo l’estraneità prossemica. Si innesca un lento processo di esplorazione delle reciproche diversità che nel tempo forgia un’unità di visioni complessa quanto fragile. Nel 2017 collaboriamo alla realizzazione di una performance al MACRO sul tema Arte, reazione e resistenza55.
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Getterò in mare il cuore che ha qualche desiderio, 2017 Installazione video e live performance Roma, MACRO
“
[Il corpo è fermo, sono seduta in ginocchio sui talloni, il busto dritto] La società della prestazione incatena i soggetti alla potenza del fare. Il modello oggi dominante, basato sullo sviluppo, lega il concetto di benessere e l’idea stessa di felicità alla capacità di avere, di consumare. In nome di questo sviluppo e di questo consumo il mondo sopporta guerre, povertà, fame, sfruttamento delle risorse a beneficio di pochi, disastri ambientali, distruzione di habitat naturali, di specie animali e vegetali. L’Occidente parla di democrazia, di pace, di uguaglianza, di diritti umani, ma contribuisce nei fatti a un mondo fuori equilibrio. Così le parole parlano la violenza del fare. La complessità richiede studio, riflessione, pensiero critico, consapevolezza. Raccontare il corpo, le parole ascoltano, cercano la consapevolezza, cercano il volto dell’altro, cercano il respiro del mondo. Agire senza agire, ogni cosa si muta nel suo contrario. Una posizione per resistere. Una postura per contemplare. Stare senza agire. Stare senza io. Agire senza io. Da questa posizione posso scegliere di fare o non fare, posso dire no, una potenza negativa. La negatività del non-fare è contemplazione, vuoto. Il vuoto è una pratica attiva, che permette un agire libero. Corpo e cuore sono una sola cosa. Luce e ombra sono una sola cosa. La negatività del non-fare è contemplazione. Silenzio.
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SILVIA STUCKY
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La performance di Silvia indaga una possibilità di resistenza che parte dall’etica del Sé per giungere al cambiamento dei rapporti di forza. Scrive l’artista a proposito del suo lavoro: «Conoscere e ascoltare, affermare il valore del dialogo con l’altro, fare di ogni diversità una risorsa». È questo l’atteggiamento necessario contro le ingiustizie e le discriminazioni. Il suo lavoro è, come lei stessa lo definisce, «un agire senza io che chiede di pensare, riflettere sulla nostra esistenza e sulle cose che ci circondano». Un pensiero che sembra trarre ispirazione dal wu wei56 della dottrina taoista. Nel vuoto di sé, collassa la presunzione di un ego assertivo, separato, che si contrappone all’ambiente esterno invece di fluire con esso. Durante la performance – che nel titolo riprende lo haiku del poeta giapponese Ozaki Hosai – Silvia mantiene il corpo immobile, in ginocchio sui talloni, con il busto eretto pratica un esercizio preciso e paziente. Ecco allora che la passività diviene qui scelta etica che scaturisce da un’esperienza di sé come osmotica frattura tra due esteriorità: del dentro e del fuori. Resistere all’interiorità – scrive Foucault – non significa rifiutare ciò che vi accade ma, al contrario, accettarlo, volerlo, amarlo57.
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SILVIA STUCKY
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POSTFAZIONE Il linguaggio transgender dell’arte e il suo eterno femminino Partendo dal presupposto che i linguaggi estetici dell’arte sono prima di tutto strumenti di comunicazione trasversali e transgender, cioè portatori di senso universali, non credo a una distinzione netta di ruolo e di genere del processo creativo tra il lavoro artistico di una donna e quello di un uomo. Sono convinta, però, che il Corpo della donna – come spazio di espressione artistica e strumento di indagine profonda fisico e mentale – abbia una capacità e specificità comunicativa altra, in relazione alla realtà culturale, sociale e politica attuale. Se è vero che l’arte è territorio sensibile di trasmissione di conoscenza e riflessione critica sul mondo, non possiamo allora non tener conto di queste considerazioni ogni volta che il nostro sguardo incontra il lavoro di un artista, qualunque sia il suo personale stile di ricerca. Ma prima di entrare in merito all’argomento è mia premura fare un passo indietro per porre l’attenzione su alcuni interessanti esempi di avvenimenti storico-artistici, che hanno il loro focus proprio nelle origini del significato stesso della parola “genere” e nelle relative gender theories, che vanno ben oltre il rimarcare le differenze sessuali, fisiche e comportamentali dell’uomo e della donna, senza ridurle così a semplici e banali stereotipi. È bene distinguere il significato della parola “sesso” da quello della parola “genere” in quanto non hanno lo stesso significato. Il sesso è l’insieme dei caratteri anatomici e fisiologici che contraddistinguono l’essere femminile dall’essere maschile e dalle persone intersessuali, mentre il “genere”, legato al processo di identificazione culturale delle differenze, è una categoria culturale e psicologica che varia in base ai contesti e alle relazioni individuali. Per gender theories si intende un insieme di studi interdisciplinari (dalla psicologia alla filosofia e dalla sociologia all’antropologia e non solo), definiti intorno agli anni Sessanta del secolo scorso soprattutto nella cultura anglosassone, che hanno origine dai movimenti ideologici femministi per contestare il sistema tradizionale, a volte penalizzante, di considerare il ruolo sociale della donna. Se da un lato nel corso del tempo le teorie di genere arrivano a immaginare la società ideale come quella in cui l’uguaglianza tra le persone può essere attuata solamente interpretando la sessualità come una convenzione sociale, dall’altro esse hanno finito con il considerare la stessa convenzione sociale come qualcosa che con le sue regole vincola l’esistenza delle persone, obbligandole a identificarsi nel ruolo del maschio o della femmina. I gender studies, invece, sono nati nel Nord America a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta nell’ambito accademico dei cosiddetti cultural studies e si diffondono in Europa occidentale negli anni Ottanta. Questa tipologia di ricerca si sviluppa dal “pensiero femminista” e trova connessioni importanti nel poststrutturalismo e nel decostruzionismo francese (soprattutto in autori come Michel Foucault e Jacques Derrida), ma anche riscontri in molti linguaggi della psicoanalisi (si pensi a Jacques Lacan e, più di recente, a Julia Kristeva). Di importanza specifica per gli studi di genere sono anche gli studi gay e lesbici e il postmodernismo. Dobbiamo tenere presente che queste ricerche non rappresentano un campo di sapere a sé stante, ma innanzitutto una modalità di interpretazione dell’essere. Gli studi di
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genere introducono l’idea fondamentale, che condivido a pieno come artista e come arteterapeuta, che il sesso che “siamo” può non corrispondere con il “genere” che possiamo divenire. In altre parole, possiamo nascere donne e divenire uomini o, viceversa, possiamo nascere uomini e divenire donne. Insomma, la natura è irrilevante: ciò che conta è come ci “sentiamo” e soprattutto come “vogliamo” essere. A questo punto ci si potrebbe chiedere che cosa c’entrino gli studi di genere con il tema più ampio di questa pubblicazione che accoglie contributi teorici delle esperienze artistiche di una rosa selezionata di performer donne tra le più interessanti nel panorama nazionale e internazionale. Senza considerare, poi, un altro aspetto culturale importantissimo per l’indagine identitaria, cioè il significato del termine queer e delle teorie ad esso collegate, le quali, a loro volta, sostengono la fluidità e la transitorietà del genere, del sesso e dello stesso desiderio sessuale. Ebbene, io credo che abbiano veramente tantissimo in comune e che il fulcro di tutto questo sia proprio il Corpo e ciò che esso rappresenta: uno spazio carnale e psichico complesso che “urla” al mondo tutto lo splendore del suo potenziale comunicativo, sia da una prospettiva d’indagine prettamente interdisciplinare, sociale, politica, sia – ma sarebbe più corretto dire soprattutto – da una prospettiva più “corporale”. Mi riferisco in particolare a quelle pratiche performative dell’arte contemporanea che hanno radici antiche e che da sempre si pongono il problema dell’individuo e della propria ridefinizione identitaria in relazione al mondo, all’Altro, in un processo di evoluzione o involuzione, ma comunque di cambiamento continuo. Allora mi sembra davvero pertinente in questa sede ricordare il pensiero della filosofa americana Judith Butler quando asserisce che, attraverso la decostruzione delle rappresentazioni sociali delle identità, il genere è performativo e la teoria queer ad esso legata non fa altro che confermare la transitività dei generi, mettendo in discussione la stabilità dell’identità in ogni sua sfaccettatura. E, se l’identità non è fissa e non può più essere ridotta, etichettata o categorizzata, è certo che un singolo aspetto di un individuo, per quanto importante e caratterizzante sia nella sua vita e nelle decisioni di tutti i giorni, non basta a definirlo nella sua totalità di persona. Il genere, dunque, è performativo. Per quanto mi riguarda, il fatto di essere donna non ha determinato più di tanto le mie scelte espressive o le mie prese di posizione nel mondo dell’arte contemporanea e non credo abbia neppure condizionato le opportunità che mi sono state offerte, almeno non in modo diretto. Infatti, tutto quello che ho realizzato fino a oggi è nato da una forte predisposizione e curiosità soprattutto nei confronti delle persone, così diverse tra loro per ragioni biografiche e non solo, ma tutte, me compresa, accomunate dalle stesse esigenze primarie: a partire da quella di essere accolti e amati per come si è davvero, al di là di qualunque sovrastruttura culturale, etnica o altro. In generale, la mia forma mentis si relaziona al mondo con un pensiero che non prevede particolari comportamenti o atteggiamenti caratterizzati dal mio essere donna, anzi, più faccio esperienza nel mio ambito, più ho la certezza che il mio pensiero si propone con un’assoluta e neutra lucidità, al di là di qualsiasi caratteristica legata al genere. D’altro canto, non voglio, e non possiamo, dimenticare che se oggi le donne godono di una sostanziale libertà di espressione nelle arti, nell’uso della parola scritta e parlata e nella relazione con il corpo, lo devono alle conquiste ideologiche dei grandi movimenti contestativi sociali e culturali degli anni Sessanta e Settanta.
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POSTFAZIONE
Come donna e come artista, poi, non posso che essere grata a tutte quelle che nel movimento femminista hanno rivendicato, su più piani di lettura, i nostri ruoli e i nostri diritti, anche se “l’arte delle donne” – nel senso di arte creata da donne – non è la stessa cosa di arte femminile o femminista. Gli approcci artistici e le possibilità espressive dell’arte delle donne, come sappiamo, sono tanto numerosi quanto le artiste. La cosa interessante è che i critici del femminismo, che preferiscono evitare il dibattito sui meccanismi della società e della “guerra” tra i sessi, sostengono che la “buona arte” non ha genere; al contrario, i critici contemporanei sottolineano come il genere, che ha comunque un ruolo, non debba essere considerato un dato di fatto ma una sovrastruttura sociale. Forse nessuno dei punti di vista ha avuto o ha un’influenza di rilievo sulla consapevolezza e sui meccanismi emotivi e psichici che spingono una donna a essere artista e non a diventare un’artista. Credo, infatti, che ogni individuo, fin dalla nascita, possieda un personalissimo processo creativo attraverso cui esprimere qualcosa che giace dentro di sé, riuscendo, mediante la sua messa in forma, a condividerlo con il mondo. In questo processo il Corpo si presta a essere uno strumento privilegiato e potentissimo di comunicazione, su più livelli. E con Corpo non mi riferisco alla sola fisicità della persona ma, al contrario, alla sua totalità identitaria, che si esprime attraverso la relazione armoniosa e ben integrata della sua dimensione psichica, emotiva e fisica. Il Corpo è la prima cosa di cui disponiamo quando veniamo al mondo e l’ultima che abbandoniamo a conclusione della nostra breve permanenza su questa terra. Ma tra la prima fase e l’ultima esso è il luogo di trasformazioni incessanti. Infatti, così come si modifica il corpo biologico, allo stesso modo cresce il bagaglio esperienziale ed emotivo del nostro mondo interno: nel dispiegarsi delle fasi della pubertà, dell’adolescenza, della maturità e della vecchiaia l’individuo deve far fronte, su un piano di esame di realtà, all’idea che ha di sé, al rapporto con il proprio corpo e alla sua identità, ma non può evitare di guardare ai modelli culturali proposti dalla società contemporanea e dalla realtà mediatica che, a mio avviso, persistono a ridurlo ancora oggi a una sterile icona estetica, svuotata dei propri significati antropologici e profondi. Per questo motivo credo quindi che il rapporto Corpo-Immagine sia sempre in trasformazione e che le dinamiche tra l’uno e l’altra siano direttamente proporzionali ai cambiamenti culturali, economici, politici di un determinato contesto sociale. Purtroppo, nonostante le mie riflessioni non vogliano avere un carattere prettamente polemico, mi sembra di avvertire, soprattutto nelle generazioni delle giovanissime o dei giovanissimi, che la libertà espressiva conquistata grazie ai grandi movimenti femministi ricordati prima sia percepita dai più come qualcosa di scontato e non come la conseguenza di un lungo e travagliato processo socioculturale. La cosa più grave è che persiste ancora una mancanza di consapevolezza rispetto al fatto che nel manifestare in nome della rivendicazione della libertà di tutti, qualcuno o, meglio, più di qualcuno ci ha rimesso anche la vita. Inoltre, mi resta la sensazione che questa “disinvoltura” e questa ostentazione del corpo della donna contemporanea, a scapito del messaggio originario, non siano altro che strumenti di manipolazione sofisticata dell’immaginario del femminile da parte di una società che purtroppo si dimostra ancora prevalentemente maschilista e sessista. Allora non possiamo stupirci se in alcuni casi l’arte performativa della donna di oggi sembra riproporre, attraverso l’uso del Corpo, il suo
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NOTE essere portatrice di significati e cambiamenti storici e ancestrali profondi, pur senza escludere una forte inclinazione al rinnovamento dei propri mezzi tecnologici e, ormai nel terzo millennio, dei propri codici estetici. Tenendo presente le considerazioni sviluppate in questa sede e per concludere, credo che al di là del genere di appartenenza, ogni artista performativo sia consapevole del grande bisogno dei nostri giorni di un ritorno al Corpo come mezzo espressivo e di un incontro profondo con l’Altro, anche attraverso l’uso di sofisticatissimi strumenti di comunicazione contemporanei, i quali però non riusciranno mai a rappresentare un’alternativa al “tradizionale” incontro “corpo a corpo” tra le persone. Inoltre, credo sia davvero evidente che, nonostante in parte la tecnologia abbia facilitato l’incombere del ritmo frenetico della vita contemporanea e delle “conoscenze professionali”, accorciando le distanze geografiche e temporali, essa non sia ancora riuscita (e immagino mai riuscirà) a sopperire al bisogno e all’urgenza dell’incontro vero, fatto di abbracci, di sguardi, di odori. Le performance, allora, quelle vere, quelle capaci di trasmetterci emozioni, ci invitano a studiare e osservare questi sentimenti con rispetto e attenzione nello spazio del Corpo: caleidoscopio simbolico in grado di accogliere ogni “genere” di istanza sensibile dell’umano e con esso tutte le meraviglie del suo arcobaleno espressivo.
Mona Lisa Tina
PREFAZIONE 1
Cfr. Gina Pane, Lettre à un(e) inconnu(e), Dossier Gina Pane, in “Artitudes International”, 1974, 15-17, p. 34.
2
Cfr. Luisa Valeriani, Dentro la trasfigurazione. Il dispositivo dell’arte nella cybercultura, Meltemi, Roma 2004.
3
Cfr. Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia Books, Milano 2010.
ARCHIVIO DI UNA CURATRICE DI PERFORMANCE 1
La Performance Art, definizione open-ended (secondo Robert Atkins, ArtSpeak: a Guide to Contemporary Ideas, Movements, and Buzzwords, Abbeville, New York 1990), designa tutta una serie di operazioni artistiche coinvolgenti elementi relativi alla danza, al cinema, al teatro, al video, alla poesia ed effettuate davanti a un pubblico; dunque, si può considerare una forma di arte che si esplicita mediante l’azione. Il termine, che compare negli anni Settanta del Novecento, implica l'uso da parte dell’artista del proprio corpo, che diviene il medium artistico.
2
Sulla formazione dei critici/curatori d’arte scrive Angela Vettese (cit. in Francesco Poli, Il sistema dell’arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 148): «È indispensabile un’approfondita esperienza sul campo [...] perché il lavoro di critico d’arte ha valenze nello stesso tempo teoriche e operative».
3
Sul lavoro curatoriale di Szeemann cfr. Stefania Zuliani, Esposizioni. Emergenza della critica d’arte contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 2012, cit. p. 43.
4
Ibid.
5
Tra le varie sinergie voglio ricordare quella con NUfactory in occasione della mostra/laboratorio 10 ragazze per Freud che ho curato nel 2012 al Teatro Palladium, con la collaborazione di Antonella Di Lullo e i contributi della psicologa Nicoletta Zanoletti. Con Anna De Fazio, invece, nel 2016 abbiamo ideato Dove sono le donne di Roma, un workshop itinerante da svolgersi in parallelo al format Il corpo delle donne, coinvolgendo nella ricerca in progress Michela Becchis e Maria Giovanna Musso. Nello stesso anno, inoltre, abbiamo proposto un ciclo di performance legato al format, nell’ambito del progetto Spazio, esistenza, materia. Per una ricerca sulla specificità [eventuale] dell’arte femminile, curato da Veronica Montanino e Anna Maria Panzera.
6
Jonah Westerman, The Dimensions of Performance, in Performance at Tate: Into the Space of Art, http:// www.tate.org.uk/research/publications/performance-at-tate/dimensions-of-performance.
7
La citazione di Nelly Richard è in http://www.theartstory.org/movement-performance-art.htm.
8
Cfr., a questo proposito, Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia Books, Milano 2010.
9
Cfr. Zuliani, Esposizioni, cit.
10
La citazione è tratta da Virginia Zanetti, Curare il curatore #2 (http://1995-2015.undo.net/itargomenti/1374762938), progetto interdisciplinare in progress da lei ideato che ha preso il via nel 2011. Rientra in questo progetto il “testo polifonico” scaturito dall’invito di Zanetti a rispondere ad alcune domande sulla relazione artistacuratore poste in un file di condivisione on line in cui sono stati raccolti molteplici contributi.
11
Neologismo da “caos” e “osmosi” coniato da Hans Ulrich Obrist: cfr. Michele Dantini, Arte e sfera pubblica. Obrist e l’ideologia del curatore, in “Artribune”, 9 settembre 2016 (http://www.artribune.com/attualita/2016/09/ curatori-hans-ulrich-obrist-michele-dantini/).
artista visiva e arteterapeuta
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POSTFAZIONE
12
Dal contributo di Pietro Gaglianò, in Curare il curatore #2, cit.
13
Intervento di Martina Cavallarin nella serie di interviste Curatori. Ne abbiamo ancora bisogno? #2, a cura di Santa Nastro e Valentina Tanni, in “Artribune Magazine”, 24, 27 luglio 2015, p. 23 (disponibile anche in http:// www.artribune.com/magazine/artribune-magazine-24/).
14
Marko Stamenkovic, ivi, p. 22.
15
Ibid.
119
16
Peggy Phelan, The Ontology of Performance: Representation without Reproduction, in Ead., Unmarked: the Politics of Performance, Routledge, London 1993, pp. 146-66.
17
Emiliano Dante, Oltre l’effimero, tesi di dottorato, XX ciclo, Università degli studi della Tuscia di Viterbo, Facoltà di Conservazione dei beni culturali, p. 13.
18
Gina Pane, cit. in Lea Vergine, Body Art e storie simili. Il corpo come linguaggio, Skira, Milano 2000.
19
L’artista tedesco Joseph Beuys «faceva filmare le sue performance dall’esterno della scena, da un punto di vista che avrebbe dovuto essere quello di uno spettatore trascendente e transistorico che in ogni momento avesse la possibilità di far rivivere la performance» (Thierry de Duve, La performance hic et nunc, in Chantal Pontbriand, dir., Performance. Text(e)s & Documents, Parachute, Montréal 1981, p. 26).
Regione Lazio e del Comune di Roma, si è svolta dal 15 ottobre al 1° novembre 2009 presso l’Ex Manicomio di Roma Santa Maria della Pietà. Il catalogo è pubblicato da Pietro Negri, Vicenza 2009. 2
Duende: l’oscura energia dei corpi è una rassegna, da me ideata e curata, che si è svolta a Roma presso la Mondrian Suite, che ha messo in scena tra settembre e ottobre 2015 le opere e le azioni performative di Tiziana Cera Rosco, Ginevra Napoleoni & Massimiliano Siccardi e Francesca Romana Pinzari.
3
Matilde Mozzi Morrone, Bestiario. Libro degli animali simbolici in C. G. Jung, EUM, Macerata 2015, p. 57.
4
Per la mostra Nigredo cfr. supra, nota 1.
5
Il progetto, il coordinamento e la realizzazione dell’allestimento di Nigredo sono di Gabriele Pellegrini, l’assistenza al montaggio di Valentina Liani.
20
Cfr. Janet A. Kaplan, Deeper and Deeper, intervista a Marina Abramović, in “Art Journal”, 58 (1999), 2, pp. 7-21.
6
Carl Gustav Jung, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in Id., Opere, 8, Boringhieri, Torino 1980, p. 221.
21
Amelia Jones, Body Art: Performing the Subject, University of Minnesota Press, Minneapolis 1998.
7
22
Cfr. Mélanie Boucher, L’exposition de la performance, entre reenactment et tableau vivant. Les cas de Marina Abramovic ainsi que d’Alexandra Pirici et Manuel Pelmus, in “Muséologies”, 8 (2015), 1, pp. 73-89. Nel libro l’autrice espone le principali caratteristiche di re-enactment e tableau vivant. Questi tipi di performance sono inclini a indurre modifiche nelle pratiche espositive sollevando questioni sulla relazione tra ricerca e creazione.
10 ragazze per Freud, Teatro Palladium – Università Roma Tre, in collaborazione con NUfactory (che ha curato anche il catalogo), 26 marzo-30 aprile 2012.
8
Sono state eseguite due versioni del ciclo With an Helmet, entrambe a Roma nel 2012: al Forte Prenestino e al MACRO Testaccio.
9
La performance, da me curata in collaborazione con Insideart, ha avuto luogo dopo un talk sul tema Degrado vs bellezza a cui sono intervenuti Maurizio Zuccari, Francesco Gallo e la sottoscritta in quanto organizzatrice per l’area di Roma e membro del team scientifico-curatoriale di Save the Beauty / Taranto chiama Italia, Italia risponde, progetto ideato e realizzato dalla galleria Rossocontemporaneo di Taranto.
10
La performance è stata poi eseguita anche al Museo MACRO di Roma, alla Casa della Cultura di Coimbra, al Museo Guggenheim di Bilbao e all’Instants Video di Marsiglia.
11
Questa performance, che ho curato con Anna De Fazio, è stata realizzata nell’ambito del primo incontro del progetto ideato da Veronica Montanino e Anna Maria Panzera Spazio, esistenza, materia. Per una ricerca sulla specificità [eventuale] dell’arte al femminile (https://www.arteventualmentefemminile.it). Alla tavola rotonda, oltre alle ideatrici del progetto, sono intervenute Chiara Mu, Valentina Piccinni, Carla Subrizi e Luisa Valeriani.
12
L’allestimento di questa performance è stato possibile grazie al supporto di Federico Trimarchi, che ha collaborato alla realizzazione della scenografia, di Cyrano New Media, che ha fornito il service video, di LPM – Live Performers Meeting e MAD – Museo d’Arte Diffusa, che hanno messo a disposizione le attrezzature tecniche, e Latus Creativity Lab per lo streaming video.
23
Michel Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971.
24
Jean-Luc Nancy, Dov’è successo?, Youcanprint Self-Publishing, Tricase (LE) 2014, p. 2.
25
Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Napoli 2005.
26
Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003.
27
Susanne Franco, Archiviare il futuro. I lasciti di Pina Bausch e Merce Cunningham, in “Danza e Ricerca. Laboratorio di Studi, Scritture, Visioni”, 6 (2014), 5, pp. 97-111.
28
Joseph Roach, cit. ivi, p. 104.
29
Diana Taylor, cit. ibid.
30
John L. Austin (Lancaster, 26 marzo 1911-Oxford, 8 febbraio 1960) è stato un filosofo e linguista inglese, teorico della funzione performativa dell’atto linguistico che si configura come un fare ed è legato all’azione, all’esecuzione di atti.
31
Cfr. Jonah Westerman, Between Action and Image: Performance as ‘Inframedium’, 20 January 2015, http:// www.tate.org.uk/context-comment/articles/between-action-and-image-performance.
13
Daniele Sirotti, attore e performer.
Nicolas Fourgeaud riporta alcune tesi di Auslander in De Marina Abramovic à Philip Auslander. Impasses de la répétition dans deux théories contemporaines de la performance, in “Marges”, 2013, 17, pp. 54-65.
14
Marina Abramović, Rhythm 0, 1974, Napoli, Morra Arte Studio.
15
Cfr. Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, II ed. rivista e ampliata, Editori Riuniti, Roma 2006. Teresa Macrì, Il corpo postorganico, Costa & Nolan, Milano 1996.
32 33
Barbara Kruger, artista e attivista americana della lotta per i diritti delle donne, è autrice di un manifesto del 1989 ideato in occasione della Women’s March a Washington.
16 17
Luisa Valeriani, Performers. Figure del mutamento nell’estetica diffusa, Meltemi, Roma 2009.
34
Cfr. Carla Lonzi (con Carla Accardi ed Elvira Banotti), Manifesto di Rivolta femminile, 1970 (https://www. internazionale.it/notizie/2017/03/08/manifesto-di-rivolta-femminile).
18
Eva Gerd, Presente remoto, a cura di Federica La Paglia, 2008, Fondazione VOLUME! di Roma.
35
Victor Turner, Dal rito al teatro, il Mulino, Bologna 1986.
19
La performance, che ho curato con Anna De Fazio, è stata realizzata in occasione del terzo incontro del progetto Per una ricerca sulla specificità [eventuale] dell’arte femminile (https://www.arteventualmente-femminile.it), ideato e curato da Veronica Montanino e da Anna Maria Panzera in collaborazione con il Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz – Città Meticcia, diretto da Giorgio de Finis. La tavola rotonda, che si è tenuta nell’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Roma il 6 aprile 2017, è stata introdotta dalla direttrice Tiziana D’Acchille, mentre la moderazione spettava a Veronica Montanino. Sono intervenute, insieme alle curatrici, Silvia Bordini, Stefania Galegati Shines, Susanne Kessler, Chiara Lecca e Claudia Salaris.
20
Anna Cavarero, cit. in Wlodek Goldkorn, Il corpo delle donne, luogo e simbolo di ogni conflitto, in “L’Espresso”, 30 dicembre 2015.
Il corpo delle donne
21
Cfr. Carl Gustav Jung, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, in Id., Opere, cit., 9, 1.
22
10 ragazze per Freud, cfr. supra, nota 7.
1
23
Lettera di Rosa Luxemburg scritta nel dicembre 1917 a Sonja, moglie di Karl Liebknecht, dal carcere femminile di Breslavia dove era rinchiusa.
36
Angela Vettese, s.v. Arte al femminile, http://www.treccani.it/enciclopedia/arte-al-femminile_(XXI-Secolo)/.
37
Wlodek Goldkorn, Il corpo delle donne, luogo e simbolo di ogni conflitto, in “L’Espresso”, 30 dicembre 2015.
38
Adriana Cavarero, autorevole esponente degli studi arendtiani e figura di spicco del “pensiero della differenza sessuale”, in una intervista rilasciata ad Alberto Romele il 17 gennaio 2013 (http://www.uncomag.com/ interviste/adriana-cavarero/), sostiene che gli omicidi di donne sono statisticamente in aumento e in Europa l’Italia è il paese che ha il numero più alto di femminicidi.
120
Nigredo Poesia è un incontro-happening realizzato in occasione della mostra Nigredo che ho curato con Barbara Collevecchio e Micol di Veroli, cui ha partecipato una quarantina di artisti. Con il patrocinio della
NOTE
121
24
Cfr. Simone Weil, Rosa Luxemburg. Lettres de la prison, in “La Critique Sociale”, 10, 1933.
25
Cfr. Jacques Derrida, Firma Evento Contesto, in Id., Limited Inc., Raffaello Cortina, Milano 1997, pp. 14-5.
26
52
La fondatrice del pensiero femminile della cura è Carol Gilligan, autrice del volume In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1982.
Pasquale Fameli, Vito Acconci e la sparizione dell’io, in “Figure”, 2014, 2, pp. 71-8, cit. p. 72.
53
Cfr. Rosi Braidotti, Madri mostri e macchine, manifestolibri, Roma 2005.
27
Format di arte contemporanea e residenze presso Tenuta La Favola a Noto, che ho ideato e dirigo con Valeria Valenza (https://www.bridgeart.it/).
54
28
Oggi è anche un libro pubblicato da Numero Cromatico (Roma) in tiratura limitata di 279 copie.
29
Si tratta dello spazio romano Canova 22, associazione fondata da Fiorenza D’Alessandro.
Mi riferisco a L’artista come rishi, progetto espositivo nato da un’idea mia e di Enzo Barchi e che ho curato con Mary Angela Schroth. La mostra collettiva ha inaugurato il 5 maggio 2011 presso il Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci” (http://www.museorientale.beniculturali.it/index.php?it/274/mostre/2/ lartista-come-rishi). Il catalogo della mostra, pubblicato da De Luca (Roma), è stato curato da me e da Manuela De Leonardis, con testi delle curatrici e di Achille Bonito Oliva e Massimiliano A. Polichetti.
30
Cfr. la “scrittura desemantizzata” di Tomaso Binga (Bianca Pucciarelli Menna).
55
Cfr. supra, nota 50.
31
Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1964.
56
32
Cfr. Nevio Gàmbula, La performance della parola, in “Le Arti del Suono”, 3 (2012), 5, pp. 18-32, spec. pp. 23-4.
33
Si tratta di una bi-personale con Baldo Diodato nell’ambito del progetto Gymnosofisti che ho ideato e coordinato con Enzo Barchi dal 2012 al 2014 presso la Bibliothé Bhaktivedanta di Roma, in collaborazione con il Comune. Il ciclo di mostre-incontri è stato frutto della sinergia dei curatori (oltre alla sottoscritta, Maria Arcidiacono, Manuela De Leonardis, Francesco Gallo, Guglielmo Gigliotti, Iacopo Nuti, Francesca Pietracci) e di più di sessanta artisti italiani e stranieri.
Il wu wei è un importante precetto del taoismo. Wu può essere tradotto come “non avere”, wei come “azione”. Il significato letterale è quindi senza azione o, meglio, non-azione. È parte fondamentale della regola wei wu wei (agire senza agire, agire senza sforzo). Lo scopo del wu wei è il mantenimento di un perfetto equili-brio, o armonia con il tao, e quindi con la natura.
57
A proposito del pensiero di Foucault, cfr. Andrea Muni, Il soggetto etico. Un’estetica della resistenza, in “Esercizi Filosofici”, 6 (2011), 2, pp. 388-402.
34
Il giardino e l'area circostante sorgono sui resti di un luogo sacro dedicato alle ninfe del III-II secolo a.C.
35
Sono due pagine tratte dal libro di Gaston Bachelard, La poetica dello spazio.
36
Cfr. Gina Pane, Lettre à un(e) inconnu(e), ENSBA, Paris 2004.
37
Presso Carrières de Lumières a Les-Baux-de-Provence.
38
Ho curato il progetto con l’assistenza di Caterina Assunti.
39
Project Room_Artist in Residence è il progetto di residenze creative che ho ideato e curato, a partire dal 2015, presso gli ambienti espositivi del Casale dei Cedrati, spazio polifunzionale nel parco capitolino di Villa Pamphilj.
40
La performance è stata presentata in occasione del finissage della mostra Waiting for the Moon a cura di Nero Gallery (Daphnée Thibaud e Giulia Capogna).
41
Di Ginevra Napoleoni e Massimiliano Siccardi, testo di Ola Cavagna.
42
Il “viaggio dell’eroe” per Jung è un archetipo dell’inconscio collettivo che definisce il percorso dell’Io per raggiungere l’autorealizzazione e l’individuazione.
43
Luca Longobardi ha composto ed eseguito live la musica anche per Pieghe #1 e Pieghe #2.
44
Seppure in metafora, è qui evidente l’allusione alla “ferita” autoinflitta di Gina Pane nelle sue performance che l’artista italo-francese considerava, più che un gesto autolesionistico e provocatorio, una necessaria frattura nel silenzio, il tentativo di stabilire un dialogo con l’Altro.
45
Ana Mendieta (L’Avana, 1948-New York, 1985) è stata una delle donne più significative nel panorama artistico contemporaneo e una delle prime artiste latino-americane ad avere avuto un ruolo centrale negli anni Settanta.
46
La teoria dell’attore “santo” di Grotowski è illustrata in Nuovo testamento del teatro, intervista rilasciata a Eugenio Barba nel 1965 (cfr. Luigi Allegri, L’artificio e l’emozione, Laterza, Roma-Bari 2014).
47
Cfr. supra, nota 2.
48
Performance a cura di Francesco Paolo Del Re che ha avuto luogo nel 2015 presso Interno 14 a Roma.
49
Installazione composta da teche, è stata prodotta con il supporto della Fondazione FSA e di Bridge Art.
50
La performance che ho curato con Anna De Fazio si è svolta presso la sala cinema del MACRO il 31 gennaio 2017 nell’ambito del progetto ideato da Veronica Montanino e da Anna Maria Panzera (cfr. supra, nota 11). Alla tavola rotonda, insieme alle curatrici, sono intervenute Michela Becchis, Silvia Giambrone, Laura Iamurri e Maria Antonietta Trasforini.
51
Michel Foucault, Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 3: 1978-1985, a cura di Alessandro Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 301.
122
NOTE
123
PER APPROFONDIRE LA BIOGRAFIA E L’OPERA DELLE ARTISTE
CREDITI FOTOGRAFICI Tiziana Cera Rosco Butterfly Sergio Sechi
Chiara Mu L’origine Salvatore G. B. Grimaldi – ACI & Galatea, Fabrizio Pizzuto
Laura Cionci La vita è un coriandolo courtesy artista
Francesca Fini
Tiziana Cera Rosco http://www.tizianacerarosco.it Laura Cionci http://lauracionci.wixsite.com/lauracionci Francesca Fini https://www.francescafini.com
Cry Me still dal video courtesy artista Fair and Lost Carlo Maria Causati Meccanimus Giorgio Sacher Mother Rhythm courtesy artista, Carlo Maria Causati Skin/Tones Jurek Kralkowski
Eva Gerd https://evagerd.com Silvia Giambrone http://www.silviagiambrone.com Tamar Hayduke https://qa-projects.com/tamar-hayduke-2 Chiara Mu http://chiaramu.com/it Ginevra Napoleoni https://ginevranapoleoni.tumblr.com Francesca Romana Pinzari http://www.francescaromanapinzari.com Paola Romoli Venturi http://www.paolaromoliventuri.com Alice Schivardi http://aliceschivardi.com Silvia Stucky https://silviastucky.wordpress.com
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Eva Gerd Viola/Purple courtesy artista, Giorgia Bombino
Silvia Giambrone Viste e riviste – Rosa Luxemburg courtesy artista, courtesy collezionista, Kristian Tacconi
Tamar Hayduke Oggi [Un luogo dove accadono i mondi] courtesy artista, Sofia Gimigliani
Ginevra Napoleoni Un quinto corpo Marina Luzzoli, Srdja Mirković, Massimiliano Siccardi Pieghe #1 Giorgio Benni Pieghe #2 Stefano Borsini, Ginevra Napoleoni, Massimiliano Siccardi
Francesca Romana Pinzari Memorie apocrife – All of Me Sergio Sechi
Paola Romoli Venturi We still da video courtesy artista, frame da video Floriana Pinto, Giorgio Sacher
Alice Schivardi Soffio Maria Silvia Santucci
Silvia Stucky Getterò in mare il cuore che ha qualche desiderio courtesy artista, Giorgio de Finis
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RINGRAZIAMENTI
Innanzitutto i miei ringraziamenti vanno alle artiste coinvolte: senza la loro pratica, il confronto e la comprensione, ma anche le divergenze e i conflitti – tutti elementi utili per allestire un percorso co-creativo – questo libro non sarebbe potuto esistere. Un affettuoso grazie alla mia famiglia per amarmi e sostenermi così come sono: con il mio spirito libero, le mie passioni, le assenze. Grazie a Sandrina Fersurella, dell’Associazione Italiana di Psicologia Analitica, per avermi introdotta anni addietro agli studi junghiani. Ringrazio poi con stima Luisa Valeriani alla quale ho sottoposto la lettura di parte dei miei scritti in fase germinale, per il suo caloroso incoraggiamento a perseverare nella mia impresa. Ma soprattutto il mio grazie a Sara Fina, amica di sempre, editor di fiducia che mi ha seguita nelle fasi, a volte caotiche, del progetto, aiutandomi a strutturare prima e a limare poi materiali eterogenei. Mentre scrivo mi mancano già i pomeriggi trascorsi insieme a lavorare sodo, accolta nel grembo della sua casa e rallegrata dalle sue vivaci e dolcissime “canette” Emily e Sarita. Il volume è stato realizzato con il supporto di Bridge Art // Contemporary Visions (https://www.bridgeart.it).
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Critica e curatrice di arte contemporanea, Lori Adragna organizza mostre ed eventi per spazi privati e istituzionali, che alterna a progetti indipendenti nell’ottica di un’interazione arte-comunità-territorio. Gli studi accademici letterari e artistici, di simbologia, di scienze psicologiche (nonché i laboratori di arteterapia tenuti all’interno di comunità per disagiati psicosociali) negli anni hanno centrato la sua attenzione sul processo creativo, relazionale ed espressivo, tra arte e alterità. È ideatrice del contenitore-ricerca dedicato alla performance Il corpo delle donne e cofondatrice e direttrice di Bridge Art, format di arte contemporanea e residenze. È stata consulente del Ministero per i Beni Culturali nella redazione di Memorabilia, edito da Laterza; collaboratrice-autrice per l’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani e content editor presso Editalia IPZS. I suoi testi sono pubblicati in enciclopedie, libri e cataloghi in Italia e all’estero. Scrive per numerose riviste e portali online specializzati nel settore artistico ed è autrice del blog Il femminile nell’arte. Uscirà a breve la sua ultima ricerca sugli archetipi nell’arte contemporanea (la Grande Madre).
Inside Art Autori Editoriale Dets srl www.insideart.eu Direttore della collana Guido Talarico Responsabili del progetto Elena Pagnotta Alessandro Caruso Progetto grafico Intornodesign ISBN 978-88-99893-05-7
Finito di stampare nel mese di Maggio 2018 a Viterbo dalla tipografia Gescom SPA
9 788899 893057
€ 18,00