Forme ibride | Ismaele Nones

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Ismaele Nones FORME IBRIDE

Il détournement diversione o depistaggio è quella pratica situazionista che tenta di inserirsi nelle maglie del reale per generare azioni di guastamento. Data una situazione comunicativa nella società dello spettacolo, si opera un lieve spostamento di senso o di contesto dalle conseguenze, però, tutt’altro che minimali. Come si sa, cambiando i rapporti e le relazioni tra elementi di per sé assunti, si possono ottenere risultati incredibilmente destabilizzanti. Così, osservando per la prima volta i lavori di Ismaele Nones, forse, ciò che ho pensato immediatamente aveva a che fare proprio con questa parola francese. All’interno del nitido trattamento iconico bizantino che molti di noi sono stati abituati a vedere tanto nelle tavole dipinte quanto nelle decorazioni delle chiese di tutti i tempi (sempre accompagnati credo da un leggero disagio per il loro schematismo dei secoli andati), i personaggi di Nones, pur rispettosi di quello stile, si trovano affaccendati in occupazioni tutt’altro che sacre, piuttosto attuali, calati in ambienti molto prosaici Imbarazzati ritrovi a bordo piscina, nudi femminili su poltrone di design, paesaggi urbani, tralicci elettrici, piastrelle da balconate di periferia, alberi di un anonimo lungomare ingabbiati in strutture di contenimento.

Si prova l’impressione di uno spostamento di baricentro che, come trovandosi su territori estranei ma di cui lo sguardo conserva una memoria confortevole e conosciuta, fa sì che ci si senta contemporaneamente a casa e in paesaggi inesplorati. Si tratta di un’operazione che viene spesso tentata da diversi autori, in alcuni casi anche specificamente rispetto alla figurazione bizantina, col fine di destrutturare e arricchire un contesto espressivo al contrario caratterizzato dall’atavica immobilità e codificazione. Ma se in altri esempi è la provocazione e la superficiale ironia a guidare una curiosa convergenza verso Bisanzio, in Ismaele Nones l’assunzione di questo stile ha più il sapore di un ritorno al paese d’origine, dopo alcuni anni formativi di sperimentazione più analitica e concettuale Si dice che quando si sta perdendo la bussola è bene ripartire dai “fondamentali”, così, il giovane artista trentino da qualche tempo ha abbandonato freddi diagrammi progettuali e architettonici (da un certo punto di vista ancora figli della formazione accademica) per rivolgersi a e ripartire da quello che conosce meglio: la bottega di famiglia, la gavetta come assistente decoratore e iconografo. Il padre, Fabio Nones, porta infatti avanti in prima persona questa tradizione, gestendo uno studio e decorando chiese e luoghi sacri in Italia e all’estero Arte come preghiera, dunque, rappresentazione come presenza del Divino, artista anonimo, tramite di un’immagine proveniente dal Cielo o dedotta dai modelli di coloro che, nei secoli, hanno avuto la visione originaria del prototipo

Ismaele, in fondo, guarda al mondo che lo circonda e lo affascina nelle forme che ha imparato a osservare e riprodurre sin da piccolo, come diversi altri artisti fanno. Ciò che, se si vuole, è davvero provocatorio non è poi tanto l’unire mondi contenutistici e formali così distanti quanto, piuttosto, operare quel distacco, recidere quel sacro collegamento, che nella pittura di icone ha da sempre fatto sì che il rettangolo dipinto non si riducesse soltanto a una bella immagine per ornare una parete vuota ma restasse sempre un accesso sicuro a Dio, una sua presenza concreta, porta regale che ci mette di fronte a questo universo immateriale e nel contempo lo lascia irrompere nel nostro mondo concreto. Soglia tra visibile e invisibile.

È questo un modo sentito e familiare per fuggire all’attualità delle cose e ripararsi in un ambito espressivo che assicuri una sua forma di intransigente indifferenza per il trascinarsi del mondo. In questo modo Nones dichiara il suo distacco dalle tematiche di più stringente attualità e da una pratica estetica al servizio dell’impegno e della militanza, anche se, a ben guardare, si nota come, utilizzando lo stile delle icone, l’autore affronti una serie di questioni che raccontano insicurezze, imbarazzi ed emarginazioni che hanno molto a che fare con la condizione sempre più fluida, espansa e senza centro dell’idea di corpo oggi. L’accettazione da parte del proprio gruppo (L’inadeguato, 2021; Volevo fare il bagno ma c’era un pavone, 2020), la precarietà e la difficoltà nel trovare l’occupazione desiderata (Mamma vado a fare l’operaio, 2021), il culto dell’immagine e il suo costruirsi per mezzo dello sguardo altrui (Lottatori, 2022; Emma I, II, III, 2021), la vita artificiale in tristi monolocali di periferia (Lungomare, Paesaggi, Uccelli in gabbia, 2021 2022). Lo spostamento linguistico è semplice e sofisticato allo stesso tempo rappresentare soggetti contemporanei, episodi personali o che suscitano il proprio interesse, nello stile iconico neo bizantino ma l’esito che se ne ottiene non è un vuoto formalismo o una semplice boutade, quanto un discorso che (inavvertitamente) parla anche di diverse condizioni quotidiane, appartenenti al mondo che ci troviamo a vivere, sempre in bilico tra immanenza dell’immagine e trascendenza della sacra raffigurazione.

Non è necessario neppure scomodare la storia personale di Nones per comprendere che questa operazione poteva difficilmente trovare un luogo estetico migliore di quello iconico, da sempre spazio ibrido e dispositivo complesso in cui, di fatto, può entrare tutto l’esistente materiale e immateriale anche solo per la continua dinamica di presenza assenza, visibilità invisibilità, che non smette mai di essere messa in atto al suo interno. Elio Franzini ha studiato in diversi saggi la significatività contemporanea dell’icona, mettendone in luce quell’incredibile stratificazione semantica che la rende un emblema per molte inclinazioni estetiche del Novecento.

La prima conclusione potrebbe dunque essere ovvia: il vero senso dell’icona non è affatto nella “purezza” e l’immagine ha un valore simbolico, al di là dei contenuti rappresentati, quando mantiene il suo carattere “ibrido”, quando cioè il rapporto in essa tra visibile e invisibile, spirituale e materiale, è ancora ambiguo e allusivo.

Ma l’imprevisto carattere spurio di tale espressione artistica diventa ancora più lampante quando si nota la sua vicinanza ai caratteri “ingenui” dell’insegna dipinta, della pittura che adorna spacci e negozi con finalità tutt’altro che spirituali. Così, si trovano affiancate le espressioni più auliche e più terrene sulla stessa superficie, da cui diventa gioco forza per un artista contemporaneo riconoscere spontaneamente l’attualità di un oggetto estetico così antico.

L’ibridazione che dunque conduce dall’icona all’insegna dipinta, e da quest’ultima, a opere che nuovamente pretendono (…) un valore iconico, è dunque un rapido, generico ma non inefficace, resoconto del divenire spirituale dell’immagine artistica, ovvero del suo costitutivo ondeggiare teorico tra sguardo e visione, visibile e invisibile, valore funzionale contingente e significato simbolico trascendente. (…) L’ibridazione diventa così la ricerca del senso complesso dell’immagine.

In fondo il lavoro di Ismaele Nones non tradisce per nulla la vera essenza dell’icona, organismo plurimo costantemente diviso tra materialità e spirito, come dice Franzini stesso, vera “forma ibrida” tra irraggiungibile pittura dell’assoluto e banale insegna dipinta, a dispetto della sua apparenza così unitaria e convenzionale. Del resto, a supporto di questa ritrovata molteplicità, non sono solo le icone bizantine a trovare corso nella ricerca di Nones, ma anche le prime diversioni giottesche verso un’arte narrativa, sprofondata, tridimensionale e terrena. C’è spazio poi per la pornografia giapponese degli shunga o per lo stimolo di grandi pittori contemporanei come Alex Katz o David Hockney, particolarmente significativi per la loro capacità di lavorare su una nuova modalità di restituzione appiattita della realtà percettiva e per la leggerezza con cui riescono a parlare dei loro tempi, evocando quella profondità della superficie su cui si fonda tanta grande pittura del Novecento. L’artista nel suo studio conserva una serie di testi e cataloghi che, se si medita attentamente sul suo lavoro, si scoprono essere alimento centrifugo e diversificato per un trattamento estetico al primo sguardo, invece, così monotematico E a ben riflettere persino l’iconismo a cui si rifà Nones non è certo quello degli albori della cristianità di epoca tardo antica, ormai conservato in musei o tesori diocesani, ma è, piuttosto, relativo a un’arte religiosa, ugualmente contemporanea, che nella confusione del mondo presente si è adattata a inedite esigenze decorative, architettoniche e di culto, trovando anch’essa nell’ibridazione la strada a nuove forme di figurazione e narrazione

Ismaele Nones, con la sua pittura accurata, ampia di possibilità pur nella ristrettezza dei mezzi, polisemica pur negli schematismi dell’ortodossia adottata, indaga esattamente questo senso complesso dell’immagine. Facendo ciò, fornisce anche una significativa rappresentazione dell’uomo e della donna di oggi, sempre sulla soglia (regale) tra sacro e profano Gabriele Salvaterra settembre 2022

Le citazioni sono tratte dal capitolo Forme ibride contenuto in: Elio Franzini, Fenomenologia dell’invisibile. Al di là dell’immagine, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2001, pp 109 111

Ismaele Nones (Trento, 1992) studia pittura all’Istituto d’Arte Alessandro Vittoria di Trento e, successivamente, dal 2013 al 2018, si forma all’Accademia di Belle Arti di Venezia, specializzandosi in scultura. Il suo vero apprendistato formativo avviene a fianco del padre che assiste nella sua attività di iconografo, coadiuvandolo alla realizzazione di opere pittoriche monumentali sia in Italia che all’estero. Dopo le prime sperimentazioni dal 2020 decide di impiegare il linguaggio appreso nella bottega di famiglia all’interno della sua ricerca contemporanea. Vive e lavora a Trento, il suo lavoro è rappresentato dalla galleria Lunetta 11 (Mombarcaro, CN).

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