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la Porta di vetro RIVISTA DI POLITICA E SOCIETÀ
Direttore Michele Ruggiero Anno V - N. 2 - 2018
TEC Editrice - Fossano
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la Porta di vetro Rivista di politica e societĂ Direttore responsabile Michele Ruggiero Coordinatrice Isabella Franzoi
Progetto grafico, fotocomposizione, fotolito e stampa: TEC ARTI GRAFICHE Srl via dei Fontanili, 12 - 12045 Fossano (Cn) www.tec-artigrafiche.it
Hanno collaborato a questo numero: Mercedes Bresso, Rino Forgione, Maurizio Jacopo Lami, Dario Pagano, Davide Rigallo, Emanuele Davide Ruffino, Michele Ruggiero, Pietro Terna, Daniele Viotti, Germana Zollesi. Grafica di copertina Marianna Zanetta
Numero chiuso in tipografia nel mese di dicembre 2018 Autorizzazione Tribunale di Torino n. 36 del 27 novembre 2013
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Indice
Prefazione
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Degrado del linguaggio, deriva del Paese MICHELE RUGGIERO
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Debiti, conti e pensieri sull’Italia PIETRO TERNA
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L’impresa di far impresa DARIO PAGANO
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Il Condono fiscale tra progressi e incertezze Intervista a Rino Forgione di MAURIZIO JACOPO LAMI
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Siamo ancora noi a decidere? EMANUELE DAVIDE RUFFINO, GERMANA ZOLLESI
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Risalire la china contro l’euroscetticismo MERCEDES BRESSO
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Europa: il ruolo del Partito Socialista Europeo DANIELE VIOTTI
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Gli Enti territoriali alla prova della progettazione europea. Rischi e sfide di fine legislatura europea. DAVIDE RIGALLO
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Gli autori
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Prefazione
La pubblicazione del secondo numero del 2018 de La Porta di Vetro coincide con il secondo appuntamento della nostra iniziativa sulla “indecenza di parlar di politica”, come l’abbiamo definita. Incontri promossi presso la sede di Argo, l’associazione culturale presieduta da Federico Dolce, che ringraziamo per l’ospitalità. Confronti dunque pensati e rivolti soprattutto a quei giovani disposti a combattere il clima dell’antipolitica che obnubila il pensiero per fare spazio a luoghi comuni e prevenzioni che non di rado scivolano in autentiche posizioni razziste e aggressive, alimentate da gruppi e movimenti che si sono proclamati o “sovranisti” o “populisti”. E in questa terra repubblicana che dal 2 giugno 1946 è governata dalla rappresentanza istituzionale che nasce dal voto libero, quegli stessi gruppi e movimenti operano ormai alla luce del sole per picconare valori etici, morali e politici fissati dalla nostra Carta Costituzionale. Un arrembaggio, metaforicamente all’arma bianca, che approfitta della crisi dei partiti che non riescono più a svolgere la loro funzione di collegamento e mediazione con la società e di rappresentanza degli interessi dei cittadini. Una crisi che si è trascinata dietro con un effetto domino anche quei corpi intermedi – sindacati, rappresentanti delle professioni - che hanno svolto per decenni il ruolo di cerniera tra i bisogni della società e la ricerca degli strumenti da mettere a disposizione per offrire risposte concrete a quei bisogni. Il progetto de La Porta di Vetro, frutto di un lavoro d’équipe su proposta di Pietro Terna e Gian Paolo Zanetta, ha preso avvio il 15 novembre. Si è trattato di un primo momento di conoscenza per delineare un percorso, definire gli argomenti di confronto, stabilire date e tempi. Un metodo dunque che va controcorrente se paragonato a chi grida nei talk show o sragiona sui social. Del resto, ad alcuni può persino apparire indecente ragionare pacatamente di politica, partendo dall’analisi dei problemi. Il proposito è quello di chiedere ai giovani che partecipano all’iniziativa di esporsi – con le loro capacità di analisi – essendo i protagonisti di una serie di incontri aperti al pubblico, in particolare a quello de La porta di vetro, ma anche di altre associazioni. 7
Siamo sicuri che emergeranno competenze e anche impegni personali ad occuparsi della politica, come difficile arte della scelta e come responsabilità per tutti, a vari livelli e in ambienti diversi. Dunque si riprende, o meglio ci si ripromette di ragionare di politica, che è uno dei motivi costituenti de La Porta di Vetro, tanto negli incontri quanto nella rivista che ne è diretta emanazione. Ragionare e non urlare, accusare, offendere, sovrastare, discriminare. Ragionare con pacatezza, è quasi – nel mondo degli isterismi politici – un’indecenza, per l’assoluta e sfacciata mancanza di rispetto nei confronti dei costumi imperanti. Ma, come si è detto sopra, la Porta di Vetro va controcorrente. E per essere indecenti (a rovescio) si è scelto di ritrovarci tra generazioni diverse di persone interessante al bene comune, guardando soprattutto a chi ha di fronte a sé ancora molti anni di attività e di impegno e ha voglia di partecipare attivamente alla vita della nostra società. In che modo vogliamo ragionare: con il dialogo ordinato su temi che consentano di valutare – per nella differenza delle interpretazioni e visioni - quel che sta succedendo intorno a noi, dalla scala locale a quelle nazionale e internazionale. Ogni incontro è dedicato a un tema e inizia con due interventi programmati, con visioni non coincidenti sull’argomento, anche se non necessariamente opposte. La politica richiede dettagli, analisi sottili, comprensione profonda. I temi: iniziamo con la grande questione della complessità della società contemporanea; complessità che allontana dal cittadino il contenuto dei temi che si enunciano; complessità che si contrappone alla estrema semplificazione che (si ritiene) sia pretesa da chi legge e scrive sui nuovi mezzi di comunicazione. Quali i danni per una vera democrazia? E la democrazia, come si declina in termini contemporanei? Ecco il secondo tema, quello della democrazia deliberativa, modalità antica che riaffiora, o deve riaffiorare, nella nostra realtà. Terzo tema, dei tanti che affronteremo: il reddito di cittadinanza, come materia di profonda riflessione per le tantissime implicazioni che porta con sé. A grandi linee i temi che trovano un primo abbozzo nel numero che presentiamo, aperto da un’analisi sul mutamento del linguaggio in politica, mutamento che arriva da lontano e che rischia di spingere tutti noi distante da quei valori di libertà e rispetto di comunità che riteniamo difendere. A seguire la parte economica e infine, una serie di interventi che analizzano dalla finestra europea del Parlamento dell’UE i cambiamenti avvenuti nei partiti politici rappresentati a Bruxelles e Strasburgo e le prospettive dei partiti socialisti e del Pd italiano e, in prospettiva, il ruolo delle comunità locali, di cui si fa portavoce l’AICCRE, nel rapporto con l’Europa.
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Degrado del linguaggio, deriva del Paese di Michele Ruggiero
Premessa Nel Bel Paese il pensiero sembra ormai diventato un elemento semiclandestino della vita politica, da coltivare in stanze remote, come carbonari dell’Ottocento. Almeno è questa l’impressione che si ricava dai primi sette mesi di governo gialloverde congestionato da messaggi entusiastici, annunci e promesse mirabolanti, in cui il trionfalismo per ciò che verrà è direttamente proporzionale alla decadenza del linguaggio. Un impoverimento diventato norma, anziché eccezione, più che riprovevole. Non stupiamoci. A quest’aporia comportamentale si è arrivati per gradi. Il noto principio della rana bollita, utilizzato dal novantenne Noam Chomsky, uno dei più grandi pensatori viventi, autentica coscienza critica dell’America, spiega con efficacia la deriva in cui precipita una società che progressivamente espunge per passività e indolenza i suoi valori etici e morali con gravi ripercussioni sullo stato di salute della sua democrazia. Ora, che l’Italia si ritrovi nella stessa condizione della rana immersa in una pentola d’acqua riscaldata a fuoco lento è fuori di dubbio. Rimane soltanto da sperare che la temperatura non abbia raggiunto il livello di precottura e augurarsi che sappia esibirsi in un salto acrobatico per ricucire i fili smagliati della democrazia. In alternativa, ci si può affidare o a madre natura o ai miracoli, consapevoli che gli effetti collaterali potrebbero risultare anche pericolosi: chi è pieno di rancore non sempre ha la lucidità per non svendere la democrazia. Osservando ciò che succede in tante parti del mondo, l’effetto è da mettere in conto. Il tempo non gioca però a favore del nostro Paese. Gli ultimi fenomeni della politica (in Italia come in Europa e in altri continenti) “populismo” e “sovranismo” in ordine di apparizione, si sono arrampicati come l’edera sui muri 1
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scrostati di un sistema sordo e irragionevolmente portato a credere di mantenere lo status quo con la stessa demagogia che oggi si rimprovera a chi comanda oggi. Si concorda che le parole hanno perduto peso specifico e serietà nel quotidiano come nella politica. Si dimentica però di aggiungere (forse per carità di patria) che la degenerazione è avvenuta sotto l’occhio complice di chi l’ha negata, di chi non ha saputo preventivamente correre ai ripari, di chi si è illuso di eternizzare la società, secondo schemi immutabili, in nome di un ordinario conformismo, vilmente per attendismo, mentre i cambiamenti procedevano veloci e gli effetti diventavano a loro volta cause, in un corto circuito perverso. Se è l’uso che sviluppa l’organo, cioè il pensiero, non è improbabile che lo stesso sia portato ad agire in maniera distorta e deteriore all’interno di una società narcotizzata. In passato non era infrequente preoccuparsi di quel fenomeno definito “analfabetismo di ritorno”. Sic stantibus rebus, il fenomeno è sulla soglia di un poco edificante “analfabetismo di sola andata”… E lo stato della scuola, che ha subito continui tagli al bilancio e profondi tagli all’autorevolezza del corpo insegnante, mal pagato e tutelato, è una spia tutt’altro che secondaria del malessere sociale, non induce all’ottimismo. Se crolla il ruolo della scuola pubblica nel nostro Paese (le scuole, invece, intese come manufatto, purtroppo crollano da tempo e provocano morti e feriti), a ruota crollerà anche l’impalcatura dei valori morali ed etici che essa ha saputo trasmettere di generazione in generazione. Difesa dell’esistenza di una Costituzione democratica, fondata sul lavoro, in primis.
Il degrado della parola Il degrado di una società si misura anche della svalutazione in cui precipitano le parole e dalla disattenzione che poniamo alla loro potenza nel ferire, se non a uccidere, come ha ammonito papa Francesco nella sua catechesi del 17 ottobre. L’insulto uccide ha detto il Pontefice, citando un brano del Vangelo, che si richiama alla rivelazione di Gesù Cristo: anche l’ira contro un fratello è una forma di omicidio. Ma Gesù non si ferma a questo, prosegue papa Francesco: “nella stessa logica aggiunge che anche l’insulto e il disprezzo possono uccidere. E noi siamo abituati a insultare, è vero. E ci viene un insulto come se fosse un respiro”. Minacce, ironie sul filo del dileggio, offese, insulti, sono i veri padroni di casa del linguaggio quotidiano e politico, privato e pubblico, che da decenni alimentano un vasto repertorio di battute, di autoreferenzialità estreme con iperboliche attribuzioni di capacità, di bravura sotto l’egida di una ricchezza di soluzioni impossibili con cui narcotizzare i cittadini, le rane della pentola. Silvio Berlusconi, dalla sua discesa in campo nel 1993, è colui che prima di ogni altro ha concimato quel terreno arato con certosina pazien4
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za: proverbiali le sue barzellette per accorciare metafisicamente le distanze tra Potere e Popolo, alternate a sostantivi gettati come fango sugli avversari politici (“comunista!, comunista!”) in un perfido gioco da poliziotto buono e poliziotto cattivo. Per non parlare del “Contratto con gli italiani”, artificio demagogico fuori dalla Carta costituzionale, che ha trovato in Di Maio e Salvini i suoi degni epigoni con il “Contratto di governo” siglato nel maggio scorso dai due, in nome del Movimento cinque stelle e Lega. Un salto (che sconsigliamo alla rana) nel passato lugubre della famosa massima attribuita a Mussolini “È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende”. Del resto, la coppia Di Maio-Salvini (77 anni in due) sembra più predisposta, anche per naturali vantaggi anagrafici (come lo è stato per Matteo Renzi), ad approfittare di un’energia giovanile, che neppure Berlusconi possedeva all’apice del suo potere (58 anni), per imporre una visione muscolare nei rapporti con le piazze (l’una del Movimento, l’altra della Lega) indifferente alle esigenze della democrazia che impone una fatica quotidiana e un giudizio costante per essere pienamente realizzata e praticabile. 5
La lingua universale delle emozioni Non deve sorprendere dunque se una parte dei cittadini non si riconosce più in questo Paese, e non solo per ragioni d’età o perché le piazze tendono a moltiplicarsi e a spuntare come funghi, utilizzando tutta la gamma dei colori dell’iride, che non rispondono più né nella domanda, né nella protesta, a quelli tradizionali. I colori nella loro diversità non riflettono però idee o ideologie, come nel passato, ma emozioni espresse da una babele di lingue, tutte mal parlate e, quel che peggio, che nessuna parte vuole imparare dalle altre. In fondo, la lingua universale delle emozioni può fare a meno di grammatiche, sintassi, semantiche, costruzioni logiche e del periodo. Le emozioni si veicolano anche con il corporeo, il movimento della testa o degli arti, con lo sguardo, con la sillabazione sincopata: sì, no, le sillabe più à la page nell’attuale politica (le meno indicate dai filosofi), che offrono le migliori e rapide opportunità di cambiamento di casacca e di campo, senza spiegazioni. Del resto, di emozioni si può parlare in tanti modi. Allo stesso modo si possono sperimentare e vivere in modi diversi: a un estremo vi sono le emozioni non pensate e agite in modo spontaneo, talvolta persino violento, senza alcuna elaborazione interna con l’effetto di far sentire colui che le vive padrone del suo mondo e giudice di ogni situazione che impatta sulla sua persona; all’estremo opposto le emozioni pensate espressione di legami tra vissuti interni alla persona e letture inerenti alla propria vita e al mondo circostante nel rispetto di una socialità condivisa e rispettata. Il linguaggio nella sua accezio11
ne più nobile ha a che fare con la possibilità di intercettare i nostri pensieri (i pensieri di ognuno), nel loro intreccio tra emozioni e cognizioni e di rivolgerli e condividerli con un sociale che, se in grado di recepirli e pensarli, sarà in grado di diventare volano di una visione culturale comunitaria. Una visione cioè non orientata alla creazione di leader bensì alla creazione di pensieri condivisibili poiché ci si è concesso il tempo necessario a sedimentarli per renderli trasformativi in più passaggi di confronto. All’opposto, le emozioni, seppur importanti quando coniugate con il pensiero, tendono a penalizzare quest’ultimo se il mezzo di condivisione è un linguaggio unicamente emozionale, impoverito nel suo portato comunicativo. Questo spiega perché la povertà del linguaggio si presta ad avvicinare le masse nei momenti in cui queste per un maggiore bisogno di rassicurazione (nelle crisi e nei cambiamenti accelerati sul piano sociale) sono suggestionabili da frasi dirette, che semplificano la lettura della realtà e parlano direttamente alla pancia e alle emozioni, senza compromesso alcuno con l’intelletto. Compromesso – qualora ve ne fosse bisogno di ricordarlo - che rimane il valore aggiunto di ogni democrazia. “Quanto più insistente è la critica – scriveva Hans Kelsen, uno dei più grandi giuristi degli anni Trenta, studioso della Repubblica di Weimar – quanto più consapevole dei propri fini l’opposizione della minoranza, tanto più i deliberati della maggioranza acquistano il carattere di compromessi (in corsivo nel testo N.d.A), e il compromesso è appunto ciò che caratterizza la politica della democrazia”. Lontani anni luce, dunque, dalle passate e continue lamentazioni di Berlusconi, trasformatesi in un estenuante ritornello all’insegna di “Non mi fanno lavorare” rivolto al Paese da ogni pulpito. Esternazioni che hanno catturato nel passato e di recente anche Renzi, in particolare in chiave interna al Pd. Ma l’unico capace di riproporre con freschezza e frequenza martellante le esternazioni su più piani e a giocarle con disinvoltura e spregiudicatezza a 360 gradi è sicuramente Matteo Salvini. Inimitabile. Un paio di esempi ancora vivi sono sufficienti a rendere l’idea di come vada all’attacco il leader della Lega. A metà ottobre, sbotta coi magistrati, sempre sulla vicenda della nave Diciotti: “Ma chiudetela qui e lasciatemi lavorare”; ad inizio dicembre apostrofa gli imprenditori, poco teneri con le misure adottate dal governo a favore dell’occupazione, con un brusco “lasciatemi lavorare, voi zitti per anni”. Insomma, un’invocazione che tende a raccogliere il comune sentire di chi esplicitamente o intimamente per interesse, educazione, cultura, ritiene che il confronto sia disturbante. L’esatto opposto delle regole democratiche. Eppure le stesse frasi lette e rilette sui giornali finiscono per diventare colore, se non addirittura patrimonio folcloristico del personaggio Salvini. Ma se per un attimo si fuoriesce da questa rappresentazione per così dire buonista, allo6
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ra appare evidente che a monte c’è la volontà di ridimensionare l’avversario, di proiettare all’esterno in maniera incontrovertibile ordini di grandezza a lui sempre favorevoli e da usare su più tavoli per l’opinione pubblica. L’atteggiamento verboso e platealmente iroso praticato con mondo confindustriale, per esempio, non si è limitato a colpire una parte sociale, ma indirettamente ha spiazzato anche chi il mondo del lavoro lo rappresenta a titolo istituzionale, cioè il ministro del Lavoro Luigi Di Maio, già costretto a giocare di rimessa a causa del noto “infortunio” familiare: la denuncia di lavoro “in nero” consumatosi nell’azienda di suo padre. Disavventura antica riaffiorata dal pedigree famigliare che ha tolto per qualche giorno il sorriso dal volto di Di Maio junior, e raffreddato gli aut aut a colleghi di governo tiepidi, come il ministro dell’Economia Giovanni Tria, sul reddito di cittadinanza. Proverbiale la sua sfuriata, a metà settembre, con allegato invito al titolare del dicastero economico di togliere il disturbo. Episodi a getto continuo che i media hanno registrato sul fronte grillino quasi per inerzia, in assenza di argomenti seri che non fossero le polemiche con l’Ue sul bilancio.
Lo scontro con l’Unione Europea Il braccio di ferro sulla manovra economica con i commissari di Bruxelles su frazioni di percentuali si è rivelato una sorta di cartina di tornasole per comprendere quale sia il concetto di democrazia inalato dalla diarchia che governa l’Italia. Una trattativa che paradossalmente si è sbloccata, dopo mesi di tuoni e fulmini contro la procedura d’infrazione ventilata dall’Ue, di sortite muscolari di Salvini – tra le tante “L’Europa può mandare anche Padre Pio, ma io la legge Fornero la smonto pezzo per pezzo” – con la decisione di mandare avanti ad inizio il presidente del Consiglio Conte, non ancora bruciato con Juncker e Moscovici, e dunque con tutte le carte in regola per aprire un dialogo costruttivo, peraltro intavolato ufficiosamente da palazzo Chigi nel G20 di Buenos Aires sulla base di un deficit al 2 per cento. Luci di scena traslocate momentaneamente sulla figura di Conte, anche se a martedì 18 dicembre, il barometro sui conti non dà segnali di bonaccia, con l'Europa che continua a tenere sotto scacco Roma con la procedura di infrazione che penzola come una spada di Damocle. Spada impugnata dai tecnici della Commissione europea che indagano su quei numeri mai del tutto illuminati dalle garanzie avanzate dell'Italia. Eppure, settimane fa l'esecutivo non si era trattenuto dall’ennesimo e roboante annuncio sulla manovra economica definita “dirompente” e in grado di evitare la terza recessione ventilata sulla base dei dati Istat, sebbene lo spread abbia bruciato una fetta rilevante della ricchezza del Paese che nel terzo trimestre dell’anno ha marciato su se stesso, con il 13
Pil fermo sullo zero, mentre l’asta dei titoli di Stato ha subito una brusca impennata del rendimento (3,25 per cento) per essere accolta dagli investitori, allertati dai maggiori rischi che corre l’azienda Italia. Effetto costoso, se si getta un’occhiata alle spalle, ai giorni d’estate, del marcamento a uomo del Movimento cinque stelle sul ministro Tri nella vana speranza di convincere il dicastero economico a mantenere il deficit sul 2,9 per cento. Un miraggio incompatibile con la prova di serietà che ci chiedeva in quel frangente l’Europa e i mercati finanziari, pagato salato. Un prezzo su cui è calato e continua a calare il silenzio, oscurato da successi “parolai” incompatibili con la realtà tratteggiata dall’Istat: 1) aumento della disoccupazione, 2) calo della domanda interna, 3)riduzione del fatturato delle industrie. Un triangolo nero che non è un buon viatico per superare le riserve della Commissione Europea indisponibile ad accettare il Documento programmatico di Bilancio (DPB) come l’ennesimo libro dei sogni, non dissimile da quelli presentati da Mattei Renzi nel 2016 e nel 2017, fondati su entrate di privatizzazioni, mai realizzate pienamente. Eppure, quando il ministro Savona ha provato ancora di recente a dare serietà alle affermazioni dell’esecutivo, ammettendo che “la situazione del Paese è grave”, Salvini lo ha letteralmente placcato e come infilato in una camicia di forza per ascoltare le sue sicurezze: “Quello che stiamo facendo lo stiamo facendo per gli italiani, quindi io sono convinto di fare ciò che è bene per l’Italia. In Europa io non faccio la voce grossa, rivendico il diritto degli italiani ad andare in pensione, lavorare e curarsi”. Promesse encomiabili, ma come si realizzeranno e a spese di chi?
Insulti e dileggio nel confronto politico Sulla scena politica dell’Italia Repubblicana l’insulto o il linguaggio focoso a volo radente o in picchiata sul triviale per aggredire, dileggiare, irridere, insultare l’avversario non sono mai stati ospiti indesiderati, sgraditi. Persino un personaggio politico della statura di Palmiro Togliatti, fine intellettuale incline a manifestare la propria superiorità culturale con artisti, filosofi, letterati, cadde tra le braccia della volgarità – se tale si può classificare, considerati i nostri tempi – liquidando il suo avversario politico durante l’accesa – per usare un eufemismo - campagna elettorale al voto del 18 aprile 1948 con una frase rimasta famosa: “Voglio comprarmi un paio di scarponi chiodati per dare un calcio nel sedere a De Gasperi”. Battuta casta che fa giustizia anche delle intemperanze del personaggio televisivo “cintura nera” di turpiloquio: quel Vittorio Sgarbi che esaurite le sue riserve (notevoli) di epiteti, nelle situazioni estreme cerca il rilancio dell’audience con una scarica di “comunista! comunista!” sul malcapitato di turno. E, in effetti, la sortita di Togliatti 14
sembra quasi appartenere di diritto a quel gran canovaccio della commedia politica all’italiana tra comunisti e Democrazia Cristiana che ha avuto il suo eponimo in Giovannino Guareschi, inventore di una proiezione domestica dello scontro Pci-Dc con i suoi eroi, il parroco don Camillo e il sindaco comunista Peppone, acerrimi nemici fuori, nel contrasto quotidiano, quanto vicini nelle traversie intime e personali. Un’avversione dunque temperata, più figlia di steccati ideologici, di mondi contrapposti e inconciliabili che dell’idiosincrasia personale, secondo la visione romanzata di Guareschi che nella realtà era comunque un anticomunista viscerale, quanto uomo e scrittore di grande coerenza. Condannato per diffamazione ai danni proprio di Alcide De Gasperi, Guareschi rifiutò di procedere nel giudizio di appello e di chiedere la grazia. Scontò la sua pena in carcere. Altri tempi, altre tempre rispetto a chi, reiteratamente colpevole, oggi usa ogni sotterfugio per sottrarsi alla pena, non ultimo lo scudo della prescrizione derivato dalla lentezza della giustizia. Ma “l’avversione” esercitata nel passato faceva leva su contenuti comunicativi integrati nel sistema dei partiti politici di massa diversi rispetto ai partiti o movimenti personali odierni. La severa selezione dei quadri dirigenti facilitava poi una grammatica e un lessico politici aderenti o meno aleatori possibili rispetto al piano di realtà, anche nella rappresentazione della propaganda e delle promesse preelettorali. La serietà e lo stile nell’uso delle parole diventavano così il presupposto fondamentale di una “carriera” che a sua volta diventava garanzia individuale per gli elettori. Non è casuale che i curricula di ieri premiassero l’esperienza professionale e politica nella rappresentanza istituzionale parlamentare, mentre quelli di oggi danno un’impressione di prêt-à-porter, che a priori esclude la competenza, come se questa fosse un fattore di cui vergognarsi. Un processo di svalutazione della competenza che arriva da lontano, cui ha dato involontariamente una forte impronta di legittimazione l’inchiesta Mani pulite (1992) condotta dalla Procura di Milano. Un uragano mediatico e giudiziario che avrebbe incubato per poi partorire nell’immaginario collettivo il primo difensore del Popolo contro le prevaricazioni della Casta (ben prima dell’attuale presidente del Consiglio Giuseppe Conte), quell’Antonio Di Pietro, magistrato diventato negli anni successivi capo politico con un suo personale partito (Italia dei Valori). Nel 1994, l’allora cavaliere Silvio Berlusconi, dominus politico di Forza Italia, fu però il primo a concretizzare su scala nazionale, per poi applicare il suo marchio di fabbrica l’anno successivo al voto locale, l’arrembaggio dei “dilettanti” al Parlamento (con largo anticipo sul Movimento Cinque stelle) con cui si sostituiva la competenza con l’assoluta fedeltà al capo. 7
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La forza induttiva della televisione Uno stile che dopo l’uomo di Arcore ha avuto altri e altrettanto bravi, cinici e scaltri epigoni, la cui caratura d’esperienza politica ha dato un altro fiero colpo alla competenza: in ordine d’apparizione sulla scena politica Grillo, Renzi e Salvini. Tutti e tre a loro modo personaggi televisivi. Il primo, comico di professione, emarginato nella seconda metà degli anni Ottanta dalla Rai per la sua disarmante ironia sulla classe politica (sinceri “vaffa” truccati da battute al vetriolo), in cui ha fatto le prove generali per mandare nell’etere il suo vero proposito: la distruzione in toto delle classi dirigenti, indipendentemente dall’ideologia, destra, sinistra, centro, indifferente al dopo, al che cosa fare sulle macerie delle istituzioni. Un Conan il barbaro all’italiana Grillo che di recente, in un video postato sul suo blog, con il volto coperto da una maschera, si è riproposto – lui garante del M5S - come coscienza critica del movimento, interrogandosi sui destini della politica nazionale: “Arriveremo a non capire più chi siamo, dove siamo e cosa facciamo […] Non sappiamo dove andiamo, cosa facciamo e cosa stiamo pensando. Aspettiamo questo Godot”. Domande che lo portano a chiudere il cerchio con una provocazione, assecondando un ritorno alla commedia dell’assurdo: “Grazie a tutti… non ho capito cosa ho detto, ma è lo stesso”. Uscita di scena da guitto che rivela, dietro la maschera ridotta a mimica fissa, la predisposizione a rispondere all’attesa collettiva del Movimento con un nonsense, un luogo comune adatto a tutte le stagioni. Conclusione finalizzata alla conquista (certa) di uno spazio sui media (gli stessi detestati) che farà titolo per non più di 24 ore, prima di trasformarsi in spazzatura mediatica per inceneritore. Un destino, quello dell’autodistruzione di parole inconsistenti elevate all’ennesima potenza dal web, che è la condizione sine qua non per distruggere o spezzettare il pensiero altrui. Operazione che può essere facilitata da e se gli avversari politici, come i personaggi di “Aspettando Godot”, resteranno inanimati, immobili, nella speranza epifanica di un evento che dovrebbe prima o poi modificare i rapporti di forza. Condizione che si è cristallizzata nel Pd, prigioniero dell’idiosincrasia verso il suo stesso partito di Matteo Renzi 8
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Avanti con le promesse Del resto, sono proprio i due Matteo, Renzi e Salvini, il prodotto visibile di come si possa beneficiare dell’esperienza estemporanea del mezzo televisivo: concorrenti di quiz sulle reti berlusconiane, passarono poco più che ventenni dall’anonimato alla fama rispondendo a domande banali in due settimane. Una libera docenza in notorietà conquistata sul campo che per 10
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effetto transitivo – e con ottimi risultati personali – hanno applicato alla politica nell’era del web, dei social, di un formulario lessicale pervasivo ed efficace in misura direttamente proporzionale alla rapidità, stringatezza e, in alcuni casi, violenza esplicativa delle parole, in una continua sarabanda di un immaginario dialogo a distanza con interlocutori ipotetici da convincere, come in un messaggio commerciale di una merce qualsiasi. E senza preoccuparsi della veridicità o della fattibilità delle cose affermate. Una tecnica che domina l’attuale governo, in cui il vice presidente del consiglio Luigi Di Maio, leader politico del Movimento cinque Stelle, annuncia il 28 settembre, affacciandosi dal balcone di palazzo Chigi, ostentando braccio e pugno chiuso a mo’ di vittoria raggiunta, che “oggi aboliamo la povertà”, chiaro riferimento all’accordo sul reddito di cittadinanza, rivendicazione al primo posto nell’agenda delle promesse dei pentastellati in campagna elettorale. Proposito di per sé auspicabile, quanto apodittico nella sua formulazione all’indicativo del tempo presente del verbo abolire, perché non corrisponde minimamente alla sua praticabilità. Si tratta, infatti, dall’accordo sul Def, il documento di economia e finanza, che a distanza di quasi tre mesi non è ancora stato approvato dalla Commissione Europea, come abbiamo ricordato poco sopra. Uno scontro sulle cifre che perdura ed ha acceso la polemica verso i valori interni all’unità dell’Europa, in cui l’altro vicepresidente del Consiglio Salvini nel dichiararsi “sovranista” ha promosso fino all’esasperazione il suo hashtag “Gli italiani prima di tutto” e Di Maio si è distinto sottotraccia per qualche punzecchiatura a effetto contro il nemico di turno, attento a non farsi scavalcare nei toni e nelle parole della protesta dal suo omologo leghista. Entrambi, comunque, fermi ai primi di dicembre nello sconfessare Giuseppe Conte sui tempi d’introduzione del reddito di cittadinanza – a marzo 2019 anziché a giugno, secondo il piano delineato dalla presidenza del Consiglio - a dispetto dell’incerta copertura finanziaria e dell’esito negoziale con Bruxelles. Guardato in uno spazio temporale che va dalla campagna elettorale ad oggi, l’indisposizione a coniugare proposte (promesse) politiche alla realtà è il tratto dominante che accomuna, plasma e cementa il governo gialloverde. Reddito di cittadinanza e riforma del sistema pensionistico (passato nel lessico politico in maniera ingenerosa e spregiativa come Legge Fornero), per esempio, sono stati e sono i pilastri su cui il Movimento cinque stelle e la Lega di Salvini hanno edificato il loro architrave propagandistico. Una sfida alla legge di gravità sul piano finanziario, poiché è quanto di più evidente che sono in antitesi all’esigenza di contenere il debito pubblico che fa dell’Italia l’anatra zoppa dell’Unione europea rispetto alle sue potenzialità sociali ed economiche. È probabile, e se avessimo la sfera di cristallo saremmo pronti a giurarlo, 11
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che le due proposte potranno ricevere il segnale di verde dal Commissario europeo per gli affari economici e monetari Jean-Claude Moscovici soltanto a patto di diventare transitorie e non strutturali nel Def. Nulla di straordinario che a quel punto sia Di Maio, sia Salvini, inneggeranno alla vittoria, indisponibili a valutare però i costi/benefici (acronimo ACB) per il Paese di una soluzione transitoria che sottrarrà risorse finanziarie destinabili a investimenti produttivi. Si è citata non a caso l’analisi costi-benefici. L’ACB, infatti, non è mai stata tirata in ballo dal governo, contrariamente al completamento delle opere pubbliche, Tav in primo luogo, nonostante l’impatto non irrilevante sulla manovra di politica economica. Il ritocco all’acceso alle pensioni gode sulla carta di un fondo pari a 6,7 miliardi nel 2019 e a 7 miliardi negli anni seguenti. Numeri che però hanno sollevato obiezioni da più parti, in primis del presidente dell’Inps Tito Boeri, riluttante a credere che i costi del primo anno di applicazione saranno inferiori a quelli successivi. In ogni caso, con la Lega restia a “mettere le mani nelle tasche degli italiani” e il Movimento cinque stelle obbligato a seguirne le orme per non vedersi contestare il reddito di cittadinanza, il ministro Tria dove mai potrà trovare la copertura se non aumentando il debito pubblico? Di cui faranno le spese, naturalmente, nuove generazioni.
L’odio, elemento di coesione Siamo ancora gli stessi del film del 1964, “Italiani brava gente”? C’è da domandarselo ascoltando il linguaggio di Salvini, che di giorno in giorno tende a inselvatichire le relazioni umane con le sue iniziative contro i migranti e la legge nota come “della sicurezza”, tesa “esclusivamente a rendere sempre più grama la vita degli immigrati, buoni e cattivi, meritevoli e marginali”. O le spiegazioni date alla legge “sulla legittima difesa” pensata come, se vivessi mo in un Paese di frontiera, un Far West dove “le pistole dettano legge”, in cui i quartieri periferici e non delle nostre città metropolitane si trasformano al calar della sera in tante sfide all’Ok Corral. Città in cui le persone non esitano a dichiarare di viversi la pistola in casa come “una scappatoia”, una via d’uscita a potenziali aggressioni, tralasciando il rischio di ritrovarsi in casa un’arma che può diventare anche una via d’entrata a reazioni istintive e fuori controllo. O altre che non escludono di essere pronte a sparare “per proteggere i miei”. Che il Paese non sia più quello di “Italiani brava gente” è scontato. La domanda semmai da porsi è quanto, come e in cosa sia cambiato, rispetto all’epoca in cui Giuseppe De Sanctis, regista di pellicole famose del neorealismo a sfondo sociale, da “Caccia tragica” (1947) e “Riso amaro” (1949) “Non c’è pace tra gli ulivi” (1950), raccontava la storia di un reparto dell’Ar12
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mir, l’armata che Mussolini mandò nell’estate del 1941 in Unione Sovietica a rafforzare l’esercito di Hitler: un gruppo di soldati che rifiuta la violenza e la prepotenza dei nazisti e che tratta con umanità i prigionieri dell’Armata rossa. Grazie a quel film di un regista comunista , gli italiani hanno vissuto per decenni di rendita (molto tempo prima dell’appiccicoso “buonismo” inventato da Walter Veltroni) su una presunta capacità di umanizzare anche la guerra, che per definizione è disumana, nonostante alcuni precedenti vergognosi. Il dato scientifico proposto di recente dal Censis non lascia margini di interpretazione: l’Italia si è scoperta cattiva. Lo è per ragioni molteplici, complesse, note almeno da un decennio, come è stato rilevato anni fa da un acuto osservatore della società italiana. Su tutte campeggia lo stato dell’economia. La disoccupazione generalizzata, a nord come a sud, ha provocato forti crepe nel sentimento di solidarismo, che paradossalmente si era alimentato anche dalla lotta di classe realizzata nelle grandi stagioni sindacali. A ciò si è aggregato, effetto e causa in un corto circuito perverso, l’arretramento dello stato sociale, i tagli al Welfare. La deriva negativa nei giudizi sui migranti che li hanno resi un perfetto capro espiatorio, ad hoc per le nostre fragilità, ha completato il quadro dell’insicurezza sociale. Con il solidarismo ha perduto poi terreno l’influenza della Chiesa cattolica, anch’essa travolta da scandali e oscuri episodi che ne hanno screditato la credibilità non già verso i poveri o gli ultimi, presente grazie allo spirito di migliaia di volontari, quanto verso le nuove fasce di emarginazione sociale aggredite come la società nella sua interezza – ed è l’elemento inedito che ci ritroviamo ad affrontare privi dei giusti anticorpi – da un consumismo imperante, dilagante e diseducativo accettato acriticamente in nome dell’economia di mercato che ha schiacciato la politica e i suoi decisori. Consumismo causa prima di spinte individualistiche irrazionali ed egoismi tossici. Ultimo, ma non meno importante, il permanere di privilegi che sono appannaggio dell’ampia casta di “intoccabili” dimostratasi ampiamente inetta, incapace, corrotta o collusa (politici, alti burocrati di Stato, manager di aziende pubbliche, banchieri) verso i quali i governi precedenti non hanno mai operato con la deliberata volontà di incidere sul costume attraverso riforme qualificate ed efficaci. Il Censis glissa (non potrebbe fare altrimenti) sulle responsabilità politiche di chi è al governo. Sottolinea che la fiducia su società e lavoro si ferma sulla soglia di un terzo del Pase, mentre avanza il “sovranismo” che l’istituto di ricerca definisce “psichico”, cioè “una subordinazione mentale alla ricerca di un sovrano a cui chiedere stabilità”. Rimane sospeso l’interrogativo se le parole d’ordine di chi da anni soffia sulla protesta non abbiano contribuito a nidificare quella stessa protesta nel rancore e nell’odio. Un odio in cui il Paese sembra essersi avviluppato, da cui la politica governativa non è estranea. 14
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Se qualcuno nutre dubbi, può verificare l’escalation del ministro dell’Interno Matteo Salvini in tema di migranti attraverso una rapida rassegna dei suoi interventi immagazzinati da Google. Ad Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica, che ha definito razzista la politica della Lega, Salvini ha replicato con un tweet di questo tenore: “Esagero se dico che queste parole e questo atteggiamento mi fanno schifo”. Mesi fa, lo stesso Salvini con un altro tweet aveva denunciato la fuga di un immigrato malato di tubercolosi dall’ex hotel di Sandrigo nel Vicentino, trasformato in centro di accoglienza dei migranti. Parole allarmate che si prestavano a ipotizzare (ipotesi ripresa a stretto giro di posta dal presidente del Consiglio regionale del Veneto, Roberto Ciambetti) presunti aumenti di casi di Tbc in Italia veicolati dagli immigrati. Parole che si chiudevano per catturare la “pancia” dei lettori con un commento più da agit-prop che da ministro dell’Interno: “Dicevano che eravamo cattivi, allarmisti, pericolosi…”. Un intervento comunque sufficiente a chiamare in causa indirettamente il ministro della Salute, Giulia Grillo (Movimento cinque stelle), che però scartava l’ipotesi di un allarme-tubercolosi, correlato alla presenza di migranti. “Se ci fosse stato il ministero e l’Istituto Superiore di Sanità lo avrebbero segnalato”. Solo uno stop verbale alle invadenze di campo del ministro dell’Interno da parte dell’alleato grillino, che produce tanti, troppi malpancisti nel Movimento? O come probabile, il tentativo di riprendere autonomia di pensiero e agibilità politica sul terreno scottante dei migranti, egemonizzato da Salvini tra, al quali lo stesso Di Maio aveva lanciato… una ciambella di salvataggio a fine agosto, quando il leader leghista era stato indagato dalla Procura di Agrigento per sequestro di persona, arresto illegale e abuso di potere nella vicenda della nave Diciotti. Nella circostanza, il ministro al Lavoro aveva difeso Salvini da una parte – “non deve dimettersi” – e assolto la politica del governo dall’altra – “noi abbiano sempre protetto chi scappa da una guerra” – sintetizzando l’azione di palazzo Chigi come solo e unicamente rivolta a tutelare “gli interessi del nostro Paese”. Nel frattempo – a quattro mesi dal braccio di ferro con la nave Diciotti - il recente decreto Salvini toglie l’ossigeno ai centri d’accoglienza e per i migranti, anche per quanti in possesso del permesso di soggiorno, è cominciato l’esodo verso soluzioni d’emergenza al limite della sopravvivenza e di degrado per la dignità umana, in cui il rischio di morire – come è accaduto ai primi di dicembre al diciottenne Suruwa Jaiteh, vittima del rogo nella tendopoli di San Ferdinando nel Reggino – si accetta con ordinaria fatalismo per non impazzire. Il fastidio anche beffardo – anticamera dell’odio - per il diverso, l’estraneo, l’immigrato, ha avuto di recente anche un altro conio politico da Salvini, promosso su tutte le reti televisive e radiofoniche: il reclutamento al rovescio 19
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dei “nemici” per la manifestazione leghista dello scorso 8 dicembre a Roma, denominata “Prima gli italiani”. Sui social sono apparse le foto di alcuni personaggi invisi alla Lega, da Fabio Fazio a Mario Monti, a Laura Boldrini, a Roberto Saviano, Valeria Fedeli, Matteo Renzi, Gad Lerner, con il sottotitolo “lei (o lui) non ci sarà”. Una forma di esclusione brutale, ma non irrituale in politica, che ha dato l’impressione di un’autentica lista di proscrizione calata dall’alto per essere “applicata” dal basso. Versione, se si vuole, raffinata, ma non dissimile dalle invettive piene di acredini del profeta del “vaffa” Grillo verso giornalisti, manager d’industria, scienziati e politici. Sono soltanto parole… in libertà oppure no?
Salvini, ministro dell’Interno o di tutto? Al quesito potrebbe rispondere il ministro al Viminale Matteo Salvini che il 4 dicembre con una velocità degna del migliore nativo digitale spedisce in rete i complimenti alle forze dell’ordine per un’operazione contro la mafia nigeriana. Come annota un attento osservatore del costume e della politica “non è il primo (e purtroppo non sarà l’ultimo) ministro dell’Interno ad operare i successi della macchina investigativa del Viminale nella lotta alla criminalità”. Ma, oltre ad avere l’indice più rapido sulla tastiera virtuale dello smartphone che la storia politica ricordi, è anche il più imprudente e scatena la rabbia del procuratore capo della Procura di Torino Armando Spataro, che in una nota ufficiale lo accusa di aver danneggiato le indagini, ancora in corso. La controreplica alza i toni dello scontro, con il ministro che giudica “inaccettabili le critiche” e invita Spataro (alla soglia della pensione) a ritirarsi dal lavoro. Passa sotto silenzio, invece, l’osservazione di merito (spetta al magistrato la responsabilità ultima dell’operazione giudiziaria), mentre scatta il biasimo per “gli attacchi gratuiti politici, da lasciare a chi si voglia candidare in politica”. Ancora parole in libertà? Sicuramente non la pensa così il Procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo che alla stampa detta una secca dichiarazione: “Quelle di Salvini sono parole sgradevoli e inaccettabili per tono e contenuto”. Sulla stessa linea si esprime il vicepresidente del Csm David Ermini che giudica il tono del ministro dell’Interno inaccettabile e lo ammonisce a non spettacolarizzare gli eventi a fini di propaganda politica. E in quegli stessi giorni Spataro ha chiosato un amaro commento, mettendo il dito nella piaga della deriva presa dalla società italiana: “agli sfottò sorrido, ma mi preoccupa che certi atteggiamenti paghino.” Fino a quando pagheranno gli atteggiamenti che tanto preoccupano Armando Spataro? Dal sorriso compiaciuto che mostra nei selfie il ministro dell’Interno Salvini la fine dell’idillio con l’elettorato sembrerebbe piuttosto remota. I 22
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sondaggi premiano la Lega e il suo leader che si muove con l’agilità di un provetto surfista sulle onde della politica. E non solo domestica. L’11 dicembre, in visita in Israele, il ministro posta un tweet e alcune foto scattate sull’elicottero in volo al confine con il Libano. Il senso e il tono sono inequivocabili, e producono immediate fibrillazioni alla Farnesina e al ministero della Difesa. Twitta Salvini: “Chi vuole la pace, sostiene il diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele. Sono stato al confine col Libano, dove i terroristi islamici di Hezbollah scavano tunnel per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione. Onu e Ue facciano la loro parte”. È una gaffe viziata da egocentrismo solo in apparenza. Dietro esiste il preciso calcolo politico di accreditare il sovranismo nazionale presso la corte di Netanyahu, premier di destra d’Israele, di cui la polizia chiede proprio in quei giorni l’incriminazione per corruzione. La terza per lo stesso reato: un collezionista insieme alla moglie. Vale dunque la pena sacrificare gli interessi collettivi per un consenso personale che si potrebbe rivelare di qui a qualche mese effimero? Se Salvini non se lo chiede, è probabile qualche domanda se la siano invece posta chi rischia la vita in quella striscia di terra, cioè i militari della missione Unifil (promossa nel 2006 dall’Italia dell’allora presidente del Consiglio Prodi con D’Alema ministro degli Esteri), da alcuni mesi al comando del generale italiano Stefano Del Col. A quei militari dev’essere apparso un gesto totalmente slegato dalla loro sicurezza e dalla situazione che regna lungo la “Linea blu” che fa da cuscinetto neutro tra Israele e il sud del Libano. Eppure, dopo l’incontro tra il presidente palestinese Abu Mazen e Conte, non era certo arbitrario attendersi dal Viminale, nell’interesse del Paese, un comportamento più misurato e sobrio, distante dalla spettacolarizzazione dei social, in piena sintonia con la nostra politica estera e la presenza di un contingente italiano in prima linea su quel caldo fronte. Ciò che nei giorni precedenti era ritenuto auspicabile per superare la crisi sui tunnel scavati da Hezbollah in territorio israeliano. 23
Come se ne uscirà? Nel numero del 16 dicembre de La Voce e il Tempo, la giurista Annamaria Poggi ha dedicato un corposo intervento ai cambiamenti avvenuti nelle società occidentali, in cui prevalgono populismi che minacciano dichiaratamente la democrazia, pur promettendo il bene comune. Il fine è dunque lo stesso della democrazia, ma i mezzi con cui raggiungerlo sono diversi, mentre quelli a quali si è finora affidata la democrazia sono in crisi. L’autrice sostiene che le risposte su come fronteggiare questi fenomeni per ora non ci sono. “Al populismo (ciò che il popolo vuole) si contrappone la competenza (ciò che il 24
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popolo dovrebbe sapere); alla democrazia del web si oppone la democrazia fisica; alla democrazia diretta quella rappresentativa e via dicendo…” Ma le risposte vanno cercate alacremente. E il pensiero, reso fruibile dalla forza della parola, rimane, per quanto antica, la forma più moderna per affinare la democrazia e non farsi sedurre da scorciatoie politiche che potrebbero rivelarsi, come in passato, esiziali per la convivenza civile. Il pensiero inteso come nastro trasportatore di valori per non cadere nella trappola della semplificazione fuorviante, dell’intolleranza verso la complessità del mondo che esige sì spiegazioni semplici alla portata di tutti, fase ultima però di una serie di elaborazioni che diano la parola a tutti per riflettere insieme e per suscitare mediazione democratiche che rifuggano da un sì o un no urlato nelle piazze. Attorno a queste due sillabe si è già consumato un tragico passato, per riproporle con stucchevole cinismo. I valori sono quelli “politici” e quelli “morali” connaturati, per citare un grande maestro del passato, Norberto Bobbio, all’impegno civile. 25
Note, bibliografia e sitografia. 1.
Il 27 settembre 2018, il vicepresidente del Consiglio Luigi di Maio ha scritto su Facebook: “Oggi è un giorno storico! Oggi è cambiata l’Italia”. Si tratta dell’atteso annuncio della “manovra del popolo”, sintetizzata nel rapporto deficit-Pil al 2,4 per cento che nelle intenzioni del governo avrebbe dovuto garantire Reddito di cittadinanza, superamento della legge Fornero e flat tax al 15 per cento per le partite Iva. Cifre che non hanno superato l’esame della Ue. 2. Cfr. Noam Chomsky, Venti di protesta, Ponte alla Grazie, 2018. 3. S’immagini una pentola piena d’acqua fredda in cui immergiamo una rana che si muove a suo piacimento. Un piacere che continua nonostante si sia acceso il fuoco sotto la pentola che riscalda lentamente l’acqua. La temperatura tiepida è piacevole per la rana che continua a muoversi; quando poi l’acqua diventa calda, la rana avverte un senso di fastidio, ma si adegua e non reagisce. E più il tempo passa, più scopre che non ha la forza per saltar fuori dalla pentola: è ormai bollita. Al contrario, se la rana fosse stata gettata nella pentola d’acqua caldissima, avrebbe immediatamente reagito.
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4. Catechesi del Papa, Anche l’insulto uccide, La Voce e il Tempo, 21 ottobre 2018. 5. Cfr. Ezio Mauro, Le due piazze del governo, La Repubblica, 5 dicembre 2018. 6. Hans Kelsen, Due saggi sulla democrazia in difficoltà (1920-1925), Aragno 2018. 7. Beppe Severgnini, Perché la competenza non è più un valore, Corriere della Sera, 5 dicembre 2018. 8. Eugenio Scalfari, Renzi, non si comanda da soli, la Repubblica, 9 dicembre 2018 9. Aspettando Godot, una delle più celebri opere del drammaturgo irlandese Samuel Beckett, denuncia il pericolo insito nell’attesa che annichilisce l’azione ed esprime a un tempo il vuoto che produce l’irrazionalità di un credo. 10. Colloquio tra Marco Belpoliti e Filippo Ceccarelli, Va in scena il Nulla che ci governa, Espresso, 2 dicembre 2019. 11. Francesco Verderami, La girandola dei numeri (in 80 giorni), Corriere della Sera, 8 dicembre 2018. 12. Furio Colombo, Sovranismo, l’Italia è in stato d’assedio, Il Fatto quotidiano 13. Paolo G. Brera, “Se mi aggrediscono ho una via d’uscita”, “Per proteggere i miei disposto anche a sparare”, La Repubblica, 3 dicembre 2018. 14. Nello stesso periodo Fiat e Unione Sovietica, con la mediazione del Partito comunista italiano, avevano avviato i primi contatti per realizzare uno stabilimento di auto nella città di Stavropol, ribattezzata Togliatti, sul Volga, nella Russia centrale. 15. Ricordiamo l’uso di armi chimiche e le bombe all’iprite (gas) gettati dall’aviazione italiana sull’esercito del Negus nel 1935 nel corso della campagna per la conquista dell’Etiopia; i bombardamenti su Barcellona eseguiti dall’Aviazione Legionaria che prese parte alla guerra civile in Spagna a fianco del generalissimo Francisco Franco; la dura repressione di cui fu oggetto una parte della Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale, occupata dalle truppe al comando del generale Mario Roatta, accusato per crimini di guerra contro le popolazioni slave. 16. Dario Di Vico, Se noi italiani adesso ci scopriamo cattivisti, Corriere della Sera, 8 dicembre 2018. 17. Furio Colombo, Il diritto di non tacere, Aliberti editore, 2011. 18. www.censis.it 52°, Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2018. 19. www.ewpubblica.it 13 dicembre 2018La Repubblica.
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20. www.valigiablu.it 21. Andrea Malaguti, Giusto che i pm indaghino ma stiamo difendendo l’Italia, La Stampa, 27 agosto 2018. 22. Marcello Sorgi, II vicepremier e il giudice Altri scontro in passato, La Stampa, 5 dicembre 2018. 23. Gianni Vernetti, Perché la crisi dei tunnel di Hezbollah riguarda anche l’Italia, La Stampa, 6 dicembre 2018. 24. Annamaria Poggi, Al di là del populismo la (difficile) gestione della democrazia, La Voce e il Tempo,16 dicembre 2016. 25. Marco Revelli, Nel labirinto del Novecento, p. XV, in Norberto Bobbio, Etica e Politica, Mondadori 2009.
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Debiti, conti e pensieri sull’Italia di Pietro Terna
Un recentissimo articolo scientifico, già online e che uscirà a stampa a inizio 2019, offre lo spunto per una riflessione sulla nostra economia. Il lavoro è intitolato “Stability of democracies: a complex systems perspective” e inizia con questo paragrafo, che abbiamo tradotto: 1
Secondo il motore di ricerca dei media Factiva, sul tema della “minaccia alla democrazia” sui media internazionali sono stati pubblicati circa 1500 articoli, durante i 40 anni tra il 1970 e il 2010. Da allora, in poco più di 8 anni, sono stati pubblicati oltre 1700 articoli sull’argomento; con i primi 5 mesi del 2018 (309 articoli) si era già raggiunto il totale di tutto il 2017 (304 articoli). L’idea che la democrazia sia minacciata, dopo essere stata in gran parte trascurata per almeno 40 anni, si presenta sempre di più nel dibattito pubblico. Quando The Economist ha analizzato il grado di democrazia di 167 paesi all’inizio del 2018, in più della metà ha misurato un declino dell’indice di salute democratica rispetto al decennio precedente. Quanto è reale questa minaccia? Quanto sono stabili le democrazie occidentali di oggi, alcune delle quali sono sopravvissute per secoli? Qual è punto? La democrazia ha bisogno di stabilità e di meccanismi di feedback che correggano scostamenti e errori rispetto al percorso desiderato. Al centro della stabilità sociale sta la stabilità economica, che non rappresenta la totalità della questione, ma una gran parte di essa certamente sì, con buona pace di coloro che, senza ben sapere di che cosa parlano, vogliono uscire dall’euro. Così la pensa anche un nostro ministro (dicembre 2018), non esattamente privo di esperienza, trattandosi di Paolo Savona. Per fortuna invece siamo, e siamo stati, nell’euro, con la Banca Centrale Europea (BCE) che ci ha aiutati nella ricerca della stabilità. 27
Che cosa dice chi vuole uscire dall’euro. Che cosa dice Savona? La risposta si trova con chiarezza in una serie di affermazioni contenute in un suo discorso, che si trova online . Si tratta del Testo integrale intervento Convegno di Scenari Economici “Un Piano B per l’Italia” del 3 Ottobre 2015”. Scrive Paolo Savona: 2
L’economia italiana non è uscita dal pantano in cui si è collocata aderendo prematuramente e senza preparazione all’euro e disfacendosi dei classici strumenti di aggiustamento (svalutazioni, credito per lo sviluppo e spesa pubblica), sommando alle sue “eresie” di politica economica e ai suoi “esorcismi” per correggerne gli effetti, quelli dell’Unione Europea. Il ruolo svolto dal Governo crea incomprensione della realtà da affrontare perché esalta episodi marginali dell’economia e ignora gli andamenti complessivi. Nel mio recente pamphlet edito da Rubbettino nel giugno scorso intitolato “J’accuse - Il dramma italiano di un’ennesima occasione mancata”, spiego perché le due miopie politiche, quella interna e quella europea, impantanano sempre più l’economia e la società italiana. La mia proposta di un Piano B non si proponeva uno sfoggio di sapienza teorica, ma affrontava la realtà che avevamo e abbiamo di fronte – che la dirigenza italiana rifiuta alimentandosi nelle illusioni – e che faceva tesoro delle esperienze da me vissute in altre crisi del Paese non meno rilevanti (…) 3
In quel convegno erano state anche presentate delle slide , tra i cui autori compare lo stesso Paolo Savona, in cui il piano per uscire dall’euro è perfettamente definito, sin dal titolo di Guida pratica per uscire dall’Euro. Emblematica è la slide riportata nella Figura 1.
Figura 1 - Dalle slide della Guida pratica per uscire dall’Euro, per la felicità dei risparmiatori stranieri nostri creditori.
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Un haircut, cioè un bel taglio di capelli, ma applicato al rimborso dei nostri debiti verso i risparmiatori di tutto il mondo, non “creditori interni”. Che lo spread con la Germania (differenza tra i tassi che paghiamo sul debito pubblico noi italiani e quelli che pagano i tedeschi, moltiplicata per 100), sia mentre scrivo solo a 300, è molto positivo… Possiamo permetterci giochi di destrezza di questo tipo? No, e il perché è il macigno del debito pubblico al 130% del PIL. Raramente i paragoni tra i conti di una famiglia e quelli di una nazione reggono; per una famiglia il PIL sarebbe il reddito annuale: molte famiglie, per via del mutuo per la casa, hanno debiti maggiori del reddito di un anno, ma attingono da quel reddito per pagare i debiti via via. Lo Stato attinge al PIL, che è anche il reddito totale di tutti i cittadini, per finanziare la spesa pubblica (istruzione, sanità, sicurezza, opere pubbliche e così via) e poi ha bisogno di altre entrate anche per pagare i debiti che via via deve rimborsare. Quelle entrate in più non le ha e quindi o taglia le spese, con effetti disastrosi, come è avvenuto in Grecia per la scarsa lungimiranza anche dei creditori, o rimborsa i debiti contraendone di nuovi: elementare, direbbe Sherlock Holmes. E allora, guai a spaventare i creditori, che chiedono maggiore ricompensa per accettare il rischio (causando l’aumento dello spread), oppure ci voltano le spalle. Soprattutto il secondo è un rischio che non possiamo correre. La Figura 2, che deriva dall’accuratissima ricostruzione ad opera di Roberto Artoni, professore emerito dell’Università Bocconi, ci mostra che le radici del debito sono lontane, nella inesorabile ascesa da metà degli anni ’60 dello scorso secolo sino a metà degli anni ’90, quando ci fu una formidabile svolta, a cavallo dell’ingresso nell’euro. E poi … il resto è storia di oggi. 4
Figura 2 - 150 anni di storia del debito pubblico italiano, sempre in percentuale del PIL dell’anno considerato
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Che cosa ha fatto la BCE Negli anni della terribile crisi iniziata nel 2008, la BCE ha aiutato tutto il sistema dell’euro, e quindi grandemente anche noi, a finanziare il debito pubblico nei momenti del rinnovo, immettendo liquidità nel sistema (prestiti alle banche) oppure comperando i titoli del debito in mano ai risparmiatori (acquisti sul mercato), con il cosiddetto quantitative easing. L’abbondante liquidità ha tenuto molto bassi i tassi, a beneficio dei debitori (noi italiani, in primis). La liquidità non ha generato inflazione perché l’inflazione (l’aumento dei prezzi) non deriva da un meccanismo automatico del tipo “più moneta uguale prezzi più alti”, come molti si ostinano a credere . I prezzi aumentano se la domanda di beni di consumo e di investimento è più grande dell’offerta; l’abbondanza di moneta può agevolare quel fenomeno, non causarlo. Infatti, in questo periodo di grande crisi, la preoccupazione del presidente Draghi è stata proprio quella di impedire che i prezzi scendessero troppo, causando una forte deflazione. La deflazione blocca la produzione, perché non si può produrre comperando le materie prime ad un prezzo e vendendole, incorporate nel prodotto, a un prezzo inferiore. Nei fatti, la grande liquidità non è andata alle famiglie, che avevano e hanno comunque paura di spendere. Non a caso recentemente The Economist ha proposto la creazione di conti dei cittadini direttamente presso le Banche Centrali. Il quantitative easing di Draghi, in quel modo, avrebbe potuto arrivare, almeno in parte, direttamente alle famiglie. 5
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Torniamo ai nostri conti Che la manovra abbia anche lo scopo di accontentare, nella forma, chi la pensa come Savona, può darsi. Che l’obiettivo sia quello di uscire dall’euro, non credo. Ma intanto spaventa tutti. E pensare che, in sé, il fatto di rompere il vincolo troppo stretto del disavanzo è tutt’altro che insensato, con la condizione che l’avanzo primario, cioè senza il pagamento degli interessi, sia positivo; è una condizione che vale per noi. Il mito dell’avanzo deriva dall’esigenza di rimborsare il debito, e va bene; ma anche dal timore, tutto tedesco, di alimentare l’inflazione, ma ora non c’è. Inoltre, quella parte di interessi che va a risparmiatori stranieri, certamente non alimenta l’inflazione nostrana. Quello che non è corretto è come si impiega il maggior disavanzo: tutto o quasi in spesa corrente o in trasferimenti alle famiglie (le pensioni), secondo il governo; tutto o quasi nel capitolo degli investimenti, secondo la prudenza di quella che sarebbe la politica economica più appropriata. Gli investimenti sono una componente del PIL nell’anno in cui si effettuano, perché generano produzione e posti di lavoro; sono il presupposto per la crescita del PIL negli 30
anni successivi, di nuovo generando posti di lavoro, perché accrescono la capacità produttiva. Certo è una visione lontana da quella di chi immagina la decrescita felice. La decrescita che abbiamo sperimentato negli ultimi dieci lunghi anni di crisi è stata soprattutto infelice, per tanti, troppi, cittadini.
Un’alternativa non scientifica! Vista l’incertezza della situazione e l’orrore del piano B, ho provato a comperare l’Almanacco Barbanera 2019 (257° anno, complimenti) sperando in qualche previsione più solida di quelle di Palazzo Chigi… Niente. Però a pagina 19 ho notato “UN GIORNO SPECIALE: Il 6 gennaio, Luna Nuova in Capricorno, è la giornata ideale per iniziare a elaborare un piano di risparmio. Prendere nota di tutte le spese che avete sostenuto vi aiuterà a capire come gestire al meglio entrate e uscite, ma ricordate di non risparmiare sulla qualità del cibo. Mangiare bene è sempre un investimento in termini di salute”. Evviva la Befana: è quasi il piano Cottarelli e poi c’è la difesa della sanità! Barbanera for President!
Bibliografia e sitografia 1. K. Wiesner e altri, online a http://iopscience.iop.org/article/10.1088/1361-6404/aaeb4d/meta 2. https://scenarieconomici.it/origini-significato-e-funzioni-di-un-piano-a-e-b-per-litalia-in-europa-di-paolo-savona/ 3. Online a https://scenarieconomici.it/il-piano-b-per-litalia-nella-sua-interezza/ con la numero 80 che riporta i nomi degli autori. 4. La figura è ripresa da Il Sole 24 ORE online del 21 ottobre 2018, dove compare in un interessantissimo articolo di Enrico Marro, https://www. ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-10-18/debito-pubblico-come-quando-e-perche-e-esploso-italia-172509.shtml . 5. Digressione: i creatori del bitcoin hanno previsto che la quantità massima della moneta creabile in quel modo sia prefissata; certo non sarebbe un beneficio, potenzialmente anzi un è un serio pericolo, qualora il valore di quella moneta scarsa crescesse facendo diminuire i prezzi relativi, con il fenomeno della deflazione (il bitcoin si è poi smarrito in una bolla speculativa, ma questa è un’altra storia). 6. 26 maggio 2018 a https://www.economist.com/finance-and-economics/2018/05/26/central-banks-should-consider-offering-accounts-to-everyone. 31
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L’impresa di far impresa in Italia di Dario Pagano
Un capannone industriale da ristrutturare per far ripartire una produzione. In anni di crescita stentata, si tratta di un’operazione non così frequente e scontata, soprattutto se portata avanti da una piccola e media impresa. Chi immagina perciò facilitazioni di ogni tipo e tempi certi e brevi da parte di enti pubblici e fornitori di servizi essenziali (energia elettrica, gas, telefonia e acqua) è però fuori strada. Nel 2018, per l’allacciamento di una linea telefonica un grande operatore nazionale prefigura un mese di tempo, per aumentare la potenza impegnata da 15 a 50 kW un altro operatore non riesce neppure a dare una risposta e rimbalza la richiesta. Tutto questo senza contare gli adempimenti burocratici che ogni azienda deve seguire per ogni sua singola azione. Sarà anche per questi motivi che nell’annuale rapporto “Doing Business” della Banca Mondiale, documento che esamina tutte le variabili che possono favorire o condizionare la vita di un’impresa in ben 190 stati, la posizione dell’Italia non è mai tra le migliori. Nell’ultima edizione, anzi, il nostro Paese perde cinque posizioni nella classifica mondiale ed esce dalla “Top 50”, cadendo dal 46° al 51° posto, dietro a Mauritius, Serbia, Armenia e Bielorussia, con un punteggio di 72.56 (-0,15%) a fronte di una media Ocse pari a 77.80. Guardano le classifiche riferite a specifici aspetti, l’Italia si piazza al 118° posto per quanto riguarda le tasse, al 112° per le possibilità di accesso al credito; al 104° nella gestione dei permessi di costruzione e 111° per il rispetto dei contratti. Una débâcle su più fronti, quindi. Va anche sottolineato che le grandi imprese sono più attrezzate ad affrontare le difficoltà indotte da una burocrazia spesso asfissiante, un fisco non proprio amico e dai ritardi nei pagamenti e hanno un potere contrattuale molto differente rispetto a quelle piccole e medie. Per una Pmi, questioni come la facilità nell’iniziare un’attività, i permessi di costruzione, l’accesso all’elettricità, i diritti di proprietà, l’accesso al credito, la 33
protezione legale degli investitori, le imposte, le garanzie per l’esecuzione dei contratti e le tutele in caso d’insolvenza dei debitori (tutti temi classificati dalla Banca Mondiali nei suoi rapporti) rappresentano degli ostacoli spesso insormontabili. Questo ambiente sfavorevole al “fare impresa” danneggia la competitività del sistema imprenditoriale italiano, compromettendone lo sviluppo, in un momento in cui l’economia mondiale richiede massima dinamicità e grandi investimenti.
Azienda in vendita Dei problemi concreti e quotidiani di chi fa impresa in Italia, tuttavia, il mondo della politica non è mai parso troppo partecipe né interessato, salvo che in prossimità delle elezioni e quando questi temi hanno risvolti occupazionali e quindi di visibilità. La politica e le istituzioni non sono cieche e sorde rispetto alle necessità delle imprese, Pmi comprese: sono in buona parte distratte da altre questioni oppure preferiscono indugiare su grandi temi di effetto, come l’industria 4.0, che hanno ripercussioni solo per un numero limitato di società. Si indignano se compratori esteri acquistano le nostre migliori società, anche se i dati mostrano che oltre il 40% delle medie e grandi imprese italiane ha fatto a loro volta un’acquisizione e, nell’81% dei casi, questa è avvenuta oltre confine. Solo il 13% delle grandi imprese italiane aziende è stato rilevato da società straniere. Il problema risiede casomai nelle dimensioni: finora le aziende straniere hanno acquisito gruppi più grandi rispetto a quanto abbiano fatto le aziende italiane all’estero. Quando poi alcune acquisizione necessitano di una particolare attenzione, per esempio la vendita lo scorso ottobre di Magneti Marelli ai giapponesi di Calsonic Kansei per 6,2 miliardi di euro, la notizia passa sotto traccia. Eppure Magneti Marelli è una società specializzata in prodotti e sistemi ad alta tecnologia per l’industria automobilistica e una maggiore attenzione verso la strategicità di una simile realtà non avrebbe guastato Politica e istituzioni oltre che distratte non sembrano saper affrontare la questione centrale, la complessità del fare impresa in Italia, che non di rado scoraggia gli investitori esteri a impegnarsi in Italia. E non credono che classifiche come il “Doing Business” della Banca Mondiale siano del tutto veritiere. La reputazione dell’Italia è indispensabile per attrarre gli investimenti dall’estero, ha infatti affermato a fine novembre il sottosegretario agli Affari Esteri e alla Cooperazione internazionale, Manlio Di Stefano, alla conferenza “Indici e reputazione: strategie per l’attrattività a confronto”, ma «molti degli indicatori internazionali collocano l’Italia in posizioni che non rispecchiano la realtà macroeconomica di quella che è la seconda economia manifatturiera d’Europa e la settima al mondo». Una economia manifatturiera in affanno se, 34
per fare un esempio, nel 2017 la produzione di autovetture nel nostro Paese è stata di 742 mila unità e ora l’Italia è il settimo costruttore dell’Unione Europea dopo Germania (5,6 milioni di auto prodotte!), Spagna, Francia, Regno Unito, Repubblica Ceca e Slovacchia. Un dato, quello delle autovetture prodotte l’anno scorso, che per altro può essere letto e interpretato in due modi: nel 2013 ne erano state costruite 388 mila, minimo record storico, e da allora la produzione è ripartita anno dopo anno; dieci anni fa, tuttavia, se ne fabbricavano 910 mila, nel 1992 1,12 milioni e nel 1973, anno record, 1,8 milioni. Insomma, rispetto a cinque anni fa c’è crescita costante, ma se guardiamo il passato recente e meno recente l’industria italiana dell’auto si è fortemente contratta. Sono decisamente cambiati tempi e gusti e FCA non è la vecchia Fiat Auto (basti pensare che delle 742 mila auto prodotte l’anno scorso, quasi 180 mila portano il marchio Jeep).
Un Paese di imprenditori Malgrado la reputazione altalenante legata al “fare impresa” e i chiaroscuri della situazione economica (Banca d’Italia avverte che nel bimestre luglio-agosto la produzione industriale è lievemente scesa sul trimestre precedente), si continua a pensare che l’eccellenza del nostro Paese sia rappresentata dal fatto che l’Italia è il terzo marchio più conosciuto al mondo dopo Coca-Cola e Visa. «Lavorare sulla “percezione” del sistema Italia nel mondo è un’arma a doppio taglio che, se favorisce il nostro Paese sotto l’aspetto del Made in Italy, non riesce a far associare la medesima attrazione al Paese Italia nel suo complesso» ha ammesso il sottosegretario Di Stefano. E il 51° posto della classifica degli stati dove è più facile fare business conferma questa impressione. L’aspetto sorprendente è che, malgrado tutte le difficoltà, l’Italia rimane un Paese di imprenditori. Tra luglio e settembre scorso le Camere di commercio hanno registrato l’iscrizione di 64.211 nuove imprese (è dal 2010 che le nascite di nuove realtà sono tuttavia in calo) e 51.758 chiusure (duemila in più rispetto all’anno precedente, ma in diminuzione rispetto agli anni scorsi). Il risultato di queste due dinamiche ha consegnato a fine settembre un saldo positivo per 12.453 imprese (il minore degli ultimi 15 anni). Quasi il 40% della crescita è dovuto al Mezzogiorno, dove il saldo è stato positivo per 4.763 unità. Al 30 settembre risultavano complessivamente registrate in Italia 6,1 milioni di imprese, di cui 1,3 artigiane. Per questo sterminato esercito di piccole e grandi realtà è fondamentale operare con norme chiare, non modificate di continuo, non doversi battere contro la burocrazia o per ottenere l’allacciamento di luce, gas e telefoni. La vera rivoluzione, importante tanto quanto quella digitale, sarebbe risolvere una volta per tutte questa contraddizione tutta italiana.
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Il Condono fiscale tra progressi e incertezze Intervista a Rino Forgione di Maurizio Jacopo Lami
La pace fiscale è il contenitore unico di una serie di provvedimenti che va dalla nuova rottamazione delle cartelle al saldo e stralcio dei debiti. In Senato, durante la trattazione della manovra finanziaria e dei suoi collegati, dovrebbe rientrare il cosiddetto saldo e stralcio delle cartelle esattoriali. Il provvedimento consentirà ai contribuenti che hanno un debito tra 30mila e 90mila euro di sanare il debito, pagando solo una piccola parte di esso e mettendosi in regola del tutto. Abbiamo chiesto all’avvocato Rino Forgione, un esperto in materia, di parlarci del condono fiscale che coinvolge tanti contribuenti italiani.
Avvocato Forgione, come valuta gli ultimi provvedimenti del governo in materia fiscale? Questo decreto fiscale da un punto di vista strettamente tecnico ha un indubbio merito: quello di venire incontro alla necessità di non ingolfare la macchina tributaria italiana, che non è certo un esempio di snellezza. È di particolare rilevanza per esempio lo stralcio delle cartelle fino a mille euro. Provvedimento molto atteso e presente nella pace fiscale è lo stralcio automatico delle vecchie cartelle inferiori a 1.000 euro. L’annullamento non prevede domanda e riguarda tutti i ruoli affidati alla riscossione tra il 2000 e il 2010, fino a 1.000 euro per ciascun ruolo. Questo chiuderà molti contenziosi di piccola entità. È proprio questo punto che crea la possibilità di un doppio effetto positivo: non solo per molti piccoli contribuenti, ma anche per lo Stato che si esonera finalmente dal perseguire inutili contenziosi. Si provi a immaginare quanto si spenderebbe per recuperare quote tutto sommato risibili per l’Erario, al prezzo di inutili lungaggini.
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Un procedimento simile a quello che si applica con il condono. Sì e anche in quel campo si parte dal presupposto di evitare inutili accanimenti. Un mio docente universitario faceva una giusta considerazione in proposito: ognuno di noi immagina se stesso come parte innocente in un processo, ma deve provare a concepire una situazione diversa. Mettiamo invece di aver commesso un reato lieve, e che siano passati molti anni: la legge si accanisce contro di me, che magari sono profondamente pentito e cambiato rispetto al tempo dell’errore. In più si pretende dai testimoni, dopo tanti anni, ricordi diventati ormai sbiaditi, si cercano documenti di prova che non si trovano, si sprecano tempo ed energie... Il condono nell’evitare queste situazioni limite si preoccupa di non stressare la macchina burocratica dello Stato. In materia fiscale il ragionamento è identico.
Qualche problema suscitato invece dal condono? Si nota spesso in alcune parti una certa discrepanza fra la formulazione e l’applicazione della legge. Voglio dire che il condono sembra concepito da ottimi esperti ben preparati in materia, ma non abituati a lavorare sul campo. Facciamo un esempio con la “rottamazione ter”... La nuova rottamazione delle cartelle ha regole simili a quelle delle due precedenti definizioni agevolate (DL 193/2016 e DL 148/2017). Al contribuente che presenterà domanda verrà concessa la possibilità di pagare i propri debiti al netto di sanzioni e interessi di mora. La rottamazione delle cartelle 2019 prevede tuttavia alcuni vantaggi per i debitori, che potranno pagare con rate fino a cinque anni e beneficeranno della riduzione degli interessi sulla rateizzazione. Ammessi alla rottamazione ter prevista dalla pace fiscale saranno i debiti risultanti da cartelle affidate agli agenti della riscossione (Equitalia, ora Agenzia delle Entrate Riscossione) tra il 1° gennaio 2000 e il 31 dicembre 2017. Un punto però che dimostra come non tutto sia filato liscio. Per poter usufruire della rottamazione ter, è indispensabile accedere alla rottamazione bis. Ma l’agenzia delle entrate può bloccare il decreto legge contestando per esempio un ricorso fatto a cavallo dei giorni di cui stiamo parlando. Visto che il decreto è diventato esecutivo il 24 ottobre 2018, se viene chiesto l’accertamento - stabiliamo attorno al 16 ottobre - ma la lettera arriva a destinazione solo dopo il 24 ottobre - l’agenzia può chiedere il blocco della rottamazione. Cavilli, in apparenza, se non fosse che casi simili sono numerosi. Certo l’Agenzia delle entrate deve fare cassa, ma non può ignorare lo spirito della legge e la finalità del legislatore che punta a ridurre i contenziosi. Esiste poi un altro punto poco conosciuto che riguarda il comma 2 articolo 6. 38
Di che cosa si tratta? In caso di soccombenza dell’Agenzia in primo grado, il querelante vincitore deve comunque pagare allo Stato metà della cifra contesa. Se poi il medesimo verdetto si ottiene in secondo grado, il querelante deve comunque pagare un quinto della cifra allo Stato.
Intende dire che anche quando si ha ragione a pieno titolo a termini di legge, bisogna comunque pagare una parte del contenzioso?! È difficile da credere, ma è così. In sostanza, all’Agenzia viene sempre riconosciuto il diritto di esigere dal contribuente una parte della somma contestata.
Non è facile da accettare per il cittadino. Sicuramente non lo è nella realtà. Un mio cliente aveva un contenzioso che riguardava due annualità. Si vince nei due gradi di giudizio, vittoria piena perché smentiamo completamente la ricostruzione del fisco e dimostriamo in aula che non corrisponde al vero. Dopodiché l’Agenzia delle entrate ricorre addirittura in Cassazione. Tradotto nel tempo, ciò significa almeno sei anni di contenzioso che si riflettono su costi e interessi vari, che comunque garantiranno qualunque sia il verdetto finale un quinto della cifra allo Stato.
Altro punto discutibile? Partiamo da una premessa: l’Agenzia delle entrate fa davvero un lavoro encomiabile, ma alle volte tende a dare un’interpretazione personale della legge. Per esempio, in certi casi di rettifica di imposta. Poniamo che io venda un garage a ventimila euro, ma se il fisco sostiene che siano trentamila, il contenzioso è assicurato… Ripeto l’Agenzia delle entrate svolge davvero un lavoro prezioso per la collettività, ma cerca anche di giustificare l’esistenza di una grande struttura burocratica con metodi che si ritorcono contro gli stessi diritti dei cittadini.
L’Italia non è però seconda a nessuno in fatto di evasione fiscale... Il poderoso organico dell’Agenzia è conseguenza del fenomeno. Rispetto al passato senza dubbio. Oggi dinanzi ad un personale preparato, a sistemi computerizzati, analisi, incroci contabili, l’elusione e l’evasione fiscale si sono ridotte notevolmente. In proposito vorrei citare la considerazione di un mio amico che è stato, come il sottoscritto nella Guardia di Finanza: “un tempo si andava negli uffici a cercare fatture nascoste, conti segreti, insomma qualcosa di reale. Ora invece il Fisco sembra cercare a tavolino qualcosa di immaginario. In punta di diritto si può parlare di probatio diabolica”, “prova diabolica”. In altri termini, chiede che sia l’accusato a dimostrare di non essere colpevole. Una richiesta davvero eccessiva anche per il Fisco, sebbene si sia in Italia… 39
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Siamo ancora noi a decidere ? di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi
Per quanto possa risultare fastidioso, dobbiamo chiederci se ciò che abbiamo votato è frutto di un nostro processo decisionale o se siamo stati in qualche modo condizionati: il nostro ego porta ad autoassolverci, ma è evidente che i pilastri fondanti la democrazia rischiano di inclinarsi senza che sia stato individuato un sistema alternativo, rispettoso dei diritti umani e capace di porre tutti gli individui nelle condizioni di utilizzare al meglio la propria intelligenza ed esperienza anche per ciò che riguarda le scelte politiche. Occorre pensare ad una forma di “empower” (lessicamente: prendersi potere o, in diritto, dare/prendersi la procura) per ridare maggiore possibilità di scelta ai cittadini, in quanto soggetti autonomi e responsabili e non componenti “profilati” e gestiti da terzi. Imbrigliare e ridurre il potere di chi cerca di condizionare le scelte del singolo, dovrebbe, invece, portare ad identificare meccanismi decisionali che inducono a muoversi in funzione del benessere comune e a massimizzare le possibilità di scelta dei singoli. Diversamente che in passato gli elettori di tutto il mondo occidentale cambiano volentieri (quasi istericamente) le loro preferenze ad ogni tornata elettorale ma ciò non sembra più soddisfare il loro bisogno di protesta: il votare contro qualcuno induce infatti a non essere soddisfatti del proprio operato. Gli elettori devono invece diventare “clienti” più esigenti e non accontentarsi di una buona presentazione dai substrati demagogici, ma richiedere un programma costruito su una visione generale di crescita sociale. Solo se gli elettori sapranno costruire una “domanda” di politica reale allora le democrazie occidentali potranno uscire dall’attuale impasse.
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Si può vivere senza partiti e rimanere una democrazia? Le democrazie occidentali basano la propria essenza sul fatto che ogni cittadino vale un voto, ma se qualcuno acquisisce il potere di condizionare il voto delle masse, il principio di eguaglianza viene incrinato. Il non essere iscritto ad un partito è diventato un valore sociale, dimenticando la lezione di Aristotele dove la politica era l’arte superiore per eccellenza, quella chiamata a governare o almeno a coordinare tutte le altre scienze. Le basse affluenze registrate ai seggi registrati in molti paesi, il repentino cambiamento di umori e il proliferare di fake news lasciavano già intravvedere il sospetto che vi era un interesse ad indebolire il sistema, ma ancor più preoccupante è che chi va a votare inconsciamente non è più libero. Il punto debole sembra essere la credibilità dei partiti, chiamati a disegnare il futuro della società, e non impelagati nel cercare nel contingente qualche occasione per affermare la loro esistenza, con dichiarazioni e proclami. Il “rifugio nel contingente” rischia di concentrare l’attenzione nella ricerca del consenso immediato attraverso un continuo attacco dell’avversario, a scapito della progettualità. Ciò fa scendere l’interesse per la materia senza che però si siano acquisite possibili alternative, contraddicendo lo stesso significato della politica che è quello di costruire speranze e soluzioni, non quella di propugnare illusioni e sollevare confusione. Quando la campagna elettorale viene affidata ad un agenzia pubblicitaria è perché si vogliono acquisire i voti: non proporre un progetto. Ed infatti il giorno dopo non si sa come fare o si va incontro a feroci proteste se si provano ad attuare pedestremente le promesse elettorali. Il problema in tutte le democrazie occidentali non è più di trovare un accordo tra i partiti, mediando tra posizioni dialetticamente contrapposte: dallo scontro tra classi sociali, si sono sovrapposte scontri demografico / generazionali che, se lasciati orfani della mediazione politica, rischiano di degenerare in un conflitto permanente ed inconcludente. Assalire i supermarket come è avvenuto in Argentina, in Grecia o in Venezuela o lo scoppio improvviso di violenza nei quartieri più emarginati delle metropoli, testimoniano la gravità della situazione, se non agiscono forze in grado di governare la società. Ma se si crea un vuoto di potere, qualcuno inevitabilmente tende ad approfittarne, anche giocando ad acuire la crisi. Se i partiti non costituiscono più una soluzione esaustiva, sarebbe lecito ipotizzare di individuare altri assett su cui riaggregare i gruppi sociali, ma ciò inevitabilmente rischia di spostarsi fuori dai principi che reggono un democrazia. Ragionare sul futuro della nostra società e sulle modalità di convivenza civile, non può prescindere da un chiaro percorso di sviluppo, rispettoso dell’individuo e delle diverse componenti sociali, cui i partiti devono tendere. La mancanza di una prospettiva crea, nell’immediato, un senso di incertezza 42
e di delegittimazione delle istituzioni che regolano la società civile, accrescendo i conflitti. La mancanza di fiducia verso il sistema induce ad alcuni riflessioni del tipo: • Qual è l’Autorità riconosciuta nella nostra società e quale spazio viene lasciato al libero arbitrio dell’individuo? • Quali sono le regole del nostro convivere consueto? • Dove trovano espressione gli interessi generalizzati presenti in un determinato contesto? • Quali sono i limiti da accettare per convivere con altre realtà? • Che ruolo ricoprono le istituzioni, le professioni, gli enti pubblici e privati? Non siamo davanti ad una rivoluzione, ma ad una società che non sa più per che cosa fare la rivoluzione. Ne consegue che a fronte di un alto livello di conflittualità poche siano le idee sul modello da adottare per governare il sistema. Oggigiorno si polemizza su tutto: paradossalmente se di decidesse di cambiare il giorno in cui votare negli Stati Uniti probabilmente si formerebbero 7 partiti, uno per ogni giorno della settimana. Lo Stato, quale espressione massima della società, deve trascendere da quello che deriva dai conflitti partitici: più forti sono i contrasti, più emerge la necessità di mantenere la continuità di alcuni punti cardini per garantire una sufficiente stabilità, quale presupposto di crescita. La conflittualità esasperata rischia cioè di inficiare la convivenza civile senza riuscire più a far emergere le istanze e gli interessi che invece la politica dovrebbe rappresentare compiutamente. Anziché definire con chiarezza le regole del gioco, cui tutti devono attenersi, si cerca di salvaguardare gli interessi individuali, che non riescono ad aggregare nessun altro che non i diretti interessati. Si pone di conseguenza la necessità di definire i limiti di rivendicazione degli interessi dei singoli, sapendo che vi è un vincolo di sopportabilità da parte degli altri gruppi: se crescono le rivendicazioni e contemporaneamente si riduce la tollerabilità nei confronti delle altrui richieste, inevitabilmente si assiste ad un esplosione continua di confitti che, senza un “arbitro” super partes, non si possono risolvere. In altre parole, un gruppo sociale accetta le rivendicazioni e i disagi dello sciopero proclamato da una categoria sul tacito compromesso che anch’esso potrà infliggere altrettanti disagi agli altri gruppi antagonisti. In questo contesto, dal confronto tra interessi dialetticamente contrapposti rappresentati anche dai partiti, la “politica” può svolgere un ruolo di mediazione e di sintesi propositiva proprio grazie alla presenza dei partiti. L’esistenza, per non dire l’egemonia dei partiti nella continua ricerca di compromessi ha permesso un costante aggiornamento degli equilibri sociali, ma ciò non deve portare all’immobilismo.
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Essenziale, per un elettore, è sia sapere che il suo voto vale come quello di tutti gli altri cittadini e che il compromesso raggiunto non sia a scapito del suo status, sia sapere dove gli altri componenti della collettività si stanno indirizzando: nell’attuale situazione, tranne i pochi che conoscono tutte le leggi che regolano il sistema, per la maggioranza si rischia di perdere coscienza di come e quanto vale il proprio voto e come può influenzare il governo, facendo così cresce il senso di abbandono (da cui il fenomeno dell’astensionismo). Ad entrare in crisi è lo stesso modello di welfare cui si sovrappone sempre più un mix di interessi particolari (specie quelli che derivano dalla gestione dei meccanismi di welfare), senza che i partiti riescano a sintetizzare soluzioni sinergiche e a legittimarle agli occhi del cittadino. Che cosa deve fare e che cosa deve garantire uno Stato moderno sembrano sempre più questioni lontane dal dibattito politico. In sintesi, si possono individuare due ordini di ragioni: - la prima riguarda la legittimazione dello Stato stabilendo gli asset dell’azione politico-strategica per definire lo sviluppo della società: si tratta cioè di definire su quale “scacchiera” ci si deve muovere per assicurare la trasparenza delle regole. In una moderna società il moltiplicarsi di istanze e di interessi rende sempre più determinante la conoscenza delle regole del gioco e i partiti devono garantire che tutto ciò avvenga; - la seconda riguarda i canali di rappresentanza politica e di legittimazione delle forze politiche, nella gestione della cosa pubblica nell’interesse generale che non si può ricondurre solo ad una questione d’immagine o di occupazione del potere. Gli attori della società devono cioè trovare dei canali istituzionali, politici e sociali in cui far presente le proprie istanze e difendere i loro legittimi interessi. L’attenzione al quotidiano, per non dire all’istantaneo dei social network, riduce la capacità progettuale in un momento dove impegni internazionali e sconvolgimenti sociali indurrebbero a definire nuovi asset in grado di interagire con poteri e regole non più dettate dal singolo Stato nazionale. I partiti sono così chiamati a ricercare consenso una realtà limitata e a ragionare in termini globali (con il rischio di non centrare nessuno di questi obiettivi). I nuovi soggetti internazionali vengono, di volta in volta, visti come una specie di panacea per tutti i problemi (Europa e ONU), oppure come fonte di tutti mali (FMI e G8 contro cui si sono organizzate proteste violente). Il rapportarsi con le istituzioni internazionali non deve essere vissuta come “prendere o lasciare”, ma come opportunità per razionalizzare il sistema, adattandola alla singola realtà.
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L’impossibile tutela pubblica su “tutto” lo scibile, basata su aiuti e sovvenzioni che imbrigliano il potere politico fuori da una reale capacità di indirizzo, relega lo Stato a tamponare in modo marginale ed inadeguato situazioni di emergenza: lo Stato, agli occhi di molti, sta diventando quella cosa che non riesce a risolvere i problemi che altri creano. Contraddittoria è la stessa gerarchizzazione degli interessi da tutelare: rispetto a che cosa ha realmente bisogno un imprenditore, un’associazione no profit, un anziano, un cittadino tout-court, non è detto che lo Stato attuale vi risponda in modo razionale, rincorrendo semmai le emergenze senza influire sull’evolversi dello scenario. Il potere decisionale si sta cioè spostando dalla rappresentanza popolare legittimata dal consenso, in un’infinità di istituzioni tecnocratiche, che non si limitano a svolgere un ruolo di “arbitro garante della correttezza del gioco”, ma di veri e propri soggetti decisori il cui comportamento e i cui principi etici sono frutto di elaborazioni compiute da un ristretto numero di individui. Anche se fossero scienziati ad economisti, di innegabile valore, si tratterebbe sempre di pochi soggetti che determinano soluzioni di natura politica ed infatti, ad esempio in Italia sono decenni che il Ministro dell’economia non viene scelto tra i politici di carriera, con innegabili vantaggi per la tutela dei nostri risparmi: un po’ meno per le sorti della democrazia. Senza che la gente se ne accorga, si rischia di perdere quel potere e quelle libertà di cui si è goduto in questi ultimi decenni trasformando il tutto in una gabbia burocratica da cui le attuali forze politiche non riescono a prospettare una via di uscita (spesso riducendosi a chiedere l’abrogazione di quanto fatto nel recente passato): quasi fossimo affetti da un’egemonia del presente. I normali, e un po’ logori canali di rappresentanza della volontà, rischiano di non riuscire più a districarsi dai singoli episodi, anzi non riescono neanche più a gestirli: prerogativa questa in capo ai mass media e ai social network che possono condizionare significativamente la formazione di giudizi in qualsiasi campo più che non i partiti. Ma il singolo cittadino che già si sente escluso dai partiti, difficilmente accrescerà il proprio potere presso qualsivoglia altra istituzione: siamo in presenza di un’oligarchia che nasce nel virtuale, ma i cui effetti si riversano nel reale, spesso in modo incontrollato.
Il fine ultimo dei partiti Anziché progettare il futuro, i rappresentanti politici si arrovellano sul come salvare il proprio presente. In effetti, mentre per le generazioni passate si prospettava un futuro migliore di quello vissuto dai propri avi, attualmente tale aspettativa si è interrotta e rischia di invertirsi. Nessun partito ha però voglia di farsi carico di spiegare questo stato di cose, ma il prospettare crescite con45
tinue suona puramente illusorio e rischia di far perdere credibilità al sistema nel momento in cui non riesce più a prospettare nuovo e maggiore benessere (che non necessariamente vuol dire nuova ricchezza). Al di la degli slogan, ai partiti viene chiesto di ragionare sul bene comune quale punto di convergenza e di collegamento dei rapporti che costituiscono la società. Per Aristotele “Ogni stato è una comunità e tutte le comunità si formano in vista di un bene”: se il fine è la creazione del bene comune (non di una rivendicazione come invece insegna la nostra società consumistica) il ruolo del partito diventa quello di far muovere tutti gli elementi in questa direzione, ma ciò diventa particolarmente complesso in un contesto globalizzato. Non si parla di partito a chilometro zero perché la difesa anche degli interessi più locali ha bisogno di interloquire con il resto del mondo, ma si fa strada un atteggiamento collusivo con lo “spreco consensuale”, dove cioè tutti sostengono un consumo, anche quando la sua utilità marginale è minima se non negativa (anziché criticare la delocalizzazione, è necessario costruire in loco condizioni migliori). Il concetto di globalizzazione è stato visto sia come la possibilità di realizzare in grande quello che si elabora a livello locale, sopperendo così alle inefficienze locali, sia come la negazione delle culture locali. Queste tendenze dicotomiche anzichè essere sfruttate come identificazione politica dovrebbero trovare momenti di sintesi alla cui composizione dovrebbero partecipare tutti i partiti, ognuno con la propria posizione. Si può affermare, in prima approssimazione che le crisi cicliche accelerano i processi sociali, mentre le crisi epocali sostituiscono gli asset su cui si basa la convivenza civile. Il contrastare le fasi di crisi riproposte dai cicli economico sociali o, per lo meno, ridurne gli effetti più deleteri è compito delle scienze che si occupano della società ed hanno dato origine ad un’infinità di studi eseguiti da tutte le scuole di pensiero politico. Ripensare nuovi progetti sociali richiede invece che la politica si sposti nella filosofia in modo da poter elaborare soluzioni attraverso la ricerca che la ragione umana può condurre sugli esseri reali (fisici o spirituali che siano) per coglierne gli aspetti più profondi e innovativi. In quanto condotta dalla ragione, la filosofia politica si differenzia dal partitismo in quanto poggia sulla vitalità generata dai nuovi elementi diversificandosi dal semplice evidenziare o gestire i componenti che caratterizzano l’esistente, facendosi invece carico degli aspetti connessi all’atteggiamento che individuo o collettività devono assumere di fronte alla caducità dalle condizioni di vita. Una società opulenta induce infatti a prestare una notevole attenzione a quelli che sono gli aspetti connessi al benessere, tant’è che diventa sempre più
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difficile individuare una demarcazione tra società e fattori edonistici. Il ricercare una soddisfacente qualità della vita rappresenta sicuramente una legittima e prioritaria aspettativa, che si traduce in un diritto per la persona quando, per una società, diventa possibile e fattibile realizzarne le condizioni. Il problema della creazione del benessere in una società rappresenta infatti il fine che determina molti degli ultimi perché delle scienze oggetto di studi nelle nostre università umanistiche, specie oggi dove le sfide della globalizzazione, faticano ad integrarsi con le esigenze locali. La globalizzazione non sempre viene vista come la possibilità di realizzare in grande quello che non si riusciva ad elaborare a livello locale, ma come una graduale perdita delle proprie tradizioni. L’idea base diventa quella di studiare come realizzare delle condizioni di benessere e sviluppo per tutti, quale presupposto per l’adozione di modelli generali adattabili alle singole realtà per realizzare condizioni migliori, nel rispetto delle diversità. Il problema si pone laddove si è raggiunto un livello di benessere superiore che in passato: si avverte la preoccupazione di non riuscire a mantenere tali livelli per ampi strati della popolazione. Ne deriva la necessità per i partiti di individuare i fattori che contribuiscono al benessere e come questi possono interagirsi in un contesto sostenibile. La produzione legislativa degli ultimi decenni si è spesso ispirata alla volontà e alle spinte demagogiche volte a creare benessere, ma la cui efficacia e applicabilità non sempre corrispondono ai propositi. Ci sono state “norme” che hanno riscontrato grande favore, ma che all’atto pratico hanno appesantito la vita quotidiana producendo scarsa utilità e tanta burocrazia: anzi hanno contribuito ad accentuare scontri, qualche volta degenerati anche in violenza, tra le diverse componenti sociali. Se questi scontri portassero ad individuare nuovi assett in grado di riaggregare i gruppi sociali, allora si assisterebbe ad un progresso sociale, se invece rimangono fini a se stessi occorre potenziare le conoscenze dell’economia del welfare in modo che si crei: - una cultura di base in grado di acquisire e diffondere le conoscenze; - uno skill adeguato per disporre di un management qualificato ad affrontare il problema; - fornire adeguato e tempestivo supporto ai decision maker; - individuare a livello teorico soluzioni in grado di generare efficienza e valore aggiunto in termini generalizzati.
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Quali sono i parametri e gli strumenti per stabilire se siamo in presenza di una amministrazione, o di singoli atti, in grado di produrre benessere, diventa così oggetto specifico delle scienze economiche. Se però nel passato gli sforzi effettuati portavano in modo inequivocabile a star meglio, negli ultimi tempi molti degli sforzi compiuti in questa direzione hanno portato a risultati diametralmente opposti: si è preso coscienza che ricercare un maggior benessere tramite il deficit pubblico porta ad esasperare la situazione oltre ogni misura illudendosi di scaricare il prezzo sulle prossime generazioni. Il problema è che siamo noi la prossima generazione.
Partiti a km zero o spreco consensuale Il processo di globalizzazione ha portato alla ribalta la gestione localistica dei rapporti con i cittadini. I progetti di gestione sovranazionale non sembrano aver risposto alle aspettative, sia quando questi si sono indirizzati verso tematiche specifiche (tipico esempio, la fame del mondo) sia quando hanno cercato di rinunciare reciprocamente alla sovranità nazionale per condividere progetti comuni (come è successo con l’Unione Europea). Finché la crescita economica generale, o più esattamente, l’illusione di poter ingigantire continuamente il deficit delle singole nazioni, permetteva di finanziare questi progetti senza intaccare il progresso delle singole realtà economiche, si registravano ampi consensi. La crisi economica di questi ultimi anni ha spezzato questa fiducia nella “condivisione del progresso”. E la reazione in molte nazioni è stata quella di riportare al livello locale una centralità che sembrava destinata ad esaurirsi a vantaggio della globalizzazione. In tante aree della vecchia Europa il dibattito è tornato ad incentrarsi su quale ruolo possono ricoprire i poteri locali, partendo dall’assunto che a questo livello vi è un più diretto contatto “cittadino – istituzioni” e la possibilità di massimizzare l’utilità dei servizi resi per una maggiore inerenza di questi alle reali esigenze di quella specifica collettività. La ricerca di una maggiore integrazione sopranazionale si è spesso sviluppata, se non in contrapposizione, senza coinvolgere sufficientemente le specificità locali: questa mancanza di sincronia ha comportato, in alcuni casi, di generare un fenomeno contrario, avvalorato da una sensazione presente in molte collettività, di essere defraudati dei propri sacrifici. La contrapposizione tra necessità di innalzamento del livello decisionale e quello di mantenere le singole collettività ancora protagoniste del loro destino, sta diventando un problema politico economico di fondamentale importanza per la risoluzioni di conflitti attualmente in atto nella nostra società. Non essendovi ragioni che a priori stabiliscano il successo di una soluzione 48
rispetto all’altra, occorre che le scienze economico sociali, accrescano le conoscenze sugli effetti di accentrare/decentrare il livello decisionale. In particolare, si rende necessario individuare qual è il collegamento che si viene a creare tra la tassazione e la redistribuzione della ricchezza in base ad una logica che prevede anche la competenza territoriale (la questione di dove pagare le tasse da parte di alcune multinazionali, ne è l’esempio più evidente). L’applicazione di questa regola porterebbe, se non corretta, ad una rapida creazione di disequilibri tra le varie aree, ma anche l’imposizione di trasferimenti forzosi di ricchezza fatta non più tra classi sociali, ma tra realtà territoriali. L’attuale crisi porta infatti le singole aree geografiche a trovare forme di difese della propria posizione, anche accettando l’accusa di insensibilità, se non anche quella di razzismo. A portare verso questa posizione i componenti di più classi sociali è la difesa di un raggiunto stato di benessere che non si è disposti a condividere con altri, in quanto si ha paura che questa condivisione, porti di fatto, ad una perdita del benessere acquisito. Si pone di conseguenza la domanda su quale diritto ha un soggetto di consumare più risorse rispetto a quante ne consuma un suo simile nel resto del mondo. In questo contesto il termine consumo non è solo da considerare nella sua accezione attiva di distruzione di risorse, ma sempre più come generare effetti sull’inquinamento: se tutti gli abitanti della terra avessero a disposizione un’auto, l’impatto ambientale risulterebbe insostenibile. Ed allora si pone il problema di stabilire chi ha il diritto di consumare e/o inquinare. Ma questo approccio appare del tutto aleatorio, a chi non riesce a procurarsi un reddito ritenuto sufficiente per le proprie esigenze. Di recente, nei paesi occidentali, vi sono state manifestazioni di protesta effettuate da categorie con un reddito medio-alto. La rivendicazione di legittime aspettative, anche da parte di categorie a agiate, è ovviamente un diritto incontestabile. La drammaticità della crisi e lo spostamento della centralità economica verso i paesi emergenti, fanno però apparire alcune rivendicazioni come mera difesa di casta. La società occidentale sembra quasi essersi bloccata, non sui principi che ne hanno permesso il successo nei secoli passati, ma sulla rivendicazione di aspetti marginali di questi, ignorando la crisi che sta attanagliando la società nel suo complesso. La ribellione a queste sovrastrutture, spesso percepite come farraginosi appesantimenti burocratici, si traduce in una riscoperta del localismo, quale possibilità di creare strutture vicini e conoscibili da parte del singolo cittadino. Il fenomeno trova, a livello politico, diverse espressioni, a testimonianza dell’attualità del problema. I prodotti a km zero, ad esempio, sono un tentativo di riportare la frenesia dei consumi che contraddistingue la società
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occidentale ad una dimensione locale ed ecosostenibile. Non molti anni fa i pochi ministri ed opinion leader che cercavano di consigliare di “consumare prodotti locali” venivano derisi per la loro incapacità di ragionare in termini globali. I novelli sponsor dell’economia curtense, trovano invece nella sensibilità delle culture ecologiste spazi di affermazione. Il km zero non è infatti l’uva delle favole di Fedro, ma la consapevolezza che la ricchezza e il benessere non sono valori che si possono acquisire e trasportare in sfregio alle limitatezza imposte dalla distanza fisica e culturale tra le varie parti della terra. Se però il problema è quello di organizzare una rete di produzione di beni e servizi in grado di soddisfare le esigenze della popolazione locale, occorre stabilire regole e individuare una classe politico/manageriale in grado di soddisfare queste esigenze. In quest’ambito le grandi istituzioni sovranazionali perdono il loro ruolo di “governanti” assoluti del sistema per assumere un ruolo meno appariscente, ma non per questo meno importate, di enti in grado di assicurare l’armonia tra le singole realtà locali, in modo che le aspettative di una di queste non leda la possibilità di crescita delle altre. Anzi l’indeterminatezza con cui si modificano le singole comunità locali rispetto al passato, obbliga a prevedere enti di riferimento in grado di coordinare la velocità di cambiamento. In passato infatti la popolazione stanziata su un territorio tendeva a costituire una realtà stabile per cultura e legami famigliari, facilmente identificabile per usi e costumi (difficili da condizionare dall’esterno o da Facebook). Tale omogeneità portava ad acuire i conflitti con gruppi limitrofi che presentavano caratteristiche diverse o che semplicemente minavano gli interessi economici consolidati. Per difendere la propria identità sono state combattute un’infinità di guerre, definendo gli attuali assetti internazionali e locali. Questi equilibri sembrano non rispondere più alle esigenze del mondo globalizzato. Nell’attuale contesto le popolazioni si modificano ad un ritmo tale per cui molti componenti delle classi più agiate si definiscono cittadini del mondo, mentre quelle più povere rischiano semplicemente di non essere più cittadini, ma immigrati o rifugiati. Le relazioni tra le collettività sono cresciute a livello esponenziale rendendo il confine della “collettività di riferimento stanziato in un determinato territorio” quasi privo di significato. Anche a livello elettorale ci si interroga su chi, o dopo quanto tempo in cui si risiede in una zona, ha diritto al voto. Se il confronto politico si arrovella per trovare una soluzione sufficientemente condivisa, il problema diventa più complesso a livello economico. Se è possibile pensare di accrescere le difficoltà per impedire il commercio di prodotti ad alto impatto ambientale, più complessa è la possibilità di ral-
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lentare il processo di integrazione economica internazionale reinserendo barriere tariffarie e doganali. Oggettivamente tali provvedimenti sembrerebbero anacronistici, oltre che impraticabili. I prodotti contraffatti arrivano presso i mercati occidentali da ogni parte del mondo e non sempre è possibile rilevare tempestivamente contraffazioni potenzialmente pericolose per la salute. L’instabilità della composizione delle collettività comporta - usiamo un neologismo che può risultare strano, ma che dovrebbe rendere bene la situazione - una “complessificazione” dei problemi, in quanto non si tratta più di stabilire quanti prodotti possono arrivare da altri parti del globo, ma di capire se lo stesso principio possa applicarsi anche per il concetto dei diritti e del potere decisionale di cui l’acuirsi della guerra sui dazi e solo un’espressione. Parlare di diritti o di potere decisionale a km zero rischia di trasformarsi in uno slogan politico, mentre dovrebbe sottendere la capacità di individuare regole e meccanismi che recepiscano la rapidità dei cambiamenti socio-demografici che contraddistinguono tutte le collettività e nel contempo creino condizioni economiche in grado di valorizzare le forze di lavoro disponibili. Gestire questo processo prevede, sia un “arbitrato” internazionale autorevole, sia una forza locale in grado di rappresentare le specifiche esigenze. Quello che forse verrà a mancare in futuro è la possibilità di richiedere alle sovrastrutture di sopperire alle deficienze locali. Se, infatti, a livello planetario si disponesse di un eccesso di risorse, queste andrebbero indirizzate per le aree più emarginate del mondo, dove il problema è ancora quello di sopravvivenza alla fame. Ne consegue che i diritti vantati nelle aree ricche del pianeta devono essere soddisfatte con le risorse ivi presenti e non generando deficit che non potranno più essere scaricati sulle generazioni future o sullo sfruttamento di altre aree del mondo. I diritti e il potere decisionale a km zero diventa così la presa di responsabilità delle singole aree a farsi carico del proprio destino senza offendere le altre realtà (sia in termini generazionali, che geografici). Questo tipo di approccio obbliga a definire alcune variabili di natura economico e politica: chi è legittimato a governare i processi a livello locale e dove e come questi si devono conciliare con quelli delle altre collettività. Quello che per un cittadino occidentale è un irrinunciabile diritto, per un extra comunitario è un miraggio irraggiungibile: questo diverso atteggiamento porta ad un contrasto di interessi e il maturare di situazioni economiche diverse. Il ragionamento può partire da chi oggi è ancora in grado di risparmiare o di accumulare capitali nella nostra società. Con la pressione fiscale agli attuali livelli, il ceto medio, tradizionale accumulatore di risparmio, difficilmente riuscirà a conservare questo ruolo centrale, mentre spazio di accumulo sembrano avere le organizzazioni che riescono ad eludere la pressione fiscale.
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In quest’ottica si affermano i grandi gruppi internazionali che riescono, con facilità, a spostare gli utili nello Stato dove si concretizzano le migliori condizioni fiscali. A risparmiare però è anche una nuova categoria di persone: gli immigrati nei paesi occidentali, percepiscono spesso redditi non regolari (si pensi alle badanti) ma che per le condizioni di vita cui sono sottoposti, riescono ad accumulare risparmi che in genere vengono trasferiti, come rimesse, ai loro paesi di origine. Tali risparmi possono però anche essere reinvestiti nel territorio, come dimostrano i rogiti notarili di alcune città o costituire la base per la nascita di piccole imprese (in molte camere di commercio, le nuove imprese i cui titolari sono soggetti extracomunitari quasi eguagliano quelle degli aborigeni). Se parte del potere finanziario ed imprenditoriale passa in capo a soggetti non tradizionalmente facenti parte della comunità occorre ridisegnare la mappa decisionale a questo continuo modificarsi di interessi. Il successo delle nuove comunità locali dipenderà proprio dal conciliare interessi ed aspettative diverse, dove la volontà di alcuni di affermarsi contrasta con la volontà di altri di mantenere determinate posizioni e stili di vita non più sostenibili dalla loro capacità economico-finanziaria. Il confronto tra culture diverse obbliga a chiedersi che cosa ogni individuo può offrire al progresso sociale e non a limitarsi a difendere una posizione di vantaggio data dalla storia. In ogni collettività occidentale viene così a riproporsi un confronto tra soggetti con aspettative diverse. Tali confronti tendono a spostarsi sulla forza economica, più che non sulla rappresentatività sociale. Il pensare che a livello centrale si possano mediare tutte queste situazioni, tra loro profondamente diverse, è impossibile ed allora la soluzione si sposta nell’autonomia decisionale che si deve concedere alle singole realtà nel risolvere i micro conflitti che si andranno sempre più a generare. Il gestore di questa fase non può più essere solo il politico in senso stretto, ma un soggetto in grado di interloquire con più realtà. Scopo principale di questa figura è quella di rendere conveniente investire in una determinata realtà. Per ottenere questa situazione occorre la concomitanza di più fattori, sia economici che sociali. La convivenza tra culture diverse diventa quindi una condizione di pace sociale necessaria per raggiungere lo sviluppo economico. Tale condizione però presuppone una notevole flessibilità nelle aspettative dei singoli ed è in questo contesto che anche i diritti, fatti salvi i principi fondamentali dell’uomo, irrinunciabili in qualsivoglia circostanza, devono essere rapportati alla singola situazione. L’immagine della decadenza della nostra società è data da quegli stabilimenti industriali che hanno cessato di ospitare attività manifatturiere, per essere trasformati in archivi per gli enti pubblici. Di fatto non diamo più
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lavoro alla gente, però conserviamo tutto con ineccepibile perizia. La collettività locale che assiste a queste stranezze è titolata ad esprimere il proprio rammarico sulla gestione della cosa pubblica. Rammarico che non si tradurrà in un assalto popolare tipo presa della Bastiglia, ma che crea in significativo distacco dell’individuo dalla gestione della cosa pubblica. Il cittadino vede lo spreco, ma non riesce più culturalmente ad opporsi a questo, ne dispone di strumenti idonei per invertire la rotta: lo stesso strumento elettorale tende ad avvantaggiare maggiormente, le forze che propugnano un deficit spending che non quelle che richiamo ad un maggiore rigore finanziario. La spesa pubblica, ancorché non redditizia permette, a chi la produce, di ricavarne un beneficio, mentre la restante popolazione la percepisce come un fattore non di sua competenza. Lo scontro, anche violento, che sta avvenendo in tante piazze della vecchia Europa, è proprio tra l’esigenza di creare le condizioni per una crescita duratura nel lungo periodo, anche a costo di sacrifici nel breve e chi non vuole rinunciare ai benefici/diritti acquisiti (il confine tra beneficio e diritto nella nostra società è diventato ormai aleatorio ed è soggetto ad interpretazioni sempre più personalistiche), illudendosi che il manifestare possa cambiare la situazione o che possa far pagare il costo della crisi a qualcun altro. Il confronto nei paesi occidentali si sta cioè spostando dalla necessità di una composizione di interessi contrapposti, espressione delle diverse classi sociali ed economiche, ad un disputa sulla possibilità di detenere, anche solo per un breve periodo, le leve di potere. Marginale risulta a questo punto il ruolo svolto dalle singole collettività, ridotte spesso a ruolo di “tifosi” delle singole fazioni politiche, più che di protagonisti. Anche sotto il profilo politico, l’individuo rischia di trasformarsi, da elettore, a consumatore di prodotti politici, confezionati più con le logiche di marketing, che non espressione di una visone ideologica. Il cittadino rischia di perdere non solo il suo potere decisionale di elettore, ma anche quello di controllore della gestione pubblica, sia per la difficoltà insita nel governare le grandi imprese pubbliche, sia per la non sufficiente consapevolezza del danno diretto che deriva, anche al singolo, per gli eventuali sprechi perpetrati. Questa asfissia del cittadino è conseguenza di una mancanza di maieutica politica di questi ultimi anni che ha lasciato spazio ad un consumismo frenato, fino al punto che tale consumismo convulsivo è stato percepito come un diritto irrinunciabile. Nel momento in cui però, in altre parti del mondo, miliardi di persone raggiungono un maggior livello di benessere, la necessità, di keynesiana memoria, di accrescere i consumi per sostenere la domanda aggregata perde di significato. Il cittadino occidentale continua a rivendicare il suo diritto di consumare, ma la grande produzione preferisce orientarsi verso
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altre aree geografiche, maggiormente interessanti sotto un profilo di crescita e, soprattutto, maggiormente solvibili. Il deficit delle nazioni occidentali garantisce sempre meno la possibilità di accontentare tutte le richieste provenienti dalle rispettive popolazioni. Anzi, per garantire l’equilibrio generale dei conti sarà sempre più necessario mantenere un ferreo controllo sulla finanza pubblica. Per sopportare questo passaggio diventa fondamentale perseguire un maggior livello etico nella distribuzione delle ricchezze: se eventuali squilibri sono maggiormente tollerabili in fasi espansive, in fase recessiva, una non sufficiente distribuzione dei sacrifici diventa particolarmente intollerabile da parte della popolazione (si veda la difficoltà di ridurre i benefit dei parlamentari). Per evitare questa insofferenza diventa necessario prevedere di riportare, a livello locale, dei meccanismi di verifica e controllo in modo tale da far conciliare le pretese, con le effettive disponibilità di risorse. Una sfida certamente non facile, ma possibile, per una società decadente come quella occidentale, che fatica sistematicamente a ritrovare un’unicità di intenti e che forse, proprio dalla gravità della crisi, può ritrovare, energie per un rilancio.
I partiti e la crisi economica 1
Nel dopo guerra gli aiuti del piano Marshall permisero a molti paesi, tra cui l’Italia (uscita distrutta dalla II guerra mondiale) di vivere al di sopra delle reali possibilità, poi fu il deficit spending e politiche monetarie impostate su svalutazione e l’inflazione a permettere di conseguimento di alti livelli di benessere: ciò ha portato in capo ad ogni cittadino un significativo debito (per un italiano circa € 50.000). I partiti si trovano nell’imbarazzante situazione di scegliere tra il nascondere il problema (e poi trovarci come la Grecia o dover fare affidamento di nuovo a governi tecnici), oppure affrontare in modo equo la situazione, percorrendo scelte impopolari. Il problema politico non è più quante risorse si riescono a raggranellare ma come spenderle e su questo si giocherà la credibilità dei partiti. Tentando di gerarchizzare gli interventi, si possono individuare le seguen- ti tematiche: 1.stabilità sociale (contrasto alla delinquenza e ridotta conflittualità quale condizione per una civile convivenza); 2.potenziamento dei servizi strutturali e sicurezza negli approvvigionamenti (collegamenti reali e informatici, infrastrutture, funzionalità dei servizi pubblici e privati quale precondizione per ogni altra attività); 3.cultura sociale e professionalità presenti in loco (grado di coesione sociale, skill, d’avanguardia e disponibilità di tecnici qualificati); 54
4. stabilità politico istituzionale e funzionalità della burocrazia; 5.potenzialità mercato locale, costo dei servizi proporzionato alla loro utilità e capacità di sostenere le fasce più disagiate. Stiamo attraversando la più grande crisi economico finanziaria dal 1945, ma da questa crisi non emerge ancora una nuova impostazione e concezione della società. Il concetto che ha prevalso, fino al 14 settembre 2008 in cui la Lehman Brothers è fallita, voleva una finanza libera da vincoli con il paradigma secondo cui “i soldi si fanno con i soldi”, drogando l’economia, portandola al collasso. Il mondo che verrà, dopo il superamento della crisi avviata simbolicamente in quel 14 settembre 2008, presenterà ancor più diseguaglianze. Si concretizzano situazioni opposte: richieste di cassa integrazione provenienti da una azienda e richieste di straordinari per aziende vicine, e sarà così per molti anni a venire, anche per il complicarsi dei mercati e il rapido sviluppo della tecnologia. Quindi sarà necessaria una grande flessibilità/abilità di manovra nell’affrontare i problemi e nel trovare possibili soluzioni. Il futuro della politica non sarà più quello di difendere migliaia di persone tra loro indifferenziate, ma quello di partecipare a tutti i tavoli, locali e internazionali, con un preciso mandato: difendere gli interessi generali di una collettività per garantirne lo sviluppo. A livello locale si tratta di distinguere tra due posizioni sempre più antitetiche che con un linguaggio un po’ bonario, ma chiaro, può sintetizzarsi con l’aggregazione in due correnti di pensiero sulla spesa pubblica: - Il partito della spesa pubblica ad oltranza (indipendentemente dal deficit prodotto); - Il partito della spesa pubblica efficiente. In Francia ed Inghilterra il problema sta esplodendo, in Germania la tematica è sempre stata presente: in Italia il problema non è ancora stata affrontato per le conseguenze che questo può provocare. Nell’attuale contesto, per la gran massa della gente appare prioritario e fondamentale salvare il lavoro, e ciò sta diventando l’obiettivo imprescindibile, al quale non si può rinunciare. Il posto di lavoro è un valore non in senso astratto o un dogma, ma una ricchezza che si acquisisce giorno per giorno e si concretizza in esperienza, conoscenza dell’ambiente e in know-how. Valori che si costruiscono nel tempo ma che possono essere distrutti in un attimo. Una cosa ci ha insegnato questa crisi: fallisce un’azienda nell’altra parte del mondo e vengono messi in cassa integrazione i nostri lavoratori. Ovviamente non è possibile chiedere, per precauzione, un posto nei consigli di amministrazione di tutte le aziende, ma diventa un problema collettivo poter esprimere giudizi su manager pubblici e privati che, per raggiungere i loro obiettivi
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(e, di conseguenza, i loro lauti incentivi) compromettono le potenzialità future. La politica ha diritto/dovere di formulare giudizi ed esprimere proposte sui parametri fondanti la collettività e sull’operato dei singoli elementi costituenti la società: da quelli etico/morali a quelli economici a quelli riguardanti la convivenza civile e alle sue istituzioni, perché da questi deriva il futuro del sistema e di ogni singolo individuo. In economia il ruolo dello Stato non è però solo più quello di colui che stabilisce le regole: in quasi tutte le nostre città, l’azienda più grande risulta essere una struttura pubblica (l’organizzazione amministrativa di regione, la provincia e il comune o l’ospedale) e quindi, vi è la responsabilità, da parte del settore pubblico di ricoprire un ruolo guida. Una programmazione strategica non consona costituirebbe un errore con un impatto negativo non solo sul settore, ma per tutta la società. L’ambito pubblico diventa così, contemporaneamente, “regolatore” “esempio” e “attore operativo”. Se il ruolo di “regolatore” è tipica del settore pubblico, maggiore attenzione devono essere invece prestati agli altri ruoli. Ad esempio, non sarebbe affatto fuori luogo che la politica si battesse perché le aziende pubbliche si rifiutino di avere tra i propri fornitori le aziende che adoperano, anche solo indirettamente, manodopera infantile o che licenziano per far ricorso ad una manodopera precaria e facilmente ricattabile. Nelle imprese pubbliche operano tante imprese e cooperative serie e rispettose delle norme, ma anche tante dove le norme sull’impiego del personale sono un optional. Più in generale è necessario rivedere il Welfare state in una logica di welfare community dove tutti si sentano protetti, ma dove tutti contribuiscano ad offrire il loro contributo, come condizione per far parte della comunità. La sterile rivendicazione di diritti, per quanto condivisibili, non permette di disegnare uno sviluppo della società, mentre una partecipazione diretta ed un’associazione diritti/doveri, può offrire una via di uscita all’attuale impasse. Non si tratta solo di un vago discorso culturale. La partecipazione diretta è l’unico vero valore e patrimonio su cui un Paese democratico può contare. L’Italia poi, se si esclude un patrimonio artistico di inestimabile bellezza, è totalmente priva di materie prime. Non siamo neanche una potenza finanziaria, non abbiamo grandi tradizioni nel rendere efficiente e produttiva la macchina dello stato, né abbiamo primati, pur con le debite eccezioni, nelle alte tecnologie. Ed allora, se non funziona la convivenza civile, quale presupposto per la valorizzazione della fantasia e dell’intelligenza degli italiani, il paese rischia di non avere futuro. Abbiamo il lavoro, la fantasia, l’ingegno, che sono radicati nel nostro dna e che ci permettono di avere una caratteristica: il nostro valore aggiunto è il made in Italy. Distruggiamo la capacità e la voglia di lavorare e questa nostra società non ha più alcun futuro.
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La difesa del lavoro e con esso quello della realizzazione dell’uomo passa cioè dal costruire le condizioni e i presupposti che sappiano organizzarlo. Ed è compito di ogni singolo individuo e di ogni singola collettività promuovere queste condizioni e vigilare che vengano realizzate, con o senza l’intermediazione dei partiti. Il problema della scarsa capacità dei partiti a svolgere questo ruolo, complica notevolmente il problema. Non sappiamo qual è l’ufficio anagrafe più efficiente, il reparto di medicina più affidabile, la distribuzione dell’energia più razionale sul territorio etc. Ma sappiamo tutto sulle escort, sui cognati e sulle barche a vela dei nostri politici (ma forse questa distrazione di attenzione è voluta per ridurre il numero di votanti). Parlando di economia ed etica assume inoltre particolare importanza garantire la sicurezza e la tranquillità di cui devono godere i singoli componenti. Si torna a parlare del valore del posto fisso, non più come rivendicazione sindacale, ma come presupposto per una vita dignitosa ed una speranza verso il futuro, riscoprendo che un lavoratore dipendente ha una propensione al consumo maggiore che non quella di un precario, ma ciò non deve portate all’immobilismo. Non esiste infatti solo una “democrazia bloccata”, ma una società bloccata che non riesce più a decidere su niente: o peggio ogni decisione porta con se un’infinità di polemiche, da annullare i potenziali effetti positivi. Compito dei partiti è quello di far uscire la società dalla perenne transizione che ha caratterizzato gli ultimi anni della nostra Repubblica. In un sistema complesso, se qualche cosa non funziona, è tutta la società a pagare lo scotto: ricordiamo come la forza di una catena è data dal suo anello più debole. Ed è sempre più compito dei partiti, fare proprie queste istanze, perché quando la catena si spezza è il più debole a pagarne le conseguenze. Ed oggi il più debole non è più il lavoratore, ma il precario, l’ammalato, il disagiato etc. In una società fortemente integrata, un imprenditore negligente o un manager inetto sono un problema di tutti. Ma allora ci si deve chiedere con forza maggiori strumenti per misurare certi fenomeni e non ripararsi dietro all’affermazione “non possiamo fare niente a causa dell’eredità del precedente governo”. Ma nessuno fa qualche cosa per impedire che ciò avvenga. Il cambiamento non può però venire dall’alto ma deve presupporre una significativa partecipazione della collettività alla “governance” della cosa pubblica. Quest’approccio è ancor più necessario nel nostro Paese dove il settore pubblico allargato rappresenta più del 50% del P.I.L., ma che non riesce a definire uno stile manageriale nel gestire questa grande massa di fondi pubblici (e le speranze di futuro): il settore pubblico è governato da forme che
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vanno dall’assemblearismo più accentato, ad organi monocratici. Le singole collettività si sentono escluse dalle logiche di potere che ne derivano, ma soprattutto si sentono escluse dalla gestione delle strutture chiamate a garantire i servizi essenziali: anzi in alcuni casi percepiscono queste come sovrastruttura burocratiche trasferite/imposte da un’autorità superiore senza che si possa avviare una fase di integrazione con le specifiche esigenze. Le indicazioni della Commissione Europea, recitano testualmente che bisogna perseguire il: “… raggiungimento di un equilibrio tra gli obiettivi economici e sociali del mercato unico, in particolare, attraverso il loro ruolo determinante nell’anticipazione e nella gestione responsabile del cambiamento”. Il problema è stato eluso quando si disponeva di una maggior disponibilità di risorse: oggi si deve riformare riducendo i costi, e la cosa non puòessere indolore, ma le condizioni economiche e l’antipatia che i concittadini nutrono verso le istituzioni pubbliche, obbligano ad un salto di qualità. Se si continua nello scontro continuo tra istituzioni e cittadino non vi è molta possibilità di sviluppo e ci si incammina verso un’inevitabile decadenza. Purtroppo queste tematiche sono sistematicamente sottovalutate nel dibattito politico italiano, dove il cittadino torna importante solo durante le campagne elettorali o come strumento per manifestare un malcontento a volte finalizzato a coprire altri interessi. Il clima sociale che si sta venendo a realizzare è sempre più “teso”, le lamentele e le denunce dei cittadini crescono e spesso non si riesce a trovare un interlocutore istituzionale con cui affrontare le problematiche. Il rimpallo di responsabilità ad un altro vertice istituzionale (facendo venir meno il rispetto delle istituzioni stesse) acuisce questa situazione obbligando il cittadino a rifugiarsi in atteggiamenti del tipo: chiamo i carabinieri, vi denuncio tutti, chiamo il Gabibbo etc. pensando che la denuncia del problema sia la risoluzione del problema. La collettività, per essere tale, deve diventare “controparte” autorevole e non solo una massa urlante. E questo requisito si raggiunge solo con una forte aggregazione dei partiti (tradizionali o costituiti con nuove logiche) in grado di offrire una chiara condivisione di interessi comuni. Oggi invece si ha quasi la sensazione che le singole collettività non abbiamo nessuno con cui bisticciare. Da anni dura il tiro al bersaglio contro lo stato e più in generale contro la componente pubblica, campagne stampa e televisive che hanno teso ad evidenziare gli aspetti di inefficienze macroscopiche, lo scoop, il paradosso per creare l’assioma “settore pubblico = burocrazia disorganizzata”. A questi problemi si è cercato di porre rimedio con tentativi di ammodernamento che, dopo le varie mediazioni politiche e sindacali si sono ridotte ad un accanimento statistico-burocratico che nessuno è più in grado di governare.
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Fra un po’ di anni sicuramente il sistema avrà il consenso di tutti ma forse non avremo più la pubblica amministrazione ed anche di questo si devono occupare i partiti anche se non porta consenso. Acquisisce così forza il concetto di metapartito, nella capacità di individuare valori e azioni che trascendono dal contingente, per pensare al futuro della convivenza civile, riconoscendo valori superiori, con la capacità di cominciare a darne attuazione.
Nota 1. Viene così comunemente definito l’European Recovery Program, un programma per superare la grave condizione in cui vivevano i popoli devastati dalla seconda guerra mondiale. In pochi anni questo programma ha saputo superare l’insufficienza degli approvvigionamenti alimentari e ricostruire il capitale necessario per rilanciare le economie europee. Fu il più importante piano economico mai realizzato dall’uomo per rilanciare il benessere su larga scala. Lo start up, ossia il motore immobile che permette la partenza da zero, permise alle singole economie europee di riprendersi: nel piano realizzato dal generale americano George C. Marshall, (insignito del premio Nobel per la pace nel 1953) furono coinvolti pressoché tutti paesi dell’Europa occidentale, mentre rimasero esclusi, per espresso volere di Stalin quelli oltre cortina. Il risultato fu evidente: le nazioni occidentali superando il problema della fame poterono destinare subito risorse per le altre attività produttive, mentre le nazioni del blocco sovietico, non riuscirono a sottrarsi dai problemi di sopravvivenza.
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Risalire la china contro l’euroscetticismo di Mercedes Bresso
Il vento dell’euroscetticismo soffia sulle Istituzioni europee. L’Europa per come l’abbiamo conosciuta, in realtà noi non l’avremmo mai voluta così, è in crisi. Una crisi che coinvolge le famiglie politiche tradizionali accreditate al Parlamento europeo – per esempio i liberali, i conservatori, i popolari e i socialisti - in difficoltà a interpretare i cambiamenti sociali e le nuove preoccupazioni dei cittadini in questo periodo storico. Ne sono una prova le vittorie elettorali di movimenti dichiaratamente euroscettici o per lo meno populisti, tra cui spicca il caso italiano del Movimento 5 Stelle che, connotato da una spiccata ideologia nazional-popolare, stenta a trovare una propria identità nel contesto europeo e, quindi, una coerente collocazione all’interno dell’Unione europea. Perché? Per la semplice ragione che i loro discorsi sono contradditori così come i contenuti dei loro programmi politici mancano di fattibilità. In questi movimenti la stessa idea di Europa è diluita nell’apologia del cambiamento, del nuovo, nelle parole d’ordine tipiche di una politica post-ídeologica, dove gli opposti si tengono insieme come il conservatorismo contro il progressismo, il passato contro il futuro, gli anziani contro i giovani; slogan roboanti e argomentazioni che non vanno mai oltre il limite consentito dalla rapidità del messaggio twitter o facebook. Jean-Claude Juncker, l’attuale Presidente della Commissione europea, quando venne eletto disse davanti a noi eurodeputati: «Io considero il Parlamento europeo la mia legittimazione democratica». Questo perché nel 2014 i grandi partiti europei ebbero per la prima volta la possibilità statutaria di presentare, insieme alle liste elettorali, anche il nome di colui che doveva essere il loro candidato presidente al governo della Commissione europea. Una svolta. All’epoca il Parlamento europeo rimase saldo nel rifiuto di votare un altro candidato che non fosse quello già proposto durante la campagna elettorale. 61
Un riconoscimento effettivo del ruolo politico del Parlamento e della Commissione. Ne consegue che questa è una legislatura molto differente da quelle passate perché l’Esecutivo, cioè la Commissione, agisce politicamente rispetto al passato, in quanto responsabile di fronte al Parlamento europeo. Si è affermato così, in modo evidente, non solo il ruolo chiave del Parlamento come l’istituzione che sceglie il Governo dell’Europa, ma anche e soprattutto il ruolo dei cittadini in quanto elettori e dunque in prima ed ultima istanza decisori del colore politico da dare all’Europa. Di conseguenza le famiglie politiche europee sono state fortemente legittimate nel loro ruolo sia di catalizzatori del consenso degli elettori attraverso i partiti politici nazionali sia nel loro ruolo di stimolo e controllo democratico nei confronti della Commissione europea. Questa appena descritta è la più importante novità che caratterizza la legislatura in corso. Attualmente i gruppi al Parlamento europeo sono 8 e accolgono i deputati eletti nelle liste dei partiti nazionali in occasione delle elezioni europee. Per costituire un gruppo è necessario coinvolgere almeno 25 deputati che rappresentino almeno un quarto degli Stati membri. Questo obbligo a raggrupparsi come pure il fatto che il Parlamento garantisca solo ai gruppi politici un finanziamento per le loro attività costringe i partiti ad allearsi, può essere all’origine di certe situazioni, che oserei dire bizzarre: per esempio il Movimento 5 Stelle è nello stesso gruppo di Farage, per intenderci uno dei promotori della Brexit, anche se, spesso e volentieri, votano in modo differente gli uni dagli altri.
Cause ed effetti della violenza antipartitica Vorrei riprendere le fila del discorso sul clima antipartitico che caratterizza l’attualità politica e per farlo credo che bisognerebbe ritornare alle ultime elezioni europee del 2014. Da lì hanno origini le difficoltà attuali che incontrano le famiglie politiche, e in particolare quella socialista, a dettare l’agenda politica non solo in Europa ma anche negli Stati membri. Ricordiamoci che all’epoca la crisi e le misure di austerità erano all’ordine del giorno del dibattito pubblico e l’Europa fu subito additata all’opinione pubblica come colpevole dei disastri nazionali. Le elezioni sono cadute quindi in un clima di sfiducia e di malcontento generalizzato verso l’Europa e verso quei partiti che sono stati protagonisti nel tempo del processo d’integrazione europea. Questo dato di fatto contingente è andato di pari passo con il progressivo processo di indebolimento delle strutture dello stato sociale, cioè di quella rete di protezione sociale e economica che assicurava a chi perdeva il lavoro una caduta meno rovinosa nel precariato. Tale fenomeno che è stato perlopiù motivato e pubblicizzato come una richiesta europea nei termini crudi di finanziamenti 62
in cambio di riforme strutturali, anche se messo in atto dallo Stato e assecondato dalla stragrande maggioranza dei partiti, ha fatto sì che la sfiducia prendesse il sopravvento proprio nei confronti di quei partiti che secondo la comune vulgata hanno modulato i loro programmi sulle inevitabili riforme. I partiti di sinistra stanno pagando un prezzo troppo alto per il loro rifiuto di governare con semplici slogan, mentre ancora stentano a trovare nuove e rinnovate forme di consenso per dar voce all’insoddisfazione montante e alla precarizzazione crescente della vita. Questo ha creato delle difficoltà ai grandi partiti politici europei che si sono indeboliti. È debole il PPE che ha dovuto accettare apparentamenti lontani dalla propria tradizione, come l’appartenenza popolare del primo ministro ungherese Orban. Il PSE è in difficoltà perché le socialdemocrazie nordiche e i partiti socialisti del sud Europa sono in grossa crisi dato che sembrano non riuscire a stare al passo con i cambiamenti che animano la società. I liberali sono ridotti ai minimi termini perché sono divisi tra liberal e ultraconservatori. I Verdi hanno ondate di favore, ma faticano a trasformarsi in un vero e proprio partito. La GUE vive la crisi della sinistra radicale. La crisi delle grandi famiglie europee è il risultato del mutamento della società che non risponde più ai richiami degli ideali interpretativi di cui la politica si è nutrita fino a oggi. Dal canto suo però il gruppo dei Socialisti e Democratici, del quale sono vicepresidente e al quale appartiene il Partito Democratico, ha comunque una visione comune della strada che deve essere intrapresa e delle politiche di solidarietà, di equità, di ascolto che devono essere messe in cantiere per recuperare credito presso gli elettori. Secondo la mia opinione i partiti socialisti devono rifiutare chiaramente l’asfissiante “there is not alternative”, non c’è alternativa, come avrebbe detto la Signora Thatcher. Dobbiamo combattere il credo liberista degli ultimi anni che molti danni ha arrecato alla nostra famiglia socialista, persuadendo i cittadini che insieme possiamo ancora cambiare la situazione. Per farlo dobbiamo prima di tutto contrastare l’immagine, che molti condividono, del partito come una mera aggregazione di interessi, indifferente nel difendere i posti di lavoro e la dignità del lavoratore, pronto a giustificare l’inazione con il solito ritornello, “non c’è alternativa” al sistema, alle crisi e agli esuberi dei posti di lavoro. In seconda battuta, ma non meno importante, ridare vigore e realtà a un programma economico di respiro sociale, affinché i cittadini non sentano più il peso enorme di dover trovare soluzioni individuali a problemi globali, in barba allo sconforto provocato dall’idea che siamo impotenti rispetto a decisioni prese in luoghi e in stanze distanti e sconosciute, le cui chiavi sono ben strette
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nelle mani dei capitali finanziari globali. Siamo a un punto di non ritorno: l’individuo una volta recisi i legami sociali con la classe di appartenenza e col partito che la rappresentava rischia di trasformarsi in una monade che lotta in solitudine per riuscire ad afferrare al massimo quanto più possibili beni di consumo che il sistema del mercato globale gli promette. E tutto quello che andava sotto l’ombrello di impegno politico e solidare potrebbe definitivamente finire in soffitta. Noi proprio questo vogliamo evitare. Un percorso da fare insieme alla famiglia socialista europea, in sintonia con i partiti socialisti radicati in tutti gli Stati membri dell’Unione. In quest’ottica è da leggere lo studio che abbiamo commissionato a un gruppo indipendente sull’uguaglianza sostenibile. Si tratta di un vademecum per il nostro futuro impegno politico, per un’Europa sostenibile e per le nostre prossime battaglie sociali: riformare il capitalismo, ridare potere alle persone, benessere per tutti, giustizia sociale equa, sviluppo economico che tenga in conto gli aspetti ambientali e sociali.
Una riforma elettorale per l’Ue In questo contesto di sfiducia da parte dei cittadini europei e di fronte al crescente astensionismo soprattutto dei giovani, il Parlamento europeo sta correndo ai ripari in vista delle prossime scadenze elettorali: Si sta infatti lavorando ad una modifica della legge elettorale che preveda più trasparenza per i partiti nazionali al momento della presentazione delle liste e rafforzi il principio degli SpitzenKandidaten. I partiti dovranno già in quel momento indicare il gruppo politico europeo nel quale confluiranno, altrimenti non potranno accedere ai finanziamenti e ai rimborsi elettorali. Facendo così si spera di rafforzare le famiglie politiche europee, la trasparenza e la partecipazione. Allo stesso modo la scelta di presentare un unico candidato come presidente per ogni partito politico europeo è frutto della necessità di rafforzare le istituzioni europee. Ed è per questo che i partiti nazionali dovranno dire chiaramente in che contesto vorranno stare e che programma per le prossime elezioni europee vorranno portare avanti. La democrazia vive dell’esistenza dei partiti perché danno organizzazione all’arena politica e di elementi di mediazione tra le richieste che arrivano dal basso e il potere istituzionale. Senza questi fattori si cade nel neo-populismo da social network dominato dalle tecnologie della comunicazione (come quello più datato del fascismo lo era dalla radio e dai cinegiornale Luce) e caratterizzato da un forte leaderismo e da uno stile disinvolto diretto alla pancia delle persone.
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Finora le campagne elettorali europee sono state troppo concentrate sulla politica nazionale, spesso finendo per costituire una sorta di referendum sul governo all’epoca al potere. Ciò ha portato talaltro a una crescente disillusione e al declino costante dell’affluenza alle elezioni europee In questi ultimi mesi di intenso lavoro dedicato al futuro dei partiti politici abbiamo portato a casa importanti risultati quali l’approvazione in Commissione Costituzionale prima della “Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica del regolamento relativo allo statuto e al finanziamento dei partiti politici europei e delle fondazioni politiche europee” e, poi, quella sulla “Protezione dei dati personali nel contesto delle elezioni del Parlamento europeo”. In entrambi i casi ho svolto un ruolo importante di correlatrice. Queste proposte rappresentano una vittoria non solo per il Gruppo S&D ma per tutti coloro che si battono per un’Unione europea aperta e democratica. Nella prima, abbiamo inserito norme vincolanti, come per esempio lo scioglimento dei partiti europei che forniranno false informazioni. In parte però pesa la sconfitta delle liste transnazionali. Il Parlamento europeo ha votato contro e, di conseguenza, l’Europa ha perso una grande occasione, quella di creare una vera circoscrizione europea, un vero spazio di dibattito politico europeo che avrebbe ampliato il potere di scelta dei cittadini. Sfortunatamente ha vinto una logica miope e conservatrice. Mentre la seconda intende tutelare i cittadini dalla disinformazione e dall’uso illecito e illegittimo dei dati personali non solo in vista delle prossime elezioni europee, ma, in generale, delle prossime e future campagne elettorali. Per farlo si affida alla direttiva sulla tutela dei dati personali e al potere di controllo delle Autorità nazionali di vigilanza della privacy. Queste, una volta accertate le violazioni dei dati, dovrebbero proporre all’Autorità per i partiti e le fondazioni di procedere a passo spedito a una sanzione pecuniaria. Per riprenderci il nostro futuro politico di cittadini europei dobbiamo tener dritta la barra sul nostro obiettivo principale di creare gli Stati Uniti d’Europa.
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Europa: il ruolo del Partito Socialista Europeo di Daniele Viotti
Nel 1944 Altiero Spinelli concepiva con straordinaria visionarietà, con fantasia pragmatica, con spirito di innovazione, quella deliziosa utopia che possiamo chiamare ancora oggi Europa Unita. Invitava a non lasciare che la lava incandescente delle passioni popolari tornasse a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgessero le vecchie assurdità. Nel “Manifesto di Ventotene” Spinelli delineava un’ideologia per il mondo a venire fondata sulla pace, sulla condivisione, sulla rinuncia agli egoismi e ai totalitarismi. La sfida è sempre attuale e oggi sembra esserlo ancora di più. Ogni conquista va presidiata, rivendicata, rilanciata. Siamo responsabili del passato, ma, ancora di più, del presente e del futuro. Il nemico esiste, cambia forma, ma si insinua là dove le difese immunitarie sono basse. Quale ruolo hanno, dunque, le forze democratiche per contrastare la deriva che vediamo sotto i nostri occhi? In questo contesto un ruolo fondamentale è e sarà giocato dal Partito socialista europeo, che si è rivelato essere negli ultimi anni la cartina al tornasole dello stato di salute delle sinistre riformiste di tutto il vecchio continente. Le elezioni europee del 2014 hanno visto accorciarsi le distanze nei confronti dei popolari, con un sostanziale “pareggio”. Il frutto di quel voto è stato un accordo di maggioranza tra PSE e PPE, i due maggiori partiti, in nome della governabilità e della stabilità. Questo abbraccio ha, a suo modo, alimentato, in realtà, il vento dell’anti europeismo, cavalcato dai partiti e dai movimenti populisti dei vari Stati membri, che hanno continuato a delineare l’Unione come una “matrigna cattiva”. Il 26 maggio 2019 si terranno le prossime elezioni europee, con uno scenario molto confuso e complesso. Sarà importante arrivarci con un PSE riformato 67
e più forte. È necessario che si abbandonino le ambiguità degli ultimi anni verso proposte forti e incisive. Al centro della nostra azione dovranno esserci proposte che permettano ai socialisti di tornare a occupare degnamente uno spazio che negli ultimi anni hanno lasciato colpevolmente libero: quello della giustizia sociale. Uno degli errori del PSE, in questi anni, è stato quello di credere che la battaglia da giocare in questo periodo fosse quella tra populisti e riformisti, non capendo che la vera sfida consisteva nello scardinare la dicotomia “Sinistra riformista VS Sinistra Radicale”, provando a trovare convergenze tra le due aree in nome di valori comuni come uguaglianza, giustizia sociale e libertà. Convergenze che, in tutta Europa, le destre hanno quasi sempre trovato, ricompattandosi dietro ai loro valori fondanti, come il protezionismo e il conservatorismo.
L’inganno della Terza Via. La crisi delle sinistre socialiste e socialdemocratiche europee ha radici profonde. A metà degli anni Novanta, sull’onda dei successi di Tony Blair nel Regno Unito e di Bill Clinton negli USA, la sinistra europea si è convinta che la soluzione a tutti i suoi problemi consistesse nel trovare una “terza via” tra liberalismo e socialismo. La convinzione alla base di questo ragionamento era che si potesse trasformare il capitalismo, e che la globalizzazione avrebbe sì creato delle disuguaglianze, ma il bilancio sarebbe comunque stato positivo a favore di nuove opportunità per i singoli individui. Imboccando questa strada, si scelse scientemente di alimentare un individualismo di eco thatcheriano del quale paghiamo solo oggi il prezzo più caro: il disagio sociale e l’insicurezza. Il Partito Socialista Europeo e i suoi affiliati al governo di molti Stati Membri si sono trovati a fare i conti con i limiti evidenti di questa proposta solo dopo lo scoppio della crisi economica del 2007-2008, che ha accentuato le divisioni politiche a livello europeo ma soprattutto peggiorato le condizioni di vita dei singoli, aumentando le insicurezze delle classi medie e popolari. Insicurezze sfociate poi in paure, trasformatesi in carburante per odio e frustrazione. Nonostante questo, molti all’interno del PSE ritengono ancora opportuno proporre soluzioni in linea con la Terza Via. Un moderatismo fuori dal tempo incapace di evidenziare la miopia di chi non vede (o non vuole) come lo scenario politico imponga proposte e soluzioni coraggiose e radicali, capaci di ridare speranza a quelle fasce di popolazione che più hanno subito questi dieci anni di crisi economica. Gli ultimi venti anni della sinistra europea sono stati questo. Se non si cambierà, intercettando i problemi delle cittadine e dei cittadini europei, il rischio di una ulteriore marginalizzazione diventerà molto più che una preoccupazione. 68
L’esperienza e la soluzione portoghese. Alla crisi bancaria del 2007-8 l’Unione Europea ha deciso di rispondere con la ricetta dell’austerità. Molti Stati Membri, già piegati duramente, non hanno affatto beneficiato di questa ricetta applicata da Bruxelles. Uno dei Paesi più duramente colpiti è stato senza dubbio il Portogallo. All’epoca, il Governo lusitano era conservatore, e accettò completamente i diktat europei in cambio di un salvataggio da parte della Troika. Queste misure, in poco tempo, hanno portato a conseguenze socialmente devastanti. Dalla privatizzazione delle utenze a un aumento considerevole dell’IVA, dal taglio degli stipendi dei settori pubblici al taglio dei sussidi, all’estensione della giornata lavorativa. Come se non bastasse, nel giro di due anni il Governo ha attuato un taglio del 23% della spesa per l’istruzione pubblica, pure il Servizio Sanitario e la Sicurezza Sociale hanno sofferto particolarmente. Il risultato principale di queste manovre è stato uno: la povertà è aumentata. Nell’autunno del 2015, poco dopo le elezioni politiche, il Governo di centro-destra presieduto da Pedro Passos Coelho cade a causa di una mozione di sfiducia. Dopo pochi giorni il Partito Socialista, il Blocco di Sinistra e la Coalizione Democratica Unitaria avviano i negoziati per formare un Governo con maggioranza di sinistra. Seguono 51 giorni di stallo fino a quando il Presidente della Repubblica conferisce l’incarico a Antonio Costa, leader socialista, e accetta la lista dei ministri da lui presentata. Il nuovo Governo è un monocolore socialista, con appoggio esterno del Blocco di Sinistra e della Coalizione Democratica Unitaria. La logica economica del nuovo Governo è chiara: una vera ripresa necessita dell’aumento della domanda. Così la nuova compagine governativa si prefigge obiettivi chiari e a modo loro radicali: impegno ad aumentare il salario minimo, a invertire l’aumento delle imposte regressive e a riportare i salari del settore pubblico (crollati del 30% in pochi anni) e le pensioni ai livelli pre-crisi. L’impatto di queste politiche è stato tangibile in un poco meno di un anno. La sicurezza sociale per le famiglie più povere è aumentata, gli investimenti aziendali sono aumentati del 13%, il deficit è dimezzato, toccando il punto più basso dal ritorno della democrazia in Portogallo. L’economia ha beneficiato di queste scelte, crescendo per tredici trimestri consecutivi. Questi risultati dimostrano come il Governo portoghese possa offrirsi come modello per tutto il resto del continente. Non solo dal punto di vista delle politiche, con una proposta radicale ma di buonsenso; quanto dal punto di vista della strategia politica che il Partito Socialista è riuscito a mettere in campo, trovando le dovute convergenze con il Blocco di Sinistra e la Coalizione Democratica Unitaria. Premettendo che è sempre complicato prendere esperienze estere per traslarle fuori contesto, è innegabile riconoscere come le forze 69
di sinistra portoghesi siano state capaci di attuare una proposta radicale ma al contempo pragmatica. Avendo il coraggio di riconoscere che la via dell’austerità scelta dall’Europa non ha ottenuto i risultati sperati, hanno dimostrato che se la politica restituisce reddito alle persone in modo moderato, le persone ottengono più fiducia e ritorni sugli investimenti. Questo esempio, purtroppo, è rimasto un unicum, assieme alla proposta del Labour britannico, nel panorama socialista europeo. All’indomani della crisi bancaria, i partiti socialdemocratici hanno ceduto alle paure, abbracciando l’austerità. Il risultato di queste scelte è stato un lento, e nemmeno troppo, collasso politico generalizzato. Spagna, Grecia, Francia, Paesi Bassi e Italia hanno visto calare, chi prima, chi dopo, i consensi dei partiti afferenti alla famiglia socialista. Al contrario, i due partiti socialdemocratici che hanno scelto di opporsi chiaramente alle ricette per l’austerità - Portogallo e UK- stanno andando meglio di tutti i partiti fratelli. Questo non è altro che l’esempio lampante che esisteva ed esiste un’alternativa all’austerità, e che dopo la crisi più lunga e dura degli ultimi anni non è possibile pensare di mettere in campo ricette moderate ed edulcorate, ma sono, in realtà, necessari radicalità e coraggio per occuparsi dei problemi delle persone che maggiormente hanno sofferto questi anni di crisi.
Jeremy Corbyn: radicalità e progressismo delle idee In tutta Europa, le elezioni negli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti che, in vari casi, da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Come è stato detto in precedenza, questi sono gli effetti di lungo periodo di scelte prese a metà anni Novanta con l’abbraccio incondizionato alla teoria della “Terza Via” blairiana. I risultati di queste scelte sono arrivati solo dieci anni dopo. L’apertura ai cosiddetti “moderati” ha permesso ai partiti tradizionalmente socialisti di ampliare il proprio bacino, già consolidato nel tempo, ma - con lo scoppio della crisi economica del 2007 e con il venir meno delle certezze per le classi medie e popolari, storici bacini elettorali socialisti - i consensi socialisti sono franati. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e lungo successo di Tony Blair, ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire la stessa sorte dei partiti gemelli nel resto del continente. L’elezione a sorpresa di Jeremy Corbyn alla segreteria del partito ha rappresentato una rottura rispetto al passato recente e un ritorno alla linea originaria laburista. Lo scetticismo che ha accolto questa elezione, sia tra i commentatori, sia tra gli addetti ai lavori della sinistra europea, è arrivato spesso ai limiti del dileggio. In un periodo in cui la vera moda a sinistra era il “nuovismo” 70
esasperato e a tutti i costi, l’elezione di un signore dall’esperienza trentennale nelle Istituzioni è stata vista come la sicura condanna per il Labour a un’opposizione sterile e duratura, senza alcuna speranza di tornare prima, poi al governo del Regno Unito. I sondaggi pre-elettorali sembravano confutare questa tesi, dato che fino a un paio di mesi dalle elezioni accreditavano al Labour consensi attorno al 25%, con quasi venti punti di distacco dai conservatori di Theresa May. Il programma presentato da Corbyn, dietro al motto “For the many, not the few” (Per i molti, non per i pochi), incautamente adottato con scarso successo da Liberi e Uguali alle elezioni politiche italiane del 2018, è stato subito bollato come “massimalista” e “populista”. In realtà, tralasciando le classiche esagerazioni elettorali, il programma laburista aveva un chiaro e semplice intento: rovesciare i paradigmi abbracciati spesso anche da partiti socialisti e socialdemocratici, dicendo basta all’austerità a senso unico verso le classi più svantaggiate, basta a riduzioni del welfare e ri-nazionalizzazione di servizi essenziali come poste e ferrovie. Quest’ultimo punto non era, come molti hanno voluto far credere, un impeto bolscevico, bensì il prendere atto del fallimento delle privatizzazioni attuate in passato in ambiti fondamentali per i cittadini e le cittadine. Un altro punto fondamentale del programma - che ha riscosso enorme successo, soprattutto tra l’elettorato giovanile - era il mettere fine a una università così costosa da escludere gran parte di coloro che non hanno possibilità economiche. Il risultato di questo programma è stato che un partito che sembrava avviato verso la triste sorte degli altri confratelli europei ha ottenuto un successo a cui il numero di seggi non rende assolutamente giustizia: il Labour di Corbyn è arrivato al 40% dei consensi, testa a testa con il 42,5 % dei Tory. L’anziano Corbyn, contro tutti i pronostici, è stato in grado di intercettare il voto dei giovani - attualmente la fetta di elettorato più difficile da intercettare, soprattutto a sinistra - e di tutti quelli che avevano perso la speranza. Concentrandosi su punti semplici ma fondamentali come uguaglianza e giustizia sociale, il Labour ha dato a tutti una lezione molto chiara: se i socialisti non fanno i socialisti, prima o poi vanno incontro alla marginalità, o peggio alla scomparsa. Come nel caso portoghese di cui sopra, è sottinteso che ogni Paese ha le proprie dinamiche e le proprie specificità, rendendo quindi difficile e spesso inutile l’esercizio di utilizzare ricette “straniere” così come sono. Ma è innegabile che tutto il Partito Socialista Europeo dovrebbe iniziare a interrogarsi seriamente su quali posizioni tenere in merito a temi fondamentali come la globalizzazione, l’economia e l’Europa stessa.
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Il dialogo come orizzonte raggiungibile: la Spagna. Dopo la mozione di sfiducia presentata dal PSOE nei confronti del Presidente Mariano Rajoy e approvata il 1° giugno 2018, il giorno successivo si è insediato il Governo Sànchez. Un esecutivo di minoranza -il più minoritario della Spagna moderna, con solo 84 seggi su 350- composto da 11 donne e 6 uomini, tutti afferenti al PSOE. A differenza dell’esperienza portoghese, dove Antonio Costa per governare necessità “solamente” dell’appoggio del Blocco di Sinistra e della Coalizione Democratica Unitaria, a Madrid le cose sono un po’ più complesse. Oltre a Unidos Podemos, a Sànchez, con i suoi 84 deputati, servono anche i voti dei nazionalisti baschi e degli indipendentisti catalani per arrivare alla maggioranza assoluta. Nonostante queste difficoltà, il PSOE ha deciso di aprire un dialogo concreto con tutti i possibili alleati a sinistra, Podemos su tutti. Il momento cruciale è stato proprio quello più importante, cioè la nuova riforma finanziaria per il 2019. PSOE e Unidos Podemos hanno condotto settimane di trattative, sfociate in un accordo di 50 pagine siglato da Sànchez e Iglesias. Questo patto, è la prova concreta che il dialogo non deve necessariamente portare a una mediazione al ribasso, quasi conservatrice. I due principali partiti della sinistra spagnola hanno infatti individuato una lunga serie di priorità comuni per il bene del paese, e su quelle hanno discusso, mediato e trovato possibili soluzioni. L’obiettivo principale era quello di portare un miglioramento economico nelle vite dei cittadini spagnoli, per far sì che “la crisi è finita” non fosse solo uno sterile ritornello, ma una percezione concreta nella loro vita quotidiana. Per fare questo, hanno deciso di fare passi in avanti nel consolidamento del welfare, con un considerevole aumento del salario minimo, un aumento delle aliquote IRPEF per i redditi annui superiori ai 130 mila euro, una patrimoniale dell’1% per le fortune superiori a 10 milioni di euro e una simil-“Tobin Tax” dello 0,2% per le transazioni finanziarie. L’impegno sul fronte welfare continua con una riforma delle pensioni che devono essere legate all’inflazione reale e maggiori aiuti per i disoccupati con più di 55 anni. Sono tante e diverse fra loro le misure importanti presenti in questo accordo: da maggiori investimenti per combattere la “povertà energetica” all’equiparazione tra il congedo di maternità e quello di paternità. Questo ricco accordo programmatico, però, sembra scontrarsi contro due ostacoli, uno interno e uno esterno. A Madrid, sembra difficile trovare una quadra con gli indipendentisti catalani, a causa della questione giudiziaria ancora molto accesa e sentita, che potrebbe quindi ostacolare l’approvazione della finanziaria in Parlamento; a Bruxelles, invece, sembrano non aver gradito la proposta dell’esecutivo spagnolo, reo di essersi concentrato eccessiva72
mente sulla spesa pubblica, rispetto a un’ulteriore riduzione del debito. Questi fattori, nei giorni scorsi, hanno portato il Presidente Sànchez -impegnato assieme al PSOE nelle elezioni regionali in Andalusia- a ventilare per la prima volta l’ipotesi di elezioni anticipate, qualora non si riuscisse ad approvare la finanziaria in Parlamento. Una extrema ratio che però, secondo i sondaggi, non stravolgerebbe più di tanto il quadro politico, dato che le percentuali dei partiti spagnoli, seppur cambiate nell’ultimo anno, consegnerebbero una situazione di stallo molto simile a quella attuale. Cosa succederà non è dato saperlo. Quello che però possiamo e dobbiamo riconoscere, come socialisti, al PSOE e Unidos Podemos, è la capacità di dialogo, mediazione e concretezza nelle proposte. Tutte cose molto rare nella quotidianità della sinistra europea, che devono però tornare a essere all’ordine del giorno se si vuole cambiare davvero rotta rispetto al passato.
Il Partito Democratico e il PSE L’approdo del Partito Democratico nella famiglia dei socialisti europei è stato tanto travagliato quanto atteso. Dall’anno della sua nascita, il 2007, sono passati quasi sette anni prima che i democratici italiani decidessero di aderire al PSE, chiedendo di modificare il nome del gruppo europeo in “Socialisti & Democratici”. Come spesso accade, a prendere questa decisione non è stato un leader socialista convinto. È infatti con l’avvento di Matteo Renzi alla segreteria del partito che il PD compie questo passo all’inizio del 2014. Proprio pochi mesi prima delle Elezioni Europee che vedranno i dem vincitori con il 40,8% dei consensi, capofila tra i partiti socialisti e socialdemocratici europei, soprattutto come numero di eletti al Parlamento Europeo. La scelta di entrare a far parte del PSE e la straordinaria affermazione elettorale lasciavano presagire un impegno, dal punto di vista squisitamente politico e interno alle dinamiche socialiste, che in realtà non c’è mai stato. Matteo Renzi, infatti, non ha mai sfruttato come avrebbe dovuto il peso politico del Partito Democratico all’interno del Partito Socialista Europeo. Non si è fatto sentire riunendo i socialisti in preparazione dei Consigli Europei e non ha partecipato come Segretario alle riunioni più informali e politiche. Una lunga serie di occasioni perse, tra le quali la più importante, quella di non contrapporre alle scelte congressuali del Partito Socialista Europeo - che ha continuato a restare sulla linea di Visegrad e dell’asse franco-tedesco - il punto di vista dei Paese Mediterranei come il nostro, la Spagna e la Grecia. Strategia che avrebbe permesso soprattutto al Partito Democratico di tessere un rapporto con Siryza e il suo leader Tsipras, per dimostrare la fattibilità di proposte radicali ma al contempo sostenibili in un quadro di Unione Europea. 73
Un altro grande vulnus del Partito Democratico nei confronti delle Istituzioni Europee è stata la mancanza di una visione strategica a lungo raggio per quanto riguarda il quadro finanziario. Un Paese al quale spesso giustamente ci si oppone dal punto di vista delle scelte economiche come la Germania, ha organizzato scientificamente due differenti incontri nei quattro anni di mandato per discutere assieme a tutti gli attori europei non solo del quadro appena licenziato ma addirittura di quello successivo. Una visione strategica e di prospettiva che sono mancate al Partito Democratico e all’Italia, che avrebbe potuto imprimere al Quadro Finanziario un indirizzo più marcatamente sociale, soprattutto per quanto riguarda il tanto sbandierato “Pilastro Sociale”, che continua a rimanere un documento enunciato ma vuoto di politica e politiche. Anche sui fondi strutturali si sarebbe potuto dare un indirizzo diverso al documento, oppure sul tema delle migrazioni, che è stato affrontato con un approccio estremamente securitario che, da sempre, porta acqua al mulino delle destre e non a quello dei socialisti.
La classica domanda: che fare? Nei prossimi mesi il Partito Socialista Europeo (e tutti i partiti nazionali che ne fanno parte) si avvierà a una prova non da poco come le prossime Elezioni Europee del maggio 2019. Il 7 e 8 dicembre, a Lisbona, il PSE dovrebbe confermare ufficialmente l’olandese Frans Timmermans - Vicepresidente dell’attuale Commissione - come proprio Spitzenkadidat (la formula secondo la quale la carica di Presidente della Commissione Europea viene conferita al leader del partito con il maggior numero di seggi al Parlamento Europeo). Nonostante Timmermans sia un politico molto esperto, parli sette lingue e abbia ricoperto in passato importanti ruoli politici e diplomatici, questa scelta ha visto sollevarsi non poche critiche. Le più puntuali, forse, sono quelle che sottolineano come il Vicepresidente sia espressione di un partito, quello socialista olandese, in grande affanno e con un calo di consensi non indifferente, e il dubbio che la scelta del Vicepresidente della Commissione uscente possa essere percepita dagli elettori come un segnale di continuità con il passato, dato che Timmermans incarna quel modello di socialismo europeo che ha accettato ogni tipo di compromesso, spesso al ribasso, in nome della governabilità. I dubbi sono molti anche sul modello “Spitzenkandidat” che altro non è che un accordo sulla parola per provare a creare un sistema di elezioni presidenziali che in realtà non esiste, ma questa è una questione più tecnica che politica. Al netto di dubbi e perplessità, i socialisti dovranno davvero farsi carico di un rinnovamento programmatico che appare quanto mai necessario. 74
Bisognerebbe sottolineare, innanzitutto, che il tema “europeisti vs populisti” tanto caro a molti socialisti in Europa non può essere il fulcro del ragionamento, e che la prima cosa da sottolineare sarà la distanza dai conservatori del Partito Popolare Europeo. Rompendo la narrazione “Europeisti vs Sovranisti” da tempo molto in voga, per ammettere, senza paura, che la sfida che abbiamo davanti sarà quella tra Destra e Sinistra, non tanto a livello ideologico quanto programmatico. Il PSE dovrà, innanzitutto, abbandonare le ambiguità degli ultimi anni nei confronti di proposte forti e incisive come ad esempio il “Piano Prodi” per l’Europa Sociale o l’idea, lanciata mesi fa dall’Italia, di un’assicurazione europea contro la disoccupazione. Tre gli ambiti su cui poter incidere: lavoro, previdenza e investimenti. I socialisti europei, negli ultimi anni, hanno utilizzato gli stessi metodi della destra: abbracciando l’idea di austerità proposta dai popolari, anteponendo il rigore economico e finanziario alla vita delle persone. Bisogna iniziare a mettere un po’ di radicalità nelle proposte, inserendo nell’agenda, tra i primi punti, la lotta alle disuguaglianze, il contrasto alla povertà, un piano per affrontare la precarietà della vita, il diritto al lavoro. Focalizzandosi sui bisogni delle cittadine e dei cittadini europei, dimostrando loro che l’Europa può davvero essere la soluzione a problemi che i singoli Stati non riescono più ad affrontare autonomamente. Il Partito Socialista Europeo, anche quando i problemi non possono essere risolti a livello europeo ma dai singoli stati, deve essere capofila nello spronare i singoli partiti da cui è composto ad affrontare e risolvere queste sfide in modo chiaro e non contraddittorio come spesso è accaduto negli anni passati. Questo cambio di passo è necessario non solo per la sopravvivenza del PSE e dei partiti socialisti e socialdemocratici, ma soprattutto per dimostrare che il progetto di un’Europa più giusta e più solidale è ancora possibile. Abbiamo bisogno di un cambio di passo da parte della grande famiglia socialista. La soluzione è più semplice di quanto si possa pensare: tornare a essere se stessi.
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Gli Enti territoriali alla prova della progettazione europea. Rischi e sfide di fine legislatura europea.
di Davide Rigallo Riforma dell’Ue versus euroscetticismo L’ultimo scorcio della legislatura europea consegna alla prossima un pericoloso carico di sfiducia, diffidenza e ostilità verso le istituzioni dell’Ue, che rischia di compromettere lo sviluppo stesso del suo processo di integrazione. Al di là delle varie forme in cui si esprime questo atteggiamento (possiamo chiamarle, in modo generico, euroscetticismo, eurofobia, antieuropeismo), è convinzione diffusa che l’Unione europea sia sostanzialmente incapace di rispondere a questioni urgenti, quali, ad esempio, la crescita economica, la coesione territoriale, la lotta alle diseguaglianze sociali, la messa in sicurezza dei territori, la gestione delle migrazioni, l’affermazione dei diritti fondamentali delle persone. L’eccessiva semplificazione cognitiva sottesa all’euroscetticismo non distingue tra i vari Organi istituzionali europei (per esempio, tra Consiglio europeo e Commissione, o tra questi due e il Parlamento europeo), né sembra conoscere bene di quale pasta politico-istituzionale l’Ue sia effettivamente composta. Rinunciando alla fatica dell’analisi, si trincera dietro la visione di una Ue algida e burocratica, insensibile ai bisogni delle cittadinanze, lontana dai problemi della quotidianità, paralizzata nell’inflessibile rispetto della sue norme: per quindi concludere che, da un’Organizzazione siffatta, varrebbe la pena di uscire. Si uno tratta di uno schema che rifiuta di misurarsi con la complessità e non propone altro che una fuga all’indietro, tanto superficiale, quanto foriera di conseguenze pericolose. La ricetta sovranista che va riempiendo i molti vasi vuoti dell’euroscetticismo riesce, infatti, a disegnare solo un esito disgregatore, una retromarcia storica che non contiene indicazioni pratiche per la soluzione di quei problemi additati come urgenti per la vita i cittadini. Risulta infatti difficile imma-
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ginare in che modo delle nazioni tornate sovrane (e, quasi orgogliosamente, autarchiche) possano avere una maggiore capacità di risposta a fenomeni di dimensioni globali, che richiederebbero, invece, una poderosa messa in comune di risorse e mezzi per essere adeguatamente affrontati. Per far fronte ai tanti problemi che affliggono le società europee sarebbe, invece, ben più utile individuare le vere cause delle innegabili difficoltà di risposta dell’Ue e su queste andare a incidere. Per fare questo, è indispensabile prendere innanzitutto coscienza di ciò che realmente è, oggi, l’Unione europea: una confederazione di stati in cui i poteri degli Organi intergovernativi (in primo luogo, del Consiglio europeo) prevalgono su quelli a carattere propriamente comunitario (della Commissione e del Parlamento). Al tempo stesso, è altrettanto importante essere evinti che, in questo assetto, sussiste una forte tendenza a centralizzare i processi decisionali, mantenendo in subordine gli Enti più vicini alla cittadinanza: le Regioni e i Comuni. Solo da questa duplice consapevolezza è possibile partire per incidere sul motore dell’Unione europea, senza farne naufragare il progetto, attivando strategie capaci di evidenziare la sua utilità pratica. Vediamo in quale modo.
Recuperare la fiducia nell’Unione Europea Una riforma in senso federale dell’Ue sarebbe senz’altro la strada maestra per cambiare radicalmente una struttura che troppo spesso è divenuta ostaggio di interessi nazionali, paralizzandosi nel suo funzionamento. Tuttavia, una riforma di questo tipo, ancorché indispensabile, necessita di tempi non brevi per essere attuata mediante forme democraticamente condivise: tempi che appaiono troppo lunghi per porre un argine al veloce insinuarsi dell’euroscetticismo. Una strategia più immediata e fattibile potrebbe invece cominciare proprio da una dimensione di prossimità alla cittadinanza. Se, infatti, la crisi del processo di integrazione europea è, innanzitutto, una crisi di credibilità nelle sue istituzioni, questa potrà essere recuperata nei cittadini solo dimostrando concretamente l’utilità dell’Ue rispetto a questioni che, quotidianamente, li coinvolgono. Per fare questo, è però indispensabile operare con e negli Enti che sono a più diretto contatto con i bisogni delle comunità. Si tratta di una sfida che può essere vinta soltanto adottando una strategia pragmatica, attrattiva, facile da comprendere e declinata nel linguaggio della concretezza. Per gli Enti territoriali, questa concretezza può arrivare dall’accesso ai fondi europei. I fondi strutturali e i fondi ad accesso diretto, con i loro numerosi programmi tematici, sono stati infatti voluti e concepiti quale strumento di finanziamento per la realizzazione materiale di quello spazio di giustizia, libertà e sicurezza che è l’essenza propria dell’Unione europea. In un periodo di 78
ristrettezze finanziarie e difficoltà a corrispondere servizi fondamentali, per Regioni, Province e Comuni l’accesso ad essi appare sempre più importante. Tra i vantaggi che possono derivarne, citiamo: 1.la possibilità di colmare, almeno in parte, gli effetti della diminuzione dei trasferimenti finanziari dallo Stato agli Enti territoriali, garantendo la realizzazione di servizi altrimenti compromessi; 2.la capacità di favorire partenariati, scambi, interazioni fra realtà di contesti europei diversi, in una prospettiva di sempre maggiore coesione territoriale; 3.l’opportunità di sviluppare internamente competenze in materia di progettazione e gestione progettuale in ambiti fondamentali nella vita locale; 4.la possibilità di coinvolgere nella realizzazione dei progetti i soggetti produttivi del territorio (dall’imprenditoria al terzo settore). I fondi ad accesso diretto, inoltre, consentono agli Enti territoriali di operare con un maggior grado di autonomia dallo Stato, inerendo direttamente ai piani di crescita (che pure esistono, a dispetto dello loro scarsa visibilità mediatica) elaborati dalla Commissione europea. Emblematico, al riguardo, è Horizon 2020, programma quadro per la ricerca e innovazione con quasi 80 miliardi di euro di finanziamenti in sette anni (dal 2014 al 2020), la cui filosofia è quella di sviluppare, combinandole, tre tipologie diverse di crescita: la crescita economica intelligente, la crescita sostenibile e la crescita inclusiva. Sviluppo tecnologico, azioni per il clima, energia sicura, trasporto intelligente, supporto alla formazione professionale, sostenibilità dei sistemi sanitari, cultura digitale: sono solo alcune delle linee tematiche in cui la piattaforma Horizon si articola nei suoi molteplici bandi. Si tratta di una quantità ingente di risorse a cui, tuttavia, gli Enti territoriali italiani troppo spesso faticano ad attingere, vanificando le opportunità che l’Ue mette a disposizione e, di conseguenza, gli obiettivi di crescita sopra esposti. Vediamo perché.
L’utilità di Bruxelles: una priorità per gli Enti territoriali. Giocano contro l’opportunità di attingere ai finanziamenti europei un complesso di fattori organizzativi e procedurali, che soltanto un radicale cambio di paradigma, al tempo stesso politico e operativo, consentirebbe di superare. Sul piano politico, è infatti necessario che il tema dei fondi europei acquisisca una vera e propria priorità nelle agende dei Poteri regionali e locali, capace di mettere a sistema nelle strutture amministrative la progettazione europea, ben più di quanto non accada adesso. L’europrogettazione, in altre parole, non può restare relegata in una posizione opzionale, secondaria, 79
marginale nella ricerca dei finanziamenti, ma deve acquisire una centralità strategica nel motore stesso dell’amministrazione, sviluppando quella particolare abilità per cui ideazioni e proposte progettuali a dimensione locale riescono a innestarsi in specifiche strategie comunitarie. A livello operativo, è indispensabile rimuovere tutti quei modus operandi che rendono le Amministrazioni poco duttili rispetto alla costruzione di progetti. Ne sono esempi: la rigida settorializzazione di molti Enti locali, che ostacola collaborazioni tra aree diverse di una medesima istituzione; le resistenze a ottimizzare i processi di valorizzazione delle risorse interne (fattore che spesso aumenta gli oneri dei cofinanziamenti); lo scarso adattamento degli esercizi finanziari degli Enti ai requisiti previsti dai bilanci dei progetti; la combinazione di competenze diverse (tematiche, linguistiche, gestionali) richieste al personale amministrativo. A questo sommario ventaglio di ostacoli, occorre aggiungere lo scoglio che più frequentemente impedisce la candidatura di un progetto europeo: ossia, la difficoltà a costruire uno, o più, partenariati, mettendo in comunicazione Enti di differenti territori europei in tutte le fasi progettuali (ideazione, presentazione, gestione, monitoraggio, valutazione finale, rendicontazione, ecc.). Si tratta di uno scoglio che è conseguenza diretta della poca attenzione sino a ora riservata alle reti europee, ai gemellaggi, alla partecipazione degli amministratori pubblici agli Organi di rappresentanza europei degli EE.LL. (dal Comitato delle Regioni al CEMR), nonché della ancora diffusa ritrosia a sperimentare forme di collaborazione transnazionali (quand’anche limitate nei confini dell’Ue). Non è possibile superare questi scogli senza adeguati interventi di informazione e formazione finalizzati a far maturare competenze e metodi europrogettuali da applicare strutturalmente agli EE.LL. È la cosiddetta prova della progettazione, che gli Enti territoriali sono chiamati ad affrontare se vogliono diventare, non solo nominalmente, Comuni e Regioni d’Europa, capaci di restituire a territori e popolazioni un segno tangibile dell’utilità dell’Ue. La promozione di questo cambio di paradigma è stata recentemente riconosciuta come un obiettivo chiave della Federazione regionale piemontese dell’Aiccre. Fondata a Roma nel 1952 allo scopo di accompagnare i Comuni in una dimensione europea, creando gemellaggi tra omologhi dei vari stati, l’Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa opera su tutti i territori regionali attraverso le sue Federazioni. In Piemonte è presente dal 1966. Nel corso dell’ultimo anno ha accentuato la sua attenzione per i fondi europei, offrendo agli Enti territoriali supporto informativo, formativo e,
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ove richiesto, di accompagnamento alla progettazione. Questa scelta muove dalla consapevolezza che il cambio di paradigma auspicato per gli Enti locali non può avvenire in maniera semplice e automatica, ma richiede un sostegno continuativo perché non lasci spazio – come spesso avviene – ad atteggiamenti di rassegnazione, inerzia o, addirittura, rinuncia. In prossimità delle elezioni europee che ci attendono in primavera, la Federazione piemontese dell’Aiccre sceglie quindi la via della progettazione per riproporre, in forme attuali, la lezione politica del suo padre ispiratore, Umberto Serafini, il federalista olivettiano che riteneva possibile il successo della costruzione dell’Ue solo a partire dalle sue molecole fondamentali: i Comuni e le comunità che le animano. Senza la loro attiva partecipazione al processo di unificazione europea, asseriva Serafini, il peso degli stati è destinato a diventare preponderante, sino al punto di tradire lo spirito autentico dell’intero progetto europeo, di capovolgerlo nel suo esatto contrario, di esporlo al rischio di una sua disgregazione. La progettazione europea, con i suoi obiettivi pragmatici e tangibili, con la sua incidenza nella vita locale, può sostanziare in forme nuove la convinzione del fondatore dell’Aiccre.
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Gli autori
Mercedes Bresso. Europarlamentare dal 2014, membro delle Commissioni per lo Sviluppo Regionale e per gli Affari Costituzionali. Professore di Economia al Politecnico di Torino, ha insegnato a Pavia, Udine e all’Università di Torino. Esperta di Economia dell’Ambiente, è autrice di libri e saggi. Ha ricoperto la carica di presidente della Federazione Mondiale delle Città Unite (FMCU), del coordinamento Mondiale delle Associazioni di Città (CAMVAL) e di Metrex, rete delle aree metropolitane europee. Ha presieduto la Conferenza delle Alpi Franco-Italiane (CAFI). È Grand’Ufficiale al Merito della Repubblica. Nel 1985 è stata eletta per la prima volta in Consiglio Regionale e nel 1994-1995 è stata assessore regionale alla Pianificazione territoriale e ai Parchi. Dal 1995 al 2004, presidente della Provincia di Torino e dell’Unione delle Province Piemontesi. Eletta al Parlamento europeo nel 2004, dal 2005 al 2010 presidente della Regione Piemonte. Rino Forgione. 49 anni, avellinese d’origine, torinese d’adozione, vive e lavora a Torino. È avvocato dal 2010 (esperto in diritto di famiglia, lavoro e diritto tributario), dopo aver trascorso 18 anni nella Guardia di Finanza fino a raggiungere il grado maresciallo capo. Nella sua attività investigativa si è occupato principalmente di polizia giudiziaria e tributaria. Si è laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Torino con una tesi dal titolo “Indagini preliminari nel riciclaggio di proventi illeciti” discussa con il professor Paolo Ferrua. Inoltre, ha conseguito la Laurea breve in Economia e Commercio all’Università di Bologna. Maurizio Jacopo Lami. Laureato in Lettere indirizzo storico, giornalista, si occupa di ricerche storiche, è stato capo archivista al “Il Nostro Tempo”, 83
ha lavorato all’Indipendente, al Giornale del Piemonte, Voce del Popolo, a Pagine del Piemonte e numerose altre testate. Ha lavorato alle Teche RAI per catalogazione materiale sulla Lombardia e Friuli Venezia Giulia. Ha pubblicato presso Giunti editori il libro “Antico Egitto” con diverse ristampe. In prossima uscita altri titoli con Giunti, Araba Fenice, e altre case editrici su argomenti storici. Collabora con l’ufficio stampa del Salone del Libro e con la Giunti per pubblicazioni di argomento storico e cura per la comunità parrocchiale di San Massimo la rivista “Borgo nuovo”. Dario Pagano. Giornalista professionista, si occupa di comunicazione d’impresa da diversi anni. Dopo la laurea, ha collaborato con settimanali e quotidiani locali, prima di occuparsi di riviste aziendali e, successivamente, di uffici stampa aziendali. Attualmente è responsabile della comunicazione di una società operante nel settore automotive. È nato a Milano, ma da sempre vive a Torino. Davide Rigallo. Dal marzo 2016 è Segretario regionale della Federazione piemontese dell’AICCRE e componente della Direzione e del Consiglio nazionale dell’AICCRE. Esperto di fenomeni migratori e politiche di cooperazione internazionale soprattutto in rapporto al processo di integrazione dell’UE, è stato consulente dal 1999 al 2006 del Centro interculturale della Città di Torino, e dal 2008 al 2015 ha svolto il ruolo di observer del processo costituente in Somalia per l’ong IIDA Women’s Development (Nairobi). È autore di numerosi testi divulgativi, scolastici e scientifici in materia di migrazioni ed educazione interculturale. Emanuele Davide Ruffino. È autore di diversi saggi di economia sanitaria, tra cui “Sanità al Bivio” e il “Dizionario della Sanità”, pubblicati dal Sole24ore. Il suo primo lavoro risale al 1995 con “Nozioni di economia sanitaria” (CESPI ed), cui sono seguiti “Economia Sanitaria: da stato di necessità a disciplina scientifica” (Usas ed), “Sistemi sanitari a confronto. Europa e Usa: dopo il Welfare State, prospettive per una riforma della Sanità” (Blu editoriale), “Capire la sanità” (Politea ed.), cui si aggiungono più di cento pubblicazioni su diverse riviste specializzate tra cui l’Agenzia sanitaria italiana, il Notiziario Medico (Piccin Editore), Il medico d’Italia, Torino Medica, Mecosan, “Pensiero economico moderno”, “Diritto ed Economia”, “Economia, Società ed Istituzioni” etc. È Presidente del Consiglio di amministrazione del Centro Ortopedico di quadrante di Omegna e revisore conti presso RivaBanca e presso enti e società sia pubbliche che private. Vice presidente dell’Associazione di 84
promozione sociale “La Bottega del Possibile”, dopo essere stato vice presidente dell’Anci Piemonte, assessore alla Solidarietà Sociale della Provincia di Torino fino al 2009; assessore alle Politiche Sociali (1999-2002) e vicesindaco del Comune di Ivrea (2003-2007). Michele Ruggiero. Giornalista professionista, presidente de la Porta di Vetro, si è laureato in Lettere, indirizzo storico, all’Università di Torino, città in cui vive e dove lavora presso la Rai, Telegiornale del Piemonte. Membro del Direttivo regionale piemontese dell’Aiccre (Associazione italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa). Autore di numerose pubblicazioni, le ultime in ordine di tempo: “Vita e pensiero di Monsignor Bettazzi” (coautore Luca Rolandi), “Una vita da secondo (coautrice Alessandra Demichelis), Il terrorismo, testimonianze nella memoria di chi l’ha vissuto”, con postfazione di Carole Beebe Tarantelli, Atti del convegno promosso il 15 giugno 2015 dal Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte e “Pronto, qui Prima linea” (coautore Mario Renosio). Insieme a Enza Carpignano ha realizzato per l’Associazione dei consiglieri della regione Piemonte “Anni intensi”¸ un documentario sulla vita politica di Aldo Viglione. Inoltre è coautore con Enza Carpignano e Lorenzo Gigli dei documentari “600 mila fibre in un respiro”, che affronta la vicenda Eternit e dell’amianto, e “Il Male subdolo”, dedicato alla vittime di SLA, la Sclerosi Laterale Amiotrofica. Pietro Terna. Già professore ordinario di Economia a Torino e, in precedenza, segretario della Confindustria del Piemonte, è uno studioso dei modelli di simulazione ad agenti per le scienze sociali e per le scelte di policy; ha fondato due associazioni torinesi per la partecipazione dei cittadini. Ora è presidente della Fondazione Collegio Carlo Alberto e docente a contratto di Econofisica nel corso di Fisica dei sistemi complessi. Il suo lavoro di ricerca è nei campi (I) delle reti neurali artificiali applicate in economia, (II) della simulazione sociale con modelli di agenti e (III) della simulazione del comportamento dell’impresa e delle organizzazioni, anche in campo finanziario, con ricerche su rischi sistemici in collaborazione con la Banca d’Italia). Ha preparato un nuovo sistema di simulazione ad agenti in Python (Swarm-Like Agent Protocol in Python), SLAPP, derivato dal progetto Swarm.
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Daniele Viotti. Parlamentare europeo, eletto nel maggio 2014, nella circoscrizione nord-ovest (Piemonte, Lombardia, Liguria, Valle d’Aosta) per il Pd di cui è tesoriere a Bruxelles. Titolare della Commissione per i Bilanci (BUDG) e membro sostituto della Commissione per le Libertà Civili, la Giustizia e gli Affari Interni (LIBE), ha assunto anche la copresidenza dell’Intergruppo per i diritti LGBTI del Parlamento europeo. Inoltre è membro titolare della delegazione per le relazioni con la Bosnia-Erzegovina e il Kosovo e membro sostituto della delegazione alle commissioni di cooperazione parlamentare UE-Kazakistan, UEKirghizistan, UE Uzbekistan e per le relazioni con il Tagikistan, il Turkmenistan e la Mongolia. Germana Zollesi. Medico, specializzata in igiene e Medicina Preventiva presso l’Università degli Studi di Torino con il prof. Giovanni Renga, associa alla professione medica un’intensa attività divulgativa nel settore sanitario. È stata tra i redattori del portale: torinomedica.com (portale della rivista di informazione medica dell’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Torino) e ha pubblicato per Tendenze Nuove, Italiana Journal di Public Health, Rapporto Osservasalute, ASI - Agenzia Sanitaria Italiana, Monografie A.Re.S.S. Ha insegnato a diversi corsi di laurea specialistica organizzati dall’Università degli studi di Torino (Assistenza Oftalmologia dell’Università di Torino” Scienze Infermieristiche, Corso di Laurea per Ostetriche).
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