Da casa a casa

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Fulvio Bella

da casa a casa Camminata solitaria da Milano a Elva 3|14 agosto 2009

Pavia

Voghera

Milano Tortona

Alessandria


Alba

Santo Stefano Belbo Castelnuovo Belbo


3 Premessa Questa “impresa”, percorrere a piedi il percorso che separa la casa della mamma a Brugherio da quella dei nonni a Elva in val Maira, (Cuneo), 275 chilometri, non è stata un’idea solo mia, né un’idea di questi ultimi anni. è nata da una discussione con mio fratello Gianfranco, sul balcone della casa di Elva, in un magnifico pomeriggio d’agosto, di quelli senza nubi e con il cielo color cobalto. È stato Gianfranco a dire: “perché una volta non veniamo a piedi ad Elva?”. “Perché no”, è stata la mia riposta; ma in seguito nessuno dei due, per vari motivi, ci ha mai pensato seriamente. Dal 2006 questa è un’idea che mio fratello non può più realizzare. Allora ho pensato che avrei potuto farlo io, anche per lui. Non per ricordarlo, è impossibile non ricordare chi dal nostro cuore, in realtà, non è mai andato via, ma per mantenere un impegno deciso insieme. Fulvio

Saluzzo Bra

Busca

San Damiano Macra

Elva


Smarrimenti


5 Smarrimenti Giulia gira alla rotonda, rallenta e mi saluta con la mano. Mi giro e la seguo con gli occhi finché non scompare al di là del semaforo. Ecco ora sono solo. Ora comincia “l’impresa”. All’improvviso, per un attimo, tutto mi appare difficile, quasi impossibile. A partire proprio da questa strada affollata di camion e di auto, contornata di negozi sgangherati, brutta come solo una via della periferia milanese può essere. Attraversare la rotonda è già un inizio complicato, i camionisti non sono abituati a vedere pedoni lungo la riga bianca e poi un pedone coi bastoncini da montagna in piena pianura, o è un clown o è un matto. “Da ora in poi sono solo” – dico a me stesso. Non pensavo mi pesasse ed invece eccomi qui con la voglia di telefonare a Giulia e dirle di tornare indietro a prendermi, non pensavo di dover ricorrere a Marco Aurelio fin da subito. Pensare a lui, pensare agli stoici, funziona. Percorsi qualche centinaio di metri, la solitudine non mi spaventa più, si è trasformata in un due che, messo davanti all’animo, lo eleva a potenza. Mi immagino come un novello cavaliere alla ricerca del Graal ma ora mentre scrivo queste note mi torna in mente un sms di Alessandro Pollio, amico e compagno da tempo, ricevuto a Elva al termine del viaggio: “Né Paradiso, né Graal, ma il gusto d’aver fatto bene una cosa che si voleva (doveva) fare”. Davvero ha ragione. Ecco un sentimento che bisogna recuperare: far bene le cose, qualunque esse siano, dalla più facile alla più complessa e trovar gioia e senso nell’aver fatto il proprio dovere. E gioia e senso ora sono in me per aver fatto, con impegno, una cosa che volevo e che dovevo a mio fratello. “Da casa a casa”.


6 Può sembrare strano inserire nel capitolo “smarrimenti” una deliziosa strada che immersa nel verde di un centenario parco ti porta verso un magnifico albergo dove ti aspettano piscina, massaggi e via dicendo. Ma se questa “deliziosa strada” è alla fine di una tappa di oltre 30 chilometri, la prima oltretutto, e la scopri quando sei convinto di essere già arrivato perché davanti a te c’è l’albergo, e invece come nei rompi fila degli aeroporti, per arrivare alla reception devi far ancora mezzo chilometro, ecco che quella che potrebbe essere una romantica strada nel parco ti appare in realtà come un percorso di guerra dove devi stringere i denti e pensare solo ad andare avanti. Come si vede, al di là dei pensieri forti e assoluti che si vorrebbero presentare come padroni del mondo, la realtà, con i due compagni che si porta appresso, verità e certezza, è sempre comunque del tutto relativa. Del resto è sempre bene ricordare che tra i tanti modi che ha di esprimersi la realtà, la verità è semplicemente la più presuntuosa. Ho appena lasciato dietro di me il cartello bianco con la scritta Marengo. Questa parola porta con sé, per collegamento come si fa quando si gioca con “il Bersaglio” de la Settimana Enigmistica, Napoleone. Infatti è stato lui oggi, per molto tempo, a farmi compagnia. Mi è sembrato di incontrarlo dappertutto. Ho cercato d’immaginarlo chino sulle carte attraversando Torre Garofali nella villa che requisì per farne il quartier generale. Ho cercato poi di immaginare gli eserciti schierati nella pianura in attesa della battaglia. Ma ora questo pezzo di strada che da Spinetta Marengo porta ad Alessandria non mi permette di pensare più a nulla se non a stare attento alle macchine che mi passano accanto a tutta velocità. Più che una strada è una superstrada. Sono oramai abituato


7 all’aria dei camion che mi sposta, ma qui è roba da puntellarsi con le bacchette. È come essere in un videogioco, le auto, i camion, i pullman sembrano proiettili lanciati da invisibili nemici. Sto attento a non uscire di un millimetro dalla riga bianca. Sto attento ai rumori. Quando il rombo è troppo forte mi fermo immobile come una lepre che immagina il cacciatore. Pericolo nel pericolo è poi il passaggio del ponte sulla Bormida. Qui il guard–rail sporge sulla strada per circa 30 cm. Oltretutto dovrei, come faccio da quando ho iniziato (lo faccio con tutti i fiumi), fermarmi a fotografarla, ma non ci penso nemmeno. Mi metto invece a correre per arrivare al più presto al di là. L’avvicinarsi di Alessandria coincide con il ristabilirsi del mio ottimismo. Come tutte le periferie, è brutta anche la periferia di Alessandria, ma è comunque un brutto che dà ristoro. Sono veramente stanco. Questi ultimi cinque chilometri sono stati pesanti e la vescica al piede che mi accompagna fin dal primo giorno, soprattutto negli ultimi chilometri si è fatta davvero sentire. Mi sono preparato al viaggio leggendo Seneca e Marco Aurelio, forse sarebbe stato opportuno anche dare una rilettura a Ignazio da Loyola e ai suoi “Esercizi”. Sono preoccupato. La coscia destra mi fa male, ma non è il male che mi spaventa, è che sento uno strano calore interno e mi pare che la sensibilità al tatto sia fortemente diminuita, come quando si hanno dei formicolii, anche se i formicolii in realtà non li ho. Mi era già capitata una sensazione simile in India a Jaipur dopo una lunga e non programmata camminata. Può darsi che sia dovuto a una mancanza di sali minerali. Domani li compro. Sono a Castelnuovo Belbo in un bad&breakfast. Mi alzo alle sei.


8 La tappa di oggi fino a Santo Stefano è pesante. Preparo come al solito, con una meticolosità che prima di questo viaggio mi era del tutto sconosciuta, lo zaino e scendo per la colazione. Le finestre della stanza sono chiuse non ho quindi un’idea precisa del tempo, anche se il vento che sento premere sulle persiane non mi lascia immaginare molto di buono. Le previsioni di ieri dicevano pioggia. Dalla cucina esco in giardino. Davanti a me decine di nubi nere si affollano come un gruppo di turisti giapponesi intorno alla guida turistica. Non faccio a tempo a finire la colazione che queste stesse nubi, all’unisono, come all’ordine di un bravo direttore, si spalancano alla pioggia che portano. È un vero nubifragio! Vedo la lotta impari che ci sarebbe tra la mia mantella e quelle nubi, non posso far altro che rientrare in casa. Ho freddo anche in casa. Chiudo la porta ma il freddo non solo non diminuisce ma si fa più penetrante, mi arriva dentro le ossa. Mi prende lo sconforto. Mi sembra inutile tutto quello fin qui fatto e ancora di più quello che devo fare. Non “un’impresa”, un atto d’amore verso mio fratello, ma una inutile cocciutaggine dettata dalla vanità. Che senso ha andare avanti? Il mo animo è più nero delle nubi, più freddo della pioggia. Che fare? Potrei tornare a letto, ritornare a dormire. Scelgo un’altra strada. Scrivo. Due racconti brevi della serie “non amo le sorprese”. Vorrei farne una raccolta, per ora complessivamente ne ho scritti sei. La proprietaria del bed&breakfast mi guarda meravigliata, mi prepara un altro caffè ogni tanto mi si avvicina dicendo: “ah! Se solo sapessi scrivere bene. Come la invidio”. La sera prima a cena mi aveva detto “la mia vita sa, è più di un romanzo”. Sembrava avesse voglia di parlare ma poi non ha detto nulla, ha tirato però fuori da un vecchio cassetto dei


9 disegni che la riprendevano giovane e bella a Parigi. Era davvero bella e che fosse Parigi te lo diceva senza possibilità d’equivoco la facciata di Notre Dame, gotica e imponente, sullo sfondo. A un certo punto mi dice: “Se vuole leggermi qualcosa io l’ascolto volentieri”, ma forse la mia risposta l’ha delusa: “no, sono solo appunti, non ancora un testo completo”. Del resto non era una bugia io ho questo metodo nello scrivere. Butto giù di getto il canovaccio del racconto senza fare molta attenzione a precisione di vocaboli e sintassi, poi successivamente, con calma e attenzione riscrivo. Intanto fuori continua a piovere e il vento non lascia il tempo alle canne di rialzarsi, i rami degli alberi da frutto si agitano in continuazione. Solo le viti là in alto alla collina coi loro pampini radi, sembrano indifferenti. Viene spontaneo il gioco dei rimandi, viene spontaneo pensare a “la pioggia nel vigneto”. Provo a tentare una poesia, ma io non sono D’annunzio e lo si capisce subito. Era meglio che non avessi tentato. Questo fallimento poetico si aggiunge allo sconforto che mi danno le nubi nere, la pioggia incessante e il vento che non si placa. Ero triste alle sei ora sono le otto e la situazione mi appare ancora peggiore. Mi rifaccio la regina di tutte le domande: che fare? Ma non ho una risposta. Mi faccio preparare un altro caffè e resto immobile a guardare fuori come un cane da caccia davanti alla tana della lepre. Pian piano il vento cala, la pioggia perde d’intensità, le nubi da nere si fanno via via sempre più grigie. Alle nove piove ancora, ma è una pioggerellina alla Angelo Silvio Novaro e la mia mantella può reggere la competizione. Zaino in spalla mi avvio verso la discesa che mi porta a Incisa Scapaccino. La signora dalla cucina mi guarda con orgoglio. “Lei si che è coraggioso”, mi dice e si fa promettere di chiamarla


10 se dovessi trovarmi in difficoltà. Glielo prometto volentieri e davvero se ci fosse stato bisogno l’avrei chiamata. Ho comunque conservato il suo numero di cellulare. Non è escluso che un giorno o l’altro non la chiami per farmi raccontare “questa vita che è più di un romanzo”. Sono al pronto soccorso di Savigliano. Da qualche tempo mi fa male un muscolo della gamba sinistra, quello frontale, cinque centimetri più su della caviglia. È gonfio e arrossato e continua ad esserlo nonostante l‘arnica che con meticolosità gli spalmo intorno prima di partire e tutte le volte che mi fermo al bar o in un prato. Il dolore per quanto forte è sopportabile ma il farmacista di Marene ha insistito: “È meglio che lei vada al pronto soccorso”. Marco e Silvietta che stamane mi hanno raggiunto sulla strada che da Bra porta a Savigliano per fare una giornata di cammino con me, insistono anche loro, “è meglio andare”.


11 Marco è stato per tanti anni compagno di lavoro di Franco al Buratto, oltreché suo amico profondo. È un’artista. Non parla molto ma il suo silenzio spesso dice molto di più delle parole. Sa che questo mio viaggio oltreché una scommessa con me stesso è anche un omaggio a Franco, una sorta di pellegrinaggio laico, il realizzare un’impresa che avrebbe voluto fare lui e che la malattia, purtroppo gli ha impedito di realizzare. Anche per lui questa tappa è una stazione d’una sua personale via crucis, dove lasciar andare la memoria e il ricordo, elementi tra l’altro che caratterizzano e danno pienezza a tutti i suoi ultimi lavori. Ricordo dunque, ma ricordo che opera e vive nel quotidiano affannarsi, nella fatica splendida e difficile insieme, di questa cosa meravigliosa che noi, contrariamente a lui possiamo ancora frequentare: la vita. Marco e Silvietta sono in attesa con me, e hanno paura come me, o forse ancora di più, che un ortopedico sensibile solo all’esame clinico dei muscoli e poco alla psicologia mi/ci dica di interrompere il cammino. Sono stati consiglieri utili e carini; non vorrei sembrare esagerato ma, a un certo punto, quando per via del dolore che continuamente cresceva ero tentato di prendere l’autobus per andare da Marene a Savigliano e loro mi hanno detto che forse non valeva la pena, in fondo mancavano solo sette chilometri e andando pian piano e fermandomi più spesso potevo farcela, mi sono sembrati due angeli custodi. Due angeli che hanno preso corpo di uomo e di donna per non darmi punti di vantaggio sul plurisecolare dibattito intorno al loro sesso. È chiaro che io non credo agli angeli custodi (anche se prima di partire ho finito di leggere lo straordinario libro del baroccheggiante Giovan Grisostomo Trombelli “Trattato degli angeli custodi”) ma è stato bello, in alcuni istanti, pensare a loro in questa guisa.


12 Mi chiama il medico. Mi manda a fare le lastre. Non c’è nulla di rotto. Dopo un quarto d’ora mi richiama. Guarda la gamba. “Probabilmente – mi dice – è un’infiammazione del muscolo. Io dovrei dirle di stare a riposo ma capisco che non sarebbe per lei un buon consiglio. Si metta questi cerotti antinfiammatori e prosegua pure, io però non le do antidolorifici così sarà il dolore a dirle quando è necessario fermarsi”. Un po’ spartano il metodo, un po’ approssimativa la diagnosi che scrive sul foglio del rilascio “mal di gamba”, ma meglio così. Posso proseguire. Che tutto sia andato bene Marco e Silvietta lo capiscono dal sorriso con il quale mi vedono uscire dal gabinetto del medico. Mi fanno compagnia fino all’albergo e poi da lì, dopo avermi salutato, prendono il volo. Dalla finestra dell’albergo mi è sembrato di vederli mentre mi mandavano un altro saluto a cavallo di una nuvola. Ma non posso giurarci. Questa volta a venirmi incontro è Proust. La vescica al piede destro, nonostante i vari cerotti scrupolosamente applicati, mi fa sempre più male. Sono arrivato a Santo Stefano Belbo, ma gli ultimi chilometri sono stati davvero difficili. Questo dolore è pericoloso non come dolore in sé ma per gli effetti che produce, facendoti immaginare il dolore che proverai il giorno dopo alla partenza, ti toglie la cosa principale che nella vita, in un viaggio, in ogni cosa devi avere: la fiducia nel futuro. Ma cosa c’entra Proust? C’entra, c’entra… Lui ha scritto un’opera fondamentale della cultura europea del novecento (leggo ora sui giornali che alcuni lo ritengono sopravvalutato ma io non sono di questo avviso) prendendo spunto da un profumo di Magdeleine inzuppate che gli ha ricordato un momento della sua infanzia, io facendo una


13 piccola scivolata su un po’ di ghiaietto sparso sull’asfalto mi sono ricordato una caduta da bambino. Avevo sette/otto anni. Guardavo, spaventato e arrabbiato insieme, il mio ginocchio tutto sanguinante. Pensando già allora che al dolore bisogna contrapporre la volontà, cercavo di non piangere. Per non farlo mi immaginavo di essere Tex Willer legato al palo che non vuole dare la soddisfazione agli indiani che gli ballano intorno. Pensavo questo però in realtà piangevo. Mia mamma mi viene a prendere in cortile e mi porta in casa. Pulisce con gentilezza la ferita e poi prende dall’armadietto della farmacia una bottiglietta di plastica ovoide, come una piccola e sproporzionata borraccia: lo streptosil. Quella polverina magica e bianca, asciugò in un battibaleno la ferita e il giorno dopo una crosta dura come il carapace di una tartaruga capeggiava dove il giorno prima c’era rossore e bruciatura. Streptosil pomata magica come il supercalifragilistichespiralidoso di Mary Poppins. La fortuna mi aiuta. Poco prima di arrivare all’albergo trovo una farmacia aperta. Il giorno dopo, proprio mentre devo affrontare una giornata impegnativa con l’arrivo ad Alba (brutto il gioco di parole “All’Alba per Alba” ma mi viene spontaneo) la mia vescica si presenta asciutta e quasi guarita. Di nuovo la guardia stretta dei moschettieri/cerotti per impedire a microbi di entrare e via si parte in compagnia del sole che comincia a farsi vedere al di là delle colline. Alla sera ad Alba la mia vescica era come il nemico nella canzone “Generale” di Francesco De Gregori: “vinto, battuto”.


Il tempo


Il tempo Ho già parlato della tristezza della partenza da Castelnuovo Belbo causa maltempo, ma non è stato quello l’unico mio incontro con la pioggia. Proprio alla partenza nel tratto che mi ha portato da Milano a Pavia sono stato scortato per tutto il tratto dell’argine da nubi minacciose, nere come pece o come funerei foulard da lutto. Mi ricordo che scrutavo l’orizzonte per individuare in anticipo possibili ripari ma era, quasi sempre una ricerca inutile. La strada dell’argine correva dritta come un fuso, come la linea di confine tracciata nel deserto per dividere la Libia dall’Algeria; davanti a me non vedevo che un’interminabile striscia d’asfalto o di sterrato. Sei solo davvero. E guai a guardare indietro, la sensazione di impotenza e solitudine aumentava. A tenerti compagnia le vecchie chiuse, per lo più in secca e arrugginite, alcune però sono ancora funzionanti e ti permettono di immaginare i barconi carichi di merci che dal Ticino scendevano verso Milano.

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Tutto intorno, cupa nell’ombra del nero delle nubi, la pianura padana così piatta quand’è piatta. I cartelli indicano paesi e città ma si limitano solo a evocarli perché non c’è differenza alcuna tra i campi di Zibido, di Binasco o di Borgarello. A rompere la monotonia dei campi ecco là a est irrompere la Certosa. Imponente, bella, persino barocca vista nel contesto dei prati che la circondano. La sua facciata troneggia solitaria in mezzo al verde smeraldo dei prati. Ma un viaggio a piedi come il mio ha un handicap, non permette deviazioni, non permette d’inseguire bivi, anche i più allettanti, per questo mi accontento di mandarle un saluto così, da lontano. Però a dare sollievo all’animo non c’è solo la bellezza, non posso infatti non ricordare la gioia nel vedere i primi palazzi della periferia di Pavia. Erano palazzoni brutti, popolari, senza un disegno e un profilo originale, eppure sono stati per me, dopo queste ore di prati e di nubi, come il brillare di un faro dopo la nebbia e la tempesta. C’era vita, c’era gente, avrei trovato un bar dove bere una birra e soprattutto un luogo dove ripararmi dalla pioggia che già aveva cominciato a poco a poco ad abbandonare le nubi. Per mia fortuna lo scatenarsi del diluvio universale ha coinciso con la mia entrata nel bar. Un bar strano, addobbato lungo i muri da una quadreria di macchinette e gestito da due ragazze non simpatiche, non belle, non gentili. Un temporale violento ma breve, non avevo fatto a tempo a leggere il Giornale (si, il Giornale purtroppo, era l’unico quotidiano presente in quel bar) che già la pioggia aveva perso quasi tutta la sua intensità. Mi sono rimesso in viaggio con l’asfalto che fumava, i tombini che faticavano a disperdere l’acqua e le grondaie che lasciavano scendere a valle, dai tetti, piccoli ruscelli.


Incontri


Incontri

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Sto andando a cena “alle carceri” ristorante di Pavia consigliatomi dall’albergatrice; quando arrivo mi accorgo che c‘ero già stato al termine di una riunione di lavoro con il comitato soci della zona. Sono in taxi perché una volta arrivato alla meta mi sento moralmente autorizzato, in caso di ulteriori spostamenti (cena, cinema, un aperitivo in piazza o che so io), a prendere un taxi. L’autista che mi accompagna all’andata è interessato “all’impresa” e cerca di darmi consigli, secondo lui soprattutto devo stare attento alle macchine guidate dalle donne e dagli extracomunitari, segno evidente di come nella mentalità comune il qualunquismo classico delle barzellette si stia sposando con l’arretratezza culturale dell’epoca leghista. L’autista del ritorno invece mi racconta tutti gli imbrogli, di cui si palesa testimone oculare, che fanno i ristoratori verso gli avventori occasionali, ovviamente i ristoratori meridionali, non i pavesi: mi racconta le sue fregature a Otranto e a Caltanisetta, per non parlare poi di Napoli padre di tutti i truffatori. Vorrei rispondere, intervenire, anzi dovrei, ma un po’ per la stanchezza, un po’ per il vino, mi abbandono sul sedile e mi metto in una specie di stand–bay. Quando mi scarica davanti al cancello dell’albergo mi stava raccontano di una raccapricciante pasta alla Norma (si, raccapricciante, proprio questo il vocabolo che ha usato) che gli era stata propinata a un prezzo esorbitante, a Paestum un luogo pieno di un “sacco di rovine”. “Rovine, ma belle, antiche” – si corregge. È possibile raccontare tutta la propria vita in cinque minuti? Si se chi incontri per la strada è la bibliotecaria di Voghera, compaesana di quella casalinga che nel corso degli ultimi


decenni è stata presa come metro di paragone per la nordica sapienza, tanto da meritare ormai più di una citazione in vari volumi di aggiornamento di storiche enciclopedie ed essere ispiratrice di numerosi editoriali di importanti direttori e vicedirettori di giornali, radio e televisioni. Suscito la sua curiosità per via delle bacchette. Mi si avvicina e mi dice: “Scusi, si sta allenando per lo sci di fondo?”. Le spiego cosa sto facendo e dove sto andando. Appena dico, Elva in Val Maira, le si illuminano gli occhi. “Conosco bene la val Maira – mi dice – ci andavo sempre con mio marito”. Andavo. Tempo imperfetto, presuppone qualche spiegazione, ed infatti prosegue, “ora sono separata e quello stronzo non mi passa più neppure gli alimenti.” Non può più permettersi le vacanze infatti, “vede è agosto - dice - e sono ancora qui”. Fin qui niente di strano non è un caso raro la separazione e neppure che ci siano contrasti sugli accordi decisi dai giudici, ma capisco che quel dire è la premessa di altro, un’avanguardia che ha solo lo scopo di aprire la strada al grosso dell’esercito, alla cosa più importante. Prosegue infatti e mi racconta che suo marito l’ha lasciata tre anni fa per… un uomo, o meglio “un grizzly” come lo definisce lei. Era andato in Canada per una gara di pesca, e lì si era innamorato del concorrente suo vicino. La cosa però che più meravigliava la signora non era il fatto che si fosse innamorato di un uomo, ma di “quell’uomo”. “Un orso – continuava a ripetere – un vero grizzly, tutto peloso, un armadio, grande e grosso che quasi non ci sta in una stanza normale”. A quel punto comincia a raccontarmi della sua infanzia, della sua nonna. Capisce però che forse ho fretta di andare ed allora s’interrompe bruscamente e baciandomi sulla guancia, mi dice: “mi venga a trovare quando ha finito il giro. Così mi racconta e mi parla della Val Maira che mi è restata

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davvero nel cuore.” Mi ha detto anche il suo nome e cognome ma devo essere sincero proprio non me lo ricordo, ma quante mai saranno le bibliotecarie di Voghera?

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Appena fuori Voghera, su una via bellissima tra campi, cascine, chiesette e sullo sfondo il dolce profilo delle colline, una donna che sta raccogliendo pomodori nel suo orto, una vecchierella, col velo e con il volto reso rugoso dal sole, tipico di una contadina, dopo avermi chiesto dove andavo e stupita nell’apprendere che non facevo questo viaggio né per un voto, né per devozione verso la Madonna, mi da comunque la sua benedizione e facendosi il segno della croce, mi dice: “Maria l’accompagni”. Non mi piace scherzare sulla religione ma devo dire che quella vecchietta ci ha azzeccato, qualche chilometro più avanti infatti, appena superato Ponte Curone, vedo una macchina che mi sorpassa mentre la donna alla guida mi guarda.


Noto che mentre va continua a guardare nello specchietto; qualche centinaio di metri più avanti si ferma, mette le quattro frecce e poi viene verso di me in retromarcia. Quando mi raggiunge scopro che al volante c’è Maria Calagno, la presidente del comitato soci di Voghera di sette/otto anni fa. Aveva abbandonato l’impegno Coop per andare col suo compagno a gestire una trattoria “la locanda del Grue” in una valle nei dintorni di Tortona. Ci eravamo scambiati e–mail per un po’ di anni, tenendoci in contatto e promettendoci sempre, o io di andare da lei alla locanda un sabato o una domenica o lei di venire da me quando passava dalle parti di Milano. Ma nessuno dei due aveva mai mantenuto la parola. Ci siamo incontrati qui, per strada per poter aggiungere un aneddoto al volume infinito di “com’è piccolo il mondo”. Al bar della cooperativa di Oviglio, ridente paese mezzo Langhe, mezzo Monferrato, solito gruppo di anziani intenti a chiacchierare tra loro e con i gerenti sui massimi sistemi. Il più brillante del gruppo, dopo aver detto la sua sullo scibile umano, si vanta di aver scoperto come risolvere il problema del “bollino nero” ovvero del problema delle partenze per le vacanze nei giorni in cui si prevede un grande traffico; il tema è quanto mai attuale dopo lo shock creato dai 30 chilometri di coda al passante di Mestre. “Basta non partire” – dice con la prosopopea di un novello Cicerone. Come si fa a dargli torto? Entra la badante rumena, il muratore albanese, l’operaio ucraino. Una cosa che ho notato sinora in quasi tutti i bar nei quali mi sono fermato è una reale mescolanza di etnie. I discorsi che si sentono sono spesso razzisti, ma nella realtà la situazione è davvero variegata a partire il più delle volte dai

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gerenti, ho incontrato cinesi, marocchini, egiziani intenti a preparare caffè e Campari col bianco. Come si vede anche in terra padana la realtà va oltre le parole. Si continua a dire: “mandiamoli tutti a casa”, ma fortunatamente nella realtà gli immigrati si conquistano giorno dopo giorno il loro posto al sole.

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Parlando di bar come dimenticare il bar a Certosa all’incrocio della via che porta all’abbazia, dove mi sono fermato per un panino e una birra e dove continuamente si alternavano in reciproci doppi sensi e maliziosi argomentare prosperose donne lombarde e virili marocchini? Sempre a proposito di bar eccomi a Branduzzo sul tragitto Pavia – Voghera. Qui devo parlare della gentilezza della proprietaria, una donna sulla sessantina d’anni, portati né bene né male, quegli anni aveva, quegli anni dimostrava. Le chiedo informazioni sulla farmacia più vicina, visto che quella del paese è chiusa per turno, e lei, gentile, ma anche perché – penso – voleva gettare dei crediti su un piatto della sua coscienza/bilancia visto che non sapeva darmi informazioni, sale in casa e scende con svariate buste di cerotti e mi fa scegliere quelli che mi servono. Gentile anche il marito che gestiva il negozio a fianco di frutta e verdura. Il negozio aveva una sua apertura sulla strada ma era anche collegato dall’interno, ovvero dal bar si poteva passare al negozio di frutta e verdura e viceversa. Stranezze padane. Visto che la moglie mi aveva portato un panino senza però ricordarsi di consigliarmi di imbottirlo con i peperoni di Voghera, per lui i migliori del mondo, ecco che arriva da me con un bel piattino di peperoni gialli, rossi e verdi e mi dice: “Tenga, offre la ditta, non si può passare da qua e non assaggiare i nostri peperoni” E su quel “nostri” troneggiava un gioioso


orgoglio. Davvero buoni. I migliori del mondo non so, ma buoni certamente si. Del resto tanti dicono così anche di Elva: “Il posto più bello del mondo forse no, ma bella certamente si”. Di quel bar ricordo anche il ragazzo che era seduto nel tavolino a fianco al mio. Una trentina d’anni, camionista, orgoglioso del suo lavoro e di sé stesso, volto allungato, una parlata sciolta. Stava seduto, non so se provocatoriamente o meno, sono più propenso a pensare di no perché era un cliente abituale del posto, con le gambe aperte e metteva in mostra un rigonfiamento dalle parti del pube evidente e provocante. Nessuno però a dire il vero, sembrava farci caso, notarlo. Questo bar di Lungavilla, paese tra Pavia e Voghera, è proprio in centro, a fianco della chiesa. Ma è una chiesa strana questa, è una chiesa che non si vede, infatti la facciata anziché essere lungo la via principale è dall’altra parte. Alla strada principale mostra l’abside (vorrei dire il culo, ma non sta bene) quasi un beffardo atto di estraniazione dal mondo, uno sberleffo giullar– popolaresco, verso quel mondo che continua a scorrere dietro coi suoi camion, i suoi traffici, il suo agitarsi verso “le magnifiche sorti progressive”. Bere qualcosa è complicato perché il gerente è impegnato a giocare alle macchinette e quando lo chiami è evidente che si scoccia. Dopo un po’ ti porta, guardandoti in cagnesco l’acqua tonica con il limone che hai ordinato (“pensa, il limone vuole questo”) e torna subito alle sue macchinette. Ma non sono il solo a disturbarlo, il bar come ho detto è sulla via principale e ogni tanto qualcuno si ferma. Ma i più sono clienti abituali, si conoscono e conoscono il fatto che il gerente non ama essere disturbato, infatti “Franco, – dice un avventore appena arrivato – sono Giorgio mi prendo una birra” e Giorgio va dietro il banco, si serve una spina media, lascia tre euro sul

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banco e va a sedersi al tavolino a chiacchierare con altri che erano già li. Franco intanto prosegue imperterrito, senza dire una parola, a rincorrere ciliege, campane e prugne. Ma al di la dello strano gerente di Lungavilla, grazie a una simpatica nonnina, porto con me l’immagine di un paese gentile. Sto percorrendo la via principale e per scrupolo, come ogni tanto faccio, chiedo conferma intorno alla giustezza della strada (quando si va a piedi non è proprio bello accorgersi di aver sbagliato strada!). Mi risponde da un balcone fiorito al primo piano una vecchierella, avanti negli anni ma con la voce arzilla e giovanile, e mi dice: “si sempre dritto, non può sbagliare”. Vedendomi però sotto il sole dell’una con tanto di zaino mi chiede se ho bisogno d’una bottiglietta d’acqua. Io dico, “No grazie, non stia a disturbarsi”. E lei :“ma che disturbo”. Entra in casa e un minuto dopo scende con in mano una bottiglia da mezzo litro d’acqua minerale. “È gelata – mi dice – mi raccomando la beva adagio”. Che dire del bar del centro di San Giuliano Vecchio dove mi fermo a godere il sole a piedi nudi? Lo so che non sta bene, che è una cosa che non si fa, che forse gli avventori che mi guardano male non hanno tutti i torti (una sola a dire il vero, una signora di mezza età con un piccolo cagnolino in braccio e un naso alla Federico di Montefeltro) ma tant’è, stavolta avevo proprio bisogno di questo “spogliarello”. Più del bar è il centro che mi colpisce. Dov’è? La chiamano Piazza ma non è molto di più che un semplice allargamento della carreggiata.


Il bar di Spinetta Marengo dove mi fermo per giocare al superenalotto è invece a pochi metri dal passaggio a livello. Sto sorseggiando una birra e penso a cosa farei coi 140 miliardi del montepremi, pensiero non molto diverso da quello che in questi giorni stanno facendo milioni di italiani. Non faccio a tempo a esaminare tutte le possibilità che passa un treno. Lo seguo con lo sguardo. È un semplice treno merci, tanto brutto quant’è lungo (ed è lungo davvero tanto) ma mi cattura lo sguardo ed i pensieri come fosse l’uccello del paradiso che vola nelle foreste del Paraguay. È proprio vero che le cose acquistano verità e bellezza a seconda degli occhi coi quali le si guardano. E andare a piedi ti serve proprio per questo, a insegnarti a vedere le cose in modo differente, da un altro punto di vista, da un altro lato. A Nizza Monferrato, quasi un confine di provincia, di qui i castelli del Monferrato, di là le cascine contadine delle Langhe chiedo indicazione per la strada di Canelli; un signore, sui quaranta/cinquant’anni, gentile e raffinato mi spiega con dovizia di dettagli la strada e poi si informa, incuriosito dallo zaino e dalle bacchette, sul mio andare. La cosa che più lo meraviglia è che io non abbia paura ad andare da solo, e soprattutto che non abbia paura di essere derubato. “Coi soldi come fa” – mi dice. “Tengo in tasca un po’ di contanti e poi ho il bancomat e la carta di credito” gli rispondo. “No, io proprio non mi fido, quando vado in bicicletta lascio tutto a casa. Non sono più tempi di avventure come la sua” – mi risponde scuotendo la testa. “Ma se ognuno rinuncia – gli ribatto – allora non ci sarà più tempo per niente. Il coraggio è pur sempre una virtù”. Mi guarda perplesso ma non replica; chissà se domani prima di andare in bicicletta prenderà

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con sé il portafoglio. Pusillanime il signore, ma anche tirchio. Gli chiedo se lungo la strada incontro un ristorante. “Si c’è – mi dice – ma è troppo caro, di quelli che si ha paura a passargli davanti”. Io a quel ristorante non solo non ho avuto paura a passargli davanti, ma mi sono fermato. Mi son trovato bene, caro, ma non carissimo, con un rapporto qualità prezzo assolutamente accettabile. Non avevo fretta, avevo voglia di riposare perché la vescica mi faceva male, me la sono quindi presa comoda e ho chiacchierato praticamente con tutti: col cameriere, il proprietario e soprattutto con due avventori. Sono due faccendieri della peggior specie, moralmente assolutamente discutibili, con un cinismo che sfiora la crudeltà, ma simpatici e sinceri. Il primo un uomo grande e grosso che ricordava i sensali di bestiame descritti da Pavese (scoprirò più avanti che tra i suoi tanti mestieri c’è anche quello e si è recato più volte anche a Elva a comprare mucche e vitelli), mi dice subito che per lui l’unica cosa importante, vera bussola per dimostrare la fortuna di una persona, sono i soldi. Gli racconto della mia vita politica. Si mette a ridere. Però gli sto simpatico, e per dimostrarmi la mia ingenuità e l’inutilità della vita morale che ho scelto mi racconta decine di episodi di vescovi, secondo lui le uniche persone delle quali bisogna seguire l’esempio. “Vescovi – mi dice – non preti; quelli sono un sottocategoria” e mi racconta tutte le cose che ha imparato facendo per conto loro il mediatore immobiliare. Mi racconta decine di episodi, molti boccacceschi, molti di malefatte finanziarie, mi sciorina decine di massime. Non so se è tutto vero o tutto inventato, probabilmente metà e metà, ma ci sarebbe davvero di che scrivere un libro. Oltre tutto fa nomi e cognomi e cita situazioni circostanziate. L’altro più giovane, più politico, ma meno simpatico ammira


follemente Berlusconi perché condivide in pieno il suo messaggio: “arricchitevi perché il Paese ha bisogno della vostra ricchezza”. Prima faceva i soldi ma se ne vergognava, oggi ne fa ancora di più ma è convinto di essere un eroe che combatte per il bene del Paese. “Le regole? Si servono, ma solo per impedire di andare troppo fuori le righe. “I soldi, si ricordi, non hanno odore – mi dice – lo diceva anche Tertulliano”. La citazione è sbagliata, ma non c’è dubbio che il concetto sia chiaro. Prima di andar via mi danno il numero dei loro cellulari, mi dicono di chiamarli una volta terminato il viaggio. Non l’ho ancora fatto e non so se mai lo farò. Il cameriere invece mi intrattiene sulla differenza che passa tra Canelli e Santo Stefano. Tra i due paesi non corre buon sangue: “del resto noi abitavamo nei castelli quando loro stavano solo nelle cascine”, mi dice. Mi sa che dopo questo viaggio devo rileggere Pavese e Fenoglio.

Sono al km 41,3 della SS 231, appena prima dell’inizio della salita di Bra, sotto un cartello pubblicitario della Coop. Aspetto Andrèe che sta scendendo da Elva.

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Ci siamo sentiti varie volte al telefonino e ora, secondo i miei calcoli dovrebbe arrivare nel giro di un paio di minuti. Mi sono fermato qui ad aspettarla perché c’è un ampio spazio dove è possibile fermare la macchina senza intralciare il traffico. I minuti diventano 10 e Andrèe non arriva. La richiamo. Quando l‘ho sentita prima era al km 46 ora è al km 36!. Come ha fatto a passare e non vedermi, non trovarmi? Comincio a dare sfogo a tutte le litanie che di solito in casi simili pronuncio: “come è possibile essere laureti con 110 e lode, vincere il dottorato, superare in scioltezza l’esame di Stato per poter esercitare la libera professione di psicologa, avere già una decina di pazienti, tenere conferenze di altissimo livello su Dionisio, l’eros antico, i rapporti psiche e natura, scrivere pubblicazioni su “le vergini arcaiche”, articoli su riviste specializzate, girare per le università d’Europa, leggere non meno di 30 libri al mese e poi non riuscire a individuare il km 41,3 su una strada statale con tanto di cartello bianco indicante il chilometro e dove per sovrappiù, su piccoli cartellini bianchi posti al ciglio della strada, uno ogni cento metri, sono indicati anche i metri? Pensavo a tutto questo ma in realtà ero semplicemente vittima del mio pregiudizio circa “l’imbranatura” di Andrèe, infatti poco prima di Bra la strada statale si biforca e pur mantenendo lo stesso numero e la medesima indicazioni di chilometri fa due percorsi diversi (faranno fatica a rintracciarmi su questa stessa strada il giorno dopo anche Marco e Silvietta. Scriverò un racconto, “la maledizione della 231”. Comunque alla fine ci incontriamo. Andrèe è in macchina con Adele, Caterina e una ragazzina di 15 anni che non conosco dall’aria molto sveglia e piacevolmente impertinente. Sono state in campeggio in Provenza con Sonia, Sofia, Elena, le bimbe e la Gada; dodici donne, solo donne.


Si sono proprio divertite. È bello vederla, anche se così, per strada, per pochi minuti, sotto un cartello della Coop. Come sono fiero di questa figlia così bella, intelligente, studiosa, libera e generosa. Un po’ imbranata alle volte, ma qualche difetto bisogna pur averlo no? È comunque consapevole del motto che “chi non ha testa ha gambe”, quindi non si lamenta mai delle sue eventuali distrazioni, come quella volta (una delle tante a dire il vero) che si è accorta, arrivata a casa, di aver dimenticato le chiavi nel luogo dove era partita. Un bacio sbadata figlia mia! Ho deciso che devo scrivere al sindaco di Savigliano per congratularmi con la gentilezza dei suoi abitanti. Tre esperienze positive, tutte nello stesso giorno, tutte nella stessa città. So che non bisogna fare di tutte le erbe un fascio neppure in caso di esempi positivi, so che magari domani dopo aver letto le mie indicazioni qualcuno si recherà a Savigliano convinto di essere nel regno della gentilezza e invece incapperà in un maleducato, in uno scontroso, in un cattivo e dirà “ma cosa racconta quello”…Racconta la sua esperienza, che come tutte le esperienze sono sempre legate a un luogo, un momento, una persona. E luoghi, momenti e persone sono sempre diversi. Ma veniamo al racconto, ai fatti. Chiedo a un automobilista che mi passa a fianco qual è la strada per il pronto soccorso. Sta però immettendosi in una rotonda e non può fermarsi ad ascoltarmi, allora m dice: “mi aspetti là, faccio il giro della rotonda e vengo da lei”. Rimango meravigliato. Mi spiega la strada ma poi mi dice o meglio ci dice perché con me ci sono anche Marco e Silvietta: “Dai salite che vi do un passaggio, fino lì”. Io sono in dubbio se accettare il passaggio, ma poi penso che a Savigliano, alla meta, sono arrivato quindi

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questo spostamento è un extrapercorso, che posso, senza contravvenire alle regole del viaggio, accettare. Ci fa salire tutti e tre e pur essendo un tragitto diverso da quello che doveva fare, ci accompagna. La seconda gentilezza ci viene offerta da una donna. Siamo in centro, nella bella doppia piazza della città (a proposito, quanti pregiudizi soffrono le città a causa di circonvallazioni varie; viaggiatori frettolosi le percorriamo senza pensare alle bellezze che il centro nasconde e siamo spesso portati a giudicare quelle città partendo dai palazzi brutti che costeggiamo quelle strade), chiediamo a una donna informazioni sull’albergo. Ce le da ma poi s’accorge dai nostri sguardi resi poco vispi dalla stanchezza che forse non abbiamo capito e allora prende le chiavi dalla borsa, s’avvicina alla libreria chiusa per via dell’orario, entra, prende una piantina della città, segna la strada da fare e ce la consegna. Certo la fortuna di incontrare la proprietaria della libreria ma anche la fortuna di trovare una proprietaria gentile. Ma il massimo credo che mi sia capitato arrivando all’albergo. Saluto Marco e Silvietta che tornano a Bra con il treno e chiedo alla reception una farmacia aperta. “La farmacia, quella aperta oggi, è un po’ lontana” – mi dice. Non faccio a tempo a dire “grazie” che un avventore seduto nella poltrona dell’atrio si offe di andare per me in farmacia. Non mi chiede neanche in anticipo i soldi. Rimango davvero meravigliato. Quando dieci minuti dopo arriva con i medicinali, insisto per lasciargli la mancia, ma non c’è verso. Il rione sanità di Savigliano è davvero carino, per lo meno tale sembra a me che lo guardo con l’ottica del viandante. Mi mette a disposizione infatti una strada pedonale che corre tra due fila d’alberi; le chiome alle volte si toccano quasi a formare un’arborea galleria.


31 È bello e riposante camminare così, senza dover fare attenzione ad auto e camion che solo fino a qualche minuto fa mi sfrecciavano accanto a tutta velocità. C’è una proporzione scientifica che ho notato, la velocità è direttamente proporzionale al traffico, così come la capacità di sbandare è direttamente proporzionale all’uso del telefonino. È su questa strada che incontro uno strano contadino. Guidava un vecchio trattore di piccole dimensioni con una mascherina sul volto. Intuisco che il barilotto che trascina dietro contiene pesticidi per le vigne e le coltivazioni di alberi da frutto che scorgo guardando negli spazi che si aprono nella siepe che costeggia i campi al di là della fila degli alberi. Si ferma al mio fianco e senza spegnere il motore, senza togliersi la mascherina mi domanda se sono “il geometra Bravo”. Non capisco se per “bravo” intende una qualità o il cognome dello stesso, comunque la cosa non mi riguarda perché è certo che io un geometra non sono. Gli dico di no, ma lui di questa mia riposta non è contento.


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Fa finta di non capire e mi racconta che secondo lui la casa non è stata costruita bene e ci sono ancora dei lavori in sospeso da fare. O meglio mi sembra di capire questo discorso perché, tra la mascherina che aveva sulla bocca, il suo piemontese stretto, e un certo biasciare da vecchio che aveva nel parlare, capisco una parola si e due no. Ribadisco che non sono il geometra Bravo, ma lui prosegue imperterrito a parlarmi dei lavori che ancora ci sarebbero da fare, me lo dice con una voce non ancora alta ed alterata ma sicuramente meno calma di prima. La cosa comincia a preoccuparmi anche perché nel frattempo non solo non ha mai appoggiato sul trattore la canna collegata al barilotto del pesticida che teneva nella mano destra, ma nella foga del discorso, probabilmente senza accorgersi, mi trovo la canna piazzata proprio davanti al mio viso. La manovella dell’apertura (come quella che tradizionalmente abbiamo sulle bombole a gas) non mi sembrava avesse una sicura da renderla “sicura” nei vari agitarsi della mano che aveva cominciato a muoversi in alto e in basso con maggiore frequenza e con scatti sempre più nervosi. Faccio ricorso all’esercizio numero 24 del mio ioga personale, “l’uomo roccia” e mi carico con quel surplus di pazienza che la situazione richiede. “Forse – penso tra e me e me – lui vuole semplicemente raccontare a qualcuno quei contrattempi avuti nella costruzione della casa” e allora gli dico, anche se non sono il geometra Bravo, di raccontarmi cosa c’è che non va nei lavori. Lui mi dice, il prezzo (troppo caro), le finestre del piano di sopra che hanno, tre su quattro, degli spifferi e la porta della stalla che non è in bolla, non chiude bene. Ha paura che possano fuggire le galline anzi non esclude che qualcuna in realtà gli sia già fuggita.


Io gli dico che ha ragione, anche a me il prezzo sembra caro, e che la porta della stalla e le finestre vanno aggiustate prima dell’inverno. Fa segno di si con la testa, approfitto del momento di consenso e cambio argomento, gli chiedo di indicarmi se per Busca è meglio seguire la via di Villafalletto o di Costigliole. Questa richiesta “di aiuto toponomastico” ha il vantaggio di fargli dimenticare la casa, il geometra Bravo e tutte le sue vicissitudini edilizie, mi spiega allora che lui quando va a Busca per via delle bestie o della frutta passa sempre da Villafalletto. Mi dice questo e poi se ne va senza neppure salutarmi. Pochi metri più avanti vedo il trattore entrare nella vigna e sparire tra i filari. Al bivio prendo la via per Costigliole, ma non è uno sgarbo, semplicemente è che, anche se la via da Villafalletto è realmente più corta (si risparmierebbero ottocento metri) io avevo già deciso di passare da lì.

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Alberghi


Alberghi Dalle stelle alle stalle! Ho iniziato alla grande a Pavia, albergo con piscina, sauna, bagno turco, doccia aromatica, palestra, sala massaggi e chi più ne ha più ne metta. Ero l’unico cliente. Ho vagato tra piscina, sauna, bagno turco con l’emozione del protagonista de ”La nube purpurea” bellissimo libro di M. P. Shiel (o meglio bellissimo era parso a me giovinetto) che ci racconta d’un uomo, unico sopravvissuto alla bomba n, che si aggira solitario tra città deserte e case abbandonate. Mi sembrava di essere il padrone del mondo ma al contempo aleggiava in me la tristezza che dà la solitudine non ricercata. E anche se era una solitudine di “lusso”, non per questo era differente o meno triste da una solitudine “proletaria”, anzi. Per incontrare qualcuno ho dovuto passare al reparto massaggi, ma la massaggiatrice non c’era per cui il massaggio me l’ha fatto… una macchina. Una novità appena arrivata dall’America a detta della reception. Si tratta di un involucro simile al tubo della Tac o, se sei un medievalista, “alla Vergine di Norimberga”. Una volta dentro getti d’acqua a pressione variabile ti massaggiano dalla punta dei piedi al collo. Davvero una sensazione rilassante ma la cosa più straordinaria però è che, a massaggio ultimato, esci... completamente asciutto. Infatti i getti d’acqua sono trattenuti da uno strato di sottilissima pellicola che pur facendoti sentire dell’acqua la freschezza, la pressione, lo zampillo, non ti bagnano. Quando sono uscito dal tubo mi sono sentito come uno spettatore che scende dal palcoscenico dopo essere stato usato come “volontario” in uno spettacolo di magia. Il giorno dopo però, a Voghera ho pagato tutto con gli interessi.

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L’albergo decisamente il meno accogliente tra tutti gli undici utilizzati. Stanza stretta, anzi strettissima, mura scrostate, e, cosa più insopportabile di tutte, i sanitari, in particolare il water, con incrostazioni marroni. Meno male che avevo con me (“ma che cosa inutile mi fai portare” – avevo detto a Giulia) “il salva piedi” un leggero tappetino di plastica da poggiare per terra che si poteva anche utilizzare, alla bisogna, per riporre magliette e calze lavate che, dovendo mettersi in marcia, non erano ancora asciutte. Utile si, utile no, mi ha permesso comunque di fare la doccia evitando di poggiare i piedi su tappetini dall’igiene assai dubbia, e per dirlo io… La televisione era lì per finta, il telecomando era senza pile. La finestra dava su un cortile, dove erano accatastati vecchi divani e rotte poltrone. Il condizionatore c’era e, strano a dirsi, era anche funzionante, ma il rumore era insopportabile, lo interrompeva, superandolo, solo il sibilo del treno che ogni tanto s’insinuava sotto il mio cuscino. È si che venivo da una tappa assai pesante (la più faticosa del viaggio); ma dovendo trovare una cosa positiva in ogni cosa che faccio devo dire che almeno questa situazione ha fatto si che il mattino successivo, alle sette fossi felice di riprendere il cammino alla volta di Tortona. A Tortona l’albergo più strano. Arrivo alle 14 (la tappa era breve, la più breve del viaggio) ma l’albergo è chiuso. Sprangato. C’è però appiccicato sul portone il numero di un cellulare da chiamare. Chiamo. Mi risponde una voce marocchina: “Tu mio amico, io venire subito”. E infatti cinque minuti dopo arriva un giovare arabo e mi apre l’albergo. Apre…, si fa per dire. Mi fa passare da un garage, dove strisciando a fianco di una vecchia mercedes e salendo


alcuni gradini laterali sbuco in un cortile, attraversato il quale arrivo all’albergo vero e proprio. La stanza al primo piano è carina, pulita, spaziosa e silenziosa. Non così la scala di accesso al piano dove tra una trave del soffitto e l’altra erano visibili, straordinarie e raffinate ragnatele. Da notare anche le stanze al pianoterra. Cinque loculi con un letto appoggiato alla parete e al posto delle porte, delle tende stile sari, come quelle che a Brugherio uso per le finestre del soggiorno. Anche qui sono l’unico cliente. Ma qui sono certo, l’albergo è chiuso. Probabilmente quando ho fatto la prenotazione c’era un portiere furbo e scaltro che ha pensato di approfittare della situazione. L’uomo comunque è gentilissimo, mi chiede a che ora voglio essere svegliato, che tipo di marmellata e di yogurt preferisco a colazione. È una gentilezza persino esagerata che mi riporta in mente, anche senza volerlo, il film Mediterraneo (“Italiani e turchi, una fazza, una razza”, con tutto quello che poi ne è seguito). Io comunque, si sa, ho un coraggio che corre bordeline con l’incoscienza e quindi non mi preoccupo, a ogni buon conto, tengo il telefonino acceso sul comodino proprio a fianco del letto e metto una sedia con lo schienale appoggiata alla porta in modo da non permettere alla maniglia di abbassarsi. Devo però dire che la stanchezza, il vino abbondante della cena, lo straordinario silenzio che tiene banco nella stanza, han fatto si che mi addormentassi subito e che dormissi, fatto per me invero assai raro, per la notte intera senza quei temporanei risvegli che caratterizzano solitamente il mio avventuroso sonno. Alla mattina alle sei ero in piedi e la colazione era pronta; c’era tutto il necessario, marmellata, yogurt, succo d’arancia caffè o the a scelta. Il marocchino mi dice: “Tu mio amico, io fare tanto sconto” e, ovviamente senza farmi nessuna ricevuta, si prende

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trenta euro invece dei 45 previsti al momento della prenotazione. Tortona & Marrakesch! L’albergo di Alessandria è bello e confortevole, simpatica la ragazza della reception. Giovane, assai giovane, ma con un piglio già da donna matura. S’informa sul mio viaggio, mi consiglia un ottimo ristorante e al mattino mi da con sincera gentilezza un bacio sulla guancia augurandomi “Buon viaggio”.

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A Castelnuovo Belbo c’è il mio primo incontro con un bed & breakfast. Si chiama “la collina” ed è infatti in cima a una collina. Arrivarci non è stato semplice. Nessuno sapeva dov’era, o meglio tutti lo sapevano ma ognuno mi indicava un luogo diverso. Mi sembrava di essere in un labirinto tridimensionale fatto di svolte a destra e a sinistra ma altresì di salite e di discese. A un certo punto ho preso in mano il telefono, ho composto il numero dell’albergo e mi sono fatto teleguidare fino all’arrivo. Sono stato un quarto d’ora al telefono, avrò speso un sacco di euro, ma almeno sono arrivato prima che scendessero il buio e i lupi. La casa aveva già altri ospiti, una famiglia con due bambini e un cane, e allora la padrona mi ha ceduto la sua camera da letto. Non sono abituato al bad e per un bel po’ di tempo non mi sono sentito a mio agio. Io sono abituato, per prima cosa, arrivato in albergo a denudarmi e girare per la stanza in costume adamitico qui invece, per andare in bagno bisognava attraversare un corridoio comune e dunque era tutto un coprirsi e scoprirsi. E poi mentre i bagni degli alberghi sono per me un momento di libertà (non mi devo preoccupare se bagno per terra, se getto in terra gli asciugamani, se lascio segni di sapone sul lavandino), qui scatta viceversa il meccanismo opposto, senti che


in realtà sei “ospite” e quindi cerchi di metterci tutta l’attenzione possibile e se per caso bagni per terra ti affretti ad asciugare e a lasciare tutto in ordine. Un altro bed era a San Damiano Macra, ma lì è stato diverso. Ero con Carlo e il proprietario ci aveva lasciato a disposizione tutta la casa, con tanto di gatti. Sono stati davvero belli gli ultimi due giorni con Carlo, belli per il tragitto, belli per la compagnia ma di questo parlerò più avanti. Carino l’agriturismo di Santo Stefano Belbo, proprio all’ingresso del paese, a pochi metri dalla casa di Cesare Pavese, con le finestre che davano sulle colline con le viti che s’attorcigliavano fin sulla sommità senza lasciare un solo centimetro quadrato libero da pampini e uve. Ma il piacevole ricordo di quel luogo non sta nella tranquillità della stanza, nei ricordi letterari suscitati dalla “luna” e dai lontani fuochi d’artificio che potevano far pensare “ai falò”, ma per la scoperta dello “streptosil” che mi ha permesso, come ho già ricordato, di sconfiggere la vescica del piede. Ad Alba un altro albergo di lusso. Me lo godo fino in fondo. Finalmente c’è la vasca da bagno. Faccio scendere l’acqua e ci butto dentro tutte le schiume da bagno che ci sono. Sto a mollo, non so precisamente quanto, ma molto. Quando l’acqua è diventata fredda, ne faccio uscire un po’ (mi metto in ascolto del suo gorgoglio sul fondo, come un grido di chi non vuole andarsene) e la rimpiazzo con altra acqua calda ed ecco allora che lo scorrere dell’acqua che cade dall’alto si scontra e si interseca con il gorgoglio dell’acqua che se ne va nello scarico. E il grido dal basso sembra farsi più forte, più spaventato, più struggente, proprio come quello di un soldato

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ferito sul quale si è scaraventato addosso un nemico in armi. Godo il tepore che pian piano risale e torna a circondare tutte le mie membra. Particolarmente puliti gli armadi in mogano chiaro con cassetti che emanano ancora profumo di legno. L’operazione di riordino dello zaino che faccio tutte le sere, qui l’ho fatta con un meticolosità quasi maniacale. Appendo i pantaloni sulle grucce, metto le magliette in un cassetto, le mutande e le calze in un altro; appoggiate davanti alla poltrona chiacchierano tra loro le ciabatte e le scarpe. In bagno crema per i piedi, dentifricio e spazzolino e colluttorio stanno ordinati uno a fianco all’altro come soldati in attesa di un’ispezione. Dalla finestra mi metto a guardare le vecchie torri che svettano alte nel cielo, un cielo dove transitano, pennellate bianche nel cobalto, tre nubi; tre tappeti volanti in viaggio verso la Persia. Forse da lassù Sinbad mi manda un saluto. E un saluto mi pare anche riceverlo da una ragazza che al tramonto sta attraversando la piazza di Bra. Io sono al balcone della camera del mio albergo a godermi il sole che sta tingendo di rosso i tetti delle case e la cupola della chiesa. Ma è solo un illusione; anche se guardava verso di me, anche se la sua mano poteva sembrare rivolta in un ciao verso di me, in realtà salutava un uomo sul balcone della casa a fianco che ha riposto al saluto alzandosi dalla sdraio e chiudendo il libro che teneva aperto sulle ginocchia. “Ma come fa ancora a leggere?”, mi sono chiesto vedendo ormai la piazza colorarsi della luce dei lampioni. Forse non leggeva, sognava; sognava proprio la bellezza d’un saluto come questo, ridente, spontaneo, generoso. L’albergo di Savigliano è così così. La receptionist è rumena, si sforza di essere gentile; il barista è di Dronero, ma di essere


gentile proprio non si sforza. Ero preoccupato per l’albergo di Busca, perché era quello che al momento della prenotazione la signora che aveva riposto mi aveva detto: “che bello così vedo gente” e si era messa a piangere. Mi aspettavo una stamberga, una sorta di antro di Barbablù, in realtà l’hotel era proprio carino, ristrutturato perfettamente, con le volte in stile gotico e residui di antichi affreschi sulle mura, i padroni, che gestiscono anche l’annesso ristorante, gentili e attenti. Resta per me però il mistero della prenotazione. “Probabilmente tra le varie persone che si susseguono in aritmetica spola tra le stanze e il ristorante – penso – ci deve essere qualcuna depressa, oppure dietro questa maschera di semplicità – proseguo col pensiero – si nasconde qualche storia torbida, qualche ragazza tenuta prigioniera da un rapitore insospettabile.” Facendo finta di niente mi informo sulla mia prenotazione, ma le risposte che ottengo sono quanto di più generico possibile. Non riesco proprio a capire chi ha risposto alla mia telefonata di prenotazione. Forse quella fanciulla dalla faccia smorta e dagli occhi tristi? Non lo so. Apparentemente ci sono tutti gli estremi per ambientare qui un giallo, un “noir” o addirittura una storia di un vecchio fantasma che alle volte non visto risponde al telefono per far spaventare o al contrario, come con me, commuovere gli ospiti. Ma il contesto è troppo ridente per storie di questo tipo, non c’è climax sufficiente. Ma di questo albergo, di questa stanza che dà sulla via silenziosa di Busca vecchia, porterò con me un buon ricordo anche perché è il luogo dove mi hanno raggiunto Carlo ed Irene. E così Busca città anonima e di solito citata solo perché tappa obbligatoria per Elva, città poco conosciuta dai suoi stessi cittadini (ho chiesto tre volte indicazione sulla via Giuseppe D’Azeglio, – si Giuseppe non Massimo – ma nessuno ha saputo

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indicarmela, per scoprire poi che era… la via principale). Certo capita alle volte che per troppa frequentazione di un luogo non facciamo poi più caso a particolari importanti dandoli per scontati (capita alle volte persino con l’amore). Ora però Busca grazie a questo alberghetto, alla bella porta medioevale che ricorda i fasti millenari di questa piccola e industriosa città di fondovalle, al bellissimo negozio di abbigliamento a pochi metri dalla porta, che davvero non sfigurerebbe in via della Spiga a Milano, all’incontro con Carlo e Irene, ha ora nel mio cuore un posto diverso e non rappresenta più solo quell’anonimo pezzo di strada che attraversavo per raggiungere Dronero, tappa obbligatoria prima dell’ultimo tratto per poi raggiungere Elva.

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Ristoranti, pranzi & cene


Ristoranti, pranzi e cene

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Una delusione del viaggio sono stati proprio i pranzi e le cene. Nel mio immaginario pensavo a una situazione così fatta: l’arrivo in albergo, la doccia, il riposo, le varie telefonate e poi, dopo essermi fatto dare dall’albergatore l’indirizzo dei ristoranti migliori, una cena coi fiocchi. Oltretutto non dovendo guidare non sarebbe stato neppure necessario stare indietro col vino. Invece sono stato sfortunato, agosto, se non si è in posti turistici, non è certamente il mese più adatto per delle vacanze gastronomiche; molti dei ristoranti che avevo individuato in precedenza, una volta arrivato lì esponevano il cartello: “chiuso per ferie”. Il dramma più grosso l’ho provato a Bra; non solo infatti quando sono arrivato lì era il 10 agosto, ma era pure lunedì. Ho trovato, di conseguenza quasi tutti i ristoranti chiusi, a partire da quel “Boccondivino” che tutte le guide citano come “da non perdere” e per il quale mi ero già psicologicamente preparato. È stato davvero difficile, a pranzo avevo dovuto accontentarmi di un’insalateria e la sera, dopo aver girato inutilmente tutto il centro, ho trovato accoglienza in un ristorante nei pressi della stazione. Intendiamoci non male, ma sicuramente non all’altezza di quanto avevo, nel mio andare verso Bra, immaginato. Ma al di là di Bra, se devo dire dove effettivamente ho mangiato molto bene, non saprei dire; certamente so dire il posto più affascinante dove ho mangiato, al Castello Rosso di Costigliole Saluzzo dove mi ha portato Ugo Pinferi, un mio caro collega della Coop, ora in pensione, che mi è venuto a trovare con la moglie Renata ex giornalista dell’Unità. Donna simpatica e gentile. E davvero gentile è stato Ugo, non solo mi e venuto a prendere


a Busca, ma tutte le sere mi telefonava per sapere del mio viaggio. Prima di portarmi al ristorante mi ha accompagnato a Villafalletto a vedere la casa natale di Vanzetti. La casa è proprio in centro e una targa permette di riconoscerla. È stata davvero un’emozione. Mi sono venute alla mente immagini della mia giovinezza, a partire da quel concerto di Joan Baez all’arena di Milano aperto proprio dalla ballata di Sacco e Vanzetti. Penso che quella targa ora a molti non dirà più nulla, ma a me ha ricordato la mia voglia, allora impetuosa, ora diminuita ma non perduta, di lottare contro l’ingiustizia. Ma tornando a parlare del Castello Rosso, la location è davvero splendida; davanti a te, nella sera che incomincia a scurire, ecco la pianura saluzzese adagiata alle colline con un suo modo languido e sensuale. Forse però il cibo, ripensandoci, non è all’altezza della “scena”. Che bella chiacchierata; un amarcord sui tempi in cui c’era ancora il Pci, in cui portavamo in giro il nostro orgoglio di militanti di partito e il nostro credere sincero nella possibilità di cambiare il mondo. Ci credo ancora nella necessità di cambiare il mondo, ma ora vedo tutto più difficile. Prima di riaccompagnarmi all’albergo Ugo mi fa una sorpresa, mi mostra nel corridoio dell’albergo, un bell’affresco del maestro d’Elva. Un anticipo su Elva, un anticipo sull’arrivo. La mia prima cena come ho già detto è stata “Alle Carceri” nel centro storico di Pavia. Sicuramente uno dei posti migliori ma il fatto che non mi ricordo cosa ho mangiato non mi permette di soffermarmi. Voglio invece citare, questo si un accostamento coraggioso e bizzarro, l’antipasto della Locanda del Grue: pesche di Volpedo in insalata con cipolle di Tropea. Andarci mi è costato un patrimonio a causa del taxi (pensavo fosse in periferia di Tortona invece era a oltre 20 chilometri), ma il gioco è valso la candela. Ottimi gli gnocchi di mela.

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Ottima anche la birra, di quelle non pastorizzate, fabbricate in proprio da giovani amanti dell’arte del luppolo e del malto, ma io devo essere sincero non sono un grande intenditore di birra e poi devo dire che mi ha disturbato la scritta in gotico sull’etichetta e quel richiamo alla cultura celtica. Non conosco il mondo di riferimento dei giovani birrai, molti sono, mi pare, per mentalità, abbigliamento e idee, di sinistra ma proprio per questo non riesco a capire tutto quel simbolismo pseudo medioevale, quel richiamo alle origini indo–ariane che, è più forte di me, mi portano alla mente l’esoterismo iniziale delle SS. Della cena di Voghera è meglio non parlare, la classica pizzeria dove ho commesso l’errore di ordinare gli spaghetti alle vongole. Di questa pizzeria devo dire però che mi ha dato un ulteriore dimostrazione della verità del detto come è piccolo il mondo, certo non è stato come quel mio amico che in gita a Pechino con l’amante ha trovato al piano della sua stanza d’albergo, all’uscita dell’ascensore, il suo vicino di casa, ma devo dire che incontrare al tavolo a fianco il responsabile “viaggi & trekking” del comitato soci di Voghera, è stata comunque una sorpresa. Una piacevole sorpresa è stato anche, ad Alessandria il “41”, un ristorante a pochi metri dall’albergo. Piccolo, raccolto, raffinato, con piatti, come piace a me, che prima ancora di soddisfare lo stomaco, soddisfano gli occhi. Al di la dell’ottimo vino, una caprese davvero originale, (con pesto e salsa di pomodoro anziché i soliti pomodori crudi tagliati a fette) e poi una dadolata di pesce spada. Una citazione la merita il Circolo cooperativo di Bergamasco, nel Monferrato. Mi sono fatto attirare dall’insegna delle due mani che si stringono, il simbolo cooperativo per eccellenza. E infatti la targa sul muro ricorda che si tratta di una secolare


compagnia di mutuo soccorso. Due avventori si meravigliano nel vedere uno straniero fotografare anziché la chiesa li a fianco e il panorama dei colli, l’insegna. Gli spiego che sono un cooperatore e allora mi portano dentro a vedere la bandiera esposta nella teca di vetro. Mi viene in mente il film “Novecento” con la scena dei contadini che dopo vent’anni di fascismo dissotterrano la bandiera rossa che avevano nascosto nei campi. Forse anche questa bandiera che porta la scritta Sezione socialista di Bergamasco era stata nascosta nei boschi di queste colline per sfuggire alla violenza dei fasci combattenti. Mi viene in mente anche la vecchia storica bandiera del Pci di Burago che Giulia conserva in soffitta, in uno scampolo di lino, dopo la decisione, improvvida per il modo in cui è stata realizzata, del Pci di cambiare nome e di conseguenza, bandiere. Decido di fermarmi a mangiare qui in solidarietà con la storia. È presto, non è ancora mezzogiorno, ma la gerente è gentilissima, mi apparecchia davanti alla televisione e mi dice: “le do quello che sto cucinando per me”. “Va benissimo – rispondo, purtroppo prima d’aver sentito che stava cucinando spaghetti allo scoglio. Mi fa un certo effetto qui, tra il Monferrato e le Langhe mangiare gli spaghetti allo scoglio. “Magari in questo momento – penso – a Sanremo Corrado sta mangiando un bollito misto”. Stranezze della globalizzazione! Neppure ad Alba e a Santo Stefano ho mangiato particolarmente bene. Di Alba però ricordo “la carne cruda battuta al coltello”, di Santo Stefano Belbo la bottiglia di dolcetto. Alle volte per me il ristorante è stato come un miraggio. Penso al tratto tra Castigliole e Busca. È l’una. C’è un sole che spacca le pietre. Ho voglia di fermarmi. Ho fame, di solito a mezzogiorno mi basta un panino, un frutto, ma oggi è diverso, oggi ho fame.

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Chiedo informazioni a un passante; mi dice che c’è un ristorante bellissimo più avanti, si mangia bene e si spende poco (diffido molto da questa formula perché mi è capitato assai raramente di mangiar bene e spendere poco, ma pazienza). “È proprio lì in piazza, a cento metri” – prosegue. Arrivo alla piazza ma il ristorante non c’è! Vedo però che c’è un’altra piazza sulla destra. Forse il passante ha sbagliato l’indicazione o forse, come è più probabile ho capito male io. Vado in quella piazza, ma anche lì il ristorante non c’è. “Pazienza – mi dico – mi fermerò in un bar”. Invece lungo la via che da Costigliole va a Busca, via dritta e alienante, trovi mobilifici, fabbriche, gommisti, depositi di piastrelle, ma bar niente. O meglio due li incontro ma sono uno chiuso per ferie, l’altro chiuso per lutto. Decido di dar fondo a tutte le mie forze e di fare una tirata, incurante del caldo e della fame, fino a Busca. Sono le 14 e 30 oramai mangiare è impossibile penso, invece… ecco a Cerreto (frazione di Busca) il ristorante Cerreto (la fantasia è una delle doti più forti dei buschesi) con un berceau davvero magnifico, uno di quei posti che se non fosse stato così attaccato alla strada sarebbe davvero piaciuto tanto ad Andrèe. Andrèe vuole pranzare solo in ristoranti con giardino ed allora tutte le volte che, andando in giro, soprattutto a Milano e dintorni, ne scopro qualcuno, glielo comunico. È ancora aperto, ma il fatto che il pranzo completo, vino compreso, costi solo 10 euro mi mette sul chi va là. Devo però ricredermi e smentire quanto scritto poco fa! Ho mangiato benissimo. Lasagne al ragù (fatte in casa), mezzo fritto misto piemontese, mezzo litro di vino, mezzo d’acqua e un caffè il tutto per 10 euro. Da non crederci! Peccato che il cameriere (cinese) è antipatico (antipatico forse è un po’ ingeneroso da parte mia, è semplicemente timido,


di quella timidezza che ha chi non si sente ancora del tutto all’altezza del mestiere). Sicuramente non è un fulmine di velocità, mi porta il vino rosso invece di quello bianco, ma la mancia gliela lascio lo stesso. A Cartignano invece ho mangiato l’unica catalana finora più buona di quella che Giulia prepara per lo stand delle torte alla festa di Sinistra e Libertà. Ma forse a influenzare il giudizio è il fatto di mangiare dopo tanto tempo in compagnia, con me infatti oltre Carlo che proprio stamani mi ha raggiunto e mi accompagna fino ad Elva, ci sono Irene, Piero e Giovanna. L’altra cena in val Maira è a San Damiano Macra. Lì non c’era molta possibilità di scelta, il ristorante dove abbiamo mangiato era l’unico aperto. Più che un ristorante era un bar con annessa cucina. Lo ricordavo come un bar gestito da persone antipatiche; mi ero fermato qualche volta con Franco negli anni passati, e avevamo, o meglio Franco aveva, quasi litigato. La gestione ora è diversa ma sicuramente non è il massimo per quanto riguarda velocità nel servizio e attenzione al cliente. Ma forse il difetto non sta in loro, sta in noi (io e Carlo in questo caso) che siamo milanesi, ovvero abitanti di una città le cui persone, uniche in Italia, si mettono a correre anche sulla scala mobile. Ma la cena è ottima, non per il cibo, ma per via delle chiacchiere e dei ricordi che io e Carlo, con un rapporto d’amicizia che così profondo non pensavamo di avere, ci scambiamo. Non siamo coetanei, tra noi passano sette anni, non tanti in sé, ma sicuramente sufficienti per non averci visto frequentare le stesse compagnie, ma ci unisce Franco. È lui a farci compagnia, con i suoi amori, le sue passioni, i suoi libri e il suo teatro, fino a sera inoltrata, fino a quando il campanile che batte le ore, le mozz’ore e i quarti, ci fa dire che forse è meglio andare a dormire.

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Per strada


Per strada Ecco davanti a me il Ponte Vecchio di Pavia.

Il sole del mattino lo illumina. È un sole mattutino, non preme prepotente su di lui, non lo soggioga, ma lo circonda con un chiarore dolce, delicato, che fa risaltare la ruggine del mattoni come pennellate d’un acquarello rinascimentale. Il cielo, fino a qualche minuto fa ancora annuvolato, ora si è aperto ed è diventato di quel colore “cielo” che davvero si deposita sul cuore con la leggerezza di una farfalla. Arrivo al ponte dalla circonvallazione con il suo bel doppio filare di platani; mi fermo alla balaustra del lungo Ticino a osservare il fiume, le sue acque oggi un poco agitate. Ne attraverserò molti di fiumi, fiumi grandi come il Po, letterari come il Belbo, anonimi come il Nizza, agitati come la Bormida, dolci come il Tanaro, familiari come il Maira. Attraverserò fiumi, torrenti, strade. Strade bellissime alcune, tremende e pericolose altre.

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Il ricordo piĂš tremendo, a proposito di strade, oltre quell’orribile tratto da Spinetta a Marengo, è sicuramente quello della ss 35, la strada dei Giovi, nel tratto da Pavia verso Voghera. Strade dolci e deliziose, dove puoi lasciarti andare, strade dove non puoi distrarti un attimo e devi sempre concentrarti sulle auto che ti appaiono di fronte.


Strade dove procedi tra prati e frutteti, strade dove dominano fabbriche e centri commerciali, dove le macchine si perdono come nel bosco di Pollicino. Strade che procedono in un susseguirsi di curve fino a quasi sembrare di voler tornare indietro, strade dritte come se fossero state disegnate per una dimostrazione pratica del concetto di retta. Uscito da Voghera per la porta “Alessandria” mi pare di procedere in una specie di libro animato dedicato alle ville, o anche, per dirlo in maniera più prosaica, in un catalogo di una agenzia immobiliare. Ci sono ville di tutti i tipi, per tutti i gusti, dalle cosiddette ville da geometra (tozze, senza fantasia, sostanzialmente cubiche, brutte insomma) a ville che sembrano la ricostruzioni di vecchi palazzi patrizi. Ville circondate da giardini che fatichi a vederne la fine, ville con giardinetti ritagliati davanti casa rubando qualche metro alla strada. Ville protette coi più svariati sistemi d’allarme, abitate da cani di tutte le razze e di tutti i latrati, alcune semplici e lineari in una classica e ordinata bellezza, altre che sembrano frutto di architetti pazzi o “fumati”. Sicuramente l’ossessione verso il tema della sicurezza è la cosa che ora noti di più, una volta l’attenzione era alla bellezza, al dettaglio, al fregio, ora è alla telecamera, all’allarme, che non

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nascondi ma metti in bella vista come per avvisare: “attenzione ladro, non provarci, perché se questo è quello che vedi figurati quanto c’è nascosto”. Come non citare questo cartello: “Attenti al cane, al padrone e a tutta la famiglia”. Una via bellissima tra campi di pomodori, cascine chiesette di campagna e sullo sfondo le colline dell’Oltrepo. Strada sinuosa che procede come un serpente. Sinuosa come un serpente? Si, un serpente l’ho incontrato lungo la via, era vicino a un fosso e strisciava tra gli arbusti. Era lungo un’ottantina di centimetri, ma forse era una biscia. Serpente o biscia comunque l’ho seguito nel suo strisciare per un po’, fino a che è entrato nell’erba alta e l’ho perso di vista. Per strada ho incontrato anche un paio di lepri, svariati uccelli, piccoli e grandi, qualche topo, qualche rana viva, qualche rana morta spiaccicata sull’asfalto (tanti i gatti, poveretti, incontrati schiacciati al bordo o al centro della strada), ma l’incontro più bello è stato quello coi caprioli nei prati sopra Cartignano. Erano sei, eleganti, belli, il marrone del loro mantello faceva un contrasto cromatico davvero particolare con il verde del bosco e del prato. Non sono fuggiti subito.

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Per un paio di minuti, prima che si accorgessero di noi, abbiamo (c’era Carlo con me) potuto osservarli nel loro poetico brucare. Poi ecco il capriolo più grande alzare il capo, fissarci per qualche secondo e mettersi a correre seguito da tutti gli altri. Voglio ricordare anche un uccellino che caduto dal nido e ancora incapace di volare, spaventato stava rannicchiato sulla striscia bianca che definiva il bordo della strada. L’ho preso in mano e l’ho adagiato nel cespuglio al di là del fosso. Mi sono fermato a guardarlo finché l’ho visto pian piano cominciare a zampettare e allontanarsi lungo il prato. Chissà se sarà riuscito a volare prima d’aver incontrato un gatto o se invece avrà fatto la fine di quel povero uccellino nel cortile della casa dei miei. Avevo sei anni. Un uccellino era appena caduto dal nido. Stavo per andare a prenderlo quando all’improvviso ecco spuntare da un cespuglio un gatto e zacchete!, me lo sono visto passare davanti con l’uccellino stretto in bocca. Ricordo ancora adesso, nitidamente, il capo del passerotto che pende molle dalla parte sinistra della bocca del gatto; ricordo lo sguardo cattivo che mi ha gettato il gatto nel passarmi a fianco, ricordo la mia tristezza, la mia prima meditazione, fatta con una certa coerenza, sull’ingiustizia della vita. Più tardi, verso i 14 anni ricordando quel fatto ho scritto una delle mie prime poesie. Non ne ricordo ora il testo, ma sicuramente se vado a guardare tra le mie carte la ritrovo. Nell’uscire da Alessandria a farmi compagnia è il Tanaro ma per vederlo devo salire sull’argine, la strada, ancorché bella, è troppo in basso, incassata. Si snoda tra campi di girasole, ma è ancora troppo presto per loro, il sole è ancora troppo basso per mettersi a inseguirlo, stan lì a capo chino, sembrano pellegrini pentiti o ragazzi appena sgridati per una marachella. Siamo lontani da

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quell’esplodere del giallo, a quell’alzarsi prepotente e orgoglioso al quale ci hanno abituato le colline toscane. Dopo i girasoli a tener banco sono i frutteti: a destra mele rosse da far invidia alla matrigna di Biancaneve, a sinistra mele verdi come giganteschi smeraldi. È un camminare tra i colori. In fondo un campanile. L’apparire dei campanili è ora per me una sensazione nuova. Non avevo mai guardato i campanili con gli occhi coi quali li vedo ora. Per chi va a piedi i campanili sono come l’ago di una bussola, l’indicazione di un percorso, ma soprattutto una promessa di civiltà: bar, gente, ospitalità. Li vedi farsi sempre più vicini passo dopo passo e senti esultare il cuore.

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Ci sono vie che ti esaltano e vie senza infamia e senza lode come questa, che da Incisa Scapaccino mi porta fino a Nizza Monferrato, la classica via di fondovalle. Ci sono colli ai lati ma sopratutto fabbriche. A Nizza dopo aver attraversato tutto il centro a fianco di un Belbo torbido e tumultuoso, prendo la vecchia via per Canelli. Rispetto alla provinciale percorsa finora è tutta un’altra cosa: bella, allegra, circondata da colli e


vigneti. E saranno ancora colli e vigneti a farmi compagnia il giorno successivo fino ad Alba. Ecco le torri medievali di Alba, mi salutano, cercano subito di parlarmi al cuore ma sono troppo stanco per rispondere al saluto. Una strada molto bella mi ha portato fin qui. Una strada faticosa, un su e giù per colline con le vigne che arrivavano in cima al cocuzzolo, sembravano schiere di soldati in alta uniforme, sull’attenti, col volto proteso verso l’avvenire.

Col senno di poi dico però che devo aver sbagliato strada, per lo meno nel tratto iniziale, guardando la cartina non erano presenti tutti questi sali e scendi, mi sembrava una tranquilla strada di fondovalle. Comunque, sempre col senno di poi, niente di male, un piccolo allenamento in più in vista, dell’oramai abbastanza vicina, ultima tappa San Damiano – Elva, coi suoi mille metri di dislivello. Da Alba verso Bra. Strada di fondovalle. All’inizio, fino a Roddi paese che dall’alto domina la valle come falco, tutto bene, poi con l’aumentare dell’ora e del traffico la via si fa pericolosa.

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Passo sotto il sottopasso (ovvio se era un sovrappasso passavo sopra) della Asti/Cuneo, strada miraggio ora in via di definitiva, pare, ultimazione. Attraverso il Tanaro su un vetusto ponte. Un camion arriva a tutta velocità. Penso “devo tenere il capello con le mani altrimenti vola”, non faccio a tempo a pensarlo, o meglio non faccio a tempo a far seguire l’azione al pensiero, come vorrebbe tutta una branca della filosofia del fare, che ecco il cappello sollevarsi dalla testa, superare la rete al di là del guard-rail e andare a confondersi, identico il colore, con l’acqua torbida del fiume. Al di là del Tanaro, Pollenzo l’antica Pollentia. Qui faccio la mia prima e unica deviazione rispetto al percorso, un chilometro in più (due contando anche il ritorno) per vedere il castello e la corte albertina. Mi spinge a ciò però non l’amore per il castello o l’amore per la storia romana, ma la mia frequentazione con slowfood e la voglia di vedere questa Università del gusto oramai tanto celebre da meritare la citazione nel patrimonio dell’Unesco. Eccola quì davanti a me la mitica università con la sua facciata che richiama vagamente lo stile neoclassico.

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A dire il vero però mi colpisce di più l’albergo cinque stelle, con annesso centro massaggi, ricavato, con un bella ristrutturazione conservativa, nella corte Albertina. Non avevo molto tempo, avevo l’appuntamento con Andrèe lungo la via, se no un paio d’ore di relax, tra piscine e massaggi, me le sarei concesse. Bra, in cima alla collina. La strada è impegnativa ma dopo il sali e scendi di ieri faccio la salita quasi senza accorgermi. Passo davanti alla Coop. Quasi ovunque dove sinora mi sono fermato ho incontrato una Coop. Bene, si sa la Coop porta fortuna. Bra una città che è stata spesso presente, come nome, nel mio immaginario fanciullesco. Come nome, perché in realtà prima d’oggi non l’avevo mai visitata. Era una città che mia mamma non amava e tutte le volte che siamo passati da queste parti, andando verso Elva, non ci siamo mai fermati. Qui abitavano le “due sorelle” due vecchie amiche di papà, ma era una di quelle amicizie (gelosia?) che mia mamma proprio non sopportava. Di Bra la mamma non voleva mai sentirne parlare, figurarci se chiedevamo di fermarci. Mi sono fermato quindi con una curiosità in più che nasceva da questo “tabù” infantile, ma probabilmente quel “non possumus” legato alla famiglia, come una sorta di vendetta di Montezuma per chi va in Messico, ha continuato a vivere nel tempo e continua tuttora ad agire, dal momento che è proprio lì che ha incominciato a farmi male la gamba costringendomi a restare la maggior parte del pomeriggio e della sera in albergo. Da Bra a Savigliano la via è dritta come una stecca di biliardo, molto trafficata, resa però sopportabile da pescheti, meleti e campi di girasole. La strada principale l’abbandoniamo (parlo al plurale perché con me ci sono Marco e Silvietta) a Marene

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(paese noto solo per avere un’uscita dell’autostrada sulla Torino– Savona) decidendo di attraversare il centro del paese. Dopo una continua fila di capannoni industriali, il paese vero e proprio si presenta a noi con una bella piazza rettangolare. Più di una piazza è come se la via a un certo punto si fosse triplicata per poi tornare alla dimensione di prima. Il paese è insignificante ma la compagnia di Marco e Silvia, la loro squisita gentilezza, me lo faranno sempre ricordare come un paese che ha un suo preciso posto nel mio cuore.

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Il tragitto da Savigliano a Busca è stato uno dei più difficoltosi per via del dolore alla gamba. Mi sono imposto di fare, indipendentemente dall’intensità del dolore, tre quarti d’ora di strada e poi un quarto d’ora di riposo. Oggi quindi è il giorno della lentezza. Avevo cominciato a prendermela comoda già al mattino, preparandomi al viaggio con una meticolosità esagerata: lavaggio piedi, crema, applicazione dei cerotti, arnica alla caviglia, crema solare sul naso e via dicendo. La strada è bella, dolce, poco trafficata. Il rione Sanità, alla periferia di Savigliano, con la sua doppia fila di pioppi e la lapide che ricorda i caduti nella Resistenza al nazifascismo, allega alla gioia dell’occhio, la gioia del cuore. Come ho detto mi fermo spesso, del resto i pescheti che sfilano tutto intorno rendono quanto mai piacevoli queste soste. Eccomi qua proprio all’ombra di un pescheto a godere del fresco e del dolce rumore del rio che scorre al mio fianco. Un piccolo canale per bagnare i campi, dove l’acqua è guidata dall’alzarsi e dall’abbassarsi delle “urcere”. Che pace! Qualcuno dalla macchina mi saluta. Un contadino all’alto del suo trattore, mi lancia un’occhiata, dapprima sospettosa e poco gentile, poi vedendo che non sono interessato alle pesche ma mi


sto semplicemente riposando, mi saluta, accelera e mi sorpassa. Il gas di scarico, nero e spesso che esce dal tubo di scappamento rovina l’ambiente bucolico che mi ero ritagliato ma per fortuna dura solo qualche secondo poi il cielo e il profumo delle pesche hanno di nuovo il sopravvento. I castelli di Castigliole Saluzzo all’inizio lontani punti nel verde della collina, si fanno via via sempre piÚ visibili, fino a mostrarsi del tutto nella loro bellezza, che il sole prossimo al meriggio, che ora preme sui campi e su di me, accentua e ritaglia. Da qui in poi, fino a Busca la strada si fa bruttissima. A ricordarne la pericolosità ci pensano delle sagome nere distribuite ai bordi della strada. Il sole picchia, la gamba mi fa male, i camion corrono velocissimi incuranti dei loro rimorchi.

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Con Carlo


Con Carlo

Sinora le parole di questo viaggio erano state attenzione, silenzio, solitudine, ora in questo andare–mosaico entra un altro tassello: l’amicizia. Intendiamoci non vuol dire che non c’è più l’attenzione, il silenzio, la solitudine, ma è che tutto ciò, grazie alla presenza di Carlo, al nostro procedere assieme, acquista un significato diverso, un diverso sapore. L’attenzione poi si raddoppia. “Guarda che strano animale” – mi dice Carlo.

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E strano è strano davvero. È piccolo, probabilmente un cucciolo, ma contrariamente a quanto ti aspetteresti non fugge non scappa, ci guarda coi suoi occhi grandi che spuntano dalla roccia come due fari. Un furetto? una martora? Non sappiamo. Anche il silenzio rimane, il nostro procedere affiancati non lo mette in disparte è che ogni tanto gli facciamo compagnia con le parole; per scambiarci emozioni, sensazioni e ricordi; ricordi che si fanno via via più stringenti man mano che procediamo verso Elva. Tra noi spesso c’è Franco con il suo sorriso come quella sera, a cena, a San Damiano Macra. Quando un paesaggio ci avvince, ci suggerisce un ricordo eccoci lì, soli, prigionieri della bellezza e dei nostri pensieri. Bellezza che si mette al nostro fianco fin dalla partenza da Busca ma che si mostrerà a noi in tutto il suo roccioso splendore all’inizio del vallone, per prenderci per mano e portarci fino in cima. Siamo partiti da Busca verso le nove. Irene ci saluta e va ad aspettare Piero e Giovanna, che sono partiti in mattinata da Milano, a Dronero. Secondo i nostri calcoli dovremmo incontrarli lungo la via; e infatti li incontriamo a Vilar, paese dei “ciciu”, quelle strane forme rocciose, erose dal vento e dall’acqua, che sembrano funghi e fanno di questo luogo, volendo esagerare, una piccola Cappadocia.

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Il tempo di un saluto, una foto e un appuntamento fra un’ora a Dronero. Ci fermiamo al bar della piazza, quello che dà sul fondovalle dove scorre, in questi giorni pigro e malandato, il Maira. A sinistra il ponte del Diavolo, bellissima costruzione in pietra dell’epoca tardo medievale. Ogni ponte del diavolo ha una sua leggenda. Anche questo. Mio nonno me la raccontava spesso, ma diverso era il finale. A lui non piaceva che si dovesse sacrificare al diavolo la prima persona che sarebbe passata su quel ponte e anche se la favola prevedeva l’inganno di far passare un maiale al posto di un uomo, quel finale egualmente non lo convinceva e allora mi diceva che Dio aveva prolungato la notte e il diavolo, vedendo che non passava nessuno, persa la pazienza (del resto si sa che la pazienza non è una virtù che abbonda all’Inferno) se ne andava via scocciato dicendo che non sarebbe mai più tornato a Dronero. “E a Elva”– aggiungeva mio nonno. Il tempo di un aperitivo al bar e poi ci salutiamo. L’appuntamento successivo è per pranzo a Cartignano col suo minuscolo ma al contempo possente castello. Ci avviamo per la vecchia strada provinciale, quella che passa sulla sponda destra del Maira destinata ora al traffico pedonale. Traffico? Fino a Tetti non incontriamo assolutamente nessuno.

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È una strada magnifica, all’inizio costeggia i muri di qualche villa, poi s’inoltra con dolcezza nei campi e nel bosco. È una via a me sconosciuta. Il fiume all’inizio non lo vedi e non lo senti, ma intuisci, in basso, il suo scorrere tra i sassi e il pietrisco. Questo fino a Cartignano poi da lì, dopo un breve tratto su una via dal nome proprio originale soprattutto per dei viandanti (“via della morte”), il sentiero si fa rasente il fiume; ogni tanto l’abbandona per ritornare verso l’alto, ma non lo perde mai di vista, come un innamorato, dopo qualche decina di metri, torna in basso a ricongiungersi. Così fino a San Damiano Macra. Che meraviglia!

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Oggi è la tappa più dura. 27 chilometri tutti in salita per un totale di circa mille metri di dislivello. È però la tappa dell’arrivo, quella che ci porta a Elva.

La strada s’inerpica fin da subito, ma sarà l’ora, la bellezza dei posti, lo stare insieme, i ricordi o chissà che cosa, il nostro procedere è tranquillo nemmeno fosse la pianura torinese. II Maira, alla nostra sinistra, in basso. Avremmo voluto proseguire dall’altra parte per coglierlo in un atteggiamento, in una posa diversa da questa che più conosciamo, ma da lì non c’è più strada, o meglio c’è, ma ti obbliga a un giro assai lungo. Quante volte ho fatto questa strada! Ammettendo anche solo una volta all’anno, andata e ritorno, moltiplicando per 50, ovvero dall’età dalla quale comincio ad avere ricordi sicuri, arriviamo a cento. Ma la cifra è approssimata con molto difetto. Cento volte, eppure ora è tutto diverso! A Bassura anche se sono le 10 del mattino pranziamo.

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L’ostessa è gentile anche se all’inizio invero mi era sembrata burbera e scontrosa; in realtà era solo super impegnata, a mezzogiorno aspettava a pranzo una compagnia di alpini. Ci porta tutto quello che ha di pronto, affettati e vitello tonnato, e non s’arrabbia neppure quando io, maldestro, rovescio la bottiglia di vino sulla tovaglia candida e pulita. Ecco, ora ci tocca il Vallone! “Conosci tu una città più bella di Granada?” – diceva un anonimo poeta andaluso del 1400. “Conosci tu una strada più bella del Vallone?” – dico io, anonimo poeta dell’oggi.

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Facciamo partire il cronometro, così, non per gara, affrontiamo infatti la salita in maniera del tutto comoda, ma per avere comunque un punto di riferimento. La strada sale, s’inerpica ardita, ma noi proseguiamo in silenzio, un passo dopo l’altro; guardiamo le rocce in alto dove al mattino presto puoi incontrare i camosci e gettiamo alternativamente poi lo sguardo in basso verso il fiume che prosegue il suo millenario e millimetrico scavo nelle rocce, e che si fa sempre più piccolo e lontano. Arriviamo al Serre dopo 2 ore e 38 minuti. Mentre sto per rinfrescarmi alla fontana mi chiama Giulia. Le comunico ufficialmente il successo dell’impresa e poi le chiedo: “Cosa stai facendo di bello a Milano?”. “Niente” – mi risponde. E infatti a Milano non stava facendo niente perché, dieci minuti dopo, la incontro dietro il pilone votivo del bivio che porta alle Grangette intenta a fotografarmi. Carramba che sorpresa! Quando la raggiungo tira fuori dalla borsa frigo una bottiglia di champagne e due bicchieri di cristallo portati da Brugherio. Alla frazione Martini compare la scritta “ultimo chilometro”.

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Come nelle corse in bicicletta, ai bordi comincia ad assieparsi la folla Romano, Sonia, Giovanna, Piero etc. Poi alle Grangette ecco le nipoti–majorettes che ci accolgono agitando lustrini e pajettes sotto la regia attenta di Irene. Siamo arrivati. Il viaggio è finito.

Ma in realtà sarà un viaggio che non avrà mai fine.

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Stampato da Bianca&Volta Truccazzano (Milano) nel mese di luglio 2011


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