NR.27 FANTASMI

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mani protette da mezzi guanti beige. Indossa un maglione di lana grigio. L’uomo ti guarda torvo. Nel fondo dei suoi occhi si agita un barlume di follia. Sei l’unica persona in piedi. L’ultima vasca libera è stata occupata da Jeff Buckley. Tutti i cantanti, i poeti, i miglior musicisti rock di questi ultimi anni accennano un applauso. Brian Jones addirittura lo chiama per nome: «Glenn. Welcome Glenn!». Glenn Gould − sì, perché è lui l’uomo col maglione grigio − si accosta al pianoforte, lo accarezza dopo essersi tolto i guanti, si accomoda su una sedia pigmea malconcia, la sua preferita. Appollaiato, con la testa incassata nelle spalle, sfiora appena la superficie lucida dei tasti. È in attesa del momento propizio, tutto il corpo in raccoglimento. Respira, legge lo spartito, solleva le mani sulla tastiera. Lo sguardo arcigno si scioglie in un sorriso autentico, come se riuscisse a immaginare i gesti precedenti alla trascrizione delle note, l’esitazione, il respiro di Bach antecedente alla creazione. Glenn Gould comincia a suonare. Simmetrie musicali e matematica si fondono nella melodia. Il pubblico assiste alla metamorfosi corporea di uno fra i più grandi interpreti delle Variazioni Goldberg. Le note si propagano nell’aria, lambiscono i fili d’erba, scalano le zampe delle vasche, sfiorano gli smalti, la pelle delle rockstar, gli occhi lucidi, i loro corpi idolatrati, i tragici rimorsi di ognuno. Questa musica non lascia scampo, lambisce e scava senza tregua, ti riporta indietro nel tempo, raggiunge il bosco, accarezza le radici delle querce, le primule, le foglie d’edera nuove, i nidi di ragno nascosti all’ombra della boscaglia, il buio più profondo, sconfina nell’intimità di chi ascolta. Che sapore hanno i rimorsi? Apri gli occhi. Da una fessura verticale della persiana penetra il chiarore dell’alba. Ti guardi le mani nell’ombra della stanza. Le note delle Variazioni Goldberg suonano da tutta la notte. Sei rimasto solo, la meraviglia, il pianoforte, tutti gli spettatori illustri sono svaniti con il sonno. Arrivi in cucina, la luce sopra il tavolo illumina le forbici. Il rumore delle lame che si congiungono taglienti, anticipa l’attacco della Ventisettesima variazione. Una goccia di sangue macchia il pavimento. E poi un’altra e un’altra ancora. Afferri il barattolo di zucchero. Ci infili le dita insanguinate. La musica non ti abbandona. I cristalli più grossi appiccicati alla pelle luccicano ruvidi. Il sangue li tinge di scuro. Lo zucchero appoggiato alle labbra non si scioglie immediatamente. Oppone resistenza. Tu non vuoi morderlo come facevi da piccolo con grumi amorfi di zucchero. Hai imparato ad aspettare. Anneghi i tormenti spingendo la lingua contro il palato. Nello stesso istante, le note aderiscono al ricordo più doloroso. Il rimorso ha il sapore del sangue e dello zucchero grezzo. Questa musica ravviva la sequenza esatta dei vostri ultimi gesti insieme: le prime ammissioni, le sue mani che impugnano le forbici, le tue bugie, la vostra fotografia più bella tagliata in strisce irregolari. L’ultima sera, tutto era precipitato in fretta: avevi cercato di trattenerla, ti eri ferito alla mano, le forbici erano cadute sul pavimento. Lei era uscita dalla tua vita senza sbattere la porta. E allora ti eri lasciato cadere per terra, avevi cercato di ricostruire quella fotografia, l’immagine di quell’hotel, la stanza da bagno, il vostro abbraccio mutilato, i rubinetti sopra la vasca, i vostri sorrisi luminosi. Sconfitto, proprio come adesso, avevi cosparso di zucchero la ferita della mano. Allora, non potevi sapere che il rimorso per gli errori commessi ti sarebbe rimasto appeso alla carne per la vita, per poi riemergere ogni volta sulle note finali della Trentaduesima variazione. Esausto, chiudi gli occhi, per alleviare il peso della disfatta.

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