MOSTRA
BIENNALE BIENNALEARTE ARTE 2022 2022
EXHIBITION EXHIBITION MOSTRA
LA BIENNALE DI VENEZIA Presidente
Roberto Cicutto Consiglio di Amministrazione
Luigi Brugnaro Vicepresidente Claudia Ferrazzi Luca Zaia Collegio dei revisori dei Conti
Jair Lorenco Presidente Stefania Bortoletti Anna Maria Como Direttore Generale
Andrea Del Mercato Direttrice Artistica del Settore Arti Visive
Cecilia Alemani
LA BIENNALE DI VENEZIA
Direttore Generale
5 9. E S P O S I Z I O N E INTERNAZIONALE D ’A R T E
S T RU T T U RA O R G A N I Z Z AT I VA
Curatrice della 59. Esposizione
S E RV I Z I CENTRALI
Internazionale d’Arte
Andrea Del Mercato
Cecilia Alemani Organizzatrice Artistica
Marta Papini Assistente della Curatrice e Managing Editor
A F FA R I L E G A L I E ISTITUZIONALI, RISORSE UMANE E V I C A R I AT O (DEPUTY) Direttore
Affari Legali e Istituzionali
Ricerca e testi
Stefano Mudu
Martina Ballarin Francesca Oddi Lucrezia Stocco
Staff della Curatrice
Risorse Umane
Liv Cuniberti
Graziano Carrer Luca Carta Giovanni Drudi Antonella Sfriso Alessia Viviani Rossella Zulian
Identità grafica
A Practice for Everyday Life London Consulenti Artistici
Ellen Greig Ranjit Hoskote Venus Lau Alvin Jianhuan Li Júlia Maia Rebouças Guslagie Malanda Camila Marambio Nontobeko Ntombela Kwasi Ohene-Ayeh Marie Hélène Pereira Nora Razian Marina Reyes Franco María Isabel Rueda Joanna Warsza María Wills
Cerimoniale
Francesca Boglietti Lara De Bellis
Responsabile
Flavia Fossa Margutti Giovanni Alberti Roberta Fontanin Giuliana Fusco Silvia Levorato Nicola Monaco Maddalena Pietragnoli
Segreteria Biennale College
Ian Wallace
Formafantasma
Caterina Boniollo Maria Cristina Cinti Elisabetta Mistri Chiara Rossi
Debora Rossi
e ricerca artistica
Exhibition Design
U F F I C I O AT T I V I TÀ EDITORIALI E WEB
Segreteria Generale
Manuela Hansen Assistente della Curatrice
Segreterie
Claudia Capodiferro Giacinta Maria Dalla Pietà
S E RV I Z I O A C Q U I S T I , A P PA LT I E AMMINISTRAZIONE PAT R I M O N I O
Direttore
Fabio Pacifico
Silvia Gatto Silvia Bruni Annamaria Colonna Cristiana Scavone
Linda Baldan Jasna Zoranovic Donato Zotta
Bruna Gabbiato Elia Canal Marco Caruso Martina Fiori Gregorio Granati Elisa Meggiato Manuela Pellicciolli Cristina Sartorel Sara Vianello Sponsorship
Paola Pavan Promozione Pubblico
Caterina Castellani Lucia De Manincor Elisabetta Fiorese Stefania Guglielmo Emanuela Padoan Marta Plevani
Progettazione mostre,
Massimiliano Bigarello Cinzia Bernardi Alessandra Durand de la Penne Jessica Giassi Valentina Malossi Sandra Montagner
Giulio Cantagalli Piero Novello Maurizio Urso Information Tecnology
Amministrazione Patrimonio Controllo di Gestione
Cristiano Frizzele
Facility Management Ufficio Ospitalità
Valentina Borsato Amministrazione, Finanza,
Direttore
eventi e spettacolo dal vivo Direttore
Ufficio Acquisti e Appalti
AMMINISTRAZIONE , F I NA N ZA, C ON T RO L L O DI GESTIONE E S P O N S O R S H I P, P ROM OZ I ON E PUBBLICO
S E RV I Z I TECNICO LOGISTICI
Maurizio Celoni Antonio Fantinelli
Andrea Bonaldo Michele Schiavon Leonardo Viale Jacopo Zanchi
U F F I C I O S TA M PA ISTITUZIONALE E CINEMA
P RO G E T T I S P E C I A L I , P ROM OZ I ON E S E D I
Responsabile
Direttore
Paolo Lughi
Arianna Laurenzi
Francesca Buccaro Michela Lazzarin Fiorella Tagliapietra
Progetti Speciali
Valentina Baldessari Davide Ferrante Elisabetta Parmesan Promozione Sedi
Nicola Bon Cristina Graziussi Alessia Rosada
SETTORE ARTI VISIVE / A RC H I T E T T U RA
SETTORE CINEMA
SETTORE DA N ZA, M US I C A, T E AT R O
A RC H I V I O S T O R I C O DELLA BIENNALE D I V E N E Z I A - A SAC
Dirigente Responsabile
Direttore Generale
Dirigente Responsabile
Dirigente Responsabile
Organizzativo
Andrea Del Mercato
Organizzativo
Organizzativo
Francesca Benvenuti
Debora Rossi
Segreteria
Archivio Storico
Veronica Mozzetti Monterumici
Maria Elena Cazzaro Giovanna Bottaro Michela Campagnolo Marica Gallina Helga Greggio Michele Mangione Adriana Rosaria Scalise Alice Scandiuzzi
Joern Rudolf Brandmeyer Segreteria
Marina Bertaggia Emilia Bonomi Raffaele Cinotti Stefania Fabris Stefania Guerra Francesca Aloisia Montorio Luigi Ricciari Micol Saleri Ilaria Zanella
Mariachiara Manci Alessandro Mezzalira Programmazione della Mostra Internazionale
Programmazione e produzione
d’Arte Cinematografica
Michela Mason Federica Colella Maya Romanelli
Piera Benedetti Silvia Menegazzi Daniela Persi Accrediti Industry/Cinema
U F F I C I O S TA M PA ARTI VISIVE / A RC H I T E T T U RA
Flavia Lo Mastro Biennale College Cinema
U F F I C I O S TA M PA DA N ZA, M US I C A, T E AT R O
Valentina Bellomo Responsabile
Responsabile
Emanuela Caldirola
Maria Cristiana Costanzo Ilaria Grando Claudia Gioia
C O L L A B O R AT O R I P E R L A 5 9. E S P O S I Z I O N E INTERNAZIONALE D ’A R T E Anna Albano Andrea Avezzù Valentina Campana Antonella Campisi Riccardo Cavallaro Gerardo Ernesto Cejas Marzia Cervellin Allison Grimaldi Donahue Francesco di Cesare Francesca Dolzani Lia Durante Andrea Ferialdi Fabrizia Ferragina Giulia Gasparato Nicola Giacobbo Matteo Giannasi Ornella Mogno Camilla Mozzato Daniele Paolo Mulas Luca Racchini Valeria Romagnini Elisa Santoro Marco Tosato Lucia Toso Francesco Zanon
Biblioteca
Valentina Da Tos Erica De Luigi Valentina Greggio Manuela Momentè Elena Oselladore
Grazie a
Cleary Gottlieb Steen & Hamilton LLP
Un ringraziamento a quante e quanti, in qualità di Donor, hanno generosamente contribuito alla realizzazione della nostra Mostra
Main Donor Teiger Foundation
Christian Dior Couture Ford Foundation Ammodo LUMA Foundation V-A-C Foundation, Moscow, Venice Elisa Nuyten Sue & Beau Wrigley Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Emilie Pastor and Sibylle Rochat, Founders of Concrete Projects Antonella Rodriguez Boccanelli Charlotte Feng Ford Komal Shah & Gaurav Garg Angela Timashev Beatrice Bulgari, Founder Fondazione In Between Art Film Phileas – A Fund for Contemporary Art VIVE Arts Carlo Bronzini Vender Michelangelo Foundation Margherita Stabiumi Nicoletta Fiorucci Russo, OSI Stavros Niarchos Foundation Luigi Maramotti Unfinished Rennie Collection, Vancouver Henry Moore Foundation Suzanne Syz Lista al 20 febbraio 2022
L E ON I D ’ O RO A L LA C A R R I E RA
K AT H A R I N A F R I T S C H
1956, Essen, Germania Vive a Wuppertal e Düsseldorf, Germania
La prima volta in cui ho visto un’opera di Katharina Fritsch di persona è stato proprio alla Biennale di Venezia, nell’edizione del 1999, curata da Harald Szeemann, la prima Biennale che ho visitato. L’imponente opera che occupava il salone principale del Padiglione Centrale si intitolava Rattenkönig, il re dei topi, una scultura inquietante in cui un gruppo di topi giganteschi è disposto in cerchio, le code annodate, come in uno strano rituale magico. Da quel momento in poi, a ogni incontro con una scultura di Fritsch, ho provato lo stesso senso di stupore e di attrazione vertiginosa. Il contributo di Fritsch nel campo dell’arte contemporanea e, in particolare, in quello della scultura non ha paragoni. Il suo lavoro si distingue per opere figurative al contempo iperrealistiche e fantastiche: copie di oggetti, animali e persone rese nei più minuscoli dettagli ma trasformate in apparizioni perturbanti. Spesso Fritsch modifica le dimensioni e la scala dei suoi soggetti, miniaturizzandoli o ingigantendoli e avvolgendoli in campiture di colori stranianti: è come trovarsi al cospetto di monumenti di civiltà aliene, o di fronte a reperti esposti in uno strano museo postumano. Fritsch ha una lunga frequentazione con la Biennale di Venezia: ha rappresentato la Germania nel 1995; ha esposto Rattenkönig nel 1999 e, più recentemente, ha presentato una serie di sculture al Giardino delle Vergini, nella Biennale Arte 2011 curata da Bice Curiger. Dopo più di venticinque anni dalla sua prima partecipazione, Fritsch torna a Venezia con Elefant / Elephant, la scultura che apre la mostra Il latte dei sogni nella suntuosa Sala Chini del Padiglione Centrale, tra specchi e affreschi ottocenteschi. Una delle prime grandi opere iperrealistiche dell’artista, realizzata nel 1987, la scultura è una replica – allo stesso tempo minuziosa e surreale – di un elefante tassidermizzato, la cui epidermide è resa in una tonalità di verde scuro, quasi a suggerire una superficie di bronzo o una strana colorazione mutante. È una visione al contempo apocalittica e onirica, che racconta di una natura in via di sparizione e di un mondo sempre più artificiale e sintetico, ma è anche una riflessione sul ruolo dei musei e delle esposizioni, sulla loro capacità di preservare e raccontare le storie dell’umanità. E come dimenticare che i branchi di elefanti sono sempre guidati dalle femmine?
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CECILIA VICUÑA
1948, Santiago, Cile Vive a New York City, USA
Uno dei privilegi più grandi dell’essere curatrici è visitare gli studi d’artista. Ricordo ancora con grande intensità la mia prima visita nel loft di Cecilia Vicuña nel quartiere di Tribeca, a New York: appena ha aperto la porta, ho capito che saremmo diventate grandi amiche. Originaria del Cile, Vicuña lascia il suo Paese dopo il golpe di Augusto Pinochet e si trasferisce a New York, dove vive dagli anni Settanta. Vicuña si forma come poetessa e ha dedicato anni a preservare le opere letterarie di molti scrittori e scrittrici dell’America Latina, svolgendo un encomiabile lavoro di traduzione e redazione di antologie di poesie sudamericane che, senza il suo intervento, sarebbero andate perdute. Vicuña è anche un’attivista che da anni lotta per i diritti delle popolazioni indigene in America Latina e in Cile. Nel campo delle arti visive si è distinta per un’opera che spazia dalla pittura alla performance, fino alla realizzazione di assemblage complessi. Al centro del suo linguaggio artistico c’è una forte fascinazione per le tradizioni indigene e per le epistemologie non occidentali. Per decenni ha lavorato in disparte, con precisione, umiltà e ostinazione, anticipando molti dibattiti recenti sull’ecologia e il femminismo e immaginando nuove mitologie personali e collettive. La Mostra Il latte dei sogni include una serie di dipinti di Vicuña e una nuova opera site-specific: un assemblage di frammenti di corde e oggetti trovati, ispirato alla precarietà dell’ecosistema della laguna veneziana, nel quale l’artista legge un fitto intreccio di naturale e artificiale, di umano e non umano. La maestria di Vicuña consiste nel trasformare gli oggetti più modesti in snodi di tensioni e forze. Molte delle sue installazioni sono realizzate con materiali trovati e detriti abbandonati che l’artista intesse in delicate composizioni, nelle quali il microscopico e il monumentale sembrano trovare un fragile equilibrio: un’arte precaria, al contempo intima e potente.
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PREMI
La Giuria Internazionale conferisce: L E ON E D ’ O RO
per la miglior Partecipazione Nazionale L E ON E D ’ O RO
per il miglior partecipante della Mostra Internazionale Il latte dei sogni L E O N E D ’A R G E N T O
per un promettente giovane partecipante della Mostra Internazionale Il latte dei sogni
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GIURIA INTERNAZIONALE
A D R I E N N E E D WA R D S è Engell Speyer Curator e direttrice degli affari curatoriali presso il Whitney Museum of American Art, nonché co-curatrice della Whitney Biennial 2022. In precedenza, è stata curatrice di Performa a New York e curatrice generale del Walker Art Center di Minneapolis. Oltre a incarichi di performance interdisciplinari e progetti curatoriali, Edwards ha insegnato Storia dell’arte e Visual Studies alla New York University e alla New School e scrive per un’ampia gamma di pubblicazioni. L O R E N Z O G I U S T I è direttore della GAMeC di Bergamo. Storico dell’arte e curatore, dal 2012 al 2017 è stato direttore del Museo MAN di Nuoro. Ha organizzato mostre e curato cataloghi dedicati a importanti personalità artistiche del XX secolo nonché ad autrici e autori contemporanei, collaborando con numerose istituzioni italiane e internazionali. È presidente di AMACI – Associazione dei musei d’arte contemporanea italiani. J U L I E TA G O N Z Á L E Z è direttrice artistica dell’Instituto Inhotim in Brasile. Curatrice e ricercatrice, opera all’intersezione tra antropologia, cibernetica, architettura, ecologia, ambiente costruito e arti visive. Ha ricoperto incarichi curatoriali presso importanti istituzioni tra cui Tate Modern, Londra; Museo Tamayo, Città del Messico; Museu de Arte de São Paulo (MASP); The Bronx Museum, New York; e Museo de Bellas Artes de Caracas. Ha organizzato e co-organizzato oltre sessanta mostre e ha pubblicato numerosi saggi in cataloghi di mostre e pubblicazioni periodiche. B O N AV E N T U R E S O H B E J E N G N D I K U N G è curatore free lance,
scrittore e biotecnologo. Fondatore e direttore artistico di SAVVY Contemporary a Berlino, è anche direttore artistico di sonsbeek 20–24, mostra quadriennale di arte contemporanea ad Arnhem, nei Paesi Bassi. Insegna al corso Master of Arts in Strategie spaziali della Weißensee Kunsthochschule di Berlino. Dal 2023 assumerà il ruolo di direttore presso Haus der Kulturen der Welt (HKW) a Berlino. S U S A N N E P F E F F E R è direttrice del MUSEUM MMK FÜR MODERNE
KUNST di Francoforte. È stata direttrice del Fridericianum (2013–2017); curatrice capo del KW Institute for Contemporary Art (2007–2012); curatrice e consigliere del MoMA PS1 di New York; e direttrice artistica della Künstlerhaus Brema (2004–2006). Pfeffer ha curato il padiglione svizzero alla Biennale Arte 2015. Curatrice del padiglione tedesco alla Biennale Arte 2017, ha ricevuto con l’artista Anne Imhof il Leone d’Oro per la migliore Partecipazione Nazionale.
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INDICE DEI CONTENUTI
21
Roberto Cicutto, Introduzione
24
Cecilia Alemani intervistata da Marta Papini, Il latte dei sogni
38
Cecilia Alemani, Ringraziamenti
45
Leonora Carrington, La debuttante
49
PA D I G L I O N E C E N T R A L E , G I A R D I N I
86
LA CULLA DELLA STREGA – CAPSULA STORICA
Alyce Mahon, Figlie del Minotauro: il re-incanto del mondo delle surrealiste
160
C O R P O O R B I TA – C A P S U L A S T O R I C A
Jennifer Higgie, Linguaggio del corpo
SAG G I 209
Marina Warner, Spirale virale, o Sette giravolte nel duello magico
215
Rosi Braidotti, Teoria critica postumana
254
T E C N O L O G I E D E L L’ I N C A N T O – C A P S U L A S T O R I C A
Azalea Seratoni, Sorprendenti
CONVERSAZIONE 320
Silvia Federici e Silvia Rivera Cusicanqui in conversazione moderata da Manuela Hansen, Re-incanto e chi’xi
16
329
366
ARSENALE
UNA FOGLIA UNA ZUCCA UN GUSCIO UNA RETE U NA B O R SA U NA T RAC O L LA U NA B I SAC C I A U N A B O T T I G L I A U N A P E N T O L A U N A S C AT O L A UN CONTENITORE – CAPSULA STORICA
Christina Sharpe, Un contenitore che cosa potrebbe essere?
SAG G I 417
Ursula K. Le Guin, La sporta: una teoria della narrazione
422
Donna J. Haraway, Un sacchetto di semi per la terraformazione con gli altri della Terra
429
Mel Y. Chen, It Misses You
498
LA S E D U Z I ON E D E L C Y B O RG – C A PS U LA S T O R I C A
Matthew Biro, Le produttrici cyborg
SAG G I 545
Achille Mbembe, Meditazione sulla seconda creazione
549
N. Katherine Hayles, Il nuovo Corona: un virus postumano
553
Yuk Hui e Anders Dunker in conversazione, Sulla tecnodiversità
657
Jack Halberstam, Dei gufi e delle cose
661
Chiara Valerio, Glossario. Lacunoso e in ordine di apparizione, dal 9 marzo 2020 al 26 aprile 2021, parziale e sentimentale, come la memoria
665
Igiaba Scego, Il lungo viaggio della Signorina Clara (monologo quasi teatrale di un rinoceronte in cattività)
711
Padiglione delle Arti Applicate Progetto Speciale
715
Forte Marghera Progetto Speciale
719
Elenco delle opere
745
Biennale College Arte
17
ARTISTE E ARTISTI
532
Noor Abuarafeh
522
Anna Coleman Ladd
234
244
Carla Accardi
114
Ithell Colquhoun
524
Hannah Höch
490
Igshaan Adams
388
Myrlande Constant
478
Jessie Homer French
112
Eileen Agar
294
June Crespo
524
Rebecca Horn
628
Monira Al Qadiri
267
Dadamaino
181
Georgiana Houghton
712
Sophia Al-Maria
466
Noah Davis
144
Sheree Hovsepian
566
Özlem Altın
186
Lenora de Barros
636
Tishan Hsu
267
Marina Apollonio
114
Valentine de Saint-Point
618
Marguerite Humeau
112
Gertrud Arndt
114
Lise Deharme
240
Jacqueline Humphries
381
Ruth Asawa
252
Sonia Delaunay
80
Kudzanai-Violet Hwami
72
Shuvinai Ashoona
276
Agnes Denes
534
Tatsuo Ikeda
334
Belkis Ayón
115
Maya Deren
406
Saodat Ismailova
450
Firelei Báez
268
Lucia Di Luciano
381
Aletta Jacobs
392
Felipe Baeza
470
Ibrahim El-Salahi
640
Geumhyung Jeong
112
Josephine Baker
238
Sara Enrico
280
Charlotte Johannesson
179
Djuna Barnes
152
Chiara Enzo
116
Loïs Mailou Jones
381
Mária Bartuszová
700
Andro Eradze
574
Jamian Juliano-Villani
113
Benedetta
438
Jaider Esbell
306
Birgit Jürgenssen
179
Mirella Bentivoglio
130
Jana Euler
117
Ida Kar
in collaborazione con
180
Minnie Evans
570
Allison Katz
Annalisa Alloatti
523
Alexandra Exter
192
Bronwyn Katz
68
Merikokeb Berhanu
226
Jadé Fadojutimi
528
Kapwani Kiwanga
180
Tomaso Binga
630
Jes Fan
524
Kiki Kogelnik
314
Cosima von Bonin
410
Safia Farhat
652
Barbara Kruger
598
Louise Bonnet
82
Simone Fattal
578
Tetsumi Kudo
521
Marianne Brandt
386
Célestin Faustin
76
Gabrielle L’Hirondelle Hill
606
Kerstin Brätsch
115
Leonor Fini
200
Louise Lawler
626
Dora Budor
523
Elsa von Freytag-Loringhoven
590
Carolyn Lazard
362
Eglė Budvytytė in collaborazione
50
Katharina Fritsch
610
Mire Lee
con Marija Olšauskaitė
181
Ilse Garnier
330
Simone Leigh
e Julija Steponaitytė
462
Aage Gaup
296
Hannah Levy
538
Liv Bugge
181
Linda Gazzera
494
Tau Lewis
698
Simnikiwe Buhlungu
342
Ficre Ghebreyesus
300
Shuang Li
148
Miriam Cahn
644
Elisa Giardina Papa
525
Liliane Lijn
113
Claude Cahun
412
Roberto Gil de Montes
458
Candice Lin
302
Elaine Cameron-Weir
142
Nan Goldin
182
Mina Loy
180
Milly Canavero
116
Jane Graverol
602
LuYang
113
Leonora Carrington
268
Laura Grisi
117
Antoinette Lubaki
521
Regina Cassolo Bracchi
523
Karla Grosch
622
Zhenya Machneva
312
Ambra Castagnetti
676
Robert Grosvenor
117
Baya Mahieddine
684
Giulia Cenci
290
Aneta Grzeszykowska
382
Maruja Mallo
522
Giannina Censi
442
Sheroanawe Hakihiiwe
182
Joyce Mansour
338
Gabriel Chaile
116; 524
Florence Henri
358
Britta Marakatt-Labba
474
Ali Cherri
648
Lynn Hershman Leeson
674
Diego Marcon
18
Charline von Heyl
282
Sidsel Meineche Hansen
121
Augusta Savage
382
Maria Sibylla Merian
526
Lavinia Schulz e Walter Holdt
248
Vera Molnár
270
Lillian Schwartz
434
Delcy Morelos
196
Amy Sillman
182
Sister Gertrude Morgan
540
Elias Sime
614
Sandra Mujinga
582
Marianna Simnett
64
Mrinalini Mukherjee
184
Hélène Smith
118
Nadja
188
Sable Elyse Smith
525
Louise Nevelson
562
Teresa Solar
118
Amy Nimr
184
Mary Ellen Solt
402
Magdalene Odundo
310
P. Staff
680
Precious Okoyomon
383; 526
Sophie Taeuber-Arp
118
Meret Oppenheim
382
Toshiko Takaezu
156
Ovartaci
446
Emma Talbot
688
Virginia Overton
121
Dorothea Tanning
74
Akosua Adoma Owusu
383
Bridget Tichenor
486
Prabhakar Pachpute
383
Tecla Tofano
183
Eusapia Palladino
184
Josefa Tolrà
408
Violeta Parra
696
Tourmaline
350
Rosana Paulino
121
Toyen
119
Valentine Penrose
52
Rosemarie Trockel
286
Elle Pérez
692
Wu Tsang
634
Sondra Perry
138
Kaari Upson
482
Solange Pessoa
56
Andra Ursuţa
354
Thao Nguyen Phan
268
Grazia Varisco
230
Julia Phillips
122
Remedios Varo
586
Joanna Piotrowska
454
Sandra Vásquez de la Horra
204
Alexandra Pirici
526
Marie Vassilieff
525
Anu Põder
60
Cecilia Vicuña
183
Gisèle Prassinos
269
Nanda Vigo
134
Christina Quarles
706
Marianne Vitale
114
Rachilde
594
Raphaela Vogel
646
Janis Rafa
122
Meta Vaux Warrick Fuller
119; 183
Alice Rahon
123
Laura Wheeler Waring
119
Carol Rama
272
Ulla Wiggen
124
Paula Rego
123
Mary Wigman
120
Edith Rimmington
318
Müge Yilmaz
120
Enif Robert
384
Frantz Zéphirin
396
Luiz Roque
464
Zheng Bo
120
Rosa Rosà
185
Unica Zürn
364
Niki de Saint Phalle
346
Portia Zvavahera
183
Giovanna Sandri
398
Pinaree Sanpitak
702
Aki Sasamoto
19
I N T RO D U Z I ON E Roberto Cicutto Presidente de La Biennale di Venezia
Provo a mettermi nei panni di Cecilia Alemani, Curatrice della 59. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Ci siamo incontrati per quasi due anni attraverso Internet, inquadrati dallo schermo di un computer, ed è sempre attraverso quello schermo che Cecilia ha visitato centinaia di atelier di artisti in tutto il mondo, navigando fra quadri, sculture, video, installazioni e performance che devono averle dato una percezione molto diversa da quella che avrebbe provato dal vivo. Se tutto ciò abbia fortemente influenzato lo spirito della sua mostra, non saprei dire. Ma guardare dall’oblò dell’astronave/computer così tanti mondi fantastici, con l’obiettivo di portarli fisicamente a Venezia per esporli al mondo, ha certamente rappresentato un’esperienza unica. Cecilia Alemani (come spesso fanno le curatrici e i curatori, soprattutto alla Biennale) pone alcune domande alla base della sua ricerca. Fra queste, una in particolare mi sembra riassumerle: “Come sta cambiando la definizione di umano?”. Il suo lavoro comincia con l’individuazione di un’ispiratrice, Leonora Carrington, dalla cui arte sviluppa filoni e temi interpretati dagli artisti, che raccontano “la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra”. Le opere in mostra si specchiano con alcuni loro “antenati” presentati in spazi dedicati, che ci raccontano da dove gli artisti di oggi hanno tratto ispirazione.
21
Un modo di unire le diverse contemporaneità che la Biennale Arte ha raccontato in centoventisette anni di vita, un approccio già presente nella mostra Le muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla storia, realizzata dall’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC) nel Padiglione Centrale ai Giardini, curata da tutti i Direttori dei sei Settori Artistici della Biennale (Architettura, Arte, Cinema, Danza, Musica, Teatro) e coordinata dalla stessa Cecilia Alemani nel 2020, anno orfano della Mostra Internazionale di Architettura a causa della pandemia. Un viaggio, dicevamo, visto dall’interno di una navicella. Un’immagine che richiama film di fantascienza, pieni di effetti speciali e popolati da creature ibride che quasi sempre raccontano l’eterna lotta fra il bene e il male. Invece la Mostra di Cecilia immagina nuove armonie, convivenze finora impensabili e soluzioni sorprendenti, proprio perché prendono le distanze dall’antropocentrismo. Un viaggio alla fine del quale non ci sono sconfitti, ma si configurano nuove alleanze generate dal dialogo fra esseri diversi (alcuni forse prodotti anche da macchine) con tutti gli elementi naturali che il nostro pianeta (e forse anche altri) ci presenta. I compagni di viaggio (le artiste e gli artisti) che si aggregano alla Curatrice provengono da mondi molto diversi fra loro. Cecilia ci dice che c’è una maggioranza di artiste donne e soggetti non binari, una scelta che condivido perché riflette la ricchezza della forza creativa dei nostri giorni. L’augurio per questa 59. Esposizione Internazionale d’Arte è che con essa ci si possa immergere nel “re-incantesimo del mondo” evocato da Cecilia nella sua introduzione. Forse un sogno, che è un altro degli elementi costitutivi della Mostra. Molte opere sono nuove produzioni appositamente create per questa edizione. Un segno importante e la prova di una grande attenzione alle nuove generazioni di artiste e artisti. Non a caso la Curatrice ha accettato di studiare e realizzare il primo College Arte nella storia della Biennale, che si affianca a quelli di Cinema, Danza, Teatro e Musica. I risultati dei College degli ultimi anni, sotto la diretta responsabilità dei Direttori Artistici coadiuvati da tutor, sono stati molto positivi. I College, frequentati da giovani che hanno già capito e deciso che la loro vita sarà dedicata a una qualche forma d’arte, sono laboratori impegnativi diventati nel tempo uno strumento unico di perfezionamento della propria formazione. Il frutto delle attività dei College è il riconoscimento sui palcoscenici e sugli schermi della Biennale del valore di chi vi partecipa, che spesso viene ricompensato da un inserimento stabile nel mondo del lavoro. Sembrava difficile realizzarlo anche per Arte. Ma invece tre artiste e un artista, scelti fra i molti candidati da tutto il mondo, vedono le loro opere presentate fuori concorso nell’Esposizione Internazionale, con uguale dignità rispetto ai loro colleghi già affermati, selezionati dalla Curatrice. Una tappa importante per La Biennale di Venezia che sempre di più, attraverso le attività del proprio Archivio Storico e la costituzione di un Centro Internazionale della Ricerca sulle Arti Contemporanee, si fa strumento di crescita per artiste e artisti, arricchendo la propria funzione storica di produzione di mostre e festival.
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Si ringraziano tutti i Paesi partecipanti e le nuove Partecipazioni Nazionali. Si ringrazia il Ministero della Cultura, le Istituzioni del territorio che in vario modo sostengono La Biennale, la Città di Venezia, la Regione del Veneto, la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna, la Marina Militare. Un ringraziamento va al nostro Partner Swatch, al Main Sponsor illycaffè e agli Sponsor Bloomberg Philanthropies, kvadrat, Vela-Venezia Unica e al nostro Media Partner Rai Cultura. Si ringraziano i Donor, gli Enti e Istituzioni Internazionali importanti nella realizzazione della Biennale Arte 2022. In particolare, i ringraziamenti vanno a Cecilia Alemani e a tutto il suo team. Grazie, infine, a tutte le grandi professionalità della Biennale applicate con straordinaria dedizione alla realizzazione e alla gestione della Mostra.
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I L L AT T E D E I S O G N I Cecilia Alemani intervistata da Marta Papini
La Mostra Il latte dei sogni è stata concepita e realizzata in un periodo di grande instabilità e incertezza. La sua genesi ed esecuzione hanno coinciso con l’inizio e il continuo protrarsi della pandemia da Covid-19, che ha costretto La Biennale di Venezia a posticipare questa edizione di un anno, evento che, sin dal 1895, si era verificato soltanto durante la Prima e la Seconda guerra mondiale. Che cosa ha significato per te organizzare una Biennale Arte in questo momento storico? Sono stata nominata Curatrice della 59. Esposizione Internazionale d’Arte nel gennaio del 2020, poche settimane prima che il virus si diffondesse globalmente e cambiasse per sempre le nostre vite. L’Italia sarebbe entrata in lockdown già nei primissimi giorni di marzo. Ci ricordiamo tutti le immagini terribili delle strade deserte e quelle degli ospedali di Bergamo con i camion militari, la paura, i dubbi e la confusione. A pochi mesi dalla mia nomina, la Mostra – che avrebbe dovuto aprire a maggio 2021 – è stata posticipata ad aprile 2022, poiché sarebbe stato praticamente impossibile inaugurare l’edizione della Biennale Architettura curata da Hashim Sarkis, che avrebbe dovuto precedere nella primavera del 2020. Questo concatenamento di eventi ha segnato la genesi alquanto vorticosa della Mostra, che aprirà con un anno di ritardo e che, a quattro mesi dalla data di inaugurazione, si trova a fare i conti con la diffusione della variante Omicron… Per mesi ho fantasticato che questa sarebbe stata la Biennale della rinascita, la celebrazione della fine della pandemia, e ora è difficile essere così
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ottimisti. Che la Mostra possa aprire oggi è comunque di per sé un fatto straordinario: non tanto il simbolo di una ritrovata normalità, quanto piuttosto il segno di uno sforzo collettivo che ha qualcosa di miracoloso. In questi interminabili mesi passati di fronte allo schermo del computer mi sono chiesta più volte quale fosse la responsabilità di una Biennale in questo momento storico e la risposta più semplice e sincera che sono riuscita a darmi è che la Biennale Arte assomiglia a tutto ciò di cui ci siamo dolorosamente privati: la libertà di incontrarsi con persone da tutto il mondo, la possibilità di viaggiare, la gioia di stare insieme, la pratica della differenza, della traduzione, dell’incomprensione e quella della comunicazione e della condivisione. Il latte dei sogni non è una mostra sulla pandemia, ma registra inevitabilmente le convulsioni dei nostri tempi. In questi momenti, come insegna la storia della Biennale di Venezia, l’arte e gli artisti ci aiutano a immaginare altre forme di coesistenza e nuove, infinite possibilità di trasformazione. Abbiamo iniziato a lavorare insieme a New York all’inizio del 2020, subito dopo la tua nomina. Ricordo che per la prima parte dell’anno avevamo programmato visite e viaggi in diverse parti del mondo. Di lì a poco siamo state costrette a rivedere tutto il calendario, e organizzare studio visit online invece che dal vivo. In che modo pensi che questo cambiamento abbia influito sulla ricerca? Il latte dei sogni è nata da centinaia di conversazioni tenutesi con artiste e artisti dal gennaio 2020 al dicembre 2021, due anni che sono sembrati una vera eternità, non solo per gli stravolgimenti che si sono abbattuti sul mondo intero, ma anche perché tutta la fase di ricerca e studio, che di solito arricchisce il progetto espositivo e porta la curatrice o il curatore a girare il mondo per conoscere le nuove scene artistiche, l’ho passata – a eccezione di un viaggio in Scandinavia nel marzo 2020 e uno a Berlino nel settembre dello stesso anno – seduta alla scrivania in una specie di sgabuzzino nel mio appartamento di New York, sommersa da libri e cataloghi, connessa per ore su Zoom. Gli studio visit online non possono certo sostituire la presenza fisica nello studio di un’artista e tutto il contesto di conoscenze ed esperienze nel quale si sviluppa e cresce la sua opera, ma, d’altra parte, molte delle conversazioni che ho avuto in questi mesi hanno assunto un carattere quasi confessionale, con quel misto perverso di ipercomunicazione e improvviso senso di intimità, degno di un reality show, al quale ci siamo via via abituati nel corso del tempo. Da questa strana prossimità emotiva, amplificata dal clima di incertezza e paura e dai numerosi stravolgimenti che hanno segnato le nostre vite, sono scaturite molte conversazioni di rara profondità esistenziale, nate in uno strano contrasto tra la distanza fisica – rafforzata dalla presenza dello schermo – e la vicinanza improvvisa, di chi non ha tempo da perdere. Trovi che ci fosse un filo conduttore negli scambi che hai avuto con le artiste e gli artisti in quel periodo? Diciamo che sono emerse con insistenza una serie di domande che non solo evocano questo preciso momento storico, in cui la sopravvivenza stessa dell’umanità è minacciata, ma che riassumono molte altre questioni che
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hanno dominato le scienze, le arti e i miti del nostro tempo. Come sta cambiando la definizione di umano? Quali sono le differenze che separano l’animale, il vegetale, l’umano e il non umano? Che responsabilità abbiamo nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo? E come sarebbe la vita senza di noi? Queste sono le domande che hanno plasmato la Mostra: preoccupazioni che da tempo agitavano la fantasia di artisti e filosofi, ma che hanno trovato un nuovo senso di urgenza e diffusione nello stato di emergenza nel quale continuiamo a vivere dal 2020. Quelle che fino a qualche tempo fa ci apparivano come domande astratte si sono caricate di una fisicità quanto mai concreta negli ultimi ventiquattro mesi. Tutto questo per dire che Il latte dei sogni è inevitabilmente figlia di questi tempi, se non altro nelle decisioni più semplici e pratiche, come le scadenze per le spedizioni delle opere d’arte – completamente stravolte dalla crisi dei trasporti internazionali –, o la difficoltà di reperire la carta per il catalogo, conseguenza della crisi della supply chain globale, che investe la completa realizzazione della Biennale Arte. È una Esposizione che nasce in un paesaggio completamente trasformato e ancora in fase di cambiamento: mentre registriamo questa conversazione, ancora non so se l’opera per la prima sala dell’Arsenale arriverà in tempo per l’inaugurazione… Le Biennali del passato hanno spesso rifiutato impostazioni tematiche. Questa Biennale Arte invece riunisce artiste e artisti in un perimetro coerente dal punto di vista tematico. Qual è stato il processo per arrivare alla definizione dei temi sviluppati? Per me è importante sottolineare che i temi sono emersi dagli artisti e dalle opere. Ho cercato di seguire un metodo induttivo piuttosto che imporre una teoria a priori, anche perché mi sembra che molte delle artiste e degli artisti di oggi procedano seguendo un simile approccio, che è più locale, più “debole” se vogliamo, meno ideologico e più aperto alla differenza, un “sapere situato”, come lo chiamerebbe Donna Haraway1. Per riassumere, si può dire che la Mostra si articola attorno a tre aree tematiche principali: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra. O, come dice in modo sintetico Rosi Braidotti, i cui scritti sul postumano sono stati fondamentali nelle mie ricerche, la fine della centralità dell’uomo, il divenire-macchina e il divenire-terra. Molte artiste e pensatori contemporanei hanno immaginato una nuova condizione “postumana”, che Rosi Braidotti definisce come “un fenomeno di convergenza tra post-umanesimo e post-antropocentrismo, cioè la critica dell’ideale universale dell’Uomo di ragione da un lato e il rifiuto della supremazia di specie dall’altro”2. All’idea rinascimentale e illuminista dell’Uomo moderno – in particolare del soggetto maschile, bianco ed europeo – come fulcro immobile dell’universo e misura di tutte le cose, contrappongono mondi fatti di nuove alleanze tra specie diverse e abitati da esseri permeabili, ibridi e molteplici. Sotto la pressione di tecnologie sempre più invasive, i confini tra corpi e oggetti sono stati completamente trasformati, imponendo profonde
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mutazioni che ridisegnano nuove forme di soggettività e riconfigurano gerarchie e anatomie. Come sottolinea Judith Butler: “I corpi nascono e cessano di esistere: in quanto organismi fisicamente persistenti, sono soggetti a incursioni e a malattie che ne mettono a repentaglio la possibilità di persistere. Queste sono caratteristiche necessarie dei corpi – non possono ‘essere’ pensati senza la loro finitezza e dipendono da ciò che è ‘fuori di sé’ per essere sostenuti – caratteristiche che riguardano la struttura fenomenologica della vita corporea”3. Oggi il mondo appare drammaticamente diviso tra un ottimismo tecnologico che promette il perfezionamento infinito del corpo umano attraverso la scienza, e lo spettro di una totale presa di controllo da parte delle macchine per mezzo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. Questa frattura è stata ulteriormente acuita dalla pandemia, che ha intrappolato gran parte delle interazioni umane dietro la superficie di schermi e computer e ha intensificato ulteriormente le distanze sociali. In questi mesi la fragilità del corpo umano è diventata tragicamente protagonista, ma allo stesso tempo è stata tenuta a distanza, filtrata dalla tecnologia, disincarnata, resa quasi immateriale. La pressione tecnologica, lo scoppio della pandemia, l’acuirsi di tensioni sociali e la minaccia di incipienti disastri ambientali ci ricordano ogni giorno che, in quanto corpi mortali, non siamo né invincibili né autosufficienti, piuttosto siamo parte di un sistema di dipendenze simbiotiche che ci legano gli uni agli altri, ad altre specie e all’intero pianeta. Molti artisti ritraggono la fine dell’antropocentrismo celebrando una nuova comunione con il non umano, con l’animale, con la Madre Terra e con l’inorganico, esaltando un senso di connettività fra specie e fra soggetti animati e inanimati. Altri reagiscono alla dissoluzione di presunti sistemi universali, riscoprendo forme di conoscenza locali e nuove politiche identitarie. Altri ancora, mescolando saperi indigeni e mitologie individuali, praticano ciò che l’antropologa Silvia Federici descrive come il “re-incantesimo del mondo”, il quale “implica ricollegare ciò che il capitalismo ha diviso: il nostro rapporto con la natura, con gli altri e con i nostri corpi, consentendoci non solo di sfuggire all’attrazione gravitazionale del capitalismo, ma di ritrovare un senso di integrità nelle nostre vite”4. Come sei arrivata a Il latte dei sogni? Perché Leonora Carrington è una figura centrale per questa tua ricerca? Spesso nel mio lavoro di curatrice ho attinto alla letteratura come fonte di ispirazione per scegliere i titoli e descrivere le atmosfere delle mie mostre. Ho sempre fatto fatica a partorire titoli altisonanti come Fare Mondi o All the World’s Futures – anzi, mi ero proprio imposta sin dall’inizio che non ci dovesse essere la parola “mondo” nel mio titolo, un vezzo che mi sembra un po’ troppo maschile, devo dire, da curatori-demiurghi, tutti presi come sono dai loro mondi e palazzi… Preferisco rivolgermi a chi ha più maestria e abilità con le parole, considerato poi che nella letteratura si trova quella combinazione di precisione, individualità e vaghezza che penso sia importante seguire anche per lasciare all’arte e agli artisti la libertà di essere se stessi, senza bisogno di metterli nella posizione di dover illustrare teorie curatoriali astruse.
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Carrington è un’artista fondamentale nella storia dell’arte del Novecento, ma è stata a lungo meno apprezzata dei suoi colleghi uomini. Nella sua biografia, nella sua incredibile avventura esistenziale, c’è l’intera storia del Novecento: la Seconda guerra mondiale, con l’esilio e la fuga, il nazismo, la follia, i manicomi, l’ospedalizzazione, l’elettroshock e il cardiazol… E poi c’è il fatto che le donne surrealiste pagavano le loro scelte rivoluzionarie a caro prezzo – o comunque più dei loro colleghi uomini – e mentre Carrington finiva in manicomio, il bel Max Ernst si rifaceva una vita con Peggy Guggenheim. Nell’opera e nella biografia di Carrington, arte e vita si intrecciano indissolubilmente, aspetto quanto mai attuale, al quale è importante ripensare oggi, in un momento in cui le opere d’arte sono ridotte sempre più spesso a prodotti e in cui molti dei discorsi culturali tendono a condensare definizioni di identità molto rigide. La vita di Leonora Carrington è essa stessa l’incarnazione di radicali politiche di genere vissute sullo sfondo di un intero secolo che pone sull’identità un peso quasi insostenibile, intrappolando la soggettività nelle regole normative della razza, della sessualità, dell’individualità… A tali costrizioni Carrington risponde reinventandosi in una serie infinita di trasformazioni e figure dell’immaginazione: strega, sacerdotessa, divinità visionaria, animale totemico, una metamorfosi continua che finisce con il manicomio prima, l’esilio e la fuga poi. Oltre a essere stata una grande artista, Carrington è stata anche una scrittrice formidabile, autrice di racconti e novelle che mischiano ironia, mistero e una carica sociale dirompente. All’inizio delle mie ricerche ho letto molti scritti d’artista, perché volevo partire dalla loro voce. Di Carrington conoscevo solo i racconti brevi e l’autobiografia romanzata Giù in fondo, la drammatica storia della sua discesa negli inferi degli ospedali psichiatrici nella Spagna del 1939. Quando ho iniziato a lavorare all’Esposizione Internazionale d’Arte ho letto prima Il cornetto acustico, l’esilarante racconto di una comunità di vecchiette che si ribellano al sistema dell’ospizio, e poi sono incappata nel libro di storie per bambini intitolato Il latte dei sogni: una raccolta di fiabe allucinate che Carrington aveva originariamente scritto e illustrato sui muri della camera dei figli a Città del Messico – ancora arte e vita, per giunta nello spazio più privato e tradizionalmente femminile della casa. Sono storie di una straordinaria forza immaginifica, sia nei racconti, sia nei disegni, favole che pare terrorizzassero i più con le avventure di bambini senza teste, avvoltoi in gelatina e macchine carnivore. Come molte delle sue opere, questo libro descrive un mondo libero, senza gerarchie, dove è sempre possibile diventare altro da sé, trasformarsi, cambiare, dove l’umano convive con animali e macchine in una comunione simbiotica a tratti gioiosa e altre volte inquietante. Nelle figure della trasformazione di Carrington ho trovato una sintesi che mi sembrava potesse riassumere le preoccupazioni di molte artiste contemporanee. A chi le chiedeva dove fosse nata, Carrington pare rispondesse dicendo che era il prodotto dell’incontro tra sua madre e una macchina, secondo quella combinazione di organico e artificiale che contraddistingue molte delle sue opere, in una riflessione che sembra essere lo spunto alla base della ricerca della stessa Haraway, che parlando del cyborg dice: “Cyborg e specie compagne riuniscono ciascuno l’umano e il non umano, l’organico e il tecnologico,
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il carbonio e il silicio, la libertà e la struttura, storia e mito, ricchi e poveri, Stato e suddito, diversità e impoverimento, modernità e postmodernità, natura e cultura in modi inaspettati”5. Che cosa ti lega al Surrealismo e quale pensi sia il ruolo di questo movimento oggi? Come per molti, il Surrealismo è stato il movimento che mi ha avvicinato all’arte contemporanea. Inizialmente mi sono appassionata alla letteratura surrealista, poi ho dedicato la mia tesi di laurea in Filosofia a Georges Bataille e a “Documents”, la rivista di Surrealismo dissidente che il filosofo dirigeva a Parigi alla fine degli anni Venti. Nel tempo ho continuato a interessarmi a linguaggi artistici che aprissero – come il Surrealismo – all’irrazionale e all’inconscio e nel 2017 ho curato il Padiglione Italia nell’ambito della 57. Esposizione Internazionale d’Arte, con il titolo Il mondo magico (temo di essere anch’io una demiurga, in un certo senso), un progetto che ha presentato la ricerca di tre artisti italiani – Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey – il cui lavoro proponeva una rinnovata fiducia nel potere trasformativo dell’immaginazione e un interesse nei confronti del magico, temi ancora legati all’universo surrealista. Al di là del mio interesse personale, credo sia molto più stimolante notare come negli ultimi anni la storiografia del Surrealismo – e anche quella del Dadaismo, del Futurismo e della Bauhaus – abbia fatto nuova luce sul ruolo delle donne e della sessualità all’interno dei movimenti d’avanguardia. Basti pensare agli studi fondamentali di Whitney Chadwick prima e a quelli di Dawn Adès, Mirella Bentivoglio, Ruth Hemus, Renee Riese Hubert, Amelia Jones, Maud Lavin, Alyce Mahon, Elizabeth Otto, Lucia Re, Claudia Salaris, Naomi Sawelson-Gorse, Marina Warner, per citare solo alcune delle autrici che hanno ispirato la mia ricerca e alle quali bisogna riconoscere un grandissimo debito, o ricordare le recenti mostre Fantastic Women al Louisiana Museum of Modern Art o Surrealismo e magia. La modernità incantata alla Collezione Peggy Guggenheim (in concomitanza con la Biennale Arte 2022), e le numerose retrospettive dedicate a figure femminili del movimento come Meret Oppenheim e Toyen, per citare solo alcune delle più recenti. Negli ultimi anni sono emersi anche importanti contributi focalizzati in particolare sul carattere internazionale del Surrealismo e sulle sue posizioni rispetto al colonialismo e alle culture non europee – argomenti esplorati in mostre come Art et liberté al Centre Pompidou di Parigi e al Museo Reina Sofía di Madrid, o Surrealism Beyond Borders al Metropolitan Museum di New York e alla Tate Modern di Londra. L’autrice caraibica Suzanne Césaire, parlando del Surrealismo, lo descriveva così: “Un dominio dello straordinario, del meraviglioso e del fantastico… ecco il poeta, il pittore e l’artista, a presiedere le metamorfosi e l’inversione del mondo, sotto il segno delle allucinazioni e della follia”6, una descrizione che si estende fino ai nostri giorni e continua a ispirare molte artiste di oggi. Il fulcro de Il latte dei sogni al Padiglione Centrale è una presentazione di varie artiste attive negli anni Trenta vicine alle atmosfere del Surrealismo, tra cui Eileen Agar, Claude Cahun, Leonor Fini, Ithell Colquhoun, Carol Rama, Dorothea Tanning e Remedios Varo. È la prima delle capsule tematiche che punteggiano l’Esposizione. Dalle opere raccolte in questa presentazione
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emerge l’idea che i corpi e le identità possano essere reinventati per seguire nuove anatomie del desiderio, un approccio che guida molte artiste di oggi. La politicizzazione dell’identità e della sessualità esibita in queste opere è quanto mai attuale, mentre l’idea di una comunione tra il sé e l’universo anticipa discussioni più recenti su ecologia e femminismo, così come l’importanza di saperi locali e indigeni. Le combinazioni di umano, animale e meccanico che informano l’opera di Carrington, Varo o Jane Graverol trovano più di un corrispettivo nelle opere di molte artiste contemporanee esposte nelle sale del Padiglione Centrale: corpi postumani, ibridi e disubbidienti sono messi in scena da Sara Enrico, Aneta Grzeszykowska, Birgit Jürgenssen, Ovartaci, Julia Phillips, Christina Quarles, Shuvinai Ashoona e Andra Ursuţa, che immaginano nuove combinazioni di organico e artificiale, concepite sia come possibilità di reinvenzione del sé sia come premonizioni di un futuro sempre più disumanizzato. Allo stesso modo non possono sfuggire certe inquietanti simmetrie tra i primi decenni del secolo scorso e quelli di questo millennio, tra accelerazioni tecnologiche, pandemie, crisi sociali e nuovi autoritarismi. Citavi poco fa la “comunione tra il sé e l’universo”, di matrice surrealista, come fondamentale per le riflessioni sull’ecologia nell’arte contemporanea. Molte artiste e artisti esposti si concentrano sulla relazione tra corpi e natura oggi, con risultati diversi e a volte sorprendenti… Molte opere selezionate esaminano nuovi e complessi rapporti con la Terra e la natura, ipotizzando inedite possibilità di convivenza con altre specie e con l’ambiente. Il lavoro di Eglė Budvytytė descrive un gruppo di giovani perso nelle foreste della Lituania, mentre i personaggi nel nuovo video di Zheng Bo vivono in una comunione totale – e sessuale – con la natura. Un simile senso di incanto meraviglioso ritorna nelle vedute innevate ricamate dall’artista Sami Britta Marakatt-Labba. La riscoperta di tradizioni millenarie si sovrappone a nuove forme di attivismo ecologista anche nelle opere di Sheroanawe Hakihiiwe e nelle composizioni oniriche di Jaider Esbell. I quadri e gli assemblage di Paula Rego inventano nuove simbiosi tra animali ed esseri umani, mentre Merikokeb Berhanu, Simone Fattal e Alexandra Pirici intessono narrazioni nelle quali preoccupazioni ambientaliste e antiche divinità ctonie si combinano per creare nuove mitologie. All’Arsenale la Mostra si apre con una presentazione dell’opera dell’artista Belkis Ayón che, influenzata da tradizioni afrocubane, ha descritto un’immaginaria comunità matriarcale in una serie di intricate opere in bianco e nero. La riscoperta della dimensione mitopoietica dell’arte è apparente anche nelle grandi tele di Ficre Ghebreyesus e nelle visioni allucinate di Portia Zvavahera, nonché nelle composizioni allegoriche di Frantz Zéphirin e di Thao Nguyen Phan, che nelle loro opere intrecciano storia, sogno e religione. Attingendo a saperi indigeni e sovvertendo stereotipi coloniali, l’artista argentino Gabriel Chaile presenta una nuova serie di sculture monumentali in argilla cruda che si ergono come idoli di una civiltà mesoamericana fantastica. Parlando di Carrington e Surrealismo hai citato la prima “capsula” al Padiglione Centrale, mi racconti meglio com’è nata l’idea delle capsule e dove ti ha portato?
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Oltre a numerosi lavori realizzati negli ultimi anni e a nuove produzioni concepite appositamente per l’Esposizione, Il latte dei sogni include anche molte opere storiche e manufatti realizzati nel corso del Novecento. Distribuite lungo il percorso espositivo al Padiglione Centrale e alle Corderie, cinque piccole mostre tematiche a carattere storico costituiscono una serie di costellazioni nelle quali opere d’arte, oggetti trovati, manufatti e documenti sono raccolti per affrontare alcuni dei temi fondamentali di questa edizione. Concepite come delle capsule del tempo, forniscono strumenti di approfondimento e introspezione, intessendo rimandi e corrispondenze tra opere storiche – con importanti prestiti museali e inclusioni inusuali – e le esperienze di artiste e artisti contemporanei esposte negli spazi limitrofi. Le capsule tematiche arricchiscono la Biennale Arte con un approccio trans-storico e trasversale che traccia somiglianze ed eredità tra metodologie e pratiche artistiche simili, anche a distanza di generazioni, creando nuove stratificazioni di senso e cortocircuiti tra presente e passato: una storiografia che procede non per filiazioni e conflitti ma per rapporti simbiotici, simpatie e sorellanze. Attraverso una precisa coreografia architettonica sviluppata in collaborazione con i designer Formafantasma, queste sezioni instaurano anche una riflessione sulle modalità con cui la storia dell’arte è costruita attraverso dispositivi museali che stabiliscono gerarchie di gusto e meccanismi di inclusione ed esclusione. Queste presentazioni partecipano così a quel complesso processo di riscrittura della storia che ha segnato profondamente gli ultimi anni, nei quali è apparso quanto mai evidente che nessuna narrazione può essere considerata definitiva. Le capsule tematiche raccontano pertanto storie che possono apparire a prima vista minori o meno note, ma che hanno anticipato in maniera profonda gli eventi degli ultimi decenni e che possono servire da interessanti modelli per il presente. Le Biennali degli ultimi anni si sono spesso concentrate sul restituire una fotografia del presente. Tu hai deciso di mettere insieme passato e presente, accostando opere di epoche molto diverse. Quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a questa prospettiva trasversale? Il latte dei sogni è come detto un’esposizione trans-storica, che re-interpreta il passato alla luce della contemporaneità. Bisogna dire che è un’idea piuttosto recente e quanto mai parziale che la Biennale Arte debba essere tutta appiattita sul presente. Nei suoi oltre cent’anni di attività, in tantissime edizioni l’Esposizione Internazionale d’Arte ha svolto un importante ruolo di revisione della storia dell’arte e rivalutazione del passato: basti pensare, tra tutte, all’edizione del 1948, che segue gli anni del fascismo. Proprio perché si rinnova a ogni edizione, la Biennale è uno strumento ideale per affrontare il passato sotto nuova luce. Non è appesantita da bagagli istituzionali ingombranti, come i musei con le loro collezioni, e più ancora di documenta o di altre biennali e mostre periodiche, la Biennale Arte esiste in una traiettoria di continuità con il passato. Per ogni stanza del Padiglione Centrale è possibile elencare con precisione chi ha esposto in quegli spazi, da Gustav Klimt nel 1899 o Vasilij Kandinskij nel 1905 o Alberto Giacometti nel 1964, per citare a caso: insomma, la presenza
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del passato è sempre molto forte. I corridoi e le gallerie di questi spazi espositivi sono sempre abitati dalle presenze – ma anche dalle assenze e dalle esclusioni – delle edizioni passate. La storia è sempre riscritta dalla prospettiva del presente e ogni nuova generazione artistica cerca i propri antecedenti rivisitando e reinventando il passato. Ho pensato a questa edizione come a un palinsesto che ci ricorda che non esiste mai una storia oggettiva e che ogni narrazione si sviluppa da un particolare punto di vista. Le capsule tematiche che attraversano Il latte dei sogni si soffermano su vari momenti dell’arte del Novecento e, in alcuni casi, sulla storia stessa della Biennale Arte, per raccontare pratiche artistiche e voci purtroppo non ancora assimilate nei canoni ufficiali. L’Esposizione così è attraversata dalla presenza quasi fantasmatica del passato. A proposito di storie non ancora assimilate dal canone, hai deciso di dare grande spazio ad artiste donne e artiste e artisti gender nonconforming, una scelta che, personalmente, spero sia uno spartiacque. Perché è importante oggi? Per la prima volta nei centoventisette anni di storia dell’istituzione veneziana, la Mostra Internazionale include una maggioranza preponderante di artiste donne e persone non binarie, una scelta che non solo riflette un panorama internazionale di grande fermento creativo, ma anche un deliberato ridimensionamento della centralità del ruolo maschile nella storia dell’arte e della cultura contemporanee. Si tratta di una posizione che mi sta a cuore personalmente e che ha formato molto del mio lavoro curatoriale negli anni passati. Ovviamente fare una mostra con tante donne non significa certo risolvere questi problemi in maniera definitiva, ma può avere una funzione correttiva – o anche solo un importante valore simbolico – in particolare nel contesto di un’istituzione che, nata nel 1895 e giunta alla sua cinquantanovesima manifestazione, solo nella precedente edizione a cura di Ralph Rugoff ha dato lo stesso spazio ad artisti e artiste. Dalla sua fondazione alla fine del secolo scorso, la media della partecipazione femminile alla Biennale non ha raggiunto il 10 per cento. Negli ultimi vent’anni è salita al 30 per cento, dato che non solo non riflette le ripartizioni demografiche in Italia o nel mondo, ma che ignora completamente il fondamentale contributo di centinaia di artiste contemporanee. Ci sono stati precedenti nella storia della Biennale che ti hanno ispirato in questa riflessione? Una delle capsule tematiche è ispirata alla mostra Materializzazione del linguaggio, curata dall’artista Mirella Bentivoglio per la Biennale Arte 1978. Invitata dall’allora Presidente Carlo Ripa di Meana per contrastare la stragrande maggioranza maschile in tutte le manifestazioni organizzate dalla Biennale di Venezia di quell’anno, Bentivoglio cura ai Magazzini del sale una rassegna di Poesia Visiva e Concreta di sole artiste donne, che qualcuno non esita a definire “the pink ghetto”. Bentivoglio è molto pragmatica a riguardo: il campo della Poesia Visiva e Concreta, nato negli anni Cinquanta e sbocciato con preponderanza negli anni Sessanta e Settanta, era dominato ufficialmente solo da voci maschili, mentre le colleghe donne, per quanto attivissime, non venivano invitate alle grandi manifestazioni.
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All’inizio degli anni Settanta, la percentuale di donne selezionate nelle grandi rassegne antologiche di Poesia Concreta, come la celebre Sound Texts, Concrete Poetry, Visual Texts allo Stedelijk di Amsterdam nel 1971, era del 2 per cento. Dopo il lavoro fatto da Bentivoglio con questa e molte altre mostre, il tasso sarebbe salito al 20 per cento. Come dice la stessa Bentivoglio: “Dunque ciò che prima mancava non era la qualità, bensì soltanto l’informazione” 7. Ahimè, la situazione non è cambiata molto da quegli anni: basta scorrere le riviste di settore, con pubblicità di mostre di soli uomini, gallerie che rappresentano solo il 10 per cento di artiste donne e intere programmazioni museali completamente al maschile. Penso sia parte della nostra responsabilità di professioniste e di cittadine evidenziare questi comportamenti ed elaborare una pratica di revisione e riparazione. Ho voluto perciò rendere omaggio a Materializzazione del linguaggio in una delle capsule al Padiglione Centrale. Qui la scrittura visiva e le poesie concrete di Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Ilse Garnier, Giovanna Sandri e Mary Ellen Solt sono messe in dialogo con gli esperimenti di automatismo e scrittura medianica di figure come Eusapia Palladino, Georgiana Houghton e Josefa Tolrà, e altre forme di quella che una volta si chiamava écriture féminine, spaziando dagli arazzi di Gisèle Prassinos alle micrografie di Unica Zürn. Segni e linguaggi affiorano anche in altre sezioni, in particolare nelle opere di diverse artiste contemporanee quali Bronwyn Katz, Sable Elyse Smith, Amy Sillman e Charline von Heyl, mentre i quadri tipografici di Jacqueline Humphries dialogano con i grafemi di Carla Accardi e con il linguaggio-macchina che definisce le opere di Charlotte Johannesson, Vera Molnár e Rosemarie Trockel. Tante volte in questi mesi abbiamo cercato di immaginarci come sarebbe stata letta questa scelta, specialmente in Italia. Pensi che la Mostra sarà etichettata come “politicamente corretta”? Non mi interessa molto come la si voglia definire. Ci sarà anche chi la descriverà come “la Biennale delle donne”, mentre nessuno pare si sia mai sognato di descrivere cento anni di mostre con il 90 per cento di partecipazioni maschili come “la Biennale degli uomini”. Evidentemente soltanto all’uomo è concesso il lusso di passare sempre per l’universale: grazie al cielo, molte delle artiste ne Il latte dei sogni non sembrano condividere questa visione del mondo. Ti faccio una domanda che ti ho fatto altre volte: diresti che è una mostra femminista? Sono sempre un po’ esitante a usare l’etichetta “femminismo” per una mostra, soprattutto per un’esposizione così vasta come la Biennale Arte, perché ormai il termine “femminismo” vuol dire tante cose diverse e assume valenze e significati differenti a seconda delle nazionalità e dei contesti culturali. Sono sicuramente esposte molte pratiche che si dichiarano esplicitamente femministe, come nelle opere di Barbara Kruger, Birgit Jürgenssen, Simone Leigh, Rosana Paulino, Niki de Saint Phalle o Sandra Vásquez de la Horra. Ma ci sono anche artiste e artisti che probabilmente rifiuterebbero questa etichetta. Invece di pensare all’Esposizione come espressione di una
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posizione femminista unitaria, mi piace interpretarla come un contenitore di voci e visioni che convergono in molti punti, senza mai finire assoggettate a un’unica etichetta. Ad esempio, ci sono artiste le cui opere potrebbero essere definite “ecofemministe”: penso a Delcy Morelos, Mrinalini Mukherjee, Solange Pessoa, Pinaree Sanpitak e Cecilia Vicuña, che condividono anche riferimenti a miti antichi e immagini archetipiche. Ma ci sono anche artiste come Teresa Solar e Marguerite Humeau che, pur interessate all’ecologia, affrontano il loro lavoro da una prospettiva più futurista, e non credo descriverebbero la loro poetica come femminista. E poi ci sono anche artiste stanche di dover sempre essere contrapposte ai colleghi maschi, e che rifiutano l’etichetta di artiste “donne” in generale, immaginando altre forme di soggettività radicale. Riassumendo, per tornare alla domanda iniziale, se per femminismo intendiamo un approccio al mondo che sottolinea la relazione e l’interdipendenza, allora sì, è una mostra femminista. E poi, di nuovo, per simmetria, non dovremmo chiederci se le edizioni precedenti fossero “maschiliste”? Forse, allora, sarebbe più corretto dire che questa Esposizione testimonia i diversi femminismi, rispettandone le complessità e le differenti definizioni. Credo che la Mostra sia soprattutto spinta da un senso di curiosità e dal desiderio di preservare una complessità ricca di molteplici punti di vista. Un’altra capsula storica è ispirata agli scritti dell’autrice di fantascienza Ursula K. Le Guin e alla sua teoria della narrazione, che identifica la nascita della civiltà non nell’invenzione delle armi ma negli oggetti utili alla raccolta, al sostentamento e alla cura: borse, sacche e contenitori. In questa presentazione, i carapaci ovoidali dell’artista surrealista Bridget Tichenor sono accostati alle delicate ceramiche di Mária Bartuszová, alle sculture sospese di Ruth Asawa e alle creature ibride di Tecla Tofano. Queste opere storiche convivono accanto ai vasi antropomorfi di Magdalene Odundo e ai quadri di fisionomie ibride di Felipe Baeza, mentre la videoartista Saodat Ismailova racconta di celle di isolamento sotterranee che fungono da luoghi di fuga e spazi di meditazione. Questa costellazione di opere si interroga anche su quello che una volta si chiamava il “central core imagery”, ovvero se ci sia o meno un’iconografia femminile o femminista e su come utilizzare la rappresentazione del corpo a fini politici. Non sono solo le donne a occuparsi di corpi e politica… Molti altri artisti combinano posizioni politiche e ricerca sociale con progetti che rivisitano le tradizioni locali, come nel video di Ali Cherri sulle dighe costruite sul Nilo. Igshaan Adams infonde nell’astrazione delle sue composizioni in tessuto significati che spaziano da una riflessione sull’apartheid alla condizione di genere in Sudafrica, mentre, attraverso una pratica meditativa di disegni minuziosi e quotidiani, Ibrahim El-Salahi racconta la sua esperienza con la malattia e la farmacologia. A proposito di malattia e farmacologia, il rapporto tra corpo e biotecnologia è un tema che ritorna, declinato in modi molto diversi. Mi racconti come le ultime due capsule affrontano questi temi?
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I rapporti che legano esseri umani e macchine sono al centro di molte delle opere; ad esempio, negli esperimenti di Agnes Denes, Lillian Schwartz e Ulla Wiggen o nelle superfici-schermo di Dadamaino, Laura Grisi e Grazia Varisco, le cui opere sono raccolte in un’altra capsula dedicata all’Arte Programmata e all’Astrazione Cinetica degli anni Sessanta. Queste e molte altre artiste presentano un’immagine della tecnologia come “incarnata”, fatta corpo. La relazione polarizzata e polarizzante tra individui e tecnologia mi ricorda le parole di Paul B. Preciado: “Nella società contemporanea, la produzione tecnopolitica del corpo sembra dominata da una serie di nuove tecnologie del corpo (biotecnologie, chirurgia, endocrinologia, ingegneria genetica…) e di rappresentazione (fotografia, cinema, televisione, Internet, videogiochi…) che si infiltrano e penetrano la vita quotidiana come mai prima d’ora”8. La sezione finale all’Arsenale è introdotta dalla quinta – e ultima – capsula storica, dedicata alla figura del cyborg. Questa presentazione riunisce artiste che nel corso del Novecento hanno disegnato nuove combinazioni tra l’umano e l’artificiale, creando avatar di un futuro postumano e postgender. Questa capsula include opere d’arte, artefatti e documenti di artiste di inizio Novecento tra cui la dadaista baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven, le fotografe Bauhaus Marianne Brandt e Karla Grosch e le futuriste Alexandra Exter, Giannina Censi e Regina. Le sculture delicate di Anu Põder rappresentano corpi frammentati che contrastano con i monoliti di Louise Nevelson, le figure totemiche di Liliane Lijn, le macchine di Rebecca Horn e i robot dipinti dall’austriaca Kiki Kogelnik. Dopo l’avvento delle macchine, si respira un’atmosfera diversa, che sembra estendere alcune delle atmosfere del Padiglione Centrale. Sì, da questa capsula si entra nella grande installazione diafana di Kapwani Kiwanga e la Mostra prosegue su tonalità fredde e sintetiche, nelle quali la presenza umana appare come sempre più evanescente, sostituita da animali e creature ibride e robotiche. Se Raphaela Vogel descrive un mondo in cui gli animali prendono il sopravvento sull’uomo, le sculture di Jes Fan usano materiali organici per creare nuove colture batteriologiche. Scenari apocalittici di cellule impazzite e incubi nucleari affiorano anche nei disegni di Tatsuo Ikeda e nelle installazioni di Mire Lee, animate dai movimenti concitati di una macchina che ricorda il sistema digestivo di un animale. Il nuovo video della pioniera del postumano Lynn Hershman Leeson celebra la nascita di organismi artificiali, mentre la coreana Geumhyung Jeong gioca con corpi ormai completamente robotici assemblabili a piacere. Altre opere oscillano tra tecnologie obsolete e nuovi miraggi futuri. Le fabbriche abbandonate e i macchinari fatiscenti di Zhenya Machneva trovano nuova vita nelle installazioni di Monira Al Qadiri e Dora Budor, che vibrano e roteano come macchine celibi. A chiudere questa infilata di meccanismi impazziti, una grande installazione di Barbara Kruger, concepita appositamente per gli spazi delle Corderie, combina slogan, poesia e linguaggi-oggetto in un crescendo di ipercomunicazione al quale fanno da contrasto le sculture silenziose di Robert Grosvenor, che evocano un mondo senza presenze umane. Al di là di questo universo immobile cresce il grande giardino entropico di Precious Okoyomon, brulicante di nuova vita, con il quale si conclude il percorso negli spazi delle Artiglierie.
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Il progetto del catalogo è andato di pari passo con la costruzione della Mostra e in qualche modo l’ha nutrita. Mi racconti com’è nato? Amo moltissimo la carta stampata: la mia casa è così piena di libri che in alcuni periodi si fa fatica a camminare da una stanza all’altra. Dal momento in cui ho saputo che la Biennale Arte sarebbe stata posticipata, ho deciso di usare il tempo in più per fare un libro che potesse arricchire l’esperienza dell’Esposizione e catturare il contesto eccezionale in cui era nata, considerando anche l’eventualità che non si riuscisse a visitarla di persona per via della pandemia. Il fatto che l’apertura fosse rinviata di un anno ha reso possibile commissionare testi originali, stimolare conversazioni e ricercare saggi critici che catturassero molte delle riflessioni sollevate, ampliando la prospettiva e contestualizzando la Mostra in conversazioni più vaste. In questo volume, Rosi Braidotti introduce la svolta femminista postumana, Silvia Federici e Silvia Rivera Cusicanqui dialogano attorno all’idea del “re-incanto”, Marina Warner presenta sette storie di metamorfosi e testimonianze ispirate dalla pandemia. Scrivendo sull’“altro” dall’umano, Mel Y. Chen, Jack Halberstam e Igiaba Scego riflettono su forme di pensiero non antropocentrico all’interno delle relazioni tra specie. Yuk Hui e Achille Mbembe ci invitano a ripensare il nostro rapporto con le tecnologie e con la Terra, mentre Chiara Valerio costruisce un personale glossario di termini ispirati dalla pandemia. A Mostra conclusa, il catalogo sarà lo strumento d’elezione con cui ricordare, interpretare e forse esorcizzare due anni passati davanti al computer. Per me era molto importante che il libro fosse un oggetto, fatto di inchiostro, immagini e pensieri fissati su carta. Che testimonianza vorresti lasciare con la Mostra? Se gli eventi degli ultimi mesi hanno dato forma a un mondo lacerato e diviso, Il latte dei sogni prova a immaginare altre forme di coesistenza. Per questo, a dispetto del clima in cui è nata, Il latte dei sogni è una mostra ottimista, che celebra l’arte e la sua capacità di creare cosmologie alternative e nuove condizioni di esistenza. Con le parole di Rosi Braidotti, potremmo dire che: “Viviamo in processi permanenti: processi di transizione, ibridazione e nomadizzazione, e questi stati e fasi intermedi sfidano le modalità stabilite di rappresentazione teorica”9. L’Esposizione guarda agli artisti non come coloro che ci rivelano chi siamo, ma come coloro che sanno assorbire le inquietudini e le preoccupazioni di questi tempi per mostrarci chi e che cosa possiamo diventare. Una delle edizioni della Biennale Arte cui ripenso più spesso è quella del 1948, che in molti considerano la Biennale della rinascita dopo gli anni oscuri del Ventennio fascista: una Biennale che da un lato introduce nuove tendenze e linguaggi artistici contemporanei, e dall’altro si volta indietro a “riabilitare” tutti quei movimenti e forme d’arte che erano stati censurati o dimenticati negli anni precedenti. La mia copia del catalogo della 24. Esposizione Internazionale d’Arte del 1948 l’ho acquistata online qualche anno fa. Era appartenuta a una ragazza di nome Lucia, che firma in corsivo la prima pagina e lascia l’indirizzo del suo soggiorno a Venezia, presso la “Foresteria studenti, Scuola Giustina Renier Michiel 1884”, non lontana dalle Gallerie dell’Accademia. Era andata
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da sola o con un’amica? Quanti giorni si era fermata? Aveva segnato l’indirizzo sul volume per paura di perderlo ai Giardini? Sulle pagine del catalogo Lucia ha lasciato i suoi commenti. La Sala 31 le sembra “spaventosa”, mentre quella dedicata a Marino Marini addirittura “arresta la digestione”. Paul Klee le appare “morbosamente strano”, mentre di Scipione apprezza le “sinfonie di bruni”. Poco più in là si appassiona alle opere di Carlo Corsi, che glorifica con l’appellativo di “Mondiale!”, per i suoi quadri fatti con “buste usate e biglietti di tramvie”. Della Sala personale di Pablo Picasso – diventata leggendaria – dice solo che le “sembra una nave da guerra”. I commenti più fitti sono quelli scribacchiati sulle pagine dedicate alle opere degli impressionisti, esposte a centinaia nelle stanze del padiglione della Germania, lasciato disabitato dalla guerra e dal nazismo. Monet le pare “caldo e vivo”. Manet è “morbido e vivido”. Di van Gogh cita “l’intensità” e il senso di “infinito”. E poi le piacciono Marc Chagall e Georges Braque al padiglione della Francia e Henry Moore e William Turner al padiglione della Gran Bretagna. Al padiglione degli Stati Uniti dà una stella a Georgia O’Keeffe e poi corre di là dal ponte per ammirare la personale di Oskar Kokoschka, di cui apprezza “il movimento e la vita”. Stranamente non lascia alcun commento sulle pagine dedicate alla collezione di Peggy Guggenheim, che quell’anno espone al padiglione della Grecia, presentando i suoi Duchamp, Picabia, Max Ernst, Pollock e Rothko e celebrando in laguna il trionfo dell’astrazione e dell’arte americana.
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Cfr. Donna Haraway, Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective, in “Feminist Studies”, 14(3), autunno 1988, 575–599. Rosi Braidotti, Preface: The Posthuman as Exuberant Excess, in Francesca Ferrando, Philosophical Posthumanism, London, Bloomsbury Academic, 2019, XI. Judith Butler, Frames of War: When Is Life Grievable?, London, Verso, 2009, 30. Silvia Federici, Re-Enchanting the World: Feminism and the Politics of the Commons, Oakland (CA), PM Press, 2018 (tr. it. Re-incantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, a cura di Anna Curcio, Verona, Ombre Corte, 2021). Donna Haraway, The Companion Species Manifesto: Dogs, People, and Significant Otherness, Chicago, Prickly Paradigm Press, 2003, 4 (tr. it. Compagni di specie. Affinità e diversità tra esseri umani e cani, Milano, Sansoni, 2003). Suzanne Césaire, The Domain of the Marvellous, in “View”, 1, 1941; il testo si trova anche in Surrealist Painters and Poets: An Anthology, a cura di Mary Ann Caws, Cambridge (MA), The MIT Press, 2002, 157. Mirella Bentivoglio, I segni del femminile, in Poesia visiva. La donazione di Mirella Bentivoglio al Mart, catalogo della mostra (Rovereto, 19 novembre 2011 – 22 gennaio 2012), a cura di Daniela Ferrari, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2011, 18. Paul B. Preciado, Testo Junkie: Sex, Drugs, and Biopolitics in the Pharmacopornographic Era, New York, The Feminist Press at the City University of New York, 2013, 77 (tr. it. Testo tossico. Sesso, droghe e biopolitiche nell’era farmacopornografica, Roma, Fandango, 2015). Rosi Braidotti, Metamorphoses: Towards a Materialist Theory of Becoming, Malden (MA), Polity Press, 2002, 1.
Nell’introduzione del Presidente Giovanni Ponti si leggono parole che sembrano perfettamente attuali: “L’umanità ancora stordita dalle angosce e dai tormenti patiti, accolga l’invito che le viene da questo convegno di artisti di ogni parte del mondo: e si avveri il nostro auspicio che […] il mondo possa convenire da ogni parte nell’oasi verde della nostra isola dell’arte e dei sogni”. Il segretario generale Rodolfo Pallucchini, invece, insiste sull’importanza che la Biennale fornisca un contesto storico, nel quale si possa apprezzare ancor meglio la novità delle proposte più radicali degli artisti contemporanei. Il critico Giuseppe Marchiori, introducendo il gruppo del Fronte Nuovo delle Arti, sottolinea che, dopo la pausa della guerra, gli artisti e il pubblico sono mossi dalla “ricerca di nuovi rapporti tra gli uomini”. Qualche pagina più in là, Lucia lascia due appunti curiosi. “La carne maledetta”, recita uno, mentre l’altro è quanto mai chiaro e spietato: “Dove sono le donne?”.
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RINGRAZIAMENTI
Cecilia Alemani
Vorrei innanzitutto ringraziare le artiste e gli artisti ne Il latte dei sogni: le loro voci creative e il loro infinito entusiasmo sono per me fonte di costante meraviglia. Desidero ringraziare il Presidente della Biennale di Venezia Roberto Cicutto, che in questi tempi senza precedenti ha supportato con entusiasmo e incoraggiamento la mia visione per la Mostra Il latte dei sogni. Vorrei inoltre ringraziare il Presidente Paolo Baratta, che mi ha nominato nel gennaio 2020: gli sono debitrice per avermi affidato un compito tanto prestigioso e per avermi offerto molti impagabili suggerimenti. La Biennale di Venezia ha compiuto i suoi primi centoventisette anni: il suo successo e il ruolo esemplare che detiene nel campo delle arti contemporanee globali sono dovuti al suo eccelso team. Sono grata all’intero team della Biennale di Venezia per la competenza, la professionalità e per aver lavorato con me in grande sinergia. Sarò per sempre in debito con il mio piccolo ma eccellente team curatoriale, e soprattutto con l’Organizzatrice Artistica Marta Papini, assieme alla quale ho già organizzato il Padiglione Italia alla 57. Esposizione Internazionale d’Arte. In questi due lunghi anni trascorsi insieme, principalmente su Zoom, collegandoci dai luoghi più privati delle nostre vite e delle nostre case, abbiamo lavorato come partner, colleghe e amiche, sempre motivate dal rispetto e dall’ammirazione reciproci. La sua competenza curatoriale, professionalità e senso dell’ironia mi hanno sostenuto in questo lungo viaggio e hanno enormemente contributo a questa Mostra. Non vedo l’ora di seguire la sua brillante carriera curatoriale negli anni a venire. Sono anche grata a Manuela Hansen, Assistente della Curatrice e Managing Editor, che ha seguito il ricco contenuto di questo volume, ha gestito i contributi testuali e visivi di tutti i duecentotredici artisti in mostra e ha commissionato nuovi saggi critici. Non è stato un compito da poco, e ha tutta la mia ammirazione per le sue incredibili capacità organizzative, per il suo rigore accademico e, soprattutto, per il suo perenne sorriso. Questa Mostra è il risultato di un’approfondita ricerca storico-culturale: voglio ringraziare Stefano Mudu per aver portato alla mia attenzione molti artisti trascurati, oggetti unici e storie di individui eccezionali: queste scoperte sono il risultato della sua vivace curiosità intellettuale. Grazie mille anche a Liv Cuniberti, Lara Facco, Paul Heckler, Melissa Parsoff e Ian Wallace per avermi aiutato in questi lunghi mesi di lavorazione.
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Andrea Trimarchi e Simone Farresin di Formafantasma, insieme a Gabriele Milanese e Ibrahim Kombarji sono stati preziosi collaboratori e partner creativi per l’allestimento della Mostra. Emma Thomas e Kirsty Carter di A Practice for Everyday Life, insieme al loro talentuoso team, composto da Olivia Diaz, Daniel Griffiths ed Eugenia Luchetta, hanno progettato un libro meraviglioso e una straordinaria immagine grafica. Un ringraziamento speciale alle artiste e agli artisti che hanno prestato i loro splendidi occhi all’immagine grafica: Belkis Ayón, Felipe Baeza, Tatsuo Ikeda e Cecilia Vicuña. Desidero ringraziare Leonora Carrington e le sue creature fantastiche per avermi accompagnato in questo viaggio. Un ringraziamento personale a Gabriel Weisz Carrington, Patricia Argomedo, Daniel Weisz, alla Fundación Leonora Carrington e a Paul De Angelis per il loro sostegno ed entusiasmo sin dall’inizio. Sono grata a Teresa Arcq per la sua competenza in merito a Leonora Carrington e a molte altre artiste surrealiste, e a Wendi Norris e Melanie Cameron per aver contribuito a individuare così tante opere d’arte inestimabili. La mia gratitudine va anche ai tanti amici che mi hanno accompagnato in questa lunga avventura, offrendomi guida, amore e conforto: Massimiliano Gioni, per avermi esortato a non mollare mai, e anche Giacomo Alemani Gioni, che, pur alla tenera età di sei anni, dice sempre ai suoi amici quanto sia orgoglioso che la sua mamma stia curando la “Bignale” di Venezia. Vera Alemani, non solo per averci aiutato a localizzare alcune di queste opere, quasi irreperibili, ma anche per essermi sempre stata di supporto. E ancora: Fabrizio Alemani e Mariateresa Marietti, Paololuca Barbieri, Francesco Bonami, Carlo Bronzini Vender e Tanya Traykovski, Valentina Castellani e Gianluca Violante, Maurizio Cattelan, Giacomo Donati, Nuccia e Giovanni Gioni, Noah Horowitz e Louise Sørensen, Dakis e Lietta Joannou, Valentina Mazza, Jenny Moore, Tony ed Elham Salamé, Nick Simunovic, Simone Subal, Ali Subotnick, András Szántó. Voglio ringraziare la High Line, e in particolare Robert Hammond, Joshua David, Mauricio Garcia, Tara Morris e Gail Beltrone per aver creduto in me e per avermi concesso la libertà di intraprendere questo progetto. Sono estremamente grata a Don Mullen, così come a Shelley e Phil Aarons, Tom Hill, Catie Marron, Mario Palumbo, Sue Viniar e all’intero Board of Directors di Friends of the High Line per essere sempre stati i miei più grandi sostenitori. Un grande ringraziamento al mio eccezionale team, Jordan Benke, Janelle Grace, Melanie Kress e Constanza Valenzuela, da cui ogni giorno imparo qualcosa di nuovo. La mia più profonda gratitudine va a tutte le persone che hanno creduto nella mia visione e nelle artiste e negli artisti, e che ci hanno aiutato a rendere possibili molti di questi progetti. Vorrei ringraziare la Teiger Foundation e il suo Board of Trustees con Gary Garrels, Kati Lovaas, John Silberman e Joel Wachs, oltre a Larissa Harris e Andrea Escobedo, e soprattutto David Teiger, che ricordo ancora con gioia e affetto a Venezia, seduto a un tavolo del ristorante Il Nuovo Galeon in via Garibaldi, sempre così incredibilmente curioso di conoscere nuovi artisti.
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Un enorme grazie a Pietro Beccari, Olivier Bialobos e alla famiglia Dior per aver sostenuto questo progetto e un sentito ringraziamento a Maria Grazia Chiuri, il cui amore per le artiste donne è stato grande fonte di ispirazione. Sono grata a Darren Walker e alla Ford Foundation, che mi hanno aiutato a portare a Venezia tanti progetti dal Sud del mondo. Un ringraziamento speciale a Jemma Read, Kate Levin e Anita Contini di Bloomberg Philanthropies per aver reso la Mostra più accessibile attraverso Bloomberg Connects. Rachel Rees, Audrey Teichmann e Denis Pernet di Audemars Piguet Contemporary sono stati partner e collaboratori in una delle opere d’arte più complesse della Mostra. Grazie per averlo reso possibile. Un sentito ringraziamento a Marc Payot e Ivan Wirth, nonché a Tamar Nahmias e Joelle Griesmaier di Hauser & Wirth per aver portato Brick House di Simone Leigh a Venezia. C’è un gruppo di donne visionarie che sono state incredibilmente generose con il loro sostegno e il loro tempo, e vorrei ringraziarle tutte: Beatrice Bulgari, Charlotte Feng Ford, Nicoletta Fiorucci, Maja Hoffmann, Teresa Mavica, Victoria Mikhelson, Elisa Nuyten, Emilie Pastor and Sibylle Rochat, Antonella Rodriguez Boccanelli, Komal Shah, Margherita Stabiumi, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, Angela Timashev, Sue Wrigley.
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CONSULENTI
Un gruppo di consulenti mi ha aiutato nella mia ricerca, soprattutto in relazione a quelle parti del mondo in cui non potevo recarmi. Molti degli artisti e delle artiste da loro consigliati sono inclusi ne Il latte dei sogni. Grazie a Venus Lau, Alvin Li, Ranjit Hoskote, Marie Hélène Pereira, Kwasi Ohene-Ayeh, Nontobeko Ntombela, Guslagie Malanga, Ellen Greig, Nora Razian, Júlia Rebouças, Marina Reyes Franco, María Isabel Rueda, María Wills, Camila Marambio e Joanna Warsza per i loro preziosi suggerimenti. AUTRICI E AUTORI
Un grazie di cuore alle autrici e agli autori dei testi di questo catalogo per avere arricchito la Mostra con saggi storico-artistici e con scritti creativi: Matthew Biro, Rosi Braidotti, Leonora Carrington, Mel Y. Chen, Silvia Federici, Silvia Rivera Cusicanqui e Manuela Hansen, Jack Halberstam, Donna Haraway, N. Katherine Hayles, Jennifer Higgie, Yuk Hui e Anders Dunker, Ursula K. Le Guin, Alyce Mahon, Achille Mbembe, Marta Papini, Igiaba Scego, Azalea Seratoni, Christina Sharpe, Chiara Valerio e Marina Warner. Un grande ringraziamento alle autrici e agli autori delle biografie delle artiste e degli artisti: Isabella Achenbach, Liv Cuniberti, Manuela Hansen, Melanie Kress, Stefano Mudu, Ian Wallace e Madeline Weisburg. Un ringraziamento speciale al team di editor e di traduttrici, tra cui Teresa Albanese, Johanna Bishop, Nicola Giacobbo, Allison Grimaldi Donahue e Camilla Mozzato, che hanno curato, tradotto e supervisionato centinaia di testi in italiano e in inglese. GIURIA
La Giuria ha una grande responsabilità, una responsabilità che può cambiare per sempre la vita di alcuni di questi artisti e artiste. Ringrazio Adrienne Edwards, Presidente della Giuria, Lorenzo Giusti, Julieta González, Bonaventure Soh Bejeng Ndikung e Susanne Pfeffer per la loro attenta valutazione. COLLEGE
Un grazie di cuore ai tutor della prima edizione della Biennale College Arte: Barbara Casavecchia, Gianni Jetzer, Yasmil Raymond, Francesco Stocchi e Roberta Tenconi per aver fornito guida e supporto a questi talenti emergenti.
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Vorrei ringraziare tutti i prestatori, inclusi musei, fondazioni, archivi e collezionisti privati per essersi separati dalle loro amate opere d’arte per quasi nove mesi, nonché tutte le persone che hanno facilitato questi prestiti. Sono anche grata ai tanti colleghi, curatori e amanti dell’arte che mi hanno aiutato in questi due anni.
Shelley e Phil Aarons Miguel Abreu Rebecca Adib Vera Alemani Barbara Alesci Patrick H. Alexander Anthony Allen Giuseppe Alleruzzo Claudia Altman Siegel Brooke Anderson Yesaki Kaory Araiza Maria Arusoo Fernanda Arruda Meskerem Assegued Francesca Astesani Ninagawa Atsuko Jennifer Augustyniak Defne Ayas Belkis Ayón Estate Giovanni B. Martini Olivier Babin Cristina Baldacci Alberto Barbera Ludovica Barbieri Sam Bardaouil Simone Battisti Pietro Beccari Andrea Bellini Mathilde Belouali-Dejean Myriam Ben Salah Michael Benevento Jordan Benke Adrienne Bennett Ruth Beraha Allison e Larry Berg Claude Bernés Olivier Bialobos Jennifer Bibb Leonardo Bigazzi Joaquin Biglione Taciana Birman Daniel Birnbaum Tim Blum Natasha Boas Francesco Bonami Edoardo Bonaspetti Pilar Bonet Julve Joe Borelli Stefania Bortolami Isabella Bortolozzi Anne Boschmans Stella Bottai Amy Bouhassan James Brett Brian Briggs Gavin Brown Laurel Brown Elena Brugnano Daniel Buchholz Beatrice Bulgari Ane Bülow Natascha Burger Carolyn Burke Lucrezia Calabrò Visconti Gisela Capitain Paolo Carli Andrea Cashman
Gabriel Catone Germano Celant Aaron Cesar Delphine Charpentier Stephen Cheng Jennifer Chert Rowena Chiu Maria Grazia Chiuri Chris von Christierson Helga Christoffersen Ella Christopherson Carolyn Christov-Bakargiev Cristina Cilli Toby Clarke James Cohan Simon Cole Tine Colstrup Roger Conover Eduardo Constantini Anita Contini Luca Cooper Paula Cooper Fiona Corridan Paolo Cortese Micaela Costa Eduardo Costantini Jacopo Crivelli Visconti Bice Curiger Deborah D’Ippolito Lisa Dahl Karin Dammann Lindsay Macdonald Danckwerth Carolina Dankow Joshua David Karon Davis Camille de Alencastro Massimo De Carlo María de Corral Antoine de Galbert Pablo León de la Barra Haco de Ridder Pierre Floriane de Saint Marco De Scalzi Sigismond de Vajay Bruno Decharme Jeffrey Deitch Flavio del Monte Ignacio del Real Mme Marie-Gilberte Devise Tiziana Di Caro Maria Cristina Didero Arjen Dijkstra Andrei Dinu Ivana Dizdar Bridget Donahue Carla Donhauer Stephanie Dorsey Lilah Dougherty Daniel Dulière Lia Durante Kristine E. Santos Line Ebert Fusun Eczacibasi Emma Enderby Okwui Enwezor Christopher Eperjesi Andrea Escobedo Bridgitt Evans Cecilia Fajardo-Hill Max Falkenstein Luis Felipe Farias Till Fellrath Charlotte Feng Ford Gaetano Fermani Zoe Fermani Lourdes Fernández
Melina Fernández Marco Ferraris Aicha Filal Elena Filipovic Nicoletta Fiorucci Don Fletcher Marina Fokidis Patrick Foret Kristen Gallerneaux Mauricio Garcia César García-Alvarez Katya Garcia-Antón Violette Garnier Gary Garrels Richard Gault Libby Gavin Kendy Genovese Candida Gertler François Ghebaly Tobin Gibson Natasha Ginwala Andrea Giunta Barbara Gladstone Marc Glimcher Mark Godfrey Slim Gomri Janelle Grace Maxwell Graham Peter Granados Jacqueline Grandjean Claire Greenaway Jeanne Greenberg Rohatyn Rachel Greene Joelle Griesmaier Salomon Grimberg Jeremy Grosvenor Elmar R. Gruber Hannah Gruy Robert Hammond Quinn Harrelson Larissa Harris Stephen Hepworth Orlando Hernández Sofia Hernandez Tom Hill Maja Hoffmann Max Hollein Nina Hollein Noah Horowitz Christine Hourde Bellatrix Hubert Thelma e AC Hudgins William Huffman Çağla Ilk e Misal Adnan Carolina Italiano Daniel Jabra Jamillah James Amrita Jhaveri Priya Jhaveri Shanay Jhaveri Pam Johnson Adina Kamien Casey Kaplan Francesca Kaufmann Beth Kearney Seth Kelly Jamie Kenyon Esther Kim Varat Natalie King Kaarin Kivirähk Becky Koblick Amber Marie Kohl Satoshi Kondo Sylvia Kouvali Melanie Kress Mathias Kryger
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Zuzana Pabisova Fabrizio Padovani e Alessandro Pasotti Lucrecia Palacios Maureen Paley Emily Palmer Lisa Panting Cecile Panzieri Sam Parker Priya Parthasarathy Rachel Passannante Emilie Pastor Florent Paumelle Marc Payot Yana Peel Agustín Pérez Rubio Denis Pernet Sophie Perryer Andreas Petrossiants Friedrich Petzel Filippo Piazzoni Sara Piccinini Camilla Pignatti Morano Simona Pizzi Abhishek Poddar Jeff Poe Annika Pohl-Ozawa Rebeka Põldsam Anna Pravdová Nadia Pugliese Laurens R. Schwartz Prateek Raja Priyanka Raja Allegra Ravizza Jemma Read Marcus Rediker Rachel Rees Chiara Repetto Clarissa Ricci Marta Rincón Vivienne Roberts Sibylle Rochat Katherine Rochester Julia Rodrigues Antonella Rodriguez Boccanelli Luis Romero Barbara Roncari Lucia Ronchetti Jessica Roscio Alexis Rose Stephanie Rosenthal Ralph Rugoff Christian Rümelin Nicole Russo Peter D Russo John Rust Mary Sabbatino Tim Saltarelli Alberto Salvadori Lola Sanchez-Jauregui Jay Sanders Patrizia Sandretto Re Rebaudengo Gabriel Santiago Mendes Nicoletta Saporiti Hashim Sarkis Zenilda Sarmento da Silva Nick Savage Marie Savona Kamini Sawhney Attila Saygel Ingrid Schaffner Georg Schwarz Hank Scotch Komal Shah Sonu Shamdasani Amanda Sharp Jasper Sharp
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L A D E B U T TA N T E Leonora Carrington
Quando ero una debuttante andavo spesso al giardino zoologico. Ci andavo così spesso che conoscevo di più gli animali che le ragazze della mia età. Era per fuggire la gente che mi ritrovavo ogni giorno allo zoo. La bestia che ho conosciuto meglio era una giovane iena. Anche lei mi conosceva. Era molto intelligente, le insegnai il francese e in cambio lei mi insegnò la sua lingua. Passammo così molte ore piacevoli. Per il primo maggio, mia madre aveva organizzato un ballo in mio onore. Soffrii per notti intere. Ho sempre detestato i balli, soprattutto quelli dati in mio onore. La mattina del primo maggio 1934, molto di buon’ora, feci visita alla iena. “Che seccatura” le dissi “devo andare al mio ballo questa sera”. “Sei fortunata” mi rispose “io ci andrei molto volentieri. Non so ballare ma, dopotutto, posso sempre fare conversazione”. “Ci sarà un sacco di roba da mangiare. Ho visto arrivare a casa interi camion carichi di cibo”. “E ti lamenti” esclamò la iena con aria di riprovazione. “Io mangio una sola volta al giorno, e dovresti vedere che porcherie mi rifilano!”. Ebbi un’idea temeraria, e per poco non mi misi a ridere. “Non hai che da andare al posto mio”.
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“Non ci somigliamo abbastanza, altrimenti ci andrei con piacere” disse la iena tristemente. “Ascolta, con le luci della sera non ci si vede tanto bene. Se ti mascheri un po’, nessuno ti noterà in quella folla. E poi, abbiamo quasi le stesse misure. Ti supplico, sei la mia unica amica, fallo per me”. Ci pensò su, e capii che aveva intenzione di accettare. “D’accordo” disse a un tratto. A quell’ora del mattino non c’erano molti guardiani in giro. Rapida, aprii la gabbia e in un attimo fummo in strada. Fermai un taxi. A casa erano ancora tutti a letto. Una volta in camera mia, tirai fuori il vestito che dovevo indossare la sera. Era un po’ lungo e la iena aveva difficoltà a camminare con le mie scarpe dai tacchi alti. Trovai dei guanti per nascondere le sue mani, troppo pelose per somigliare alle mie. Quando il sole illuminò la camera, era ormai in grado di fare parecchie volte il giro della stanza, camminando più o meno dritta. Eravamo talmente indaffarate che mia madre, venendo a darmi il buongiorno, per poco non aprì la porta prima che la iena si fosse nascosta sotto il mio letto. “C’è un cattivo odore in camera tua” osservò aprendo la finestra “prima di sera sarà bene che tu faccia un bagno con i miei nuovi sali profumati”. “Certo” risposi. Non restò a lungo. Credo che l’odore fosse davvero troppo forte per lei. “Non fare tardi per colazione” disse lasciando la stanza. La difficoltà maggiore fu quella di trovare una maschera per il viso della iena. Cercammo per ore e ore una soluzione, ma lei rifiutava ogni mia proposta. Alla fine disse: “Credo di aver trovato come fare. Hai per caso una cameriera?”. “Sì” risposi perplessa. “Bene, allora. Suonerai alla cameriera e, quando entrerà, ci getteremo su di lei e le strapperemo la faccia. Porterò quella al posto della mia, stasera”. “Non è molto pratico” risposi “quando non avrà più la faccia probabilmente morirà, qualcuno di sicuro troverà il cadavere e finiremo in prigione”. “Ho abbastanza fame per mangiarla” replicò la iena. “E le ossa?”. “Anche quelle” disse. “Allora, intesi?”. “Solo se mi prometti di ucciderla prima di strapparle il viso. Altrimenti le farà troppo male”.
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“Va bene, per me è lo stesso”. Non senza un certo nervosismo suonai a Mary, la mia cameriera. Non avrei mai agito così se non detestassi tanto i balli. Quando entrò, mi girai verso il muro per non vedere. Riconosco che non ci volle molto. Un breve grido e tutto era finito. Mentre la iena mangiava, io guardavo fuori dalla finestra. Qualche minuto dopo disse: “Non ce la faccio più, restano ancora i piedi, ma se hai un sacchetto dove metterli, li mangerò più tardi, in giornata”. “Nell’armadio troverai una borsa ricamata con dei gigli. Togli i fazzoletti che ci sono dentro e prendila”. Fece come le avevo indicato, poi disse: “Ora girati, e guarda come sono bella!”. Davanti allo specchio la iena si ammirava con la faccia di Mary. Aveva rosicchiato accuratamente tutto intorno al viso, in modo che restasse giusto quello che occorreva. “Non c’è che dire, hai fatto davvero un bel lavoro” dissi. Verso sera, quando la iena fu tutta abbigliata, dichiarò: “Mi sento proprio in forma. Ho l’impressione che avrò un gran successo stasera”. Dopo essere rimaste per un po’ ad ascoltare la musica che arrivava dal piano di sotto, le dissi: “Ora vai, e ricorda di non metterti accanto a mia madre, si accorgerebbe sicuramente che non sono io. Quanto agli altri, non conosco nessuno. Buona fortuna” e la lasciai con un bacio. Aveva un odore terribile. Era scesa la notte. Esausta per le emozioni di quella giornata, presi un libro e mi sedetti vicino alla finestra aperta, finalmente in pace. Ricordo che leggevo I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift. Fu forse un’ora dopo che il primo segno di sciagura si annunciò. Un pipistrello entrò dalla finestra, emettendo i suoi piccoli squittii. Io ho una paura tremenda dei pipistrelli e mi nascosi dietro una sedia, battendo i denti. Ma non feci in tempo ad inginocchiarmi che il suono di quelle ali fu soffocato da un rumore ancora più forte, proveniente dalla porta. Mia madre entrò, pallida di furore. “Ci eravamo appena messi a tavola” disse “quando quella cosa che sedeva al tuo posto, si è alzata gridando: ‘Ho un odore un po’ forte, vero? Be’, io non mangio dolci!’. E così dicendo, si è strappata la faccia e l’ha divorata. Un gran salto ed è scomparsa dalla finestra”. (1937–1938) Il racconto è tratto dalla raccolta La debuttante, traduzione di Nancy Marotta e Mariagrazia Gini (Adelphi, 2018, 11–14). Ristampato per concessione di The Estate of Leonora Carrington e Adelphi Edizioni S.P.A. Milano. Copyright originale © 2017 The Estate of Leonora Carrington. Copyright della traduzione © 2018 Adelphi Edizioni S.P.A. Milano.
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K AT H A R I N A F R I T S C H
1956, Essen, Germania Vive a Wuppertal e Düsseldorf, Germania
Da santi, galli, modelli architettonici e barboncini, a mosche, conchiglie, figure umane, teschi e oggetti della vita quotidiana: il singolare realismo di Katharina Fritsch dissolve i confini tra l’ordinario e il perturbante, smuovendo i nostri sogni e incubi più profondi e risvegliando al contempo ricordi infantili di racconti religiosi, favole e miti. Nel complesso, le opere di Fritsch, che possono assumere la forma di imponenti progetti di arte pubblica dai colori audaci, sculture in scale insolite, intime opere sonore e multipli d’arte, proiettano una sicurezza che può essere interpretata, a seconda dei casi, come rassicurante o minacciosa, qualità che, come nelle allegorie riscontrate in fiabe, chiese o templi, possono risultare contemporaneamente vere. Fritsch è salita alla ribalta internazionale come precorritrice di una nuova tendenza della scultura europea negli anni Ottanta, per poi rappresentare la Germania alla Biennale Arte 1995. Nuovamente alla Biennale nel 1999, vi espone l’impressionante Rattenkönig (1993), un’enorme installazione che mette in scena il fenomeno citato nel titolo dell’opera – il re dei topi – mediante sedici ratti dipinti di nero opaco alti tre metri disposti in cerchio, con le code ingarbugliate al centro a formare un gomitolo. In quest’opera, come in molte altre sculture di Fritsch, la profonda inquietudine non è generata solamente dalla radicale distorsione del quotidiano, ma anche dalla tecnica adottata dall’artista. Spesso plasmate a mano, fuse in poliestere e rifinite con vernici opache, le sue sculture conservano un naturalismo formale reso insolito dall’assorbimento della luce da parte della vernice, che conferisce un carattere mistificante. L’imponente scultura intitolata Elefant / Elephant (1987) è una delle prime opere di grandi dimensioni create da Fritsch. Realizzata in poliestere ossido di cromo verde scuro dal calco di un elefante impagliato di nome Bibi conservato presso il Zoologisches Forschungsmuseum Alexander Koenig, la scultura riproduce con sorprendente esattezza ogni piega e ruga del corpo dell’animale. Dall’alto del massiccio piedistallo, le dimensioni, la nitidezza del dettaglio anatomico e il profilo cromatico generano un effetto sovrannaturale, la cui drammaticità è amplificata dalle associazioni del pubblico con le rappresentazioni degli elefanti nell’immaginario comune. Fissandosi nella mente dell’osservatore, Elefant / Elephant assume le vestigia di favole di magnificenza, intelligenza, cattività, nonché di società matriarcali, alla base della struttura famigliare di questa specie animale. Persino Venezia non è estranea all’iconografia degli elefanti: alla fine del XIX secolo, in un tempo di poco precedente l’organizzazione della prima Biennale, l’elefante Toni viveva proprio nel parco di Castello, conosciuto come il “prigioniero dei Giardini”. – MW
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Katharina Fritsch, Elefant / Elephant, 1987. Poliestere, legno, vernice, 420 × 160 × 380 cm. Photo Thomas Ruff. Courtesy l’Artista; Matthew Marks Gallery. © Katharina Fritsch / VG Bild-Kunst, Bonn
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Padiglione Centrale
RO S E M A R I E T RO C K E L
1952, Schwerte, Germania Vive a Berlino, Germania
La pratica polivalente di Rosemarie Trockel ottiene fama internazionale fin dagli anni Ottanta, quando l’artista esordisce all’interno di una nuova e radicale scena creativa a Colonia, in Germania. Caratterizzati da una convergenza di acute provocazioni femministe e da una propensione estetica all’ironia, i suoi film e video, “quadri a maglia”, ceramiche, disegni, collage e progetti per bambini sono celebrati ovunque per la loro critica pungente, soprattutto in un contesto a predominanza maschile. Come altre artiste della sua generazione, quali Barbara Kruger, Cindy Sherman e Jenny Holzer, nelle sue prime opere Trockel trasmette il proprio atteggiamento femminista controcorrente, chiamando in causa l’essenzialismo femminista degli anni Settanta tramite l’uso della produzione industriale e del design, offrendo insieme una nuova, destabilizzante modalità di percepire la politica e la cultura. Nei primi anni Ottanta, Trockel inizia a creare i suoi “quadri a maglia”, con filati multicolore realizzati con una macchina computerizzata e poi stesi su tele come fossero dipinti. Queste opere esprimono l’intenso coinvolgimento dell’artista nelle questioni relative al “lavoro delle donne” e alla svalutazione dell’artigianato in una società sempre più meccanizzata e satura di mezzi di comunicazione. Nell’includere la ripetizione di motivi geometrici, loghi, simboli politici e riferimenti alla storia tedesca, queste opere imitano le forme dei dipinti astratti ed enfatizzano i cliché di genere legati al lavoro. Per Il latte dei sogni, Trockel presenta una selezione di opere in lana preesistenti e finora inedite. Le sottili variazioni delle impunture monocrome in lana – tutte fatte a maglia da Helga Szentpétery, storica collaboratrice di Trockel – rivelano la loro natura di manufatti, ricordando talvolta la fascinazione modernista per la pittura monocromatica, talvolta disegni su stoffa convenzionali, e giocano con le aspettative sulla qualità gestuale della pittura astratta e sulla qualità visiva del disegno tessile. Tale ambivalenza tra lavoro manuale e meccanico viene ulteriormente amplificata dalla scelta di Trockel di mostrare alcune di queste opere accanto ai relativi studi preliminari. Nell’evocare le forme dell’Arte Minimalista, della Pop e dell’Optical Art, queste opere offrono un giudizio pungente sulla soggettività della rappresentazione visiva e sulla mercificazione dell’arte. – MW
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Rosemarie Trockel, Fraction Bars, 2021. Lana acrilica su tela, 50,2 × 100,8 × 2,2 cm. Photo Ingo Kniest. Courtesy Sprüth Magers. © Rosemarie Trockel / VG Bild Kunst, Bonn
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Padiglione Centrale
Rosemarie Trockel, Till the Cows come Home, 2016 e Study for Till the Cows come Home, 2016. Lana blu scuro su tela, legno, 296 × 296 cm e 100 × 100 cm. Photo Mareike Tocha. Courtesy Sprüth Magers. © Rosemarie Trockel / VG Bild Kunst, Bonn
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Rosemarie Trockel, The Same Different, 2013 e Study for The Same Different, 2013. Lana gialla su tela, legno, 296 × 296 cm e 100 × 100 cm. Photo Mareike Tocha. Courtesy Sprüth Magers. © Rosemarie Trockel / VG Bild Kunst, Bonn
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Padiglione Centrale
A ANDRA URSUT
1979, Salonta, Romania Vive a New York City, USA
Seducenti e inquietanti allo stesso tempo, le sculture formalmente innovative di Andra Ursuţa – spesso realizzate a partire da calchi del suo stesso corpo – sono esseri ibridi radicali. Memori sia di film d’azione/horror fantascientifico americani come Predator e la saga di Alien, sia delle visionarie opere di artiste polacche ed estoni di generazioni precedenti come Alina Szapocznikow e Anu Põder, che rappresentano anch’esse corpi di donne in stati di frammentazione e trasformazione, il lavoro di Ursuţa evoca la vulnerabilità della forma umana e la complessità del desiderio. In anni recenti, Ursuţa inizia a sperimentare con sculture in cristallo colato, fondendo direttamente calchi di parti del proprio corpo con oggetti di uso quotidiano, rifiuti recuperati ed elementi di scena, tra cui bottiglie di vetro, tubi in plastica, carta da imballo e riempimento, vestiti vecchi, indumenti BDSM e costumi di Halloween a buon mercato. Per creare le sue figure, Ursuţa combina la tecnica tradizionale della fusione a cera persa con la scansione e la stampa 3D. In questo senso, un po’ come i corpi ibridi che contraddistinguono la sua intera pratica, le sue sculture subiscono un intenso processo di trasformazione fisica. Sebbene incapsulati in variopinti contorni vitrei semitrasparenti, i motivi vorticosi e le superfici ruvide generate dal suo processo di produzione rivelano una collisione di forme organiche e inorganiche che fluttuano tra questi oggetti distorti, fantascientifici. La donna semidistesa di Predators ’R Us (2020), come in molte sculture di Ursuţa, è parzialmente priva di parti del corpo e sviluppa insolite appendici, quali un paio di pantofole tentacoliformi ispirate all’alieno tecno-futurista del film con Arnold Schwarzenegger Predator. Il fisico alieno raffigurato in Impersonal Growth (2021) è invece ispirato ai mostruosi “xenomorfi” di Alien. Nell’assolvere la funzione di contenitori, in senso sia metaforico sia concreto (alcune sculture di Ursuţa contengono alcol; in molte opere, tra cui Predators ’R Us, Half-Drunk Mummy [2019] e Succubustin’ Loose [2021] si vede il collo di una bottiglia sporgere da una cavità nella bocca o nella spalla), questi lavori sono ammiccanti allusioni e più astratti recipienti per la soggettività dell’esperienza e della memoria corporea della stessa artista. Nelle più recenti sculture di Ursuţa, tra cui Phantom Mass dalle increspature viola-bianco-verde e Terminal Figure dal colore verde acido (entrambe del 2021), il corpo è sempre più costretto nella sua posa. Presentate come creature fabbricate con pezzi rigidi, elementi come corsetti puntuti, fibbie e ossa, le forme evolvono progressivamente nei componenti tecnici di un corpo cyborg in continuo mutamento. – MW
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Andra Ursuţa, Predators ’R Us, 2020. Cristallo, 73,7 × 68,6 × 132,1 cm. Courtesy l’Artista; David Zwirner; Ramiken, New York. © Andra Ursuţa
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Padiglione Centrale
Andra Ursuţa, Yoga Don’t Help, 2021. Cristallo, vetro sodico-calcico, 130,2 × 60,3 × 52,7 cm. Courtesy l’Artista; David Zwirner; Ramiken, New York. © Andra Ursuţa
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Andra Ursuţa, Half-Drunk Mummy, 2019. Cristallo, 160 × 85,1 × 48,3 cm. Courtesy l’Artista; David Zwirner; Ramiken, New York. © Andra Ursuţa
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Padiglione Centrale
CECILIA VICUÑA
1948, Santiago, Cile Vive a New York City, USA
Sin dall’adolescenza trascorsa a Santiago, in Cile, Cecilia Vicuña si dedica a una pratica estetica e letteraria eclettica, tra performance, poesie, disegni, film, dipinti e sculture, con opere impregnate di interrogativi su corpo, ecologia, genere e cultura, nonché sulle colpe del sessismo e del colonialismo. Esule in seguito al violento colpo di stato militare contro Salvador Allende, sostenuto dalla CIA e guidato da Pinochet nei primi anni Settanta, Vicuña lavora a Londra, in Colombia e a New York, creando opere che si contraddistinguono per il chiaro senso di caducità, spesso espresso attraverso lavori astratti ed effimeri realizzati con materiali di recupero. Il 1966 vede l’avvio del progetto, tuttora in corso, che comprende assemblage provvisori e antimonumentali chiamati precarios: delicate composizioni di pietre, pezzi di legno levigati dalle acque, fili e rifiuti raccolti nel corso di passeggiate sulla costa. Queste sculture sono spesso lasciate intatte, esposte agli agenti atmosferici e alle maree. Persino oggi, in nuovi precarios come NAUfraga (2022), composto da corde e detriti raccolti a Venezia, la potenza della politica di opposizione di Vicuña rimane vigorosa: a differenza delle forze coloniali che degradano l’ambiente e hanno annientato o oscurato la cultura dei suoi antenati attraverso forme fisse come l’architettura, l’astratto e l’impermanente recuperano linguaggi e memorie con altri mezzi. NAUfraga, il cui titolo deriva dalle parole latine navis (nave) e frangere (rompere), evoca il tragico sfruttamento della Terra, che sta lentamente facendo affondare Venezia. Come i precarios, anche i dipinti di Vicuña testimoniano il suo debito nei confronti del pensiero indigeno, che viene articolato senza soluzione di continuità in forme artistiche contemporanee. Leoparda de Ojitos (1977) e La Comegente (1971), esempi di ritratti piatti di Vicuña degli anni Settanta, si ispirano ai dipinti del XVI secolo realizzati dagli artisti inca di Cuzco, in Perù, che furono costretti a convertirsi al cattolicesimo e a dipingere e adorare icone religiose spagnole. Pur costituendo un simbolo concreto della somministrazione forzata dell’ideologia coloniale, questi dipinti erano comunque segnati da gesti di ribellione, spesso nella forma di simbologie locali deliberatamente inserite dagli artisti nel proprio lavoro. Ugualmente, nei suoi quadri, Vicuña adotta le forme della ritrattistica coloniale, integrandole con un’iconografia personale, rivoluzionaria e mitologica. Circondata da paesaggi in cupole di vetro, la figura centrale para-divina della Comegente ritrae una donna nell’atto di ingerire una fila di persone. Nel dipinto dai toni fantastici Leoparda de Ojitos, la felina del titolo è raffigurata in piedi tra due alberi, uno rosa e uno verde, la pelliccia costellata di occhi e i genitali in mostra. Espressione di una metodologia decoloniale del ritratto, i dipinti di Vicuña si ribellano alla forma, mettendo al centro l’immaginazione di una donna indigena. – MW
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Cecilia Vicuña, Pueblo de altares, 2019. Dimensioni variabili. Veduta della mostra, Cecilia Vicuña: About to Happen, Institute of Contemporary Art, University of Pennsylvania, Philadelphia, 2019. Photo Constance Mensh
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Padiglione Centrale
Cecilia Vicuña, Bendígame Mamita, Bogotá, 1977. Olio su tela, 140 × 120 cm. Courtesy l’Artista; Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seoul, London. © 2022, Cecilia Vicuña
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Cecilia Vicuña, Leoparda de Ojitos, 1977. Olio su tela, 140 × 89,5 cm. Collezione Beth Rudin DeWoody. Courtesy l’Artista; Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seoul, London. © 2022, Cecilia Vicuña
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Padiglione Centrale
MRINALINI MUKHERJEE
1949, Bombay (attuale Mumbai), India – 2015, Nuova Delhi, India
Durante la sua quarantennale carriera, l’artista indiana Mrinalini Mukherjee lavora assiduamente con la fibra di canapa, dando vita a un corposo gruppo di opere in cui astrazione e figurazione si fondono con influenze derivate dalla natura, dall’antica scultura indiana, dal design moderno, nonché dall’artigianato e dalla tradizione tessile locale. Figlia di artisti, nata a Bombay nel periodo successivo alla partizione dell’India e cresciuta a Santiniketan, comunità utopistica nel Bengala Occidentale, Mukherjee realizza le sue prime opere all’inizio degli anni Settanta: arazzi ispirati al mondo botanico e realizzati in corda naturale, senza l’impiego delle tradizionali armature tessili né disegni preparatori. Sperimenta, invece, in maniera intuitiva l’antica tecnica araba di tessitura a mano del macramè, tecnica che continuerà a usare lungo il corso di tutta la sua vita per creare sculture morbide, sempre più audaci e monumentali, che si ergono imponenti come divinità. Mukherjee lavora la fibra e, in seguito, il bronzo e la ceramica, in relativo isolamento dalle altre artiste che seguivano tradizioni parallele in Europa e negli Stati Uniti negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, come Magdalena Abakanowicz, Sheila Hicks e Lenore Tawney, riuscendo a forgiare un proprio percorso radicale poco riconosciuto dalla critica occidentale fino agli anni Novanta del secolo scorso. Nel corso degli anni Settanta, Mukherjee perfeziona il metodo di lavorazione dei materiali; un lavoro faticoso, tutto realizzato a mano, che parte dalla cernita dei fasci di corde eccezionalmente pesanti e venduti alla rinfusa nei mercati di Nuova Delhi. Le corde devono essere poi srotolate, raddrizzate, separate per colore e spessore, e infine tinte con un procedimento chimico. In tal modo, Mukherjee concettualizza un approccio sempre più organico alle sue forme. A volte appese al soffitto, altre volte autoportanti o appoggiate contro un muro, le sculture imponenti di Mukherjee assumono caratteristiche proprie degli esseri viventi: tinte con pigmenti vegetali arancioni, gialli e viola, le opere voluttuose come Rudra, Devi (entrambe del 1982) e Vanshree (1994), trasmettono una sensualità umana, con pieghe e rigonfiamenti che ricordano gli organi sessuali umani. Pur traendo ispirazione prevalentemente dalla natura, agli inizi degli anni Ottanta l’artista viene influenzata dall’interesse verso la personificazione delle divinità dell’induismo, le cui rappresentazioni vede spesso nei templi visitati durante i suoi viaggi per l’India. Sebbene Mukherjee citi queste divinità antropomorfe, il suo uso dei linguaggi religiosi è, come lei stessa afferma, “de-convenzionalizzato” e “personale”, tanto quanto lo sono i suoi metodi e i suoi materiali1. – MW
1
Chrissie Iles, An Interview with Mrinalini Mukherjee, in Mrinalini Mukherjee: Sculpture, Oxford, Museum of Modern Art, 1994, 12; ripubblicato in Mrinalini Mukherjee, a cura di Shanay Jhaveri, Mumbai, Shoestring Publisher, 2019, 27.
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Mrinalini Mukherjee, Vanashree, 1994. Canapa tinta, 250 × 130 × 90 cm. Photo Avinsh Pasricha. Collezione Jayashree Bhartia. Courtesy Fondazione Mrinalini Mukherjee Pagine successive: veduta della mostra, Phenomenal Nature: Mrinalini Mukherjee, The Metropolitan Museum of Art, The Met Breuer, 2019, New York City, 2019. © Foto Scala Firenze / © 2022. Image copyright The Metropolitan Museum of Art/ Art Resource/Scala, Firenze
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Padiglione Centrale
M E R I KO K E B B E R H A N U
1977, Addis Abeba, Etiopia Vive a Silver Spring, USA
Nei dipinti di Merikokeb Berhanu abbondano i “mondi della vita”. Emblematici della sua pratica sono i cerchi concentrici, le linee fluide e le preziose sfumature di rosso, azzurro e ocra; le sue tele traboccanti di forme astratte si trasformano rapidamente in cosmologie e topografie riconoscibili che portano con sé richiami alla natura e ai suoi ritmi universali. Il sorgere e il calare del sole, l’attrazione magnetica esercitata dalla luna sull’eterno moto delle maree, la rivoluzione delle stagioni: questi cicli intensamente familiari sono parte del lavoro di Berhanu, influenzano le pennellate e trovano voce nella composizione organica di ciascun dipinto. Nella sua opera è presente anche un elemento profondamente antropico. Dalle sagome avvolgenti sembrano materializzarsi geografie che rimandano a città, fattorie e strade viste dall’alto; ne emergono forme anatomiche, e le tele diventano portali verso i complessi meccanismi interni del corpo. La serie intitolata Cellular Universe rende omaggio a queste forme corporee e, in particolare, alla composizione cellulare e agli organi riproduttivi comuni a molte specie. Anelli degli alberi, embrioni, baccelli dai colori vivaci, cervelli, tube di Falloppio e altre simili, riconoscibili forme trovano spazio nell’opera dell’artista. Berhanu, che proviene da Addis Abeba, ha raccolto molto del lascito del Modernismo etiope. Le sue opere sono caratterizzate da uno spazio senza profondità, con figure e fasce geometriche di colore uniforme che fluttuano sovrapponendosi e mescolandosi le une alle altre. Così è in tutti i sei nuovi acrilici su tela realizzati per la Biennale. Nelle sue opere più recenti, Berhanu approfondisce la sua indagine sulla specie umana mediante una maggiore inclusione di oggetti tecnologici, come circuiti stampati e microchip. In Untitled LXX (2021), una mucca galleggia in uno degli uteri ellittici caratteristici dell’artista e un’altra, all’esterno, la guarda dall’alto: forse una madre che vigila sul suo piccolo. Sotto il vitello si estende, come un liquido amniotico digitale e distopico, la trama verde di una scheda madre. Questa commistione, però, non implica una facile coalescenza della vita con la tecnologia e il progresso scientifico; piuttosto, Berhanu incorpora la tecnologia nei paesaggi e negli organismi naturali per trasmettere un senso di urgenza, evocando l’esperienza di rapida urbanizzazione che sta prendendo piede nel suo Paese e nel suo continente di origine e lo sfrenato consumismo della società occidentale. – IA
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Merikokeb Berhanu, Untitled LVI, 2021. Acrilico su tela, 172,7 × 172,7 cm. Courtesy l’Artista; Addis Fine Art. © Merikokeb Berhanu
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Padiglione Centrale
Merikokeb Berhanu, Untitled LIX, 2021. Acrilico su tela, 152,4 × 122 cm. Courtesy l’Artista; Addis Fine Art. © Merikokeb Berhanu
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Merikokeb Berhanu, Untitled LVII, 2021. Acrilico su tela, 183 × 122 cm. Courtesy l’Artista; Addis Fine Art. © Merikokeb Berhanu
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Padiglione Centrale
SHUVINAI ASHOONA
1961, Kinngait Vive a Kinngait, Nunavut
L’artista inuk Shuvinai Ashoona realizza disegni fantastici che uniscono visioni surreali a rappresentazioni della vita contemporanea degli Inuit, rovesciando gli stereotipi culturali e cogliendo i drammatici cambiamenti vissuti recentemente dalla comunità. Nata a Kinngait, Nunavut – un tempo parte dei Territori del Nord del Canada, restituito agli Inuit nel 1999 –, è figlia di Kiawak Ashoona e Sorosilutu, figure di spicco della comunità artistica locale. Dopo aver frequentato le scuole superiori a Iqaluit, torna a Kinngait e vive con la figlia e parte della famiglia in avamposti artici, come Kangiqsualujjuaq e Luna Bay. Queste esperienze influenzano la sua attenzione per le scene di vita contemporanea nella terra ancestrale degli Inuit Nunangat. Ashoona crea i propri lavori ai Kinngait Studios, cooperativa di artisti gestita dalla comunità locale, fondata nel 1959 come ramo artistico della West Baffin Eskimo Cooperative. Le opere delle zie e colleghe Napachie Pootoogook, Mayoreak Ashoona e Kenojuak Ashevak esercitano una profonda influenza sulla sua pratica. I suoi disegni a penna e matita fondono passato e presente in un futuro divinatorio. Qui, esseri umani che popolano scene domestiche e ordinarie sono accompagnati da sirene, ibridi umano-animale e creature marine fantastiche. I dettagli surreali – il seno di una madre trasformato nella Terra, i volti simili a maschere incappucciate, l’arancione fluorescente di una piovra gigante – accennano a forze spirituali, cosmologiche e fantasmatiche che coesistono in un delicato equilibrio con il quotidiano. Ricorrenti nell’opera di Ashoona sono i pianeti simili alla Terra e gli animali umanoidi dai colori vivaci, spesso contorti oppure uniti in creature ibride, o disposti in composizioni quasi schematiche. Altrettanto ricorrenti sono i supereroi e altri personaggi dei fumetti, segno dell’influenza della cultura pop sperimentata dagli Inuit nella transizione dalla vita seminomade agli insediamenti stabili. Nei due nuovi lavori qui presentati (entrambi del 2021), umani e animali convivono e si fondono insieme: in un disegno, una donna con becco e mani palmate da ornitorinco è sdraiata sulla banchisa mentre un tricheco munito di tentacoli e con addosso un poncho fronteggia la sua immagine riflessa; nell’altro, figure umane appaiono ambigue, mentre passeggiano accanto a creature chimeriche o ne assumono il travestimento, o ne sono avvolte. La fusione di esperienza sociale, iconografia fantastica e composizione narrativa realizzata da Ashoona rimanda all’orientamento sociale della pittura realistica di metà secolo, permeata dallo scavo surrealista del subconscio, offrendo una visione vivida e fantasmagorica della vita nella comunità dell’artista. – IW
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Shuvinai Ashoona, Untitled, 2021. Grafite, matita colorata, inchiostro su carta, 128 × 244,5 cm. Courtesy West Baffin Eskimo Cooperative. © Shuvinai Ashoona Shuvinai Ashoona, Untitled 2021. Grafite, matita colorata, inchiostro su carta, 128 × 249,5 cm. Courtesy West Baffin Eskimo Cooperative. © Shuvinai Ashoona
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Padiglione Centrale
A KO S UA A D O M A OW U S U
1984, Alexandria, USA Vive a New York City e Cambridge, USA
Le pellicole surreali e sovversive della regista Akosua Adoma Owusu sono ibridi poetici realizzati con modalità documentaristica, narrativa e sperimentale che includono affascinanti filmati folcloristici, di repertorio e found footage, icone della cultura pop nera, scene di vita quotidiana, storie tramandate oralmente ed esperienze semiautobiografiche. Incentrata sulle declinazioni di razza, nazionalità, genere e identità sessuale, l’opera di Owusu, ghanese-americana di prima generazione, esplora le spinose questioni della memoria culturale e dei processi di assimilazione dei membri della diaspora africana, includendo coloro che come lei sono nati negli Stati Uniti. Teorizzando una posizione di esistenza a cavallo tra identità multiple, Owusu applica la nozione di “doppia coscienza” formulata dallo studioso e attivista per i diritti civili W.E.B. Du Bois – il concetto di ideali “bellicosi” e inconciliabili negoziati all’interno delle identità afroamericane – per comprendere quelle categorie identitarie che egli aveva escluso. Definendola “tripla coscienza” o “terzo spazio cinematico”, Owusu amplia questa idea per combattere i conflitti e le difficoltà vissute dagli immigrati africani, dalle donne o dalle persone queer che vivono confrontandosi con coscienze mutevoli nel momento in cui queste incrociano gli spazi culturali dei neri americani e dei bianchi americani. Nel cortometraggio Kwaku Ananse (2013), Owusu espone la propria prospettiva teorica, rappresentando congiuntamente la storia del malizioso eroe Ananse, tratto da una serie di racconti popolari, e la testimonianza semi-autobiografica di una giovane donna alle prese con la propria famiglia, una crisi esistenziale, la morte di un padre estraneo e la sua doppia vita negli Stati Uniti. Nelle storie di Ananse, celebrate in Africa, nei Caraibi e in alcune zone del Sudamerica, il protagonista viene raffigurato come un essere metà ragno e metà uomo. Attraverso sorprendenti colpi di scena determinati dal destino, Ananse ci insegna che nulla può essere dato per scontato. Nell’interpretazione di Owusu, una giovane donna in cerca del consiglio di Ananse tenta di preservare le tradizioni popolari, ma allo stesso tempo è costretta a scontrarsi con la verità per cui l’identità di ogni persona presenta molteplici sfaccettature, potenzialmente in conflitto tra loro. – MW
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Akosua Adoma Owusu, Kwaku Ananse (still), 2013. Video, 26 min. Photo Pedro Gonzalez-Rubio. Courtesy l’Artista; Obibini Pictures. © Akosua Adoma Owusu
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Padiglione Centrale
GA B R I E L L E L’ H I RON D E L L E H I L L
1979, Comox, Canada Vive nei territori non ceduti delle Prime Nazioni Musqueam, Squamish e Tsleil-Waututh
L’opera dell’artista e scrittrice métis Gabrielle L’Hirondelle Hill sfida l’idea di città come luogo di insediamento “stabilizzato”, cercando i punti deboli presenti nella concezione dello spazio urbano definito dalla proprietà privata, mettendo al contempo a nudo la storia materiale della colonizzazione. Passeggiando per le strade nei dintorni del suo studio, Hill raccoglie residui e rifiuti, come linguette di lattine di birra, ciondoli senza valore e fiori selvatici: reliquie di uno spazio urbano che, per l’artista, diventano souvenir simbolici del quartiere e delle sue comunità in mutamento. Hill incorpora questi oggetti di recupero in sculture e opere su carta che dal 2018 chiama Spell (incantesimi), come ornamento agli strati di colore a olio a lenta essiccazione da lei meticolosamente applicati. Per l’artista, questa pratica mette in primo piano gli oggetti eliminati e insieme avvia una discussione sull’illegalità della violazione della proprietà privata e la rivendita di beni. Molte delle sue sculture assumono la forma di un coniglio e sono realizzate imbottendo dei collant con tabacco trinciato, prodotto storicamente importante per le economie indigene e coloniali. Prima della colonizzazione, il tabacco era uno dei beni di scambio più usati nelle Americhe; nelle comunità indigene, è tuttora un elemento condiviso nell’ambito di una complessa economia della reciprocità. Sculture come Kiss, Sonshine, e Cousin (tutte del 2019), pur disarmanti nell’aspetto, fungono da simbolo dell’imposizione del capitalismo sulle popolazioni indigene da parte dei governi coloniali e da promemoria della resistenza esercitata dalle culture indigene oggi. Analogamente, Disintegration e Dispersal (entrambe del 2019) suggeriscono in modo simbolico il riconoscimento della sovranità indigena. Le proporzioni delle bandiere di Hill, confezionate a partire da foglie di tabacco essiccate, si basano su quelle delle banconote statunitensi e richiamano alla mente le tobacco notes, che furono tra le prime forme di cartamoneta nelle colonie britanniche in Nord America. Anche i disegni della serie Spell sono permeati della presenza simbolica del tabacco, ricoperti con grasso vegetale da cucina infuso di questa sostanza e decorati con oggetti recuperati. L’artista ha donato alcune di queste opere ad amici e ne ha usate altre come moneta di scambio. Rimaneggiando materiali e forme intrisi di significati culturali, spirituali, storici ed economici, Hill critica il colonialismo mentre rende omaggio ai modelli economici espansivi che traggono forza dalla reciprocità. – IW
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Gabrielle L’Hirondelle Hill, Spell #10, for unsticking, 2019. Tabacco infuso di olio Crisco, pittura a olio, ritagli di riviste, ciondolo a forma di serpente, fiore di tabacco, linguetta di lattina di birra, filo, 34,3 × 33 cm (incorniciato). Courtesy l’Artista; Unit 17, Vancouver. © Gabrielle L’Hirondelle Hill
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Padiglione Centrale
Gabrielle L’Hirondelle Hill, Mint, 2019. Collant, linguette di lattine di birra, tabacco, pelliccia di coniglio, filo, 14 × 17,9 × 24,1 cm. Photo Cemrenaz Uyguner. Courtesy l’Artista; Unit 17, Vancouver. © Gabrielle L’Hirondelle Hill
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Gabrielle L’Hirondelle Hill, Exchange, 2019. Collant, tabacco, sigarette, filo, fiori di tabacco, linguette di lattine in alluminio, ciondolo a forma di ragno, fermaglio per capelli in metallo trovato, 43,9 × 51,3 × 79,7 cm. Photo Cemrenaz Uyguner. Courtesy l’Artista; Unit 17, Vancouver. © Gabrielle L’Hirondelle Hill
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Padiglione Centrale
K U D Z A N A I -V I O L E T H WA M I
1993, Gutu, Zimbabwe Vive a Londra, UK
I dipinti di Kudzanai-Violet Hwami rivelano una visione profondamente personale della vita in Sudafrica. Le sue tele, traboccanti di colori a olio, pastelli e inchiostri serigrafici dai pigmenti vibranti, si ispirano agli anni passati in Zimbabwe e in Sudafrica, oltre che alla generale esperienza contemporanea del vedere se stessi e le proprie influenze riflessi attraverso lo schermo. Grazie all’uso sapiente del collage, i dipinti di Hwami sono coerenti per composizione e gamma cromatica e analizzano i modi in cui coesistiamo e viviamo il nostro rapporto con gli altri in un mondo sempre più digitale. I suoi dipinti esprimono un’interiorità esplorativa, nella fusione di fotografie di amici e famigliari con immagini prese da Internet. Nelle sue tele Hwami integra diversi frammenti visivi a partire da una varietà di fonti: ritratti, autoritratti, gruppi di persone accompagnati da piante in vaso e altri oggetti. Gli elementi si ripetono proprio come in un nostalgico album di famiglia, o come quando scorriamo il feed dei social media. Tra le sue prime influenze ci sono i manga e le graphic novel, lo zamrock e la scena musicale zim heavy, i generi post-rock e la musica classica, oltre a pensatori quali Alain de Botton, Alan Watts e Terence McKenna. L’installazione di Hwami per Il latte dei sogni prevede una sala rivestita dal pavimento al soffitto di una serie di fotografie in bianco e nero su vinile, ciascuna con un dipinto accompagnato da una traccia audio. L’installazione è ispirata a The Wedding of the Astronauts (1983–1994) dello scultore zimbabwese Henry Munyaradzi (1931–1988), una scultura su tre lati intagliata nella pietra saponaria. L’opera rappresenta una cerimonia nuziale del popolo degli Shona, con un predicatore, la benedizione degli uccelli e la coppia che esplora i cieli. Queste scene sono riproposte nei dipinti di Hwami attraverso le fotografie scattate dalla stessa artista durante i suoi recenti viaggi in Zimbabwe e in Sudafrica, con registrazioni sonore prese durante la cerimonia della Bira, una processione funebre in Zimbabwe. L’opera riflette l’espressione dell’ontologia shona secondo Munyaradzi e il coinvolgimento personale di Hwami nel realismo magico e nell’Afrofuturismo. Per Hwami l’installazione persegue il sincretismo come fonte di guarigione, in equilibrio tra cosmologia shona e cristianesimo, individualismo e comunità, natura e umanità. – MK
Kudzanai-Violet Hwami è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione inaugurale della Biennale College Arte, un’iniziativa lanciata nel 2021. Quest’opera è fuori concorso.
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Kudzanai-Violet Hwami, A theory on Adam, 2020. Olio su tela, serigrafia, 200 × 200 cm. Courtesy l’Artista; Vittoria Miro. © Kudzanai-Violet Hwami
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Padiglione Centrale
S I M O N E FAT TA L
1942, Damasco, Siria Vive a Parigi ed Erquy, Francia
Simone Fattal è un’artista e scrittrice nota per le sue sculture in ceramica, i dipinti astratti e i disegni raffiguranti paesaggi, amici e personaggi letterari. Nata a Damasco, Fattal è cresciuta in Libano. Dopo aver completato gli studi in filosofia presso l’École des lettres di Beirut, frequenta la Sorbona di Parigi. Ritornata a Beirut nel 1969, si trasferisce in un piccolo atelier dove vive e si dedica alla pratica artistica realizzando dipinti e sculture. Nel 1980, mentre in Libano imperversa la Guerra civile, Fattal lascia Beirut e si trasferisce a Sausalito, in California, insieme alla compagna Etel Adnan, poetessa e pittrice. Qui fonda la Post-Apollo Press, una casa editrice che, traendo ispirazione dallo spirito del programma spaziale Apollo, si dedica a opere letterarie innovative e sperimentali. Nel 1988 Fattal torna nuovamente a dedicarsi all’arte realizzando sculture in ceramica nell’ambito di un corso all’Art Institute di San Francisco. Le creazioni scultoree di Fattal spesso si configurano in serie di figure o scene in miniatura che appaiono come appena rinvenute da un antico sito archeologico. Esse rivelano un’esigua quantità di dettagli, o un’assenza di caratterizzazione, tali da non renderle riconoscibili: due grandi colonne rappresentano le gambe, un elemento di raccordo in argilla diventa il busto o la testa, mentre una leggera inclinazione laterale accenna o allude al legame con una delle altre figure. Per molti aspetti, le sue sculture obbediscono a una trasformazione dello spirito umano in una forma materiale, allo stesso tempo inseguendo e negando un’essenza di fondo. Per Il latte dei sogni, Fattal presenta un’installazione nel Giardino delle Sculture progettato dal celebre architetto Carlo Scarpa e situato all’interno del Padiglione Centrale. L’installazione include Adam and Eve (2021), la fusione in bronzo di una delle sue prime sculture in ceramica che consiste di due figure: una, caratterizzata da lunghe gambe sottili, sembra trasportare un sacco sulla schiena, un gesto suggerito dall’asimmetria del busto; la seconda, più bassa e dal tronco appena delineato, pare seguire la prima, come se, entrambe chinate nella stessa posizione, stessero intraprendendo un lungo viaggio insieme. Per la Biennale Arte 2022 Fattal ha anche realizzato tre nuove sculture: due in ceramica e una fusione in bronzo, nella quale convivono motivi astratti e forme umane. – MK
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Simone Fattal, Adam and Eve, 2019. Bronzo, Adam: 73 × 22,5 × 39,5 cm; Eve: 47,3 × 26 × 19,5 cm. Photo Andrea Rossetti. Courtesy l’Artista. © Simone Fattal
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Padiglione Centrale
Simone Fattal, Herald II, 2021. Grès smaltato, 36 × 12,5 × 5 cm. Photo Andrea Rossetti. Courtesy l’Artista; kaufmann repetto, Milano / New York; Fondazione ICA Milano; Pompeii Commitment, Archaeological Matters. © Simone Fattal
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Simone Fattal, Ra with Iside, 2021. Grès smaltato, figura smaltata cangiante, 44 × 34,5 × 23 cm e figura nera, 40 × 8 × 8 cm. Photo Andrea Rossetti. Collezione Nicoletta Fiorucci Russo. Courtesy l’Artista; Fondazione ICA Milano; Pompeii Commitment, Archaeological Matters. © Simone Fattal
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Padiglione Centrale
LA
C
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LA DE
A LL
E I L E E N AGA R G E RT RU D A R N D T JOSEPHINE BAKER B E N E D E T TA CLAUDE CAHUN LEONORA CARRINGTON ITHELL COLQUHOUN VA L E N T I N E D E S A I N T - P O I N T LISE DEHARME M AYA D E R E N LEONOR FINI J A N E G R AV E R O L FLORENCE HENRI LOÏS MAILOU JONES I DA KA R ANTOINET TE LUBAKI B AYA M A H I E D D I N E
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NADJA AMY NIMR MERET OPPENHEIM VA L E N T I N E P E N R O S E RAC H I L D E ALICE RAHON C A RO L RA M A EDITH RIMMINGTON E N I F RO B E RT RO SA RO SÀ A U G U S TA S AVA G E D O R O T H E A TA N N I N G T OY E N R E M E D I O S VA R O M E TA VA U X WA R R I C K F U L L E R L A U R A W H E E L E R WA R I N G M A RY W I G M A N
Nella prima metà del XX secolo, il concetto illuministico dell’“io” come corpo isolato e unitario viene superato dall’emergere di tecnologie che sfumano la distinzione tra umano e macchina, dai modelli psicoanalitici che svelano l’influenza dell’inconscio, e dall’ideale femminista della Neue Frau, la “Donna nuova”, indipendente e autonoma. Questo cambiamento compromette antichi e pervasivi dualismi, come quello tra essere umano e natura, tra animato e inanimato, tra corpo e mente, tra femminile e maschile, in favore di un ibridismo e di una relazionalità fluttuanti. Le artiste, danzatrici, scrittrici e intellettuali qui riunite adottano i temi della metamorfosi, dell’ambiguità e della frammentazione per contrastare il mito dell’io cartesiano unitario – e de facto maschile –, respingendo con decisione l’idea rinascimentale dell’Uomo come centro del mondo e misura di tutte le cose. Queste artiste, provenienti da diverse parti del mondo – Europa, Africa e Americhe –, sono vicine ai principali movimenti di avanguardia del loro tempo – in particolare, l’esplorazione surrealista del corpo dall’interno, la fusione di umano e macchina in Futurismo e Bauhaus, la rivalutazione dell’identità culturale nei movimenti dell’Harlem Renaissance e della Négritude –, pur mantenendo un notevole grado di indipendenza. Spesso emarginate dalla storia dell’arte, condividono il rifiuto della visione patriarcale ed eteronormativa di genere e identità, ed esercitano il controllo sui loro corpi con una complessità e ambiguità, a volte persino ironia, assenti nel lavoro dei colleghi uomini. I manichini, gli automi, le bambole, le marionette e le maschere che popolano i loro quadri, disegni, fotografie, sculture e illustrazioni sovvertono i luoghi comuni sessisti della femme fatale o della femme enfant; la metamorfosi diventa uno strumento politico, erotico e poetico teso a plasmare nuove, sfaccettate visioni della soggettività. Che facciano parodia dell’immagine della donna eroticizzata – come Gertrud Arndt, Leonor Fini, Josephine Baker e Rosa Rosà – o usino l’androginia per conquistare l’emancipazione e l’autodeterminazione dell’io femminile – come Claude Cahun e Florence Henri –, queste artiste, ognuna a proprio modo, convertono le concezioni tradizionali dell’individualità di genere in materiale di fabulazione. Alcune – Jane Graverol, Meta Vaux Warrick Fuller, Laura Wheeler Waring e Mary Wigman – reinterpretano antichi miti del meraviglioso attraverso figure-archetipo come la sfinge, la femme arbre, la strega, rappresentando le donne come guaritrici ed esseri ibridi che fondono umano, animale, macchina e mostro. Altre – come Baya Mahieddine, Toyen, Loïs Mailou Jones e Antoinette Lubaki – usano la natura come metafora della realtà femminile, evocando dee madri, divinità antropomorfe e scene fiabesche, anticipando preoccupazioni ecofemministe. In Alice Rahon e Valentine de Saint-Point, invece, l’astrazione diventa un mezzo per plasmare la forma o le capacità di corpi nuovi. Che sia evocando la natura, evadendo nel fantastico o usando il proprio corpo per modellare nuove possibilità, ognuna di queste artiste utilizza la propria metamorfosi come risposta ai costrutti di impronta maschile che governano l’identità.
Claude Cahun, Hands and Table (untitled), 1936. Courtesy the Jersey Heritage Collections
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Padiglione Centrale
F I G L I E D E L M I N O TA U R O : IL RE-INCANTO DEL MONDO DELLE SURREALISTE Alyce Mahon
Nelle Metamorfosi Ovidio racconta la storia dello scultore Pigmalione, tanto disilluso dalle donne reali da plasmarne una perfetta per sé: una nuda statua d’avorio. L’ossessione per la sua opera d’arte è tale che durante la festa di Venere implora la dea dell’amore di darle vita. Quando il suo desiderio viene esaudito, per la sua “fanciulla […] a quel tocco l’avorio si fa molle, perso il rigore, cede alla pressione, come al calore dei raggi del sole la cera dell’Imetto torna morbida e, plasmata dal pollice, si piega per assumere tutte quelle forme che più la tratti più riesce a prendere” 1. Il racconto di Ovidio ci ricorda il forte potenziale della metamorfosi nel trasformare le esperienze individuali e collettive del mondo, nonché la materialità della persona, dell’animale, della pianta o della cosa. Nella cultura occidentale – da Ovidio a Madame d’Aulnoy, ai fratelli Grimm, a Mary Shelley, Hans Christian Andersen, Lewis Carroll e Walt Disney – il mutamento di forma è stato al centro della nostra idea collettiva di regni primordiali e magici. Dagli anni Venti agli anni Sessanta del Novecento, espandendosi dall’Europa alle Americhe, i surrealisti attinsero a questo canone, oltre a guardare alla mitologia nativa americana, oceanica e afro-brasiliana, per portare l’idea della metamorfosi verso nuove provocatorie direzioni. Adottarono la metamorfosi come mezzo per promuovere il loro convincimento che il reale e il surreale fossero inseparabili, che un offuscamento degli stati di veglia e di sogno fosse necessario, se non addirittura urgente, per la creatività e l’umanità. I surrealisti furono anche ispirati dalla metamorfosi come mezzo per il ritorno del rimosso, accelerato dalla lettura di Sigmund Freud e dall’esplorazione della “bellezza convulsiva” e dell’“amore folle” (amour fou) 2.
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La culla della strega
André Masson, Pygmalion, 1938. © SIAE
Come scrisse Robert Desnos nel 1930, “certamente Pigmalione è morto, se mai è esistito. Ma l’esempio di questo Narciso dell’arte non è destinato a tentarci. Ciò che amiamo è la vita, con il suo corteo di strane manifestazioni, miracoli, sguardi profondi, insulti, caldi abbracci” 3. Questa posizione era sia poetica che politica, e il tema della metamorfosi divenne centrale per l’esplorazione surrealista della soggettività in un mondo sempre più disumanizzato e devastato dalla guerra. Nato dalla Prima guerra mondiale, il Surrealismo prosperò e si espanse a livello globale tra le due guerre, durante e dopo il secondo conflitto mondiale. La sua reinterpretazione collettiva della mitologia antica e dei racconti popolari di metamorfosi permise a un gruppo eterogeneo di artisti e scrittori di trascendere il sempre più minaccioso XX secolo, di sfatare il pensiero razionalista e la moralità ipocrita in un momento di conflitto e terrore. In particolare, il fascismo europeo portava all’obbedienza meccanica, al militarismo e ai miti della purezza razziale. Contro tutto ciò, i surrealisti invocarono un nuovo “mito collettivo”, contro “il meccanismo d’oppressione basato sulla famiglia, la religione e la patria”, come dichiarò André Breton in una conferenza del 1935 4. Le donne surrealiste aprirono la strada alla creazione di questa mitologia collettiva. Offrendo quelle che potremmo descrivere come fiabe surrealiste, utilizzarono la metamorfosi per tracciare un paesaggio erotico che sovvertiva l’eteronormatività, esplorando una visione radicalmente nuova dell’identità umana fluida, liberata da categorie biologiche e sociali come il sesso e il genere. Anticipando Angela Carter e altre femministe successive, le surrealiste miravano a rieducare attraverso il re-incanto, appropriandosi di personaggi fiabeschi come la vecchia, la sirena, la sfinge, l’eremita o la femme arbre (donna albero), oltre a offrire una nuova imago maschile, Monsieur Vénus. Collettivamente, i loro racconti e le loro immagini di metamorfosi davano testimonianza del convincimento di Leonora Carrington, una delle più importanti donne surrealiste, secondo la quale “ci sono così tanti interrogativi e così tante “dogmaggini” da eliminare prima che tutto abbia senso […] la curiosità può essere soddisfatta solo capovolgendo i millenni di falsi dati accumulati. Il che significa mutare completamente e cominciare a non disprezzare nulla, a non ignorare nulla” 5. Sia nel testo sia nell’immagine, Carrington risveglia la nostra curiosità, mettendo in scena bizzarre creature metamorfiche all’interno del familiare; lo spazio domestico, come la cucina o la cameretta, diventa un luogo misterioso di emancipazione, astuzia e sciamanesimo femminile. Come spiega la protagonista del suo romanzo Il cornetto acustico (1974): “Le case sono proprio dei corpi. Noi siamo attaccati ai muri, ai tetti e agli oggetti esattamente come al nostro fegato, allo scheletro, alla carne e al flusso sanguigno” 6. Carrington fonde questa architettura surrealista con i racconti della “tribù degli dèi” irlandese, i Túatha Dé Danann, e del popolo fatato gaelico, i Sidhe, che le erano stati raccontati da bambina, incorporandovi inoltre il folclore messicano e la propria straziante esperienza di crollo mentale occorsa durante la Seconda guerra mondiale (intensamente documentata in Giù in fondo, 1944). L’arte di Carrington ci trascina in un’esplorazione di quella che lei definiva “energia cosmica”, che poteva essere “maschile e femminile, microcosmica e macrocosmica” allo stesso tempo 7. La sua è un’arte popolata da creature meravigliosamente ibride colme di questa energia, che incrociano donne con cavalli, uomini con uccelli e flora con fauna. L’ibrido abbonda nel dipinto The House Opposite (1945), soprattutto nel particolare della bambina nella metà inferiore della
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Padiglione Centrale
composizione, le cui ali rimandano al mito di Psiche, tradizionalmente rappresentata da una farfalla. La bambina regge anche una ciotola d’oro in cui è posata una pernice, uccello che, nei testi mitologici e cristiani, simboleggia la rigenerazione spirituale e la Resurrezione. Il simbolismo animale è centrale nell’opera di Carrington e l’uccello (e l’uovo) denota fertilità, creatività e saggezza femminili, come si vede anche in Portrait of the Late Mrs Partridge (1947).
Leonora Carrington, And Then We Saw the Daughter of the Minotaur, 1953. © 2022 Leonora Carrington / Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE
Ithell Colquhoun, Gouffres amers, 1939. Photo e courtesy The Hunterian, University of Glasgow. © The Artist’s Estate
Carrington offre una variante sovversiva delle Metamorfosi di Ovidio nel dipinto And Then We Saw the Daughter of the Minotaur (1953), raffigurante il Minotauro non come mezzo uomo e mezzo toro, bensì per metà donna e per metà toro. Questa femmina Minotauro ha occhi azzurri e mani delicate, e indossa un mantello rosso sulfureo, il cui colore simboleggia la rubedo, il compimento finale delle trasmutazioni chimiche culminanti nella realizzazione della pietra filosofale. È seduta a un tavolo con una sfera di cristallo, mentre nutre i due bambini ammantati in piedi davanti a lei, invece di divorarli. Carrington ha modellato i bambini sui propri figli e il titolo, “And Then…”, suggerisce che sta costruendo la propria storia attorno al popolare mito zoomorfo come artista e come madre. Questi vari elementi illustrano la combinazione di diversi riferimenti nel suo lavoro – cattolicesimo, alchimia, Popol Vuh (un’epopea della mitologia Maya), mito celtico e Kabbalah – al fine di creare racconti ammalianti per il mondo moderno. Tuttavia, è sempre la donna, definita da Carrington “femminauomo-animale”, a intrecciare questi fili culturali 8. Ciò riflette la sua insistenza sul fatto che i diritti della donna dovevano essere “riconquistati, compresi i misteri che erano nostri e che sono stati violati, rubati o distrutti” 9. Gouffres amers (1939) appartiene alla serie di dipinti Méditerranée di Ithell Colquhoun, in cui il corpo gradualmente si trasforma in scoscesi paesaggi d’azzurro mediterraneo. La figura del dio del fiume viene ridicolizzata mentre si trasforma in un paesaggio marino femminilizzato: le membra sono un collage di coralli, alghe e conchiglie e il suo fallo è una conchiglia da cui germoglia il fiore di un’alga. Analogamente, in Tree Anatomy (1942) Colquhoun presenta la figura mitologica di Dafne – la bellissima ninfa dei monti trasformata dal padre in un alloro per salvarla dagli ardori amorosi di Apollo – come l’antro scuro e profondo in un nodoso tronco d’albero. Nell’antichità, le foglie di alloro erano spesso usate per denotare il trionfo atletico (se non sessuale), ma l’immagine della femme arbre di Colquhoun ribalta tale virtù: l’artista crea ombrosi recessi vulvari e li ingrandisce in modo che la sessualità femminile sia al centro della scena, naturale, aperta e in crescita. Questa morfologia ha spinto la ricerca di Colquhoun verso un nuovo idolo femminile che fondesse cristianesimo esoterico, teosofia, Kabbalah e occultismo surrealista, rifiutando le narrazioni di ciò che lei definiva “tiranni e vittime” in favore di “opposti uniti in un placante abbraccio dal filo di un baco da seta” 10. Nel 1931 Eileen Agar denunciò il “militarismo dilagante e isterico […] l’elemento maschile” che si stava diffondendo in Europa e sposò una teoria della femminilità generativa che implicava “la vita artistica e immaginativa dominata dalla magia del grembo” 11. Le sue fotografie del paesaggio bretone, Rocks at Ploumanac’h (1936), hanno dato forma a queste idee. Attraverso l’obiettivo della sua Rolleiflex 6+×+6, Agar ha trasformato le formazioni
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La culla della strega
Eileen Agar, Butterfly Bride, 1938. © The Estate of Eileen Agar; Bridgeman images / SIAE
rocciose naturali in forme scultoree vive con nomi carnali come Rockface e Bum and Thumb Rock, esagerandone le linee, le superfici e i recessi attraverso la manipolazione della luce e dell’ombra. Realizzato in un momento successivo, il suo Ceremonial Hat for Eating Bouillabaisse (1936) era un cappello da donna indossabile, ricavato da un cesto di sughero, una lisca di pesce, da corteccia, una stella marina, da corallo e conchiglie, dando forma al ciclo della vita e della morte. Evocava una catena di associazioni fluide: il pasto condiviso, il feticismo della moda, la fata Melusina (la sirena marina metà donna, metà serpente, amata da Breton), o la pratica cerimoniale dei nativi americani dello scambio di doni, o potlatch, discussa da Marcel Mauss nel suo influente studio Saggio sul dono del 1925. Il Ceremonial Hat di Agar era un collage tridimensionale in cui la metamorfosi era accentuata da oggetti recuperati e accostamenti suggestivi, una tecnica inclusa anche in molti dipinti, ad esempio incollando due farfalle morte e una foglia su The Butterfly Bride (1938), per garantire la “rimozione del banale attraverso il fecondo intervento del caso o della coincidenza” 12. Per estensione, in Philemon and Baucis (1939), Agar usò la tecnica automatica surrealista del frottage per tramandare il racconto di Ovidio della pia coppia frigia che gentilmente ospita quelli che sembrano essere poveri estranei, ma che in realtà sono Zeus ed Ermes in incognito. In cambio, ai due viene concesso di essere trasformati, alla loro morte, in alberi uniti per il tronco: una quercia e un tiglio. In quest’opera, letteralmente strofinando la corteccia d’albero con il gessetto sulla carta, Agar evoca i materiali che compaiono nel racconto, sottolineando al contempo l’apertura della mente razionale al caso. Leonor Fini conferisce uno stile più illusorio al tema della metamorfosi, mettendo in scena corpi erotici che sembrano scaldarsi sotto le sue pennellate. Gli uomini si trasformano in nudi e ninfe dormienti, ricordando la musa di Pigmalione, e le donne in sfingi mostruosamente belle ma pericolose, come in L’Alcove (1941), Femme assise sur un homme nu (1942), e Chthonian Deity Watching over the Sleep of a Young Man (1946). L’uso di colori, texture, costumi e oggetti antichi (drappeggi, rovine classiche, armature) aumenta il suo gioco fluido con i ruoli di genere e le consente di esaltare la pelle perlacea e i fianchi femminili dei suoi maschi, così come la potenza della sfinge come fonte e distruzione dell’uomo. Nel 1972, Fini realizza trentacinque acqueforti per un’edizione di lusso del romanzo decadentista Monsieur Vénus (1884) di Rachilde (Marguerite Eymery), in cui viene ribaltato il racconto di Pigmalione. L’artista Jacques Silvert inizia come “amante femmina” di Raoule de Vénérande per finire come sua moglie e “figura di cera ricoperta di trasparente pelle di gomma”, in una storia d’amore di “una donna che amava gli uomini e […] che li in[culava]” 13. Fini cattura il potenziale di questa donna libertina nel ritrarre Raoule in falliche pose erette o con un’espressione da sfinge e il suo oggetto del desiderio, Jacques, come una ninfa, con i capelli lunghi, la bocca carnosa e le membra sinuose e nude. Promuovendo nella sua opera quello che oggi chiameremmo il “non binario”, Fini ha affermato: “Trovo di essere di solito più forte degli uomini, e questo si riflette nei miei dipinti. Gli uomini tendono a essere addormentati, passivi, non minacciosi, dalla sessualità ambigua. Le donne sono sveglie, vigili, in controllo ma non necessariamente minacciose… Sono affascinata dall’androgino, perché mi sembra l’ideale. Unisce l’aspetto pensante del maschio con il lato immaginativo della femmina. Mi piacerebbe pensare a me stessa come androgina” 14.
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Dorothea Tanning, Avatar, 1947. Collezione privata, Chicago. Courtesy The Dorothea Tanning Foundation. © SIAE
Anche Dorothea Tanning si è ispirata ai romanzi del XIX secolo, trovando nelle pagine di Edgar Allan Poe, Gustave Flaubert e Joris-Karl Huysmans un mondo inquietante di metamorfosi e un’arte di “sirene che a turno cantano e piangono” 15. Nel piccolo dipinto a olio Avatar (1947), una donna bionda addormentata, apparentemente nata dalla cavità di un albero, vola su un trapezio oltrepassando le pareti della sua camera da letto. Il suo abbigliamento, del tutto banale, contrasta con una forma erotica astratta, in parte corpo e in parte organi, che fuoriesce da uno specchio incorniciato. La sua assenza di forma riecheggia il suo stato mentale elettrizzato. Questa composizione ricorda Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, in cui Alice salta nella tana del coniglio con gioia, “Giù, giù, giù. Sarebbe mai finita quella caduta?”, così come l’idea di Carroll che la psiche fosse aperta alla presenza “misteriosa” delle fate 16. Tanning trasporta lo spettatore verso confini che promettono metamorfosi (una cavità d’albero, una porta, uno specchio) tutti inondati di verde luminescente, un colore che in alchimia denota lo spirito. Ci sfida a varcarli e a raggiungere l’altra parte, dove lo spirito e i desideri possono assumere qualsiasi forma: “L’enigma è una cosa molto salutare, perché incoraggia lo spettatore a guardare oltre l’ovvio e il luogo comune” 17. Nella loro arte, Carrington, Agar, Colquhoun, Fini e Tanning hanno modellato nuove forme di organizzazione sociale; una vocazione condivisa con altre pioniere surrealiste non comprese in questo saggio, come Jane Graverol, Alice Rahon, Edith Rimmington e Remedios Varo. Alcune di loro appartenevano ufficialmente al gruppo surrealista e altre no, oppure avevano con esso rapporti conflittuali. Molte si conoscevano e si muovevano negli stessi ambienti sociali, sebbene vivessero e lavorassero in diverse parti del mondo. Erano unite dall’idea della donna come guaritrice, nelle vesti di megera, strega, sfinge, eremita o avatar. Hanno sfidato l’autorità, che fosse la morale borghese, il patriarcato, il militarismo, il nazionalismo o il fascismo. Hanno anche aperto la strada alle teorie contemporanee della metamorfosi come divenire e non divenire, sfidando una significazione fissa. Per riprendere la descrizione di Hélène Cixous del testo ibrido, la loro arte ci concede “l’accesso al passaggio, al trans., all’attraversamento dei confini, alla delimitazione di genera-gender-generi e specie” 18. Rifiutando il divario tra arte e vita, queste artiste aprono uno stato dell’essere che Rosi Braidotti definisce “donna/ animale/insetto […] un affetto che scorre” 19. Oggi che la narrativa e la cultura visiva sono diventate così fortemente mediatizzate e tecnologiche, la materialità e l’intimità delle loro storie e immagini è un lusso raro, che tuttavia ancora risuona di potenziale poetico, politico e polivocale, frantumando “la legge” e “la verità” con amore e risate 20. Alyce Mahon è docente di Storia dell’arte moderna e contemporanea presso l’Università di Cambridge. Le sue pubblicazioni includono le monografie Surrealism and the Politics of Eros, 1938–1968 (Thames & Hudson, 2005); Eroticism and Art (Oxford University Press, 2005 e 2007); e The Marquis de Sade and the Avant-Garde (Princeton University Press, 2020); e numerosi saggi critici su figure dell’avanguardia internazionale: Helena Almeida, Hans Bellmer, Leonora Carrington, Ithell Colquhoun, Leonor Fini, Frida Kahlo, Pierre Klossowski, Jean-Jacques Lebel, André Masson, Roberto Matta, Pierre Molinier e Carolee Schneemann. Vive a Cambridge, Regno Unito.
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Ovidio, Le metamorfosi, Roma, Newton Compton, 2016, libro X, 710. André Breton definì la “bellezza convulsiva” come “erotico-velata, esplosivo-fissa, magico-circostanziale”, e l’amour fou come “reciproco e unico”. Si veda André Breton, L’amour fou (1937), Torino, Einaudi, 1980. Robert Desnos, Pygmalion et le Sphinx, in “Documents”, 2(1), 1930, 33–38 (traduzione dal francese; www.research. manchester.ac.uk/portal/ files/63517391/surrealism_issue_7.pdf). André Breton, Posizione politica dell’arte di oggi (1935), in Breton, Manifesti del Surrealismo, Torino, Einaudi, 1970. Leonora Carrington, Commentary, in Leonora Carrington: A Retrospective Exhibition, a cura di Edward James, New York, Center for Inter-American Relations, 1975, 23–24. Leonora Carrington, Il cornetto acustico, Milano, Adelphi, 1984, 22. Leonora Carrington, La Maison de la Peur, prefazione e illustrazioni di Max Ernst, Paris, Henri Parisot, 1938 (ed. inglese Carrington, The House of Fear: Notes from Down Below, introduzione di Marina Warner, London, Virago Press, 1989, 177). Leonora Carrington, What is a Woman (1970), in Surrealist Women: An International Anthology, a cura di Penelope Rosemont, Austin, University of Texas Press, 1998, 372–375: 372. Carrington, Commentary, in Leonora Carrington: A Retrospective Exhibition, cit., 23.
10 Ithell Colquhoun, Water Stone of the Wise, in New Road 1943: New Directions in European Art and Letters, a cura di Alex Comfort e John Bayliss, Essex, Grey Walls Press, 1943, 198–199. 11 Eileen Agar, Religion and the Artistic Imagination, in “The Island”, 1(4), 1931, 102. 12 Eileen Agar, A Look at My Life, London, Methuen, 1988, 147. 13 Rachilde, Monsieur Vénus, Paris, Félix Brossier, 1889, 172, XVI. 14 Leonor Fini, citata in Peter Webb, Sphinx: The Art and Life of Leonor Fini, New York, Vendome Press, 2009, 274. 15 Dorothea Tanning, Birthday, San Francisco, The Lapis Press, 1986, 65. 16 Lewis Carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie, Milano, Bompiani, 2021, 4; Carroll, Sylvie e Bruno, Milano, Garzanti, 1996, 191. 17 Dorothea Tanning, intervista con John Gruen, The Artist Observed, Pennington (GA), A Cappella Books, 1991, 189. 18 Hélène Cixous, “Mamãe, disse ele”, or Joyce’s Second Hand, in Cixous, Stigmata: Escaping Texts, London, Routledge, 1998, 105. 19 Rosi Braidotti, Metamorphoses: Towards a Materialist Theory of Becoming, Cambridge (MA), Polity, 2002, 118. 20 Cfr. Hélène Cixous, The Laugh of the Medusa, in New French Feminisms: An Anthology, a cura di Elaine Marks e Isabelle de Courtivron, New York, Schocken Books, 1981, 258.
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Remedios Varo
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Toyen
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Loïs Mailou Jones
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Baya Mahieddine
Baya Mahieddine
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Ida Kar
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Meret Oppenheim
Mary Wigman
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Alice Rahon
Josephine Baker
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Leonora Carrington, Portrait of the late Mrs Partridge, 1947. Olio su tavola, 100,3 × 69,9 cm. Photo Nathan Keay, immagine courtesy MCA Chicago. Collezione privata, Chicago. © Estate of Leonora Carrington / Artists Rights Society (ARS), NY 2 Remedios Varo, Simpatía (La rabia del gato), 1955. Olio su masonite, 95,9 × 85,1 cm. Collezione Eduardo F. Costantini, Buenos Aires 3 Remedios Varo, Armonía (Autorretrato sugerente), 1956. Olio su masonite, 75 × 92,7 cm. Collezione Eduardo F. Costantini, Buenos Aires 4 Dorothea Tanning, Deirdre, 1940. Olio su tela, 50,8 × 40,6 cm. Collezione Privata. Courtesy The Dorothea Tanning Foundation 5 Ithell Colquhoun, The Pine Family, 1940. Olio su tela, 46 × 54 cm. Photo © The Israel Museum Jerusalem. The Vera and Arturo Schwarz Collection of Dada and Surrealist Art in the Israel Museum 6 Edith Rimmington, The Decoy, 1948. Olio su tela, 35,5 × 30,5 cm. National Galleries of Scotland. Acquistato dai Patrons delle National Galleries of Scotland nel 2002 7 Dorothea Tanning, Avatar, 1947. Olio su tela, 35,6 × 27,9 cm. Collezione privata, Chicago. Courtesy The Dorothea Tanning Foundation 8 Leonor Fini, L’Alcove, 1941. Olio su tela, 73 × 97 cm. Photo Nicholas Pishvanov. Collezione Rowland Weinstein. Courtesy Weinstein Gallery, San Francisco. © Estate of Leonor Fini 9 Jane Graverol, L’École de la Vanité, 1967. Olio e collage su cartone, 70,5 × 106,5 × 5 cm. Photo Renaud Schrobiltgen. Collezione Anne Boschmans. Immagine courtesy Schirn Kunsthalle Frankfurt 10 Leonora Carrington, Ulu’s Pants, 1952. Olio e tempera su tavola, 54,6 × 91,4 cm. Collezione privata. Courtesy Gallery Wendi Norris, San Francisco. © Estate of Leonora Carrington / Artists Rights Society (ARS), NY 11 Eileen Agar, Wisdom Tooth, 1960 ca. Acrilico su tavola, 58 × 69 cm. Photo Alex Fox (Roy Fox Fine Art Photography). Courtesy The Redfern Gallery, London. © The Estate of Eileen Agar 12 Benedetta, Le forze umane. Romanzo astratto con sintesi grafiche (illustrazione in copertina). Foligno, Franco Campitelli Editore, 1924. Courtesy Biblioteca comunale Augusta di Perugia 13 [13a–13b] Benedetta, Le forze umane. Romanzo astratto con sintesi grafiche (illustrazioni). Foligno, Franco Campitelli Editore, 1924. Courtesy Ministero della Cultura – Biblioteca Nazionale Marciana 14 Enif Robert, Un ventre di donna. Romanzo chirurgico di Enif Robert e Filippo Tommaso Marinetti (copertina). Facchi editore Milano, 1919. Collezione della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
15 Valentine Penrose, Ariane, 1934 ca. Collage su carta, 16,2 × 20,3 cm. © The Artists Estate. All rights reserved. Supplied courtesy of The Roland Penrose Collection 16 Carol Rama, Appassionata, 1941. Acquarello su carta, 33 × 23 cm. Photo Sebastiano Pellion. Collezione privata 17 Gertrud Arndt, Maskenselbstbildnis Nr. 16, 1930. Da portfolio Maskenselbstbildnisse (ristampato nel 1996), 24,1 × 19,3 cm. Museum Folkwang, Essen. Photo © Jens Nober 18 Gertrud Arndt, Maskenselbstbildnis Nr. 13, 1930. Da portfolio Maskenselbstbildnisse Silbergelatineabzug (ristampato 1996), 24,1 × 19,3 cm. Museum Folkwang, Essen. Photo © Jens Nober 19 Nadja, C’est moi, c’est encore moi, 1926. Rossetto e matita su carta, 9,2 × 11,6 cm. Collezione Chancellerie des universités de Paris, Bibliothèque littéraire Jacques Doucet 20 Florence Henri, Portrait Composition. Petro (Nelly) van Doesburg, 1930 ca. / 2014 ca. Stampa ai sali d’argento, 40,5 × 30 cm. Courtesy Archives Florence Henri; Galleria Martini & Ronchetti Genoa. © Martini & Ronchetti 21 Toyen, The Shooting Gallery (Střelnice), 1939–1940. Da portfolio di 12 foto-litografie, 32 × 44 cm ognuna. Originariamente pubblicato da Fr. Borový, Prague, 1946 22 Claude Cahun, Self portrait (reflected image in mirror, checquered jacket), 1928. Negativo monocromo, 11,8 × 9,4 cm. Courtesy the Jersey Heritage Collections 23 Claude Cahun, Je tends les bras, 1931. Negativo monocromo con sfumatura rosa, 11 × 9 cm. Courtesy the Jersey Heritage Collections 24 Loïs Mailou Jones, Africa, 1935. Olio su tela su tavola, 61 × 51 cm. The Johnson Collection, Spartanburg, South Carolina 25 Meta Vaux Warrick Fuller, Maquette per Ethiopia Awakening, 1921. Gesso dipinto, 35,3 × 8,25 × 12,7 cm. Photo Will Howcroft. Collezione Danforth Art Museum presso Framingham State University, Framingham, Massachusetts. Dono del Meta V. W. Fuller Trust. Courtesy the Meta V. W. Fuller Trust 26 Augusta Savage, Lift Every Voice and Sing (The Harp), 1939. Bronzo, 27,3 × 24,1 × 10,2 cm. Photo Ryan Fairbrother. Courtesy Thomas G. Carpenter Library, Special Collections and University Archives, Jacksonville, FL: University of North Florida 27 Laura Wheeler Waring, “The Crisis”, aprile 1923 (illustrazione in copertina). Courtesy Schomburg Center for Research in Black Culture, Jean Blackwell Hutson Research and Reference Division, The New York Public Library
28 Laura Wheeler Waring, “The Crisis”, dicembre 1928 (illustrazione in copertina). Courtesy Schomburg Center for Research in Black Culture, Jean Blackwell Hutson Research and Reference Division, The New York Public Library 29 Laura Wheeler Waring, “The Crisis”, settembre 1924 (illustrazione in copertina). Courtesy Schomburg Center for Research in Black Culture, Jean Blackwell Hutson Research and Reference Division, The New York Public Library 30 Amy Nimr, Untitled (Fish and Skeletons), 1936. Acquarello su carta, 55 × 42,5 × 3 cm. Collezione Sheikh Hassan M. A. Al-Thani 31 Amy Nimr, Untitled (Underwater Skeleton), 1942. Gouache su legno, 63 × 54,5 × 5 cm. Collezione Sheikh Hassan M. A. Al-Thani 32 Antoinette Lubaki, Untitled (three characters under a tree), 1929 ca. Acquarello su carta, 52 × 66 cm. Photo Fabrice Jousset. Collezione privata, Parigi. Courtesy MAGNIN-A Gallery, Paris; Cornette de Saint Cyr, Paris. © Antoinette Lubaki 33 Baya Mahieddine, Femme robe jaune cheveux bleus, 1947. Gouache su tavola, 70 × 54 cm. Collezione Jules Maeght, Parigi. © Photo Galerie Maeght, Paris 34 Baya Mahieddine, Femme au panier et coq rouge, 1947. Gouache su tavola, 73 × 91,5 cm. Collezione Adrien Maeght, Saint Paul. © Photo Galerie Maeght, Paris 35 Ida Kar, Surreal Study, 1947 / 2016 ca. Fotografia, stampa moderna al bromuro, 25,4 × 20,6 cm. Collezione National Portrait Gallery, London. © National Portrait Gallery, London 36 Mary Wigman, Mary Wigman tanzt (still), 1932. Film, ca. 10 min. Collezione BundesarchivFilmarchiv, Berlin. Film: K164573-1. © Mary Wigman Stiftung / Deutsches Tanzarchiv Köln 37 Meret Oppenheim, Der Spiegel der Genoveva, 1967. Stampa, 25 × 17 cm. Collezione privata 38 Valentine de Saint-Point, Metachoric Gestures (Gestes Métachoriques), 1914–1923. Xilografia originale, edizione limitata su carta Lafuma Pur Fil, 19 × 14 cm. Adrien Sina Collection, Feminine Futures 39 Alice Rahon, The Juggler, 1946. Marionetta in filo metallico, 58 × 38 × 12 cm. Collezione Francisco Magaña Moheno and Carlos Santos 40 Josephine Baker, Dans Revue des Folies Bergère, danse avec plumes... (still), 1925. Film, 56 sec. Courtesy GP archives. Collezione Gaumont Actualité 41 [41–43] Maya Deren, The Witch’s Cradle (stills), 1943. Film, 12 min 40 sec. Courtesy The New American Cinema Group, Inc./The Film-Makers’ Cooperative
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BIO GRAFIE DELLE ARTISTE
(p. 99)
E I L E E N AGA R 1899, Buenos Aires, Argentina – 1991, Londra, UK Bum and Thumb Rock – letteralmente “Roccia sedere-pollice” – è una delle settanta fotografie in bianco e nero che l’artista Eileen Agar realizza nell’estate del 1936 a Ploumanac’h, un paese sulle rive francesi della Manica. Come altre nella serie, l’immagine sembra immortalare la calma placida del paesaggio costiero ma, suggerendo una somiglianza tra le linee sinuose di un’imponente roccia e le rotondità di un fondoschiena umano, è animata da una vena umoristica che, insieme alla fascinazione per il mondo naturale, diventerà il tratto distintivo del linguaggio artistico di Agar. Già qualche mese prima dello scatto, l’artista Roland Penrose e il critico Herbert Read avevano associato la fervida immaginazione di Agar alla sensibilità surrealista e, includendo alcuni suoi lavori nella prima mostra inglese del movimento, avevano celebrato la capacità con cui riusciva a mitigare il senso onirico proposto dall’avanguardia con un’estetica vagamente frivola. Nel 1936, quasi a dimostrazione della stravaganza evidenziata dai colleghi, Agar realizza e indossa uno strano cappello, Ceremonial Hat for Eating Bouillabaisse: un copricapo scultoreo e appuntito, fatto di sughero e dipinto di blu e giallo, riccamente decorato con diversi tipi di conchiglie, scampoli di tessuto, fiori di plastica e pezzi di corteccia. Ancorati alla struttura del cappello come molluschi a uno scoglio, questi strani oggetti naturali e artificiali simulano la tradizionale zuppa francese a cui l’artista dedica il titolo dell’opera e, ancora una volta con estrema ironia, ribadiscono l’immaginario alla base del progetto artistico di Agar. Tutti i lavori che l’artista realizza a partire dagli anni Trenta sembrano volersi allineare all’estetica delle singolari formazioni rocciose di Ploumanac’h e, anche quando non si presentano come veri e propri assemblaggi tridimensionali, sono dotati di una spiccata plasticità. La stratificazione del colore nei dipinti, ad esempio, conferisce volume alla superficie e, come nel caso di Wisdom Tooth (1960 ca.), restituisce l’immagine di un paesaggio aggredito da incrostazioni organiche e inorganiche. Tra sacche di colore scuro,
fondali blu oltremare, pattern geometrici e qualche sagoma floreale verde acido, emerge distintamente la figura di un dente che, come unica componente umana del dipinto, è al centro di una simbologia onirica e a prima vista incomprensibile. Ogni opera di Agar è un collage di immagini e oggetti che trasportano lo spettatore in una realtà certamente più magica – o ironica – di quella di partenza. – SM
(p. 102)
G E RT RU D A R N D T 1903, Ratibor (Racibórz), Impero Tedesco (attuale Polonia) – 2000, Darmstadt, Germania Nel 1929, qualche tempo dopo la fine dei suoi studi in Arti applicate alla Bauhaus, l’artista Gertrud Arndt torna nell’istituto di Dessau insieme al marito, divenuto docente, e si dedica all’unico, grande progetto fotografico della sua carriera: Maskenselbstbildnis (1930). Si tratta di quarantatré scatti in bianco e nero in cui l’artista, vestita in maniera eccentrica, impersona numerose e differenti tipologie di donne. Alcune di loro incarnano l’ideale di una donna moderna, altre sembrano riferirsi a qualche tradizione orientale, talvolta pare addirittura di riconoscere qualche omaggio alla storia dell’arte o l’alter ego di qualche famosa attrice. Più in generale, ogni fotografia è il frammento di un’identità ad ampio spettro che non esclude giovani ragazze, vedove addolorate, geisha piangenti o signore riccamente ingioiellate con cappelli decorati di piume e fiori. Nel più famoso e iconico Maskenselbstbildnis Nr. 13, ad esempio, Arndt ha labbra truccate, nasconde i capelli corti sotto un cappello a cloche e copre viso e spalle con una veletta trasparente in organza ricamata: rappresenta l’ideale di donna cui nella Repubblica di Weimar e, proprio come un prototipo della Neue Frau (Donna nuova), ha lo sguardo fiero di chi sente di avere un ruolo sociale e utilizza la moda per raccontarlo. Per quanto anche Arndt creda in questo specifico ideale di femminilità – e lo dimostrano altre immagini non riferibili a questo progetto – lo scopo dei suoi autoritratti è assolutamente ludico e risponde a un’evidente urgenza espressiva. Nel momento in cui realizza gli scatti, infatti, l’artista ha appena abbandonato definitivamente
la sua carriera di designer tessile e non ha mai usato la fotografia se non come medium utile a documentare oggetti di design o costruzioni architettoniche. In questo senso Maskenselbstbildnis ha tutta l’aria di essere un riscatto artistico che, pur con l’utilizzo di set e tecniche di stampa rudimentali, ottiene risultati singolari che si collocano a cavallo tra la bizzarria del Surrealismo e la lucida rappresentazione del movimento fotografico conosciuto come Neue Sehen (Nuova Visione). Tra tutti i membri della comunità scolastica della Bauhaus, Gertrudt Arndt è sicuramente tra le artiste più indipendenti e, ben oltre qualsiasi rigore formale proposto dalle colleghe e dai colleghi, dimostra di saper esplorare le molteplici sfumature della sua identità mettendosi teatralmente al loro servizio. – SM
(p. 109)
JOSEPHINE BAKER 1906, Saint Louis, USA – 1975, Parigi, Francia Abiti succinti e spesso inesistenti, movimenti sensuali e sfrontati, capelli corti e laccati che incorniciano una buffa mimica facciale, sono solo alcuni degli elementi che ricorrono negli spettacoli di Josephine Baker, la cantante e danzatrice americana che, a partire dagli anni Trenta, diventa internazionalmente un simbolo di riscatto per la comunità nera. Dopo una giovinezza trascorsa tra le ostilità del Midwest segregazionista, l’estrema povertà famigliare e le prime esibizioni in mediocri compagnie di teatro e vaudeville, Baker si trasferisce a Parigi nel 1925 e, a soli diciannove anni, debutta al Théâtre des Champs-Élysées con un primo spettacolo musicale intitolato Revue nègre. Sono gli anni in cui la politica coloniale francese è al massimo del suo sviluppo e non stupisce che le sue performance europee ottengano un tale e immediato successo. Sul palcoscenico, infatti, Baker è sempre immersa in un’atmosfera forzatamente carica di stereotipi riferiti alla cultura africana: vertiginose gonne fatte di banane, palme, maschere, frutti di colori sgargianti e perfino un ghepardo chiamato Chiquita, che l’artista tiene come compagno di scena e animale domestico. Nel filmato muto che la ritrae sul palco del famoso music hall parigino Folies Bergère, ad esempio, Baker
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esegue esuberanti sgambettamenti charleston mentre, a seno nudo, riccamente ingioiellata e vestita con un eccentrico costume di piume, appare come un’ipnotica divinità, moderna e selvaggia allo stesso tempo. La sensualità del suo fisico e l’erotismo della danza – di per sé rari in un contesto culturale conservatore come quello dell’epoca – sono tuttavia smorzati da un’espressività spiccatamente comica che, almeno fino agli anni Cinquanta, rimane la sua caratteristica distintiva. A partire dal secondo dopoguerra, dopo aver inciso album musicali ed essere ormai diventata la prima donna nera a ottenere un simile successo, Baker comincia a caricare i suoi spettacoli di messaggi sociali e civili. Memorabili sono gli episodi in cui si rifiuta di esibirsi davanti a un pubblico di soli bianchi, risponde apertamente alle minacce del Ku Klux Klan o partecipa alla Marcia su Washington del 1963 al fianco di Martin Luther King. Questo impegno politico la porterà anche all’adozione di dodici bambine e bambini da tutto il mondo che, chiamati affettuosamente tribu arc-en-ciel (tribù arcobaleno), le staranno accanto fino alla morte, sopraggiunta improvvisamente qualche giorno dopo aver celebrato il suo cinquantesimo anno di carriera con un ultimo spettacolo parigino. – SM
(p. 100)
B E N E D E T TA 1897, Roma, Italia – 1977, Venezia, Italia Nel 1924, quando Benedetta Cappa pubblica il suo primo libro Le forze umane: romanzo astratto con sintesi grafiche e decide di omettere il proprio cognome, il Futurismo è impegnato in un radicale processo di rinnovamento destinato a mitigare l’impeto ideologico precedente. Come le esponenti e gli esponenti del cosiddetto “Secondo Futurismo” – non ultimo il marito Filippo Tommaso Marinetti –, Benedetta affronta progressivamente questa transizione e, alla costante ricerca dell’opera d’arte totale, uniforma la sua produzione cercando di intrappolare la dimensione occulta e cosmologica che governa i fenomeni tradizionalmente esaltati dall’avanguardia. Simulando le prospettive vertiginose della tecnologia aeronautica e raggiungendo la “spiritualità extraterrestre” proposta dal Manifesto dell’Aeropittura di cui nel 1929 è unica co-firmataria donna, i lavori pittorici di Benedetta riproducono un immaginario sospeso e irreale. Ma mentre l’astrattismo del dipinto Velocità di un motoscafo (1922), o del ciclo Sintesi delle comunicazioni (1933–1934), è ancora votato alla più futurista celebrazione del progresso, la scrittura di Benedetta esprime il senso
di una completa rivoluzione spiritualista. La sua produzione letteraria, che diventa verbo-visiva se si contano i componimenti paroliberi e le sintesi grafiche di accompagnamento alla prosa, racconta la storia di personaggi solo apparentemente ordinari che vivono esperienze dal sapore eccezionalmente mitico. Luciana, ad esempio, l’alter ego di Benedetta in Le forze umane, è una ragazza della periferia romana che, insofferente e ansiosa per le vicissitudini famigliari, è alla continua ricerca della propria identità. Il realismo autobiografico è intervallato da capitoli astratti che, usando un linguaggio pseudoscientifico e servendosi di diciannove illustrazioni a inchiostro nero, esprimono il ruolo e la forma delle emozioni vissute dalla protagonista: poche linee sinuose bastano a descrivere le forze che muovono il corpo femminile; un groviglio di linee spezzate corrisponde a una potente fisicità maschile; o, come nella sintesi grafica Contatto di due nuclei potenti (femminile e maschile), una strana commistione di questi segmenti aiuta a immaginare le scintille generate dal loro rapporto. Che sia o meno un riferimento autobiografico all’incontro con Marinetti, questo disegno è un condensato di tutte le nozioni che l’autrice deve aver assimilato dalla sua formazione valdese e steineriana. Sogno e realtà, razionalità e spiritualità, coscienza e subconscio sono alla base anche dei successivi romanzi e, più in generale, di una produzione artistica che mette l’individuo al centro di un inedito Futurismo cosmologico. – SM
(p. 103)
CLAUDE CAHUN 1894, Nantes, Francia – 1954, Saint Helier, Jersey, UK Lucy Renée Mathilde Schwob, nota come Claude Cahun, è famosa per i suoi autoritratti performativi che distorcono le rappresentazioni di genere, spesso realizzati in collaborazione con la sorellastra e amante Marcel Moore. A dispetto delle norme di genere strettamente binarie dell’Europa degli anni Venti, Cahun e Moore adottano tanto pseudonimi quanto modalità di presentazione di sé decisamente androgini, sia nell’arte sia nella vita. Sperimentando con i limiti culturalmente codificati della femminilità, Cahun può essere intesa come l’antesignana di artiste quali Martha Wilson, Cindy Sherman e Gillian Wearing. Nelle sue fotografie, Cahun si trasforma in una serie di personaggi – una seducente civettuola mascherata in Self portrait (in robe with masks attached) (1928); una matrona maliziosa in Self portrait (with Nazi badge between her teeth) (1945); o anche, come
in Je tends les bras (1931), uno zoccolo di pietra con arti –, trattando l’identità come luogo del travestimento. Il suo frequente uso del rispecchiamento o del doppio – come in Self portrait (reflected image in mirror, chequered jacket) (1928), o in Hands and Table (untitled) (1936) – crea composizioni inquietanti e psicologicamente cariche, mentre lancia un riferimento ammiccante al desiderio sessuale omoerotico o narcisistico. Nel 1920, Cahun si trasferisce con Moore a Parigi, dove si esibisce in diverse produzioni teatrali sperimentali che la introducono ai membri del circolo surrealista. Sebbene gli artisti surrealisti sposassero sentimenti antiborghesi e fossero aperti alle influenze extraeuropee, manifestavano nozioni retrograde riguardo alle donne e all’omosessualità. Le donne, nel Surrealismo, erano spesso ridotte al ruolo di musa, o rappresentate tramite parti del corpo frammentate e simili a oggetti. Pur essendo stilisticamente allineata al movimento, Cahun rimane separata e distinta da esso. Keepsake (1932), ad esempio, raffigura la testa di Cahun in una serie di quattro campane di vetro, evocative delle teche usate nel XIX secolo per osservare e analizzare gli oggetti. La messa in scena e il taglio fotografico della testa la fanno apparire mozzata, suggerendo un impiego del tropo surrealista del corpo femminile smembrato e sezionato; gli occhi, tuttavia, non sono passivi, rispondono direttamente allo sguardo dello spettatore o scrutano attivamente l’ambiente circostante. Cahun rifiuta la figura della musa, eludendo la categorizzazione grazie al potere dell’ambiguità e della continua trasformazione. Nel 1937, Cahun e Moore si trasferiscono sull’isola di Jersey, dove organizzano campagne di resistenza contro gli occupanti nazisti distribuendo volantini ai soldati. Durante le loro campagne, Cahun e Moore impiegano il loro incessante role playing per passare in incognito, travestendosi da persone anziane. Ciononostante, vengono infine arrestate e condannate a morte, pena poi commutata in ergastolo; vengono rilasciate alla liberazione dell’isola nel maggio 1945. – LC e IW
(p. 94)
LEONORA CARRINGTON 1917, Clayton-le-Woods, UK – 2011, Città del Messico, Messico Una strana figura femminile emerge da un fondo rosso scuro e, ferma in piedi, leggermente sproporzionata, è vestita con un lungo abito color senape. Ha fattezze umane fino alle spalle, poi il suo viso assume la forma di una farfalla nera che si rivolge allo spettatore con due ipnotici occhi gialli. In Portrait of Madame Dupin (1949)
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Padiglione Centrale
la protagonista tiene stretta al grembo una creatura ancora più bizzarra di lei, probabilmente suo figlio, che ha un corpo nodoso e sembra una grossa radice. È un essere ibrido umano-vegetale e, come la madre-insetto o la maggior parte dei personaggi che popolano dipinti, disegni e racconti di Leonora Carrington, pare l’ovvio risultato del mondo metà reale e metà fantastico in cui l’artista crede fin da bambina. A partire dai tardi anni Venti, appena adolescente, Carrington inizia a costruire un universo di mitologie personali che, influenzate dalle leggende celtiche raccontatele dalla madre irlandese, sono inevitabilmente destinate a sovrapporsi a quelle delle colleghe e dei colleghi surrealisti. Trasferitasi a Parigi nel 1936, l’artista perfeziona il suo immaginario e si avvicina alla letteratura magica, alchemica, astrologica e cabalistica intrappolandone il senso nei primi dipinti e scritti. Nel 1942, dopo che lo scoppio della Seconda guerra mondiale la costringe a una forzata separazione dal compagno Max Ernst e le provoca un duro tracollo psicologico che la tratterrà per un anno in un manicomio spagnolo, Carrington si trasferisce a Città del Messico e si unisce alla celebre comunità di artiste europee espatriate. Qui il suo linguaggio artistico raggiunge una drammatica maturazione e, attento alla mitologia della cultura locale, si popola di figure femminili spesso mostruose e pervase da forze occulte, cosmologiche ed evidentemente spirituali. In Portrait of the Late Mrs Partridge (1947), ad esempio, l’artista rappresenta una donna alta e possente che, con il collo allungato, la testa decisamente piccola e i capelli elettrizzati, è vestita con una tonaca rosso carminio mentre accarezza un enorme uccello blu. Carrington la raffigura come una divinità medievale e, come nel caso della Signora Dupin, la rende magica: capace di comprendere, forse addirittura influenzare, gli umori della natura tempestosa che la circonda. – SM
(p. 96)
ITHELL COLQUHOUN
il potere della sessualità femminile. Il 1936 vede l’apertura dell’International Surrealist Exhibition alle New Burlington Galleries di Londra – la prima grande mostra surrealista fuori dalla Francia –, così come la fondazione dell’“International Surrealist Bulletin”, che inaugura ufficialmente il British Surrealist Group che avrebbe incluso tra i suoi membri Eileen Agar e Paul Nash. Colquhoun si unisce al gruppo nel 1939 per lasciarlo solo un anno dopo, rifiutando di rinunciare al suo coinvolgimento con gruppi occulti, o di mostrare fedeltà al solo surrealismo britannico. Fortemente influenzata da W.B. Yeats e da altri scrittori irlandesi, il suo interesse per l’esoterismo celtico la porta a trasferirsi in Cornovaglia nel 1940, dove si dedica sempre più alla mitologia, all’alchimia e all’occulto. The Pine Family (1940) ritrae tre forme pelviche che suggeriscono simultaneamente parti del corpo mutilate e tronchi d’albero abbattuti, con piante stilizzate che richiamano dei peli pubici. L’oscuro arto sul fondo della tela è etichettato come “celle qui boite” (colei che zoppica). Si tratta di un gioco sul nome “Gradiva” (colei che cammina), dato a un’anonima donna su un bassorilievo romano in una novella di Wilhelm Jensen e successivamente adottata come soggetto di uno studio di Sigmund Freud del 1908, nonché musa preferita degli artisti surrealisti. La figura colorata di rosso che fluttua ambiguamente in primo piano è etichettata con un cartellino che recita “l’hermaphrodite circoncis”: l’ermafrodita circonciso. Nella metà superiore del quadro, una terza figura è contrassegnata da una bandiera bianca recante il nome “Atthis”, riferimento a un personaggio che compare nella poesia d’amore della scrittrice greca arcaica Saffo. Alludendo a falli disincarnati e alla mitologia antica, il dipinto presenta un utilizzo di tropi e simbolismo freudiani legati alle teorie sul feticismo e sull’angoscia da castrazione, così come di vari registri e marcatori semiotici che segnalano il genere e il sesso. Impegnata nell’esplorazione dell’androginia, Colquhoun sposta e sovverte i desideri eterosessuali maschili che proliferavano nelle correnti maschili del Surrealismo. – LC
1906, Shillong, India – 1988, Lamorna, UK Nata in India da una famiglia di funzionari britannici, Ithell Colquhoun si trasferisce in Inghilterra in giovane età. Si dedica all’arcano per tutta la vita, praticando attività esoteriche alla ricerca della spiritualità femminile divina e studiando l’inconscio e le tecniche artistiche surrealiste, quali l’automatismo. A caratterizzare i suoi dipinti è una fusione tra immagini evocanti sensuali forme di genitali e i paesaggi in cui queste sono immerse, con una precisa esplorazione dei rapporti spirituali femminili con le correnti magnetiche della Terra, spesso a dimostrare la ribellione delle donne e
movimento, infatti, la declamazione assume i toni di una feroce invettiva contro il femminismo di quegli anni e appare come un’accusa a tutte quelle donne che, definite con disprezzo “femmine”, rifiutano di adottare un comportamento virile, violento e crudele per rendersi intellettualmente indipendenti. A dimostrazione della sua coerente adesione ai contenuti del suo primo documento programmatico e ai principi che saranno poi ribaditi nel Manifeste futuriste de la luxure (1913), la stessa de Saint-Point ha un’esistenza assolutamente irrequieta e appare come una donna tanto provocante quanto capace di condurre una carriera artistica versatile. Protagonista indiscussa del circolo culturale parigino, è musa, amica e compagna dei personaggi più in vista delle avanguardie europee e si serve della lussuria, da lei celebrata, come elemento essenziale per misurarsi con tutte le discipline artistiche – dalla pittura alla poesia, dalla letteratura all’incisione. Nel 1914, ormai sfumata la sua fede futurista, de Saint-Point si dedica completamente alla danza e propone una nuova forma di espressione coreutica che definisce Métachorie – dal greco “oltre il coro”. Si tratta di coreografie rese sensoriali dall’uso di proiezioni e profumi, che alternano il movimento alla declamazione di componimenti poetici. Lo spettacolo prevede che la performer entri in scena bendata e, vestita con costumi orientaleggianti o medievali, esegua movimenti e gestualità cosiddette idéiste (ideali); una serie di incisioni su fondo nero ritrae proprio queste pose e, con veloci segni graffiati, documenta l’atmosfera mistica della scena. Ampiamente criticata dagli ex colleghi futuristi, Valentine de Saint-Point abbandona le Méthacorie dopo poche presentazioni teatrali – due delle quali a Parigi e New York – e inizia un peregrinaggio cosmopolita alla ricerca di una nuova identità artistica. Dopo aver cercato di avviare una comunità di intellettuali in Corsica, essersi trasferita in Egitto e aver aderito al Sufismo, muore al Cairo nel 1953, sola e completamente dimenticata. – SM
(p. 108)
VA L E N T I N E D E S A I N T- P O I N T
LISE DEHARME E RAC H I L D E
1875, Lione, Francia – 1953, Il Cairo, Egitto
1898, Parigi, Francia – 1980, Neuilly-sur-Seine, Francia
Durante l’inaugurazione di una mostra di pittura futurista alla Galerie Georges Giroux di Bruxelles nel 1912, l’artista francese Valentine de Saint-Point recita il suo Manifeste de la Femme futuriste, espressione di una delle più radicali e controverse posizioni ideologiche dell’avanguardia. Nata in risposta alla risaputa misoginia del
1860, Cros, Francia – 1953, Parigi, Francia Nonostante siano opere di due scrittrici diverse, le separi più di mezzo secolo e si differenzino per la sensibilità letteraria cui aderiscono, il romanzo decadentista Monsieur Vénus (1884) di Rachilde
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La culla della strega
(pseudonimo di Marguerite Eymery) e quello surrealista Oh! Violette, ou La Politesse des végétaux (1969) di Lise Deharme, sembrano uniti da un’insolita serie di affinità. Oltre a condividere lo scandalo suscitato al momento della loro pubblicazione e la tenacia con cui lo hanno affrontato le loro autrici, entrambi i libri raccontano la storia di due donne dotate di una femminilità dirompente e impostano un curioso parallelismo tra le loro vicende amorose e la natura metamorfica del mondo vegetale. Primo in ordine di pubblicazione, Monsieur Vénus è la storia di Raoule de Vénérande, una nobildonna francese spiccatamente mascolina che, innamoratasi del giovane ed efebico fioraio Jacques Silvert, lo trascina in un ambiguo gioco di dominazione psicologica e fisica. La fluidità di genere dichiarata fin dal titolo del libro è la stessa che guida le avventure onirico-erotiche della giovane protagonista di Oh! Violette, ou La Politesse des végétaux, che nel corso della narrazione dichiara apertamente di leggere una versione introvabile di Monsieur Vénus e, quasi sempre nuda e circondata da piante e fiori, si abbandona alle attenzioni dei suoi ammiratori. A ulteriore dimostrazione della strana parentela che li lega, i romanzi sono scanditi da un corpus visuale concepito dall’artista Leonor Fini. Le trentacinque illustrazioni in bianco e nero contenute nella seconda edizione di Monsieur Vénus, pubblicata nel 1972, richiamano l’audacia degli otto disegni su fondo fucsia che accompagnano la prima uscita di Oh! Violette: in entrambi i volumi, i corpi delle due protagoniste sono spesso nudi e androgini mentre, circondati da un’iconografia vegetale, sono abbozzati con linee sinuose e seducenti tanto simili da colmare la distanza generazionale tra le autrici. Alla fine degli anni Venti, Rachilde si ritira dalle scene parigine dopo averle stravolte con una letteratura considerata pornografica, mentre Deharme si avvicina al circolo surrealista influenzandone lo sviluppo ideologico con le sue narrazioni rivoluzionarie. Non sappiamo se si siano mai incontrate, ma le tante affinità che le accomunano, rimandano alla medesima fierezza con cui le autrici propongono la figura di una donna moderna e imponente. – SM
(p. 110)
M AYA D E R E N 1917, Kiev, Ucraina – 1961, New York City, USA “The beginning is the end” (l’inizio è la fine) è scritto sulla fronte di una donna attorno a un pentacolo – un simbolo occulto a forma di stella che evoca fenomeni magici e l’elemento della terra. La scritta può
essere letta in ciclo continuo: the beginning is the end is the beginning is… (l’inizio è la fine è l’inizio è…), un mantra, forse, per la regista sperimentale Maya Deren, che sceglie l’attrice Pajorita Matta per vagare da un rituale all’altro nel cortometraggio surrealista The Witch’s Cradle (1943). Muto e girato in bianco e nero, è uno dei lavori meno conosciuti di Deren, realizzato poco prima di Meshes of the Afternoon (1943) – quest’ultimo considerato uno dei film sperimentali più influenti nella storia del cinema americano. Deren non termina The Witch’s Cradle, fatto che al contempo lo rende un’opera unica all’interno del suo corpus e gli attribuisce delle spiccate qualità surrealiste. La sceneggiatrice e regista, nel perseguire un risultato molto più mistico, rifugge gli archi narrativi classici, i tempi e i luoghi intellegibili. Il titolo del film richiama il gioco conosciuto come “Culla del gatto”, nel quale due o più persone compongono una varietà di figure intrecciando un elastico. Il filo conduttore in questa storia insolita non è altro che quello stesso filo, uno spago, che si fa strada da una mano furtiva a una stanza buia, serpeggiando sul collo di una giacca per tornare a delle mani aperte, non la culla del gatto, ma la culla della strega. Il film si apre con un primo piano del naso e delle labbra di Matta per poi saltare rapidamente a un uomo, interpretato da Marcel Duchamp, che sembra essere stato chiamato direttamente dalla culla della strega, con lo spago aggrovigliato tra le dita. In un lampo Duchamp scompare e il film taglia su un cuore che batte, un’inquadratura persistente, che rende il pubblico improvvisamente e acutamente consapevole del proprio ritmo interno. Il cuore dello spettatore e il cuore ripreso si fondono in un unico battito sincronizzato e il presente scivola nel passato, verso un momento rivoluzionario del cinema americano. Per Deren, il cinema deve consentire errori, provocare e, in definitiva, creare un’esperienza. La regista è una fiera sostenitrice dell’avanguardia newyorkese e odia Hollywood. Parte integrante della scena bohémienne del Greenwich Village, le sue ricerche artistiche attraversano trasversalmente cinema, danza, poesia, fotografia e teoria. Deren muore troppo giovane, all’età di quarantaquattro anni, ma la sua opera, dai tratti indomitamente femministi, anti-establishment, spirituali e curiosi, lascerà un segno indelebile per generazioni di artisti e cinefili a venire. La fine, per Deren, è anche l’inizio. – IA
(p. 97)
LEONOR FINI 1907, Buenos Aires, Argentina – 1996, Parigi, Francia Nata in Argentina da genitori italiani, all’età di due anni Leonor Fini si rifugia con la madre a Trieste, fuggendo così da un padre oppressivo. Nel corso del tempo, i molteplici tentativi del padre di riportarla in Argentina, tra cui anche un tentato rapimento, la spingono a camuffarsi da ragazzo, gettando le basi per i suoi travestimenti e le sue inversioni di genere. Una malattia, che durante l’adolescenza la costringe a tenere gli occhi bendati per due mesi, stimola lo sviluppo del suo complesso immaginario visivo attinto dai sogni, dalla psiche e dalla pura immaginazione. Negli anni Trenta conosce l’artista Giorgio de Chirico, che le consiglia di trasferirsi a Parigi e le fa conoscere i surrealisti, tra cui André Breton e Salvador Dalí. Fini rifiuta l’invito a unirsi ufficialmente al gruppo, rigettando l’idea tradizionale che Breton ha delle donne. Icona femminista, stravagante e indipendente, Fini, che è solita abbigliarsi in maniera eccentrica e teatrale ornandosi con maschere e vesti strappate, è spesso immortalata nelle fotografie di Lee Miller e Dora Maar. Mentre coltiva l’amicizia con Meret Oppenheim e Leonora Carrington, Fini espone a New York, Parigi e Londra accanto ad artisti del calibro di Max Ernst, e nel 1943 il suo lavoro viene incluso nella mostra 31 Women organizzata da Peggy Guggenheim a New York presso la sua galleria Art of This Century. Fini si costruisce una carriera artistica che, dall’ambito del disegno e della pittura, passa a includere quelli della letteratura e della moda, illustrando diversi libri famosi, lavorando per la stilista italiana Elsa Schiaparelli e disegnando costumi per il balletto, il teatro e il cinema, tra cui quelli per 8½ di Federico Fellini. Fini è interessata al macabro e visita gli obitori per studiare i cadaveri. Questa propensione si traduce in un incontro sensuale con il corpo momentaneamente immobile di Nico Papatakis in L’Alcove. Nel dipinto, Fini, seduta sul bordo del letto, ammira il corpo dell’androgino e sinuoso nudo maschile che riposa castamente in un boudoir incorniciato da voluttuosi drappeggi. Lei posa lo sguardo sulle lunghe dita pudicamente e strategicamente disposte. Invertendo i ruoli, Fini destabilizza i costumi sociali poiché la figura nega le tradizionali caratteristiche maschili: potere, virilità e stoicismo. Esplorando dominazione e sottomissione, Femme assise sur un homme nu (1942) ritrae Fini – vestita con audaci abiti di velluto seduta su un uomo nudo addormentato – mentre torreggia sul paesaggio dello sfondo. Battendosi per un maggiore equilibrio tra il maschile e il femmi-
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nile, cerca di raffigurare la Neue Frau (Donna nuova), rappresentandola in numerosi dipinti attraverso l’immagine della forte figura mitologica della sfinge ibrida: in parte donna, in parte felino. – LC
l’immagine di una figura femminile capace di rendersi fautrice del proprio destino trasformando le sue componenti corporee in potenti armi di riscatto sociale. – SM
(p. 102) (p. 98)
J A N E G R AV E R O L 1905, Ixelles, Belgio – 1984, Fontainebleau, Francia Nonostante l’incondizionata adesione al movimento surrealista belga, la sensibilità artistica di Jane Graverol sembra rivendicare una convinta autonomia stilistica. Del gruppo formatosi intorno al noto pittore René Magritte, Graverol ricalca soprattutto la costruzione di immaginari onirici e concettuali ma, in maniera inedita rispetto ai colleghi uomini, produce composizioni in cui prevale una figura femminile fiera e decisa. Mentre gli esponenti del Surrealismo sono soliti riferirsi alla donna come una musa idealizzata e mansueta, Graverol propone la rappresentazione di un corpo erotico che, quando non emerge dal paesaggio naturale o appare come un’illusione ottica, assume sembianze animalesche tra il grottesco e il fantastico. Angeli, fenici, draghi e altre creature alate, abitano i suoi lavori pittorici fin dalle prime sperimentazioni ma diventano ricorrenti intorno agli anni Sessanta, quando l’artista avvia nuove sperimentazioni tecniche. Accanto alla pittura a olio, all’acquerello e ai pastelli, il collage le permette di accostare immagini prelevate da libri o riviste e, grazie alla natura ibrida del montaggio, di esprimere al meglio il processo di metamorfosi che impegna la maggior parte dei suoi soggetti femminili. La sfinge nell’École de la vanité (1967), incarna precisamente questa estetica e, esasperando l’ambiguità dell’icona mitologica ritratta anche in un piccolo quadro alle sue spalle, restituisce l’immagine di una femminilità mostruosa ma consapevole della propria sensualità. Sebbene le sue viscere siano grovigli di ingranaggi meccanici e il suo corpo sia dotato di ali e coda, il viso è delicato e seducente come il fiore che tiene tra le zampe. Senza volerla considerare un difetto, Graverol propone questa vanità come uno strumento essenziale per la donna moderna e individua la direzione dell’emancipazione nei suoi innesti mito-logici e tecnologici. D’altronde la sensibilità artistica di Jane Graverol ha radici profonde nel contesto culturale di metà Novecento e non può prescindere da quella fiducia nel progresso che ha guardato alla tecnologia come un fondamentale alleato. La metamorfosi in un corpo ibrido – contemporaneamente naturale, artificiale e fantastica – restituisce
FLORENCE HENRI 1893, New York City, USA – 1982, Compiègne, Francia In uno dei suoi autoritratti, datato 1928, probabilmente il più famoso, l’immagine di Florence Henri si riflette su uno specchio verticale alla cui base sono poggiate due sfere metalliche: con le braccia conserte che poggiano su un tavolo in legno e il volto incorniciato da una pettinatura maschile, l’artista contempla la sua figura con uno sguardo quasi rassegnato all’idea di dover fare i conti con il proprio aspetto. Nonostante Henri abbia sempre rifiutato qualsiasi concettualizzazione delle sue fotografie, questo iconico ritratto sembra essere la rappresentazione di una femminilità complessa, ibrida e molto diffusa nella società postbellica, che l’artista ha conosciuto nel corso dei tanti soggiorni europei. Nata in America e cresciuta a Roma, Henri decide di trasferirsi a Berlino appena ventenne e, affascinata dal modello femminista della Neue Frau (Donna nuova), costruisce la propria immagine in maniera sfaccettata. Come tante artiste della sua generazione, gioca con i propri tratti fisionomici per raggiungere un’identità fluida: per la fotografa, il corpo è un assemblaggio di segni che, come nelle composizioni astratte della prima formazione pittorica, possono essere smontati e rimontati, svelati e mascherati per ottenere una continua metamorfosi identitaria. Più che alle avanguardie storiche, tuttavia, gli scatti in bianco e nero dell’artista americana si ricollegano alla sensibilità del New Vision Movement (o Neue Sehen) che, formalizzato intorno al 1927 da László Moholy-Nagy, nello stesso periodo in cui Henri frequenta i corsi estivi alla Bauhaus, promuove uno sguardo fotografico caratterizzato da un forte sviluppo compositivo e da una sensibilità spiccatamente surrealista. Anche quando non sono autoritratti o non rappresentano iconici corpi di donne, le immagini di Henri insistono su un’ambiguità spaziale o compositiva che, grazie all’uso di oggetti di scena, come specchi e altri materiali riflettenti, e alla gestione di tecniche fotografiche, come esposizione multipla e fotomontaggio, crea un continuo dialogo tra realtà e finzione. In seguito al trasferimento parigino negli anni Trenta, molte fotografie sono nature morte o romantici paesaggi archeologici che rifuggono il simbolismo surrealista, pur
essendone irreversibilmente pervase. Che si tratti del frammento di una statua greca davanti al mare o di un qualunque oggetto allo specchio, le immagini mettono in scena una costante tensione tra polarità e, alludendo a categorie opposte come maschile e femminile, natura e artificio, vita e morte, provano a immortalarne il punto di equilibrio. – SM Questa artista è presente anche in La seduzione del cyborg, cfr. p. 507.
(p. 104)
LOÏS MAILOU JONES 1905, Boston, USA – 1998, Washington, D.C., USA Per quasi sette decenni, Loïs Mailou Jones – pittrice, insegnante, intellettuale – costruisce un percorso artistico eclettico, la cui profonda influenza ha unito generazioni di artisti afroamericani nel corso del XX secolo, dall’Harlem Renaissance all’AfriCOBRA. Nata a Boston da una famiglia della classe media, Jones è la prima donna di colore a laurearsi alla School of the Museum of Fine Arts; in seguito, per quasi mezzo secolo, insegna arte alla Howard University, epicentro della vita intellettuale nera a Washington. Il suo percorso artistico si consolida prevalentemente grazie ai soggiorni estivi ad Harlem a metà degli anni Trenta e Quaranta, un anno sabbatico a Parigi tra il 1937 e il 1938, frequenti visite ad Haiti per insegnare, studiare e dipingere, e ai viaggi nel continente africano negli anni Settanta. Nel corso della sua carriera, Jones mantiene un legame costante con l’estetica e i motivi cerimoniali africani, compresi i tessuti a disegni geometrici e le kifwebe, maschere striate appartenenti alla cultura Songye dell’Africa centrale, e le maschere lucide Dan della Costa d’Avorio e della Liberia. Il tempo trascorso a New York e Parigi si rivela decisivo per l’elaborazione personale di questa forma di linguaggio visivo. Durante gli anni Trenta e Quaranta – periodo in cui entrambe le città rappresentano una fonte di ispirazione intellettuale e creativa per artisti, scrittori e pensatori associati ai movimenti dell’Harlem Renaissance e della Négritude – i contemporanei leggono spesso una visione futuristica della modernità nelle forme tradizionali di arte plastica africana, in particolare maschere e tessuti. Mentre alcuni artisti operano con l’estetica di un’Africa per lo più immaginata, altri cercano di rappresentare l’arte e la cultura africane in modi complessi che evitano l’esotismo e l’appiattimento modernista. In tutta la sua opera, Jones è alle prese proprio con questo problema. La puntuale ricerca di un linguaggio visivo
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appropriato per i suoi incontri diasporici è evidente in Africa (1935), un dipinto raffigurante tre donne – il soggetto maggiormente ricorrente in Jones – dai lineamenti cesellati, gli occhi chiusi simili a squarci ed elaborati gioielli d’oro, circondate da una vegetazione lussureggiante. I tratti allungati e l’assenza di espressione del trio evocano quelli che spesso si osservano sulle maschere africane, un tema che esplora anche in opere celebri come Les Fétiches (1938). In questo dipinto, Jones rende omaggio al ruolo fondamentale dell’Africa nell’immaginario culturale degli artisti afroamericani dell’epoca, in particolare per le artiste della diaspora, portatrici di molteplici identità. – MW
monolitici elementi architettonici o, come sottolinea il titolo, due figure astratte unite in un abbraccio. L’occhio fotografico di Kar sottrae questi candidi resti organici dal loro contesto originale – probabilmente un macello – per caricarli di un pathos narrativo drammatico e introspettivo che diventerà la sua cifra stilistica. Nel 1960, quando espone oltre centoquaranta dei suoi scatti nella prima mostra fotografica mai organizzata alla Whitechapel Gallery di Londra, Ida Kar dimostra definitivamente che anche nei tanti ritratti di artiste e artisti che caratterizzeranno gli ultimi vent’anni della sua carriera, il suo interesse è sempre quello di analizzare la realtà, dominarla e spesso sovvertirla. – SM
(p. 108)
I DA KA R 1908, Tambov, Russia – 1974, Londra, UK Una delle più iconiche immagini realizzate dalla fotografa Ida Kar è uno scatto in bianco e nero in cui, da un fondo drammaticamente scuro, emerge il calco candido di due mani femminili perfettamente dettagliate. I loro palmi sono congiunti e rivolti verso l’alto a formare una concavità, letteralmente incorniciati da un cordolo di materiale grezzo. La piccola scultura sembra avere tutte le caratteristiche per apparire come una reliquia religiosa o un prezioso reperto archeologico, ma il titolo dell’immagine Surreal Study (1947) sospende qualsiasi interpretazione definitiva e incoraggia lo sviluppo di riflessioni più libere e ambigue. Nel segno della lezione surrealista del dépaysement (straniamento), nulla impedisce di interpretare questa sacrale gestualità come il simbolo di una femminilità materna o come l’impronta di una magica metamorfosi che ha trasformato in pietra il corpo di una donna. Nel corso dei dieci anni precedenti, non a caso, Kar milita tra le fila del gruppo surrealista egiziano conosciuto con il nome Art et Liberté e, tra il Paese africano in cui si era trasferita appena tredicenne con la famiglia e un lungo soggiorno a Parigi, imposta una ricerca fotografica finalizzata a scardinare qualsiasi gerarchia semantica. Accanto alla ritrattistica per cui è maggiormente conosciuta, tra gli anni Trenta e Quaranta l’artista realizza una serie di fotografie approssimativamente definibili come nature morte, che riportano oggetti di uso più o meno quotidiano suggerendo un’interpretazione alternativa, spesso emotiva, delle loro fattezze. L’opera intitolata L’Étreinte (1940), ad esempio, fotografa due ossa prelevate da qualche scheletro animale che, ancora unite da brandelli di carne e posizionate in verticale una accanto all’altra, ricordano due
tonalità delle poche foglie che ne completano i rami, i protagonisti di Untitled (crocodile, fish, bird) vivono in una fiabesca armonia circondati dagli stessi elementi vegetali. Nel 1929, quando vengono presentati al Palazzo delle belle arti di Bruxelles insieme a una sessantina di altri lavori, i due disegni di Lubaki riscuotono un grande successo e vengono considerati come il più spettacolare esempio di una creatività al tempo considerata esotica. Quando alcuni detrattori sostengono che i suoi disegni siano opera di un impostore europeo, la fama dell’artista si esaurisce nell’arco di poco tempo, ma le sue opere coincidono ancora oggi con una sensibilità inedita nel panorama artistico moderno e, con il loro immaginario ancestrale e naturale, sembrano rappresentarne genuinamente un’opzione alternativa. – SM
(p. 106)
ANTOINET TE LUBAKI (p. 107)
1895, Bukama, Stato Libero del Congo (attuale Repubblica Democratica del Congo) – n.d. Antoinette Lubaki nasce a Bukama, un villaggio dello Stato Libero del Congo, negli stessi anni in cui Leopoldo II del Belgio, mascherato da filantropo, imperversa sui territori africani con una sanguinosa dittatura destinata a ridurre in schiavitù milioni di abitanti. Sebbene i suoi coloratissimi disegni non riportino particolari tracce delle atrocità subite dal popolo congolese, la storia di Lubaki sembra essere profondamente influenzata dal fascino esotico che gli europei riconoscono nella sua arte e, più in generale, dallo sguardo etnografico con cui si rivolgono a tutte le artiste e gli artisti delle colonie. Nel 1926, durante una missione militare, l’ufficiale e collezionista belga Georges Thiry si imbatte nei dipinti murali con cui Antoinette Lubaki e il marito Albert decorano le capanne del villaggio di Bukama e, intuendo l’interesse che i loro disegni avrebbero potuto suscitare in Belgio, fornisce loro il materiale necessario per replicarli su carta. L’attenzione di Thiry è rivolta inizialmente ad Albert ma si estende anche alla moglie, quando quest’ultima avvia una produzione autonoma firmando i suoi lavori come “Antoinet”. Negli anni successivi, l’artista realizza un disegno dopo l’altro con scene ispirate a storie, proverbi e sogni congolesi; le vivaci silhouette che popolano questi lavori fluttuano letteralmente nel foglio e, disposte all’interno di cornici che delimitano lo spazio della narrazione, sono campite con poche e veloci pennellate di colore naturale (soprattutto argilla, carbone e caolino). Tutti i disegni di Lubaki si caratterizzano per un’estetica onirica che alterna motivi floreali a figure di persone e animali. Mentre le tre figure di Untitled (three characters under a tree) gravitano attorno a un albero stilizzato acquisendo le stesse esuberanti
B AYA M A H I E D D I N E 1931, Fort de l’Eau (attuale Bordj El Kiffan), Algeria – 1998, Blida, Algeria La prima mostra personale di Baya Mahieddine, nata Fatima Haddad, si tiene presso la Galerie Maeght di Parigi nell’autunno del 1947, quando l’artista ha appena sedici anni. Dopo un’infanzia trascorsa in Algeria, raggiunge la capitale europea al seguito di Marguerite Caminat Benhoura, un’intellettuale e archivista francese che l’ha adottata fornendole un’istruzione e incoraggiandone la creatività. Così giovane e dotata, Baya è subito celebrata dall’avanguardia parigina e, almeno fino al suo ritorno in Algeria nel 1953, ottiene i più entusiastici apprezzamenti dai protagonisti assoluti della scena artistica internazionale – primo tra tutti André Breton, che scrive il testo di accompagnamento per la sua prima mostra. Mentre i surrealisti e i fauvisti riconoscono in lei una fusione genuina tra le estetiche primitive e naïve che ricreano nei loro lavori, la sensibilità di Baya sfugge a qualsiasi categorizzazione e assume caratteri unici e suggestivi, vagamente riconducibili a un mondo fiabesco. Fatta eccezione per alcune piccole sculture in ceramica, i suoi lavori sono per lo più dipinti su cartone e, con tinte vivaci e brillanti, rappresentano lussureggianti paesaggi naturali abitati da sole donne riccamente vestite e decorate con tipici motivi magrebini che ricordano l’immaginario delle Mille e una notte. I loro occhi affusolati sembrano nascondere la stessa furbizia dell’eroina Shahrazād mentre, simili ai tradizionali occhi di Horus egiziani o alle hamsa (mano di Fatima), descrivono una femminilità in perfetta comunione con la natura. Le donne di Baya sono al centro di un processo metamorfico in cui uccelli,
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fiori e piante non sono solo semplici motivi ornamentali, ma innesti vegetali e animali che restituiscono l’idea di un corpo in perenne trasformazione. Il luminoso abito giallo che veste la donna di Femme robe jaune cheveux bleus (1947) emerge dalle tinte crepuscolari dello sfondo mentre sembra aggredito da quattro pavoni e una farfalla; lo sguardo severo della Femme robe à chevrons (1947) è completato dall’occhio dello strano uccello con cui sembra accoppiarsi; e infine il moto di linee continue e ondulatorie che attraversano Femme au panier et coq rouge (1947) suggellano l’unione tra le piume di un gigantesco gallo e il vestito della donna che lo affianca. Dietro l’immagine di una natura rigogliosa e ingovernabile, queste favole senza uomini nascondono una figura femminile fiera, decisa e indipendente come la giovane Baya. – SM
abito dai contorni sfocati che punta un dito verso l’alto; mentre una grande mano incombe sulla composizione come fosse una mostruosità evocata dalla donna-strega, sul tavolo accanto a lei, oltre a un libro aperto e un posacenere a forma di cuore, è posato un grande mazzo di fiori. Tra questi ce n’è uno di magico, come l’intera composizione: Nadja lo chiama “la fleur des amants” e, disegnando i suoi petali come fossero coppie di sguardi, lo ripropone in molti dei suoi lavori a sigillo del suo amore. In una delle lettere recapitate a Breton, ad esempio, il fiore si trova tra le fauci di un serpente e, sbocciando accanto alla scritta “l’enchantment de Nadja”, dichiara che le forze occulte da cui è alimentato vanno ben oltre la follia che il mondo moderno attribuisce alla sua autrice. – SM
(p. 106)
AMY NIMR (p. 102)
NADJA
1898, Il Cairo, Egitto – 1974, Parigi, Francia
1902, Saint-André-lez-Lille, Francia – 1941, Bailleul, Francia
All’inizio degli anni Trenta, quando Amy Nimr torna in Egitto dopo una formazione pittorica in Inghilterra e diverse occasioni espositive insieme ai surrealisti inglesi e francesi, Il Cairo è attraversata da un inedito fervore artistico che porterà alla nascita del collettivo conosciuto con il nome di Art et Liberté nel 1938. In pochi anni, l’artista si avvicina ai principi ideologici rivoluzionari che guidano il ceppo egiziano dell’avanguardia e, grazie alla sua formazione cosmopolita e ai tanti contatti con le artiste e gli artisti europei, diventa una delle personalità fondamentali per la diffusione della sensibilità surrealista. Come richiede il provocatorio manifesto del movimento datato 1938 Long Live Degenerate Art, anche i lavori dell’artista propongono l’immagine di una realtà inquietante e per tutta la sua carriera si distinguono per il pathos e la durezza espressiva con cui Nimr ritrae l’inesorabile precarietà del corpo umano. L’artista sembra proiettare se stessa tra le febbrili pennellate della pittura a gouache e, secondo quello che i membri di Art et Liberté definiscono “realismo soggettivo”, dimostra di esplorare il mistero della realtà lasciandosi guidare dagli umori della propria esperienza.
Nel 1926, quando incontra André Breton davanti all’Hôtel du Théâtre di Parigi e con lui trascorre dieci giorni di piacevoli e trasognati confronti, Léona Delcourt ha ventiquattro anni e ha scelto di chiamarsi Nadja perché lo pseudonimo è l’inizio – e a suo dire “solo l’inizio” – della parola russa nadežda, speranza. Si è trasferita nel capoluogo francese dopo essere stata cacciata dalla famiglia per una gravidanza non desiderata e, ormai madre di una bambina di cinque anni, dissimula la sua miseria grazie a un fascino innato e una spiccata irrazionalità. Più che una semplice flâneuse, Nadja appare agli occhi di Breton come l’incarnazione della musa surrealista, tanto che nell’omonimo romanzo autobiografico pubblicato nel 1928, la descrive come sospesa tra la più affascinante creatività e la più inquietante follia. Nel corso dell’anno successivo ai loro incontri parigini, prima del suo ricovero in manicomio nel 1927, Nadja recapita a Breton ventisette lettere in cui si abbandona a ricordi, pensieri d’amore, rimproveri, scarabocchi e disegni, su cui imprime lo stampo delle sue labbra con un rossetto rosso. Per quanto appaiano come la prova delle più caotiche elucubrazioni, i messaggi contenuti in questa corrispondenza sono la traccia verbo-visuale di una sensibilità perfettamente in linea con il Surrealismo, in cui Nadja sembra infatti capace di coniugare l’automatismo psichico proposto dall’avanguardia, con un simbolismo personale difficilmente decifrabile. In un disegno a matita che sembra un autoritratto, raffigura una donna vestita con un lungo
Secondo un’iconografia ricorrente, ad esempio, Untitled (Fish and Skeletons) (1936) e Untitled (Underwater Skeleton) (1942) ritraggono alcuni scheletri che fluttuano negli abissi più profondi. Mentre le carcasse raffigurate in entrambe le opere siconfondononelletenebrebluastredell’ambiente marino, pesci e piante dall’aspetto sinistro sembrano impegnati a cibarsi dei brandelli di carne ancora attaccati alle ossa. Tutti gli elementi naturali sono rappresentati con estrema precisione e, come usciti da un
bestiario o erbario, conferiscono alla scena un’inquietudine ancora più vivida. Dopo che nel 1943 una mina antiuomo uccide il figlio di otto anni e la crisi di Suez del 1956 la costringe a lasciare l’Egitto alla volta di Parigi, Nimr si rifugia in un immaginario introspettivo ancora più crudo e viscerale. Gli angeli rosso sangue o le figure completamente astratte che realizza in questo periodo diventano lo strumento catartico per liberarsi dal peso di una vita drammatica e, attraverso una natura onirica e metamorfica, raggiungere la libertà tanto celebrata dal Surrealismo egiziano. – SM
(p. 108)
MERET OPPENHEIM 1913, Berlino, Germania – 1985, Basilea, Svizzera Meret Oppenheim si avvicina al Surrealismo neppure ventenne quando, nel 1932, lascia la Svizzera alla volta di Parigi e frequenta i maggiori esponenti dell’avanguardia. Agli occhi di André Breton, Marcel Duchamp, Max Ernst e degli altri esponenti del gruppo tutto al maschile, la giovane artista deve essere apparsa come la quintessenza della bellezza surrealista. Alcune immagini scattate da Man Ray nell’anno del suo trasferimento parigino, infatti, la ritraggono come una perfetta femme fatale mentre, completamente nuda, è impegnata nella lettura di un libro o gira la leva di un torchio con le braccia sporche di inchiostro. Pur essendo tra le poche artiste immediatamente riconosciute dal movimento, Oppenheim considera il Surrealismo come un perimetro ideologicamente permeabile e, sentendosi libera di perseguire qualsiasi sperimentazione, propone i suoi lavori come il frutto di una ricerca aperta, alternativamente interessata all’onirico, all’ironia, alla morte, alla femminilità e alla natura. Nel 1936, dopo soli tre anni dal suo esordio artistico, Oppenheim inaugura la sua prima mostra personale presso la Galleria Marguerite Schulthess di Basilea e presenta l’opera Ma gouvernante (1936): due scarpe bianche con il tacco che, legate con lo spago come fossero un arrosto, vengono posizionate con la suola verso l’alto sopra un vassoio in metallo. La piccola scultura, che insieme alla tazza rivestita di pelo in Déjeuner en fourrure (1936) è tra le prime e più iconiche opere dell’artista, descrive perfettamente la traiettoria estetica cui Oppenheim si dedicherà nei successivi anni. Infatti, eccezion fatta per un periodo di rallentamento produttivo dovuto a una difficile depressione che la accompagna negli anni Cinquanta, tutti i suoi lavori coincideranno con degli assemblaggi di materiali differenti e, anche quando non propriamente scultorei, saranno in grado di generare ambiguità e
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spaesamento nell’osservatore. Il disegno Der Spiegel der Genoveva (1967), ad esempio, rappresenta la strana metamorfosi di una figura evidentemente femminile che, con le labbra carnose, sembra trasformarsi in un animale, forse un bovino. L’effetto è ottenuto abbinando il volto della donna con una lunga zampa pelosa che, facendole da collo, si conclude con uno zoccolo unghiato. Probabilmente ispirato alla magia che contraddistingue anche l’opera lirica Genoveva (1848) – l’unica composta dal tedesco Robert Schumann –, il lavoro insiste su un immaginario perturbante e dichiara che qualsiasi materiale, estrapolato dal contesto originale, può acquisire una nuova dignità simbolica. – SM
(p. 100)
VA L E N T I N E P E N R O S E 1898, Mont-de-Marsan, Francia – 1978, Chiddingly, UK Nel 1951 la scrittrice e artista Valentine Penrose pubblica Dons des féminines, un libro che racconta il viaggio in Oriente di due donne dell’alta borghesia europea e alterna brevissime poesie bilingui, in francese e inglese, a tavole di collage estremamente dettagliate. Il poliedrico risultato verbo-visivo risponde perfettamente alle tematiche proposte dal Surrealismo ma, realizzato a distanza di trent’anni dalle prime ricerche del movimento, estremizza la sensibilità disinibita e indipendente delle tante donne che si avvicinano all’avanguardia a partire dai tardi anni Trenta. I doni cui allude il titolo del libro, d’altronde, coincidono con la libertà e l’autonomia rivendicate dalle protagoniste Maria Elona e Rubia, che viaggiano sole, vestono abiti maschili e vivono la loro relazione d’amore omosessuale senza inibizioni. L’intimità tra le due donne emerge dal simbolismo del componimento poetico e, forse ispirata all’affetto per l’artista Alice Rahon con cui Penrose intraprende un simile viaggio in India nel 1936–1937, viene confermata dagli eccentrici e stravaganti collage. Queste opere associano immagini estrapolate da riviste di scienza e moda per costruire paesaggi incantati in cui fiori, piante, animali e mostruosità fanno da sfondo al viaggio delle due donne. Grazie all’atmosfera onirica e surreale, i corpi di Maria Elona e Rubia sembrano affrontare un percorso di scoperta che, insieme all’aspetto culturale dell’avventura, descrive le conseguenze di un più intimo coinvolgimento mentale. Pur non facendo parte della narrazione di Dons des féminines e, anzi, precedendola di una ventina d’anni, anche i collage in mostra, esteticamente vicini ai noti lavori
di Max Ernst, sembrano fatti della stessa materia onirica e hanno tutta l’aria di essere allucinazioni. Realizzati agli inizi degli anni Trenta e prima ancora che il marito e artista surrealista Roland Penrose si risposi con la fotografa Lee Miller, i collage rimandano a un’inquietudine tanto biografica quanto fantastica. Le due donne che si confrontano nel lavoro Ariane (1934), ad esempio, sono inserite in un paesaggio naturale, mentre con i loro corpi incorniciano una città in lontananza. L’ordinarietà della scena è tuttavia interrotta dalla presenza di uno strano insetto dorato dotato di ali, antenne e due gambe umane. La bizzarra creatura condiziona lo sviluppo della composizione in maniera non dissimile dalla statua-comò che fluttua sul paesaggio montuoso del lavoro La Stratégie militaire (1934). A prescindere dalle specificità narrative, infatti, entrambe le figure bric-à-brac rompono l’equilibrio dell’immagine ricordando l’impeto inaspettato con cui l’inconscio irrompe in qualsiasi episodio della realtà, anche il più familiare. – SM
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su sfondi fluttuanti, per lo più con cromie legate alle tonalità della terra. Per Rahon c’è una magia nell’arte preistorica in grado di aprire varchi nel tempo e mettere in relazione il mondo visibile con quello invisibile. Questi punti di accesso verso il mondo invisibile assumono molteplici forme. Nel 1946, un anno dopo le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, Rahon crea un balletto ispirato al cosmo, forse influenzato dalle competenze astronomiche degli antichi Maya. Nel balletto cinque personaggi, fra cui il The Juggler (un mago) e Androgyne (un essere di genere non binario), meditano sulla nascita della vita dopo la distruzione del pianeta. I personaggi sono prima ideati come dipinti in gouache su carta, quindi realizzati a forma di marionette tridimensionali fatte di fili metallici. Rahon è capace di incanalare l’energia spirituale di culture antiche nel suo presente, lacerato dalla guerra, e ci riesce tramite una miriade di espressioni artistiche. – IA Questa artista è presente anche in Corpo orbita, cfr. p. 173.
ALICE RAHON 1904, Chenecey-Buillon, Francia – 1987, Città del Messico, Messico Alice Rahon è parte del gruppo surrealista che ha vissuto e operato a Città del Messico a partire dalla fine degli anni Trenta del XX secolo. Sfollati a causa della Seconda guerra mondiale, Rahon e il marito, il pittore Wolfgang Paalen, lasciano la Francia nel 1939, raggiungendo, fra gli altri, André Breton, Leonora Carrington e Remedios Varo, oltre agli artisti messicani locali come Frida Kahlo, Diego Rivera e Manuel Álvarez Bravo. In esilio, Rahon e i suoi compagni trovano un senso di comunità e accoglienza e la loro opera artistica viene permeata dal paesaggio, dalla storia indigena e dall’eredità artistica del Messico. Rahon adotta un approccio surrealista in tutta la sua pratica, coniugando poesia e mito in una vasta gamma di linguaggi, fra cui la pittura, la scultura, il cinema, la moda, la danza e la letteratura. È affascinata dalla relazione tra l’umanità e il mondo naturale, ma crede anche nel sovrannaturale e nel fantastico. Particolarmente interessante per Rahon è l’arte preistorica e il suo stile artistico deve certamente molto alle pitture del Paleolitico superiore, che ha visto nelle grotte di Altamira in Spagna, oltre che all’arte indigena che può studiare in Messico e in Canada. In alcuni dei suoi dipinti più importanti, come Thunderbird (1946), evoca l’estetica dell’arte preistorica osservata nelle grotte con pennellate gestuali e linee di contorno in grado di tessere una rete di figure simboliche
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C A RO L RA M A 1918 – 2015, Torino, Italia Corpi nudi e frammentati, visi grotteschi e lunghe lingue rosse, membra di animali, protesi di figure umane, sono solo alcune delle immagini che compongono l’universo iconografico di Olga Carolina Rama, meglio conosciuta come Carol Rama, che in oltre cinquant’anni di carriera si è distinta per il suo linguaggio artistico dissacrante, irrequieto e fortemente erotico. Nata in una famiglia della media borghesia torinese, l’artista si avvicina al disegno da autodidatta e, a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, inaugura una produzione di acquerelli che utilizza come strumento di guarigione da una vita tormentata. Il suicidio del padre nel 1942, le tensioni politiche e la crisi economica antecedenti allo scoppio della guerra, e poi ancora i bombardamenti, lo sfollamento e il ricovero della madre in una clinica psichiatrica vengono trasformati da Rama in immagini potenti, fatte di un segno vibrante e anarchico, che elegge il corpo femminile come la sede privilegiata delle più provocanti tensioni mentali e fisiche. L’artista non prova alcun pudore nel raccontare il dramma emotivo che accompagna la precarietà del corpo umano e, mentre in Nonna Carolina (1936) ritrae la donna con il viso sofferente e il collo pieno di sanguisughe, in Appassionata (1941) raffigura la crisi identitaria delle tante pazienti con cui la madre condivide le giornate in manicomio. Nonostante la
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maggior parte di queste donne sia disorientata ed evidentemente disabile, Rama rappresenta i loro corpi come fossero pervasi da un tale desiderio sessuale da non poter essere controllato neanche quando sono legate, costrette in sedia a rotelle o distese a letto. Completamente nude – a eccezione di un paio di scarpe con il tacco – tutte sono impegnate in espliciti momenti di autoerotismo o si uniscono ad altri pazienti mentre sui loro capelli fioriscono piante rigogliose. Con la loro insolente e ingenua spudoratezza, queste donne sono le eroine dell’immaginario di Rama ma in un panorama artistico conservatore come quello italiano di metà Novecento, diventano anche la causa della censura che subisce la sua prima mostra personale nel 1945 e del conseguente allontanamento da questa iconografia. Anche quando vireranno verso l’Astrattismo Concretista e Informale degli anni Cinquanta e Sessanta, però, le opere di Carol Rama non perderanno mai quella inconfondibile sfumatura “guastata” e “sofferta” che l’artista riconosceva come il riflesso della sua personalità. – SM
il senso di qualsiasi esperienza traumatica, anche quella bellica cui spesso l’artista fa riferimento. Il senso di questa ricerca è ravvisabile nel dipinto The Decoy (1948) in cui, rappresentata in scala pressoché naturale, una mano macilenta pende dal bordo superiore del piccolo quadro ed è circondata – quasi corteggiata – da diverse, coloratissime farfalle. Queste, insieme ai bruchi e alle crisalidi che hanno colonizzato le viscere dell’arto, sembrano contribuire al decorso della sua decomposizione addolcendo l’esperienza. La brillantezza dei colori e la fedeltà scientifica con cui sono riprodotte le specie animali – tutte originarie della Gran Bretagna – prefigurano infatti una rinascita della carne e offrono un’ottimistica prospettiva sull’orrore della sua putrefazione. Mentre gli animali nascono e crescono grazie alla vivisezione del corpo e i suoi vasi sanguigni si trasformano in fibre vegetali, la metamorfosi cui allude Rimmington è quella di una natura resiliente e spettacolare, decadente e affascinante, che fiorisce dalle paure più recondite dell’uomo o ripara i danni da esse causati. – SM
finalmente capace di una creatività vera e, dunque, futurista. L’immagine disegnata da Lucio Venna per la prima ristampa del volume riassume perfettamente le intenzioni dell’autrice e, ritraendo una figura femminile, slanciata e alla moda, descrive Robert come una donna rinvigorita dalla battaglia contro il medico alle sue spalle. Già con la sua partecipazione alla rivista fiorentina “L’Italia futurista” (1916–1918) – e soprattutto nei componimenti paroliberi del 1917 Malattia+infezione e Sensazioni chirurgiche – la scrittrice toscana aveva suggerito una certa corrispondenza tra la salute del corpo e la mente umana. Ma mentre quei contributi miravano a risvegliare le coscienze politiche di un Paese in guerra, Un ventre di donna sottolinea la necessità di considerare il corpo femminile come la sede di una nuova indipendenza e dimostra la possibilità di modificare il proprio destino, accettando anche le più invasive trasformazioni del corpo. – SM
RO SA RO SÀ 1884, Vienna, Austria – 1978, Roma, Italia
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EDITH RIMMINGTON
E N I F RO B E RT
1902, Leicester, UK – 1986, Bexhill-on-Sea, UK
1886, Prato, Italia – 1974, Bologna, Italia
Fino agli anni Trenta del Novecento l’autorità intellettuale del Surrealismo viene esercitata soprattutto in Francia e, solo con la diaspora delle sue artiste e dei suoi artisti, a cavallo tra le due guerre, si diffonde geograficamente servendo da riferimento per le nuove generazioni. Edith Rimmington si avvicina alla tendenza nel 1936 quando, in occasione della prima mostra internazionale surrealista londinese presso le New Burlington Galleries, ha modo di apprezzare le opere dei parigini e aderire al movimento l’anno successivo.
A distanza di pochi anni dalla prima pubblicazione del Manifesto futurista (1909) che celebrava ufficialmente il disprezzo per la donna, un gruppo di artiste tenaci e caparbie si organizza intorno al giornale fiorentino “L’Italia futurista” e, tra il 1916 e il 1918, pubblica articoli e tavole parolibere che sfidano il maschilismo dell’avanguardia italiana. Queste donne dimostrano di condividere la stessa fiducia che i colleghi uomini ripongono nel progresso moderno ma, come sottolinea la produzione letteraria dell’attrice e scrittrice Enif Robert, la adattano con risolutezza all’urgenza della loro emancipazione. Nel romanzo sperimentale intitolato Un ventre di donna. Romanzo chirurgico (1919) Robert racconta la storia di una donna che subisce un intervento di asportazione dell’utero in seguito a una malattia infiammatoria. Il racconto, probabilmente autobiografico, è la cronaca delle sofferenze che la protagonista patisce durante la degenza e – scandito da parole in libertà e lettere di incoraggiamento che l’amico Filippo Tommaso Marinetti le invia dal fronte – descrive l’operazione chirurgica come una guerra personale e femminista. Combattendo i giudizi del suo ginecologo che vorrebbe negarle l’intervento perché contrario a renderla sterile, Robert sottolinea i vantaggi dell’isterectomia e, senza gli organi sessuali, si dice libera della volubilità che la società riconosce nella donna,
Sebbene il ceppo inglese del Surrealismo non rappresenti un fedele travaso dei contenuti francesi né sia destinato alla medesima unità stilistica, l’estetica di Rimmington si avvale degli stessi immaginari onirici con un’attenzione alle teorie freudiane: i suoi dipinti e collage sono disseminati di allegorie critiche che riproducono la decadenza della società o gli scempi sociali a lei contemporanei. Nel segno della più pura ricerca surrealista, il sogno, la fantasia e l’esuberanza sono gli strumenti per redimere anche la realtà più respingente e, nei lavori di Rimmington, coincidono con una serie di figure antropomorfe o frammentate. Queste mostruosità abitano architetture fatiscenti o derelitte ma dotate di particolari capacità, come la lettura dei sogni (The Oneiroscopist, 1947), incarnano la possibilità di ribaltare
Rosa Rosà è lo pseudonimo futurista che l’artista Edith von Haynau adotta intorno al 1908 quando, arrivata in Italia dalla capitale austriaca, rinuncia ai privilegi del suo lignaggio aristocratico e milita con piglio femminista sulle pagine dell’“Italia futurista”. Come molte artiste e scrittrici che negli anni del primo conflitto mondiale si radunano intorno al giornale fiorentino, anche Rosa Rosà pubblica testi e tavole parolibere sfidando la nota misoginia che caratterizza l’avanguardia italiana per promuovere una figura femminile fiera, libera ed emancipata. Tra gli articoli più audaci scritti per la testata Le donne del posdomani (1917) è sicuramente il più ispirato e, anticipando le tematiche proposte negli scritti successivi, esalta il coraggio e l’eroismo con cui le donne sostengono il peso della guerra invitandole a conservare la stessa tempra anche quando i loro mariti saranno tornati dal fronte. In una versione aggiornata pubblicata qualche mese più tardi con lo stesso titolo, Rosà auspica addirittura un completo stravolgimento delle convenzioni di genere e invita le “donne del posdomani” ad assumere un atteggiamento metaforicamente più virile, che le aiuti a non cadere vittime di un’esperienza totalizzante come quella della maternità. Le argomentazioni di questo secondo articolo sono accompagnate da un’illustrazione astratta che trasmette l’impeto delle parole usate nel testo. Il titolo Conflagrazione geometrica, scritto in stampatello verticale sul bordo destro del disegno, aiuta a leggere il contributo visivo come
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uno scenario di forze contrapposte che, formate da figure geometriche bianche e nere, sembrano rappresentare le tumultuose metamorfosi sociali, fisiche e psicologiche affrontate dalla donna futurista. Oltre a fornire un’immagine della condizione femminile, questo lavoro è traccia della versatilità che contraddistingue la produzione artistica di Rosà: prima ancora di dedicarsi alla scrittura, infatti, “la geniale viennese” come la apostrofa affettuosamente Marinetti, è un’illustratrice, una ceramista e una scultrice e, con la sensibilità decadentista e liberty della sua formazione mitteleuropea, approccia il Futurismo con un inedito taglio eclettico. Come le colleghe del gruppo fiorentino chiamato Pattuglia Azzurra, Rosà affronta l’avanguardia con posizioni ben lontane dall’impeto guerrafondaio dei colleghi uomini e, sia nei suoi accorati scritti, sia nelle più astratte composizioni verbo-visuali, assume toni intimi o mistici per incoraggiare una donna indipendente soprattutto sul piano spirituale. – SM
Sing, all’epoca unanimemente considerata l’inno degli afroamericani, Savage trasforma il canto in una scultura monumentale, che gli organizzatori della fiera ribattezzano The Harp. Alto quasi cinque metri, l’enorme calco in gesso è rifinito in maniera tale da farlo sembrare un blocco di basalto nero, da cui cantori dalle vesti finemente plissettate si elevano come colonne di altezze graduate. Queste figure simboleggiano le corde di un’arpa e ripropongono il messaggio liberatorio della canzone di Johnson. La cassa di risonanza ha la forma di un braccio, mentre un uomo, che indossa pantaloni e scarpe ordinari, si inginocchia per invitare il pubblico a entrare nell’estasiante territorio creato da The Harp. Savage impiega due anni per completare l’opera, che al suo debutto nel 1939 riceve consensi unanimi. Tuttavia non vengono raccolti fondi sufficienti per la fusione in bronzo, né per conservarla. Viene distrutta al termine dell’esposizione e oggi rimangono solo i modelli preparatori, incluso il bronzo presentato a Venezia, come ricordo della colossale potenza di questa fondamentale opera dell’Harlem Renaissance. – MW
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A U G U S TA S AVA G E 1892, Green Cove Springs, USA – 1962, New York City, USA Augusta Savage è considerata una delle grandi artiste, educatrici e attiviste dell’Harlem Renaissance, movimento nel quale costruisce la sua carriera pionieristica come scultrice e mentore di una formidabile nuova generazione di giovani artiste e artisti di colore, tra cui Jacob Lawrence, Gwendolyn Knight, Norman Lewis, Robert Blackburn e Romare Bearden. Cresciuta nei sobborghi di Jacksonville in Florida, Savage (al secolo Augusta Christine Fells) è figlia di un povero pastore metodista, la settima di quattordici figli. Quando si trasferisce a New York nel 1921, ha con sé solamente 4 dollari e 60 centesimi; trova lavoro come custode di un palazzo mentre frequenta l’Università Cooper Union. Nel 1931, dopo un periodo a Parigi, l’artista, motivata da un forte senso civico, comincia a offrire lezioni gratuite di pittura, disegno e scultura nel suo studio di Harlem; nel frattempo contribuisce a fondare e dirige l’Harlem Community Art Center. Molti dei lavori miliari di Savage sono espressivi busti che ritraggono leader di colore, fra cui W.E.B. Du Bois e Marcus Garvey, ma la sua opera più importante e nota non esiste più. Nel 1937, un anno prima della morte dell’amico James Weldon Johnson, attivista per i diritti civili e poeta, Savage riceve l’incarico di realizzare una scultura per l’esposizione universale dalla Fiera mondiale di New York. Ispirata dalla canzone di Johnson Lift Every Voice and
(p. 95)
D O R O T H E A TA N N I N G
Avatar (1947) ritrae una giovane con gli occhi chiusi che ondeggia su un trapezio circense, mentre il suo vestito, o guscio, modellato dall’assenza del corpo, penzola da un altro trapezio alle sue spalle, in una camera da letto vittoriana tappezzata con carta da parati floreale. Il corpo della ragazza sembra unirsi, in una strana metamorfosi, con una creatura alata, ibrida, biomorfa e provvista di becco; forze sconosciute dell’immaginario inconscio si insinuano nello spazio domestico. La figura sembra essere stata espulsa da un albero che cresce al centro della stanza mentre viene spinta oltre la cornice del dipinto, aggirando così le convenzioni sociali che costringono il corpo della donna entro i limiti della ristretta sfera interiore. Tanning rappresenterà il concetto di metamorfosi per tutto l’arco della sua settantennale carriera artistica, allontanandosi, alla fine, dalla modalità della rappresentazione prevalentemente visiva a favore del materiale e del tattile. Negli anni Cinquanta la sua pittura diviene più astratta, negli anni Sessanta si avventura nella creazione di inquietanti mobili imbottiti che si trasformano in arti umani, mentre verso la fine della sua vita si rivolge sempre più di frequente al linguaggio pubblicando, all’età di novantaquattro anni, il suo primo romanzo, Chasm. – LC
1910, Galesburg, USA – 2012, New York City, USA (p. 103)
Pittrice, scultrice e scrittrice, Dorothea Tanning si avvicina al Surrealismo dopo aver visto la mostra Fantastic Art, Dada, Surrealism (1936–1937) al Museum of Modern Art di New York. A seguito di questo coinvolgente incontro si impegna a conoscere più a fondo i surrealisti, fuggiti dall’Europa durante la Seconda guerra mondiale all’inizio degli anni Quaranta. Il riconoscimento della sua arte avviene nel 1943, quando Peggy Guggenheim incarica Max Ernst di visitare gli studi di giovani artiste durante l’organizzazione di una mostra tutta al femminile, 31 Women, presso la sua galleria Art of This Century. Tanning ed Ernst si innamorano dopo questo incontro e nel 1946 si sposano in una cerimonia congiunta insieme a Juliet Browner e Man Ray. In una serie di dipinti che uniscono il familiare con l’estraneo, l’artista rivela l’automatismo psichico dei sogni come manifestazione di pensieri repressi relegati nell’inconscio, per esplorare mondi paralleli, paure, desideri e sessualità. In contrapposizione ai ruoli stereotipati imposti alle donne dai colleghi maschi, inclusi quelli della femme enfant e della musa che dominavano il discorso surrealista, le figure femminili di Tanning e delle sue contemporanee, Leonor Fini e Leonora Carrington in particolare, confutano i cliché, rappresentando i perpetui stati cinetici del divenire dell’identità.
T OY E N 1902, Praga, Impero Austro-Ungarico (attuale Repubblica Ceca) – 1980, Parigi, Francia Nel 1925, quando si trasferisce a Parigi e viene in contatto con il centro del Surrealismo internazionale, l’artista Marie Čermínová ha poco più di vent’anni, è un’esponente del movimento di avanguardia ceco conosciuto con il nome di Devětsil ed è la promotrice di una pittura vagamente cubista che, insieme all’amico Jindřich Štyrský, ha battezzato Artificialismo. Da pochi anni ha scelto di chiamarsi Toyen perché lo pseudonimo – neutro come la parola francese citoyen (cittadino) cui si ispira – le permette di evitare le forti connotazioni di genere previste dal linguaggio e di abbracciare un’identità consapevolmente fluida. Oltre a puntare su un’ambiguità grammaticale che, in lingua ceca, la porta a riferirsi a se stessa usando il maschile, Toyen si veste in maniera alternativamente maschile e femminile, dichiara di essere attratta dalle donne e, soprattutto con la sua arte, dimostra di credere in una sessualità senza limiti e confini1. Nonostante l’iniziale scetticismo per gli aspetti onirici del Surrealismo, nella capitale francese Toyen indaga molte tematiche care al gruppo con uno spirito audace e inedito.
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Padiglione Centrale
Dalla più piccola illustrazione fino alla più grande pittura a olio, quasi tutti i suoi lavori rappresentano personaggi fortemente erotici che, anche quando non esplicitamente impegnati in riti orgiastici, rapporti omosessuali o esperienze sadomasochiste, sono inseriti in scenari perturbanti in cui istinti naturali e animaleschi gestiscono l’alternarsi tra femminile e maschile – talvolta in maniera violenta. Le tante donne che popolano questi immaginari, ad esempio, sono alternativamente forti e vulnerabili: pronte a trasformarsi in potenti predatori, vittime di violenze sessuali, o bambole di porcellana in frantumi. Anche i dodici disegni in bianco e nero raccolti nel portfolio The Shooting Gallery (Střelnice) (1939–1940) sembrano confrontarsi con questa doppia natura dell’esperienza umana. In linea con l’ambiguità del titolo – che può riferirsi tanto alle aree di addestramento militare quando alla più ludica attrazione del tiro a segno –, ogni immagine ritrae un diverso scenario postbellico e, tra frammenti architettonici e cadaveri di animali, fa emergere come superstiti giovani ragazze senza volto o enormi giocattoli rotti. Sebbene i testi che accompagnano il lavoro (scritti dagli artisti e colleghi Karel Teige e Jindřich Heisler) aiutino a chiarire che i disegni di Toyen si riferiscono a una fanciullezza in equilibrio tra gioie e drammi, i loro tratti, molto surrealisticamente, si prestano a interpretazioni metaforiche sempre nuove. – SM 1
La fluidità di genere su cui Toyen modella la propria persona, così come le tematiche affrontate dalla sua arte, hanno spesso fatto ipotizzare che la sua identità potesse essere non binaria o trans. Non avendo solide risposte in merito ed evitando di forzare una rilettura del passato attraverso l’applicazione dei più contemporanei e inclusivi codici linguistici, si è preferito riferirsi all’artista utilizzando il femminile. La scelta è in linea con la maggior parte della letteratura sull’argomento ma è consapevole del fatto che esistono altri approcci in merito.
Parigi, in particolare, diventa la meta privilegiata di un movimento diasporico di matrice culturale e accoglie un crescente numero di intellettuali provenienti dall’Africa e dai Caraibi. Si tratta di esponenti di una piccola borghesia coloniale che, arrivati nella capitale francese per studiare, predicano la necessità di riscoprire le proprie comuni radici africane al fine di usarle come strumento di emancipazione sociale. Nel tentativo di diffondere le proprie idee, molte attiviste e molti attivisti fondano delle snelle riviste artistico-letterarie destinate a divenire le tribune dei più accesi dibattiti ideologici. Sulle pagine di una di queste, “L’Etudiant noir” (1935), il poeta martinicano Aimé Césaire sottolinea i disastrosi effetti culturali del progetto coloniale francese e sostiene che la nuova gioventù nera sia pronta a celebrare la propria Négritude nell’arte e nella letteratura. Nonostante i più scettici siano preoccupati del rischio di una nuova forma di isolamento, le parole di Césaire suscitano grande ottimismo e, nel raggiungere le colonie, danno avvio al primo movimento intellettuale panafricano del mondo francofono. La battaglia per l’orgoglio razziale ricalca gli stessi principi umanistici anche quando il poeta torna a Martinica e, insieme alla moglie Suzanne Césaire e all’amico René Ménil, nel 1941 fonda la rivista culturale “Tropiques”. Per quattro anni il progetto editoriale pubblica poesie, saggi e novelle delle maggiori autrici e autori internazionali di origine africana e – in maniera del tutto singolare – adotta un approccio surrealista. Tuttavia, mentre l’avanguardia francese promuove una fantasiosa fuga dal reale, la redazione di “Tropiques” sembra mirare a obiettivi più poeticamente militanti. Anche a detta di Suzanne Césaire, in effetti, onirico e metaforico sono gli unici strumenti per superare le squallide antinomie tra bianchi e neri, tra europei e africani. – SM
(p. 95)
“ T RO P I Q U E S ”
R E M E D I O S VA R O
1941 – 1945, Fort-de-France, Martinica
1908, Anglès, Spagna – 1963, Città del Messico, Messico
A partire dagli anni Venti, le comunità di origini africane vengono scosse a livello internazionale da un’entusiastica rivendicazione identitaria che si rivela responsabile di importanti cambiamenti sociali e culturali. Grazie a questa sensibilità panafricana, ad esempio, l’America flagellata dal segregazionismo assiste alla nascita del movimento “New Negro” – ideologia intellettuale e politica che incoraggia gli afroamericani a ritagliarsi un ruolo attivo nelle nuove realtà urbane –, mentre i Paesi europei appena usciti dalla Prima guerra mondiale registrano la diffusione di un dilagante sentimento anticolonialista.
Nata ad Anglès nel 1908, Remedios Varo si trasferisce a Parigi nel 1937 con il suo secondo marito, il poeta surrealista francese Benjamin Péret, che la introduce nel circolo surrealista di André Breton, Max Ernst, Victor Brauner, Joan Miró e Wolfgang Paalen. A Parigi, Varo si discosta dalla pittura accademica, impiegando strategie surrealiste tra cui l’automatismo e la decalcomania. Varo è affascinata sia dallo studio del misticismo occulto e alchemico, sia da quello delle fiabe, dell’antropologia, dell’astronomia e della psicoanalisi freudiana. Un tratto distintivo della tecnica pittorica
dell’artista è l’uso di intarsi di madreperla, un materiale che a suo avviso può aprire la strada verso l’illuminazione. In abbinamento alla pratica pittorica, Varo si dedica alla scrittura e utilizza quanto scritto come schizzo per i dipinti e come guida per raggiungere un livello di coscienza più profondo. I suoi scritti si articolano in diari dei sogni, bizzarre ricette, esperimenti pseudoscientifici e lettere che spedisce a estranei. Dopo essere fuggita da Madrid durante la Guerra civile spagnola, è costretta ad allontanarsi una seconda volta da Parigi durante l’occupazione nazista e, in seguito al suo arresto avvenuto nel 1940, emigra a Città del Messico nel 1941, dove sarebbe rimasta fino alla sua prematura morte, nel 1963. In Messico, Varo stabilisce stretti legami con altre surrealiste europee, soprattutto con la pittrice britannica Leonora Carrington e con la fotografa ungherese Kati Horna. Per la loro propensione alla stregoneria, all’alchimia e all’occulto, insieme diventano note come le “tre streghe”. In Simpatía (La rabia del gato) (1955), esseri umani e animali appaiono come proiezioni celestiali legate a una costellazione che buca le pareti di un interno vuoto. Armonía (Autorretrato sugerente) (1956) mostra una donna che posiziona dei cristalli su un pentagramma musicale materializzato, aiutata da figure antropomorfe che emergono dalle pareti scrostate di uno studio simile a una navata. Questi dipinti enigmatici sono un esempio dell’impiego, da parte di Varo, di arcane giustapposizioni atte a evocare atmosfere magiche. – LC
(p. 105)
M E TA VA U X WA R R I C K F U L L E R 1877, Filadelfia, USA – 1968, Framingham, USA La scultrice Meta Vaux Warrick Fuller è acclamata per le autorevoli rappresentazioni della vita afroamericana, in un’epoca in cui i temi relativi alle esperienze di questa comunità venivano spesso censurati e le donne di colore avevano raramente accesso a una formazione artistica formale. Frequentemente citata come importante precorritrice dell’Harlem Renaissance, Fuller è famosa soprattutto per le opere allegoriche che esaminano l’identità della diaspora e riprendono i motivi visivi del movimento panafricanista. Nata a Filadelfia nel 1877 in una famiglia della media borghesia, Fuller studia al Pennsylvania Museum and School of Industrial Art (oggi University of the Arts of Philadelphia) durante l’ultimo decennio dell’Ottocento per poi trasferirsi a Parigi, dove segue i corsi di scultura e disegno di figura presso l’Académie Colarossi e l’École des
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La culla della strega
beaux-arts. A Parigi frequenta Henry Ossawa Tanner, amico di famiglia e anch’egli espatriato dalla Pennsylvania, e Auguste Rodin, le cui superfici sinuose la spingono a superare le convenzioni della propria formazione accademica. Sempre a Parigi incontra W.E.B. Du Bois, teorico politico e direttore della rivista “The Crisis”, che in seguito le avrebbe commissionato importanti sculture, tra cui il famoso lavoro del 1921, Ethiopia Awakening. Incaricata della realizzazione di un’opera allegorica sulla nazione etiope, Fuller produce la maquette in gesso policromo di 35 cm esposta a Venezia come studio per una scultura in bronzo più grande, che viene poi inclusa nell’America’s Making Exposition del 1921, tenutasi presso il Seventy-First Regiment Armory a New York, un evento organizzato per promuovere il programma politico del Partito progressista americano e celebrare il contributo dato dagli immigrati alla società americana. L’opera riproduce un’aggraziata donna di colore nell’atto di togliersi un’antica veste funeraria egizia, che con la mano destra tiene un lembo del tessuto bianco contro il petto. La scultura rimanda a un atteggiamento reso popolare anche agli esordi dell’Harlem Renaissance da Du Bois sulle pagine di “The Crisis” e osservato nell’opera di altri artisti dell’epoca, come Edmonia Lewis: un intenso interesse verso un’“Africa” immaginata – soprattutto l’Antico Egitto e l’Etiopia – come nuova articolazione dell’identità culturale afroamericana. Riguardo a Ethiopia Awakening, Fuller scrive: “Ecco un gruppo che un tempo aveva fatto la storia e ora, dopo un lungo sonno, si stava svegliando, si stava lentamente liberando delle bende del proprio passato mummificato e guardava nuovamente alla vita, pieno di attese ma non spaventato e, per lo meno, con un gesto pieno di grazia”1. – MW 1
Meta Vaux Warrick Fuller, citata in Women Artists of the Harlem Renaissance, a cura di Amy Helene Kirschke, Jackson (MS), University Press of Mississippi, 2014, 59. In origine pubblicato in Meta Warrick Fuller to Mrs. W.P. Hedden, October 5, 1921, Meta Warrick Fuller Papers, Manuscript, Archives, and Rare Books Division, Schomburg Center for Research in Black Culture, New York Public Library, New York City.
( p. 1 05 )
L AU RA W H E E L E R WA R I N G 1887, Hartford, USA – 1948, Filadelfia, USA
nel Connecticut, Waring ha l’opportunità di frequentare la Pennsylvania Academy of the Fine Arts, all’epoca uno dei pochi istituti d’arte negli Stati Uniti ad ammettere studenti afroamericani. Dopo la laurea, inizia a insegnare in quella che oggi è la Cheyney University of Pennsylvania, storicamente la più antica università per afroamericani degli Stati Uniti, dove avrebbe assunto la direzione del Dipartimento di arte e musica e insegnato per il resto della sua carriera. Sostenitrice dei diritti civili degli afroamericani, Waring è membro della Urban League e della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) per la cui rivista, “The Crisis”, e per la correlata pubblicazione per bambini “The Brownies’ Book” realizza spesso illustrazioni. Fondata nel 1910 dallo storico, studioso, scrittore e attivista W.E.B. Du Bois, “The Crisis” – tuttora attiva online – è una pubblicazione di grande importanza per la vita intellettuale durante l’intero periodo dell’Harlem Renaissance. Caratterizzata da una combinazione di articoli su attualità, letteratura e poesia di matrice afroamericana e in sostegno al socialismo e al movimento panafricano – che mirano a rafforzare la solidarietà tra i membri della diaspora africana –, “The Crisis” si distingue anche per l’utilizzo dell’immaginario visivo di artiste e artisti di colore che condividono affinità politiche con la rivista, al fine di coinvolgere ed educare i lettori. Durante la direzione di Du Bois, Waring realizza delicati disegni di donne e bambini, pubblicati in copertina e nelle pagine interne della rivista almeno venti volte tra il 1917 e il 1932, nonché numerose copertine per le edizioni natalizie annuali. Le illustrazioni per le copertine di aprile 1923 e settembre 1924, contrassegnate dal suo peculiare stile delicato ispirato all’Art Deco e all’Arts and Crafts, esprimono un incontro tra il momento contemporaneo e un’immaginaria storia continentale africana proposta dai sostenitori del panafricanismo attraverso visioni idealizzate dell’Antico Egitto. Sulla copertina del settembre 1924, le figure indossano antiche vesti egizie, ma la storia raccontata da questa immagine è difficilmente riconducibile al passato: qui un domestico di colore serve la figura centrale, una signora che sta portando a passeggio un leone, una dinamica di genere raramente osservata nell’iconografia egiziana, ma appartenente piuttosto a una nuova era. – MW
(p. 108)
M A RY W I G M A N 1886, Hannover, Germania – 1973, Berlino, Germania Mary Wigman è senza alcun dubbio la figura più rappresentativa dell’Ausdruckstanz, la danza espressionista tedesca che all’alba del Novecento rivoluziona la scena coreutica centro-europea decostruendo il formalismo del balletto classico. Il suo approccio al movimento, affinato in anni di pratica al fianco del celebre maestro e teorico Rudolf Laban, non tende alla perfezione tecnica né mira alla rappresentazione di narrazioni idealizzate, tipiche della drammaturgia tradizionale, ma ha piuttosto lo scopo di costruire una gestualità in grado di veicolare le pulsioni emotive dell’interprete. I suoi spettacoli sono liberi da qualsiasi orpello scenografico e, fin dal debutto con Hexentanz (1914), puntano alla più pura asciuttezza formale: il palcoscenico è spesso vuoto, abitato dalla sola figura della danzatrice che, con i piedi scalzi e costumi essenziali, si muove alla ricerca di un equilibrio tra corpo e mente, forma e spirito. Nell’unico frammento di filmato che rimane di una performance del 1930 in cui interpreta la sua iconica danza sciamanica, ad esempio, Wigman sembra muoversi in uno stato di trance e incarnare una donna-strega impegnata a sfogare la sua componente istintiva. Assecondando un ritmo musicale fatto di percussioni e lunghi silenzi, il suo corpo appare sempre seduto a terra mentre, con le membra contratte e le mani che si aggrappano a una materia invisibile, sembra posseduto da un’energia primordiale drammatica e delirante. Con lo scopo di esasperare l’aspetto ancestrale dell’intera scena, il suo volto è occultato da una maschera e le sinuosità del suo corpo sono coperte da una lunga tunica in broccato che conferisce ai movimenti un certo grado di astrazione formale. Non è un caso che la critica abbia definito questi movimenti come “danza assoluta”: oltre a celebrare le potenzialità del corpo, infatti, gli spettacoli della coreografa e interprete tedesca diventano gli strumenti per raccontare le urgenze della modernità, come il ruolo sociale della donna, o le posizioni politiche del nazionalismo tedesco. Come molte danzatrici della sua generazione – Ruth St. Denis, Doris Humphrey o Martha Graham, tra le altre – Wigman racconta una figura femminile indipendente che, anche nei più tardi e armonici spettacoli come Pastorale o Dance of Summer (entrambi del 1929), diventa consapevole del proprio perturbante potere e protagonista della propria vita. – SM
Laura Wheeler Waring è una pittrice, illustratrice ed educatrice americana, nota per i vivaci ritratti realizzati negli anni Venti e Trenta, spesso dedicati alle figure di spicco dell’Harlem Renaissance. Nata da una famiglia dell’alta borghesia di Hartford,
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Padiglione Centrale
PA U L A R E G O
1935, Lisbona, Portogallo Vive a Londra, UK
L’opera figurativa di Paula Rego non scende a compromessi e obbliga lo spettatore a confrontarsi direttamente con i rapporti umani e con le dinamiche di potere sociali, sessuali ed emotive che spesso definiscono tali rapporti. Utilizzando le strategie della parodia, della teatralità e della narrazione, le scene domestiche di Rego appaiono formalmente complesse e psicologicamente cariche, tenere e angoscianti allo stesso tempo, e rappresentano il centro dell’esperienza femminile in un mondo segnato dai conflitti. Rego nasce nel 1935, in un Portogallo rigidamente cattolico, sotto il regime autoritario appena instaurato dal primo ministro António de Oliveira Salazar, una dittatura che resterà al potere per quarant’anni e che utilizzerà la censura e la polizia segreta per soffocare l’opposizione. Durante gli anni della sua giovinezza, le famiglie portoghesi – anche quelle come la sua, liberali, istruite e appartenenti alla classe media – sono costrette a parlare in termini ambigui, persino degli argomenti quotidiani più comuni, per timore di ritorsioni da parte dell’antidemocratico Stato di sorveglianza. Profondamente colpita dalla storia del proprio Paese, in tutta la sua opera Rego affronta spesso le sfide morali di una società sottomessa alla tirannia politica, in particolare l’oppressione e la violenza istituzionale verso le donne. Dimostrando fin da subito uno spirito artistico provocatorio, all’età di venticinque anni Rego dipinge Salazar Vomiting the Homeland (1960), che, come suggerisce il titolo, rende coraggiosamente evidenti le proprie opinioni personali. Terminate le scuole superiori in un collegio nel Kent, dal 1952 al 1956 Rego prosegue gli studi alla Slade School of Fine Art di Londra, scuola che vantava docenti di prim’ordine, tra cui i pittori figurativi Lucian Freud, Francis Bacon e Victor Willing, che ben presto sarebbe diventato suo marito. I suoi primi lavori degli anni Sessanta, con i loro rimandi a Miró, Dubuffet e alle vignette politiche del XIX secolo, stabiliscono una tensione tra l’apertura mentale e la libertà sessuale del proprio ambiente e la sofferenza inflitta da un governo dispotico. A mano a mano che la sua arte si sviluppa, l’esplorazione delle tensioni interpersonali e sociali viene estremizzata. Nei lavori realizzati nell’ultimo decennio del XX secolo e nei primi anni Duemila, i suoi soggetti – donne spesso catturate in posizioni di vulnerabilità sempre più grottesche e perverse – trasmettono con una ambiguità disorientante la differenza tra il sinistro e il seducente. Ancora più sconvolgente è il magnetismo inquietante delle scene di Rego; ma come lei stessa dichiara: “Il grottesco è bello” 1. – MW
1
Paula Rego, citata in Ben Eastham, Helen Graham, Interview with Paula Rego, in “The White Review”, 1, gennaio 2011 (www.thewhitereview.org/feature/ interview-with-paula-rego).
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Paula Rego, The Policeman’s Daughter, 1987. Acrilico su carta su tela, 213 × 152 cm. Photo Nick Willing. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Victoria Miro. © Paula Rego
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Paula Rego, Geppetto Washing Pinocchio, 1996. Pastello su carta su alluminio, 170 × 150 cm. Photo Nick Willing. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Marlborough Fine Art. © Paula Rego Paula Rego, Metamorphosing after Kafka, 2002, Pastello su carta su alluminio, 110 × 140 cm. Photo Nick Willing. Kistefos Museum. Courtesy l’Artista; Christen Sveaas Art Foundation. © Paula Rego Paula Rego, Sleeper, 1994. Pastello su carta su alluminio, 120 × 160 cm. Photo Nick Willing. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Victoria Miro. © Paula Rego
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CLAUDE CAHUN E LISE DEHARME
LEONORA CARRINGTON
1894, Nantes, Francia – 1954, Saint Helier, Jersey, UK 1898, Parigi, Francia – 1980, Neuilly-sur-Seine, Francia
1917, Clayton-le-Woods, UK – 2011, Città del Messico, Messico
Nel 1937, dopo aver raggiunto una discreta popolarità nel panorama culturale parigino, le artiste francesi Lise Deharme e Claude Cahun pubblicano Le Cœur de Pic, un breve libro per bambini in cui, la prima con trentadue poemetti e la seconda con venti fotografie, raccontano il mondo surreale di un personaggio chiamato Pic. Nell’immagine in copertina, il protagonista brandisce come una bandiera la donna di picche: un chiaro riferimento al soprannome “Dame de Pique” con cui Deharme è conosciuta tra i surrealisti e indizio per comprendere l’intera costruzione verbo-visuale del libro. Anche le fotografie all’interno specificano la narrazione attraverso un sistema di simboli. Mentre Deharme scrive il proprio testo come un perfetto racconto onirico popolato di fantasmi, metamorfosi, animali incantati e altre fantasie, Cahun costruisce dei piccoli set fotografici in cui eleva al ruolo di protagonisti giocattoli, cibo, piante e vari utensili domestici. Una delle fotografie, ad esempio, racconta la disperazione di una pianta rimasta vedova della sua amata farfalla, presentando la statua di una giovane che, curva su se stessa, dà le spalle a un cespuglio di nasturzio e piange lacrime di glicine, come recitano i versi di Deharme. Un’altra immagine si riferisce al tremendo mal di denti provato dal protagonista e, dentro alla scultorea sagoma di un molare, ritrae la lotta tra un piccolo pupazzo, Pic appunto, e la figura lunga e sottile di un nervo-serpente. – SM
Ormai stabile in Messico, Leonora Carrington inventa una serie di stravaganti storie per bambini che, inizialmente dipinte sui muri della stanza da letto dei figli, vengono successivamente radunate in un album privato chiamato Leche del sueño (Il latte dei sogni) – così Gabriel, il figlio dell’artista, battezza la raccolta di fiabe –, illustrato con l’aiuto di strampalati e coloratissimi acquerelli. Le visioni sconvolgenti di creature ibride e mutanti che riempiono i suoi fantasiosi universi includono bambini che perdono la testa, avvoltoi intrappolati nella gelatina e macchine carnivore. I bizzarri racconti di Leche del sueño – e l’opera di Carrington nel suo complesso – mostrano un mondo magico in cui la vita è costantemente rivisitata attraverso il prisma dell’immaginazione, e dove ognuno può cambiare, essere trasformato, diventare qualcosa o qualcun altro. – SM
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PA U L A R E G O
1935, Lisbona, Portogallo Vive a Londra, UK Nursery Rhymes è un portfolio di stampe realizzate da Paula Rego nel 1989 e successivamente pubblicato nel 1994 in forma di libro. L’artista prende le tradizionali filastrocche e poesie inglesi per bambini, molte delle quali teneramente radicate nella coscienza collettiva occidentale, e ne fa satira, trasformazione, esagerazione attraverso acqueforti, litografie e acquetinte, che ne enfatizzano i temi bizzarri, assurdi e spesso disturbanti. Rego comincia a sperimentare con la stampa negli anni Cinquanta, quando studia alla Slade School of Fine Art; nel tempo si specializza nella tecnica, riuscendo a esprimere il potenziale immaginifico di questo mezzo, che usa con grandi risultati in Nursery Rhymes. Come nei soggetti di numerosi suoi magnifici disegni e dipinti, l’innocenza e la fantasia dei suoi materiali ispiratori mascherano l’oscurità propria del loro significato maturo, che spesso si riflette sull’esperienza dei rapporti umani e delle dinamiche sociali controllate dal conflitto, dalla violenza, dal potere e da ruoli di genere culturalmente imposti. I tre roditori ciechi della filastrocca Three Blind Mice barcollano presi da uno stupore dolorante, mentre la moglie del fattore, che “ha loro tagliato la coda con un coltello da carne” brandisce le loro estremità sanguinanti. The Old Woman Who Lived in a Shoe (La vecchia signora che viveva in una scarpa) frusta il figlio, uno dei tantissimi bambini infilati in casa sua “da non sapere che farsene”. In Baa, Baa, Black Sheep (Bee, bee, pecora nera) appare una bambina avvolta nell’abbraccio minacciosamente amoreggiante di un pecorone dal manto nero e riccio, mentre “il bambino che vive in fondo alla strada” sbircia da lontano. – MW
Pagina a fianco: Lise Deharme con illustrazioni di Claude Cahun, Le Cœur de Pic. Éditions MeMo, 2004 (originale pubblicato nel 1937) © Éditions MeMo Leonora Carrington, Leche del sueño. Fondo de Cultura Económica, 2016. © Estate of Leonora Carrington / Artists Rights Society (ARS), NY Questa pagina: Paula Rego, Jack and Jill, 1989. Nursery Rhymes (illustrazione). Acquatinta, 32,3 × 21,5 cm (immagine) e 52 × 38 cm (carta). Photo Nick Willing e Mark Dalton. Courtesy Paula Rego; Cristea Roberts Gallery, London © Paula Rego Paula Rego, Baa, Baa, Black Sheep, 1989. Nursery Rhymes (illustrazione). Acquatinta, 32,3 × 21,5 cm (immagine) e 52 × 38 cm (carta). Photo Nick Willing e Mark Dalton. Courtesy Paula Rego; Cristea Roberts Gallery, London © Paula Rego
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JANA EULER
1982, Friedberg, Germania Vive a Francoforte, Germania e Bruxelles, Belgio
Il lavoro dell’artista tedesca Jana Euler spazia all’interno di una varietà di concezioni stilistiche che esplorano rappresentazioni di figure umane e non, grottesche, mostruose, contorte, erotizzate e spesso respingenti. Dopo avere conseguito la laurea alla Städelschule di Francoforte, Euler ricorre alla satira per descrivere la scena artistica di stampo prettamente maschile nella serie Ambition Universe (2009–2010), nella quale propone una caricatura dell’influente rete di artisti e critici dell’istituto attraverso i rispettivi segni zodiacali. Scimmiottando l’atteggiamento ridicolo e sovversivo, le ossessioni surrealiste, il dualismo tra scetticismo e fede caratteristico della pittura degli artisti tedeschi del periodo postbellico, Euler fonde i loro gesti radicali con feroci satire sulla condizione umana, generalmente espressa attraverso brutali ritratti naturalistici, in associazione al movimento degli anni Venti conosciuto come Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività). Nell’opera di Euler il corpo è un elemento onnipresente, spesso raffigurato in posizioni che esprimono una carnalità fumettistica, umiliante o una vulnerabilità sconcertante. Nel quadro under this perspective, 1 (2015), due giganteschi piedi campeggiano lungo i margini della tela, dando rispettivamente vita a un’estensione fallica che culmina in un viso minuscolo. In altre opere, come la grande tela Analysemonster (2014), un’orribile creatura, con le fattezze di un troll, dotata di mani enormi, orecchie elefantiache rosa e arancioni e lingua bavosa sconvolge l’osservatore, mentre la sua corporeità repulsiva riflette inspiegabilmente la nostra. I corpi iperbolici di Euler assumono anche sembianze animali. Nella serie great white fear (2019), l’artista realizza alcuni dipinti di squali che evocano lo stile di famosi pittori maschi attraverso tecniche variamente iperrealiste, astratte e surrealiste. Tuttavia, se da un lato queste creature manifestamente falliche, raffigurate mentre emergono dall’acqua, rappresentano una critica inequivocabile alla storia della pittura patriarcale, le stesse fanno anche luce sulla gamma stilistica decisamente variegata di Euler, che non può essere ricondotta a un’unica cifra artistica. Per la 59. Esposizione Internazionale d’Arte, l’artista colloca su un piedistallo centoundici sculture di squali in ceramica, le cui minuscole dimensioni fanno da contrappunto alla mole epica dell’animale raffigurato in great white fear. Invece, i due dipinti con le mosche, rispettivamente un esemplare risalente a cinquecento anni fa conservato nell’ambra e il primo piano di un esemplare vivo realizzato con l’ausilio della macrofotografia, adombrano gli squali grazie alla loro dimensione teatrale. Mettendo in scena un incontro impossibile tra la morte e la vita, il grande e il piccolo, l’essere che vola e l’essere che appartiene al mare, Euler, ancora una volta, rende insondabile ciò che è familiare. – MW
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Jana Euler, great white fear, 111 small ceramics (dettaglio), 2021. Ceramiche smaltate, dimensioni variabili. Photo Diana Pfamatter. Courtesy l’Artista. © Jana Euler
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Jana Euler, Fly (moment), 2021. Olio su lino, 240 × 260 cm. Photo Jens Gerber. Courtesy l’Artista; Cabinet, London; dépendance, Brussels; Greene Naftali, New York; Galerie Neu, Berlin. © Jana Euler Jana Euler, Fly (eternity), 2021. Olio su lino, 260 × 240 cm. Photo Jens Gerber. Courtesy l’Artista; Cabinet, London; dépendance, Brussels; Greene Naftali, New York; Galerie Neu, Berlin. © Jana Euler
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CHRISTINA QUARLES
1985, Chicago, USA Vive a Los Angeles, USA
In dipinti, disegni e installazioni, la pratica di Christina Quarles si confronta con i limiti della leggibilità e del linguaggio nella complessa politica dei corpi, caratterizzati da razza, genere, sessualità e identità. I dipinti di Quarles raffigurano una sovrabbondanza di gesti attraverso pigmentazioni dissonanti costituite da colature, linee, sbavature e abrasioni che l’artista ottiene con vari strumenti quali pettini e pennelli asciutti, dipanando figure astratte che superano le forme convenzionali del corpo. Grazie alla sua formazione come graphic designer, abbina gli effetti fortuiti del dripping e dei rapidi colpi di pennello, apparentemente improvvisati, a tecniche di manipolazione digitale e stencil tagliati al laser, creando profili ben definiti per pianificare e modellare la composizione. I corpi sinuosi si contorcono evocando un senso di intimità e fluidità, di esistenze intercambiabili che rappresentano l’impossibilità di delineare individui, come avviene nell’intreccio di corpi in Hangin’ There, Baby (2021) e nella frenetica tavolozza di Gone on Too Long (2021). Mentre sembrano attraversare uno spazio di moti contraddittori, i corpi si uniscono lungo un asse e si staccano lungo l’altro, come nelle figure che si strattonano, respingono e calpestano caoticamente in Just a Lil’ Longer (2021): abbracciandosi, collidendo e fondendosi, i soggetti roteanti dagli arti sporgenti, nel loro convergere creano l’illusione di movimento e metamorfosi. Don’t Let It Bring Yew Down (It’s Only Castles Burnin’) (2021) mostra un groviglio di forme, delineate da sagome e gradienti, che si sostengono reciprocamente e fanno da testimoni ad altre due figure che sembrano trascinarsi in una danza su ciò che ricorda un pavimento di parquet. Piani geometrici e architetture che alludono ad ambienti domestici, come la tenda in (Who Could Say) We’re Not Jus’ as We Were (2021), centrano nello spazio forme prive di profondità, incorniciando figure allampanate. In Had a Gud Time Now (Who Could Say) (2021), le estremità dei soggetti trafiggono, affondano ed emergono su un piano rappresentato da una tovaglia a quadretti. Nella forma di recipienti gocciolanti, raffigurati in mille motivi e sfumature psichedeliche, Quarles sovverte le norme pittoriche che sorreggono le convenzioni tradizionali di razza, genere, sessualità e identità. L’obiettivo è trasmettere una corporeità che si sottrae a ogni definizione e marca le identità in un flusso per ritrarre, attraverso la frammentazione, un sé multiplo e sfuggente. L’opera riflette la soggettività dell’artista che vive l’esperienza continua di essere erroneamente letta nel suo essere donna cis, queer e meticcia, con il conseguente desiderio di destabilizzare le aspettative della società. I corpi, che spingono contro il limite della cornice quasi a superarla, suggeriscono una fisicità alternativa definita dall’ambiguità. – LC
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Christina Quarles, Gone on Too Long, 2021. Acrilico su tela, 152 × 183 × 5 cm. Photo Fredrik Nilsen Studio. Courtesy l’Artista; Hauser & Wirth; Pilar Corrias, London. © Christina Quarles
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Padiglione Centrale
Christina Quarles, (Who Could Say) We’re Not Jus’ as We Were, 2021. Acrilico su tela, 178 × 330 × 5 cm. Photo Fredrik Nilsen Studio. Courtesy l’Artista; Hauser & Wirth; Pilar Corrias, London. © Christina Quarles
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Padiglione Centrale
KAA R I U PS O N
1970, San Bernardino, USA – 2021, New York City, USA
L’artista californiana Kaari Upson esplora le dimensioni psicologiche e interpersonali dell’esperienza famigliare negli Stati Uniti. Nata da padre americano e madre tedesca emigrata negli Stati Uniti da Hannover in Germania, Upson descrive la propria infanzia come perennemente bombardata da incognite esterne, in grado di sovvertire improvvisamente la realtà. Il primo grande riconoscimento del suo lavoro avviene con The Larry Project (2005–2012), presentato nel 2007 all’Hammer Museum di Los Angeles. Upson inizia a concepire questo progetto quando un vicino della casa d’infanzia a San Bernardino abbandona la sua proprietà; negli anni che seguono l’artista elabora disegni, video, dipinti e sculture volti a ipotizzare l’identità della persona che aveva vissuto di fronte alla casa dei suoi genitori, e che lei non aveva mai conosciuto, fino ad arrivare a fondere la sua identità con la propria. Upson è meglio nota per i grandi disegni realizzati a grafite e per gli inquietanti calchi in silicone, resina, pigmento e carboncino – sculture dipinte e distorte raffiguranti mobili, figure e oggetti domestici. Le sue composizioni sono abiette, inquietanti e quasi troppo umane, composte da sculture che si afflosciano, cedono e si appoggiano ai muri e agli angoli come a denunciare lo sfinimento psicologico della loro genesi. Upson afferma di volere che la sua opera sia incompleta, che non raggiunga mai un punto d’arrivo, ma che piuttosto offra allo spettatore un luogo “in cui la narrativa si spacca”. La mostra presenta dieci dipinti dalla recente serie Portrait (Vain German) (2020–2021), iniziata con ritratti a base di un impasto denso e altri materiali, realizzati su tele in miniatura. Successivamente l’artista impiega tecniche di modellazione 3D per creare stampi e calchi sui quali applicare strati di uretano, resine e pigmenti, spesso realizzando numerosi dipinti a partire dallo stesso stampo. Plausibilmente alludendo alla madre o a se stessa, soggetti frequentemente catturati nelle sculture e nei video, i complessi dipinti dimensionali si concretizzano attraverso le tonalità rosa carne, blu intenso e giallo fluorescente. I volti dipinti, con i loro sguardi fissi che sembrano provenire da un altro mondo, mutano tra il macabro, lo scheletrico e il sereno, tra il frammentario e l’astratto fino ad apparire completamente annientati, forse una riflessione sulla malattia e sull’inesorabile declino del corpo. Upson ha realizzato queste opere mentre era malata di cancro, a causa del quale è recentemente venuta a mancare. – MK
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Kaari Upson, Portrait (Vain German), 2020–2021. Uretano, resina, resina all’acqua, pigmento, fibra di vetro, carbone, alluminio, 74,3 × 58,4 × 7 cm. Photo Ed Mumford. © The Kaari Upson Trust
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Padiglione Centrale
Kaari Upson, Portrait (Vain German), 2020–2021. Uretano, resina, resina all’acqua, pigmento, carbone, fibra di vetro, alluminio, 74,3 × 58,4 × 7 cm. Photo Ed Mumford. © The Kaari Upson Trust
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Kaari Upson, Portrait (Vain German), 2020–2021. Uretano, resina, resina all’acqua, pigmento, carbone, fibra di vetro, alluminio, 74,3 × 58,4 × 7 cm. Photo Ed Mumford. © The Kaari Upson Trust
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Padiglione Centrale
NAN GOLDIN
1953, Washington, D.C., USA Vive a New York City, USA
A partire dai primi anni Settanta, l’americana Nan Goldin dà voce e visibilità alle comunità a lei più vicine attraverso fotografie profondamente personali. Goldin studia fotografia presso la School of the Museum of Fine Arts di Boston, dove lavora con i fotografi David Armstrong e Mark Morrisroe. Goldin inizia a portare con sé la macchina fotografica ovunque, immortalando amici, amanti e famigliari nel loro ambiente di vita. Fin dall’inizio, le fotografie di Goldin si concentrano soprattutto su persone che vivono al di fuori degli ordinari costrutti di genere. La comunità dell’artista viene fortemente colpita dall’AIDS negli anni Ottanta e da allora il suo lavoro assume toni più esplicitamente politici. La celebrata opera diaristica intitolata Ballad of Sexual Dependency (1979–1986) raccoglie scene estremamente intime di amore, violenza e sesso, tutte tratte da esperienze vissute in prima persona. A partire dagli anni Novanta, Goldin amplia la sua pratica realizzando installazioni che comprendono immagini in movimento, musica e voci narranti. Inoltre, sfrutta il proprio profilo per affrontare questioni di natura politica, in particolare l’incremento esponenziale delle morti per overdose di oppiacei negli Stati Uniti, che ha conseguenze drammatiche per l’artista stessa. Rivolgendo l’attenzione a temi quali amore, genere, sessualità e precarietà sociale, l’opera di Goldin rappresenta la vita nella sua massima crudezza e verità. Sirens (2019–2020) è il primo film di Goldin realizzato interamente con filmati tratti da altre fonti. L’artista concepisce l’opera come un omaggio a Donyale Luna, spesso citata come la prima top model afroamericana. Icona culturale nella New York degli anni Sessanta, Luna muore nel 1979, ad appena trentatré anni, per un’overdose di eroina. Nella mitologia greca, le sirene erano creature simili a ninfe, il cui canto seducente attirava i marinai verso una tragica morte lungo le coste. Sirens associa l’irresistibile canto di queste creature mitologiche e la bellezza del corpo femminile alla sensualità e all’estasi indotte dagli stupefacenti. Accompagnato dalla colonna sonora di Mica Levi e composto di brevi clip tratte da trenta film, tra cui Satyricon e i lavori di Kenneth Anger, Lynne Ramsay, Henri-Georges Clouzot e Federico Fellini, oltre ai provini di Luna per Andy Warhol e alle riprese di un rave londinese nel 1988, Sirens compone un corollario filmico della seducente euforia che circonda l’uso di droghe. Mentre il film presenta un’interpretazione romantica e glamour del piacere che si prova sotto l’effetto degli stupefacenti, il suo titolo allude ai pericoli associati all’uso degli oppiacei e alla difficoltà di sottrarsi alla loro morsa. – IW
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Nan Goldin, Sirens, 2019–2021. Video a canale singolo, 16 min 1 sec. Veduta dell’installazione, Sirens, Marian Goodman Gallery, Londra, 2019. Photo Alex Yudzon. Courtesy l’Artista; Marian Goodman Gallery. © Nan Goldin
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Padiglione Centrale
S H E R E E H OVS E P I A N
1974, Esfahan, Iran Vive a New York City, USA
L’artista americana di origine iraniana Sheree Hovsepian impiega la tecnica dell’assemblage a parete per trasportare la fotografia oltre i confini tradizionali del mezzo, verso la scultura e l’arte performativa. Hovsepian tratta le fotografie non come sguardi isolati affacciati su un passato immutabile, ma come materiale scultoreo, incorporando le stampe in vignette tridimensionali con nylon, ceramica, spago, chiodi e legno di noce, collocandole in profonde cornici realizzate su misura. Le sue composizioni rivisitano l’approccio alto-modernista alla disposizione della forma, con un accentuato riconoscimento delle politiche rivolte al corpo, enfatizzando tanto i rapporti tra le persone e le cose ritratte dalla sua macchina fotografica, quanto la relazione formale tra i materiali scelti. Hovsepian concepisce la propria pratica artistica come una collaborazione dei corpi con i materiali fabbricati e nelle sue opere spesso include la propria immagine o, talvolta, quella della sorella come sua controfigura. Gli assemblage di Hovsepian, inoltre, inglobano frequentemente elementi in ceramica, un materiale che, come la fotografia, riceve un’impronta e attraversa un processo di trasformazione chimica e, se cotta in forno, è sempre accompagnata da un pericolo di insuccesso. L’indagine sulla vulnerabilità e sul confine sottile tra permanenza e precarietà è al centro del suo approccio. In anni recenti, la sua opera è stata influenzata da letture sulle teorie femministe e da testi scritti da artiste. Di particolare importanza per il suo pensiero è la critica letteraria femminista francese Hélène Cixous che, negli anni Settanta, ha teorizzato l’esistenza di una relazione intrinseca tra corpo e linguaggio. Hovsepian concepisce la fotografia come fondamentalmente associata alla produzione del desiderio, al riconoscimento consapevole del sé e alle evenienze che circondano il corpo, l’identità e l’esperienza soggettiva. L’opera di Hovsepian per Il latte dei sogni prosegue l’indagine dell’artista sulla materialità della fotografia e sulle sue qualità rappresentative, simboliche e sintattiche. In questi lavori, frammenti di corpi – una spalla isolata, l’inquadratura ravvicinata di un busto, un braccio sospeso –, tutti fotografati su uno sfondo nero, sono schierati come elementi formali in un vocabolario visivo di forme e linee astratte. Queste composizioni, racchiuse nelle loro cornici simili a finestre, possono essere lette come mappe o schemi della relazione tra corpo e materia, tra raffigurazione e astrazione. Come afferma l’artista: “Per me, il corpo diventa il luogo di una coscienza stratificata. L’assemblage ne è una metafora”. – IW
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Sheree Hovsepian, Privileged Prey, 2021. Stampa fotografica ai sali d’argento, ceramica, chiodi, spago, velluto, cornice d’artista in noce, 80 × 54,6 × 9 cm. Photo Martin Parsekian. Collezione privata. Courtesy l’Artista Pagine successive: Sheree Hovsepian, veduta della mostra, Arches and Ink, Rachel Uffner Gallery, New York City, 2021. Courtesy JSP Art Photography
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Padiglione Centrale
MIRIAM CAHN
1949, Basilea, Svizzera Vive a Stampa, Svizzera
Per i primi vent’anni della sua carriera, Miriam Cahn rifiuta di cimentarsi nella pittura, ripudiandola in un atto di resistenza femminista contro lo Zeitgeist del mondo artistico occidentale, incentrato su pittura astratta e minimalista realizzata da artisti maschi; tra gli anni Settanta e la metà degli anni Novanta, Cahn si dedica a disegni, performance, fotografie, film e arte testuale. Negli anni Novanta, tuttavia, la pittura perde la sua posizione preminente nella storia dell’arte e Cahn, ormai quarantacinquenne, decide di cimentarsi con essa. L’artista esplora la spietatezza, la brutalità e la bellezza insite nella condizione umana, sempre in reazione a eventi attuali e con una tendenza saldamente progressista. L’immaginario di Cahn risucchia l’osservatore in paesaggi da incubo che evocano la violenza percepita a livello umano, corporeo, a causa delle politiche globali, della guerra e dell’oppressione. Il corpo è sempre enfatizzato: una forma chiara, ma resa in modo crudo. Alla Biennale Arte 2022, Cahn presenta un’installazione intitolata unser süden sommer 2021, 5.8.2021 (2021), composta da ventotto nuovi lavori: tredici dipinti, principalmente a olio, nove disegni a tecnica mista e sei taccuini d’artista. In questo corpus, l’artista prosegue la propria dedizione pluriennale al figurativo. I suoi disegni e dipinti presentano oggetti riconoscibili e irriconoscibili resi antropomorfi, mentre nelle diverse composizioni fanno la loro comparsa appendici equivoche. Immagini legate al parto, esseri che sfidano i generi, falli eretti e atti apertamente sessuali sono soggetti ricorrenti nell’opera di Cahn. Le sue figure sono spesso definite dai soli contorni e sembrano galleggiare, o forse nuotare, in uno spazio sfocato, che dona alle opere una qualità suggestiva capace di superare i confini della pagina o della tela per invadere l’intera sala. Cahn provvede autonomamente alle proprie installazioni: dopo un’accurata riflessione sugli ambienti che ospiteranno il suo lavoro, allestisce furiosamente intere sale adornandole di disegni e dipinti, come in una danza tra artista, spazio espositivo e opera. Nei suoi soggetti Cahn affronta crisi e tragedie, come la guerra del Golfo, il movimento #MeToo, gli attacchi al World Trade Center e le guerre jugoslave, ma lo fa senza spettacolarizzazione, in modo velato, lasciando che le atrocità più terribili attraversino la sua psiche, la sua mano e la sua tela. Non tenta di conferire al trauma un tocco glamour, o di ostentare virtù morali. Invece, consente all’ambiguità e alla carica emotiva di assumere un ruolo guida nella modalità di rappresentazione. L’approccio sommessamente audace di Cahn alla pittura realista, sempre sensibile al soggetto, rende la sua opera ormai ultraquarantennale provocatoriamente contemporanea. – IA
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Miriam Cahn, unser süden, 17.7.21, 2021. Olio su tela, 240 × 200 cm. Photo François Doury. Courtesy l’Artista; Galerie Jocelyn Wolff; Meyer Riegger
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Padiglione Centrale
Miriam Cahn, o.t., 25.7. + 3.8.21, 2021. Olio su tela, 195 × 190 cm. Photo François Doury. Courtesy l’Artista; Galerie Jocelyn Wolff; Meyer Riegger Miriam Cahn, MARE NOSTRUM, 4. + 22.7.21, 2021. Olio su legno, 100 × 75 cm. Photo François Doury. Courtesy l’Artista; Galerie Jocelyn Wolff; Meyer Riegger
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CHIARA ENZO
1989, Venezia Vive a Venezia, Italia
Piccoli e minuziosi, i dipinti dell’artista veneziana Chiara Enzo catturano fenomeni del mondo osservato in cui corpi frammentati, ritratti in dettagli disadorni quanto inquietanti, alludono alle limitazioni della loro stessa corporeità. Nell’ingrandimento estremo entro i confini delle cornici, porzioni di cute rigonfia, ferita e macchiata, nuche e colli lanuginosi, gabbie toraciche tese e morbidi addomi segnati da abiti troppo stretti sono resi alieni e irriconoscibili. Sebbene si tratti di dipinti, le opere di Enzo, complici i pastelli e le matite colorate, mantengono l’aspetto di disegni, basati su soggetti dal vivo e su immagini raccolte da riviste, social media e storici testi di medicina, resi con segni densi e materici per creare superfici che appaiono cariche, tangibili. Questo aspetto della loro presenza fisica non li rende tanto ritratti di individui, quanto piuttosto evocazioni aptiche di superficie, consistenza, calore e tatto. Pur essendo un soggetto frequente nell’opera di Enzo, la pelle è vista e raffigurata da una prospettiva metaforica anziché letterale. Come afferma l’artista, la pelle è la nostra superficie, il nostro involucro, il luogo più immediato della stimolazione e del dolore; essa è anche il nostro limite e confine, lo spazio fisico in cui inizia e finisce la nostra interazione con il mondo. Enzo ha concepito la presente installazione di oltre venti lavori come un ambiente complessivo intitolato Conversation Piece, le cui dimensioni intime sono state ispirate dal processo operativo lento e laborioso elaborato dall’artista nella propria casa-studio. Le nuove opere, come Senza titolo (spots), Nuca, B. e Il prurito (tutte del 2021), restituiscono un carattere quasi fotografico nell’attenzione ai particolari granulari della materialità del corpo e nelle inquadrature ritagliate e ingigantite di macchie e imperfezioni della pelle. Le dimensioni ridotte e la disposizione nello spazio invitano l’osservatore a esaminare ciascun dipinto in maniera intima, da vicino, e allo stesso tempo a considerarlo come parte di un insieme più ampio. Se l’attenzione sensibile di Enzo verso la figura evoca tenerezza e intimità, la natura estrema dei punti di osservazione provoca un senso di profonda ambiguità, persino di minaccia. Le dimensioni minute costringono chi guarda a una visione personale che, tuttavia, porta con sé il rischio della violenza. Offerta all’osservatore per il proprio consumo, la pelle così ravvicinata appare delicata come la superficie di un frutto. – MW
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Chiara Enzo, Torso, 2018. Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno, 23 × 22 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Zero…, Milano. © Chiara Enzo Chiara Enzo, Nuca, B., 2021. Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno, 19 × 19 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Zero…, Milano. © Chiara Enzo
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Padiglione Centrale
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Chiara Enzo, Letti, 2018. Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno, 19 × 19 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Zero…, Milano. © Chiara Enzo Chiara Enzo, Senza titolo, 2019. Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno, 17,7 × 14,8 cm. Courtesy l’Artista; Zero…, Milano. © Chiara Enzo Chiara Enzo, L’abisso, 2020. Tempera, pastello, matite colorate su cartoncino applicato su tavola di legno, 29 × 15 cm. Courtesy l’Artista; Zero…, Milano. © Chiara Enzo
O VA R TA C I
1894, Ebeltoft, Danimarca – 1985, Risskov, Danimarca
Ovartaci è il nome d’adozione dell’artista Louis Marcussen. Nata da una famiglia numerosa in una cittadina portuale, Ovartaci completa il suo apprendistato come pittrice naturalista prima di emigrare in Argentina nel 1923. Per sei anni viaggia in lungo e in largo per il Paese sostenuta da risorse sempre più esigue, prima di fare ritorno in patria, stanca e provata. Al suo rientro, la famiglia la fa internare presso l’ospedale psichiatrico di Risskov, dove vivrà e lavorerà per i successivi cinquantasei anni. Non trascorre molto tempo prima che Ovartaci inizi a scontrarsi con lo staff ospedaliero, che pone restrizioni alla sua attività creativa. Infine, grazie a un maggiore grado di autonomia e libertà concesse dall’ospedale, la sua produzione artistica fiorisce. L’artista adotta il nome “Ovartaci” – che sostanzialmente significa “Capo Matto” –, una sorta di gioco di parole tra “ovar”, termine inteso a designare una figura ospedaliera di spicco quale “caposala” o “primario di Psichiatria”, e “taci” da “tossi”, termine colloquiale che indica un paziente psichiatrico. Ovartaci idealizza la forma e la soggettività femminile tanto nella sua arte quanto nella vita privata. Buddhista convinta, incarna la purezza dell’esperienza femminile nella donna yogi, una persona scevra da impulsi sessuali e in grado di passare tra diversi stati mentali e reincarnazioni. Assegnatole il genere maschile alla nascita, dopo essersi battuta a lungo per cambiare sesso, e in seguito a un maldestro tentativo compiuto personalmente, nel 1957 Ovartaci riesce finalmente a convincere l’ospedale e si sottopone a un intervento chirurgico, completando così la sua transizione1. L’artista realizza la sua rimarchevole produzione con l’ausilio di materiali facilmente reperibili, quali carta colorata riciclata e cartone. I suoi disegni e dipinti raffigurano gruppi di figure femminili di fantasia – creature dai tratti animali con lineamenti esili e allungati tra cui occhi a mandorla, orecchie da lupo, visi aguzzi e lunghi arti affusolati. Le figure spesso appaiono all’interno di scene mitologiche che evocano vite di epoche precedenti, nell’Antico Egitto, al tempo della Torre di Babele o in un circo pagano. Ovartaci scolpisce anche bambole di grandi dimensioni vestite con abiti dipinti o realizzati in tessuto. L’intera opera di Ovartaci è percorsa dal sogno della fuga, un elemento che si manifesta in forma celata nelle frequenti figure alate e più dichiaratamente negli innumerevoli disegni, progetti e modelli in cartone e legno di un elicottero in grado di volare oltre i muri dell’ospedale – e forse, anche oltre i confini e i limiti di una singola vita. – MK
1
Negli ultimi anni della sua vita, l’artista avrebbe iniziato a identificarsi come uomo. La maggior parte della letteratura critica si referisce a Ovartaci usando il pronome femminile, come abbiamo fatto in questo testo, consapevoli che esistono altri approcci in merito.
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Ovartaci, Untitled, n.d. Metallo dipinto, 38 × 10 cm. Photo Archive Museum Ovartaci. Courtesy Museum Ovartaci
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Ovartaci, FRØKEN OVARTACI, n.d. Gouache, pastello su tela, 89 × 161 cm. Photo Archive Museum Ovartaci. Courtesy Museum Ovartaci Ovartaci, Untitled, n.d. Bambola a grandezza naturale, pantaloni verdi, olio su cartone, recto verso, 139 × 50 cm. Photo Archive Museum Ovartaci. Courtesy Museum Ovartaci Ovartaci, Untitled, n.d. Bambola a grandezza naturale con orecchie e ombra, cartone, cartapesta, 130 × 30 cm. Photo Archive Museum Ovartaci. Courtesy Museum Ovartaci
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DJUNA BARNES M I R E L LA B E N T I VO G L I O E A N N A L I S A A L L O AT T I TOMASO BINGA M I L LY C A N AV E R O M I N N I E E VA N S ILSE GARNIER L I N DA GA ZZ E RA G E O RG I A NA H O U G H T ON M I N A L OY J OYC E M A N S O U R S I S T E R G E RT RU D E M O RGA N E U S A P I A PA L L A D I N O GISÈLE PRASSINOS ALICE RAHON G I O VA N N A S A N D R I HÉLÈNE SMITH M A RY E L L E N S O LT J O S E FA T O L R À UNICA ZÜRN
CO
O P R
O R B I TA
La mostra Materializzazione del linguaggio, curata dall’artista Mirella Bentivoglio come parte della 38. Esposizione Internazionale d’Arte nel 1978, riuniva ottanta artiste – alcune delle quali sono incluse nell’attuale presentazione – che lavoravano soprattutto con la Poesia Concreta o Visiva, movimenti artistici in cui l’aspetto della scrittura è importante quanto il suo significato. Il pionieristico inserimento di un gruppo tutto al femminile in un contesto a prevalenza maschile (un critico definì la mostra il “ghetto rosa” della Biennale) ruotava attorno all’arte testuale intesa come mezzo attraverso cui le artiste potevano riscrivere se stesse, e dunque il loro posto nella storia dell’arte. In parte concepita come risposta alla mostra di Bentivoglio, questa esposizione raccoglie artiste e scrittrici del XIX e XX secolo che utilizzano forme espanse di produzione testuale come strumenti di emancipazione e pratiche della differenza. Molte delle artiste qui ospitate – Tomaso Binga, Ilse Garnier e Mary Ellen Solt – usano poesie e testi concreti per decostruire la linearità associata alla prosa tradizionale e alla narrazione classica. Qui, però, la scrittura è intesa anche come pratica corporea e spirituale. È infatti a metà Ottocento che si manifesta un revival globale dell’interesse per lo spiritualismo e le pratiche medianiche, in gran parte di dominio femminile. In quel contesto, Linda Gazzera tiene dimostrazioni spiritiche in cui visceri medianici spuntano dal nulla; sulla stessa falsariga, Josefa Tolrà afferma che i suoi disegni sono guidati da entità spirituali che incontra in stato di trance. Georgiana Houghton, Eusapia Palladino e Hélène Smith usano i loro corpi come strumenti per comunicare con gli spiriti di altri pianeti o dimensioni, creando disegni, calchi e quadri che vengono ricevuti come messaggi dai mondi dell’aldilà. Se queste artiste sono immerse nell’ambiente dello spiritualismo, Sister Gertrude Morgan e Minnie Evans adottano processi “automatici” per realizzare quadri e disegni capaci di veicolare visioni, sogni e allucinazioni, trattando la creazione artistica come espressione di un linguaggio inconscio e del tutto personale. Nei lavori e negli scritti di Djuna Barnes, Joyce Mansour e Unica Zürn, invece, la fabulazione immaginaria offre la possibilità di considerare mondi alternativi e la libertà da una lingua e da una cultura incentrate sul maschile. Nelle esperienze di tutte queste artiste, la scrittura si reinventa come pratica corporea, viscerale e profondamente creativa, capace di mettere in discussione le strutture di potere consolidate. Incarna quello che la teorica francese della letteratura Hélène Cixous, nel suo saggio del 1975 Il riso della Medusa, definisce écriture féminine (scrittura femminile): uno stile proprio delle donne, che reagisce alla soppressione della loro voce nei sistemi maschilisti che dominano il linguaggio. Come ricorda Cixous: “Se si censura il corpo, si censura anche il respiro e il discorso. Scrivete voi stesse. Il vostro corpo deve farsi sentire”.
Fotografo non identificato, Seduta spiritica con la Palladino, 1909. Archivio del Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso”, Università di Torino. © Museo “Cesare Lombroso”
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L I N G UAG G I O D E L C O R P O Jennifer Higgie
In quelle occasioni desideravo che la donna scrivesse e proclamasse questo impero unico; affinché altre donne, altre sovrane inconfessate gridassero allora: anch’io trabocco, i miei desideri hanno inventato nuovi desideri, il mio corpo conosce canti inediti. — Hélène Cixous, Il riso della Medusa La storia dell’arte non è cosa ordinata. È lingua viva, plasmata dalla cultura in cui è nata e al contempo da quella in cui ora risiede. Troppo a lungo, tuttavia, si è manifestata come narrazione distorta, fallocentrica, di uomini che trionfavano su altri uomini, brandendo i pennelli come amanti che impugnano le pistole in un duello all’alba, mentre le donne li incitavano in disparte. Eppure, nonostante gli infiniti tentativi di emarginarci, innumerevoli donne, liberatesi dai dettami della convenzione per l’ingiustizia della loro esclusione, hanno esteso i limiti della rappresentazione. Per alcune, le visioni sono arrivate già completamente formate, aiutate da spiriti o fantasmi. Per altre, i sogni a occhi aperti di futuri possibili, i mistici pronunciamenti dei tarocchi o le libertà anarchiche della poesia hanno contribuito a tradurre un presente apparentemente immobile in un insieme dinamico di potenzialità, manifestate in una miriade di forme: visive, verbali, scritte. Le donne si muovevano, parlavano, lasciavano il segno su vari supporti nel fervore di creare nuovi linguaggi a partire da quelli vecchi, linguaggi che meglio potessero riflettere le sfumature di un mondo in rapida evoluzione e il loro posto in esso. Non ce n’erano due di uguali, perché non esistono due donne uguali.
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Corpo orbita
Con l’avvento della Seconda rivoluzione industriale e il boom delle nuove tecnologie – come la scoperta delle onde elettromagnetiche e l’invenzione del telegrafo e dei raggi X+– prese piede l’idea che ciò che un tempo era nascosto potesse, nelle giuste circostanze, essere reso visibile. Ciò ebbe un impatto non solo sulla scienza e sullo sviluppo della psicoanalisi, ma anche sull’arte e sullo spiritualismo: aprì la prospettiva a linguaggi che non si limitavano a descrivere realtà esterne, ma che riflettevano verità apparentemente elusive. A metà del XIX secolo, lo spiritualismo moderno crebbe in popolarità in tutto il mondo – dal Regno Unito all’America, all’Australia e al Sudafrica – e i suoi seguaci condividevano un obiettivo comune: comunicare con, e imparare da, altre dimensioni. Molte delle donne che aderirono allo spiritualismo usavano il proprio corpo come strumento di contatto con altri regni; approccio, questo, che potrebbe essere interpretato come resistenza, per quanto inconscia, alla logica fallocratica che così a lungo aveva dominato la loro vita. Benché le artiste medium condividessero la convinzione della multidimensionalità del mondo, il modo in cui ne espressero la loro interpretazione era estremamente variegato: alcune creavano dipinti e disegni astratti o diagrammatici, o componevano immagini che, per quanto indirettamente, facevano riferimento al mondo fisico. Alcune incanalavano spiriti guida, mentre altre erano attratte da rituali occulti o esoterici, o da sistemi di credenze organizzati come la teosofia – che era in parte animata dalla visualizzazione di forme invisibili, dalla teoria del colore e dal misticismo – e, più tardi, dai movimenti artistici come il Surrealismo. Come ha osservato il curatore Simon Grant: “In un periodo in cui le donne lottavano per i loro diritti e l’autodeterminazione, lo spiritualismo offriva un altro modo per incanalare l’energia collettiva”1.
Georgiana Houghton, The Spiritual Crown of Annie Mary Howitt Watts, 1867. Collezione Vivienne Roberts. Courtesy GeorgianaHoughton.com & Vivienne Roberts
Una notevole prima esploratrice di altri regni fu la medium inglese Georgiana Houghton, appartenente a un gruppo informale di artiste del XIX secolo che includeva Anna Mary Howitt, Elizabeth Wilkinson, Barbara Honywood, Catherine Berry e Alice Pery. Negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, Houghton iniziò a dipingere una serie di vorticosi acquerelli astratti, dichiarando che la sua mano era guidata da uno spirito chiamato Lenny, da settanta arcangeli e vari artisti rinascimentali, tra cui Tiziano e Correggio. Nel 1871, affittò la New British Gallery in Bond Street a Londra per esporre centocinquantacinque dei suoi disegni in una mostra intitolata Spirit Drawings in Water Colours (Disegni di spiriti ad acquerello). Ai nostri occhi moderni, i dipinti in high-key e quasi allucinogeni di Houghton anticipano i movimenti del XX secolo, come il Dadaismo, il Surrealismo e l’Espressionismo Astratto. A metà del XIX secolo, tuttavia, il suo lavoro sconcertò il pubblico: largamente derisa, la sua convinzione nella verità di quelle visioni la mandò quasi in rovina. Nei decenni che seguirono, anche molti degli artisti uomini sostenitori dell’astrazione furono, in varia misura, guidati dallo spiritualismo e dalla teosofia, ma le loro produzioni furono prese sul serio. Nel 1911, in Lo spirituale nell’arte, Vasilij Kandinskij scrisse: La vita spirituale, di cui l’arte è componente fondamentale, è un movimento ascendente e progressivo, tanto complesso quanto chiaro e preciso. È il movimento della conoscenza2.
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In quello stesso anno, dipinse Composizione V, a lungo considerato il primo dipinto astratto nell’arte occidentale, eppure Houghton aveva condotto analoghe esplorazioni già quarant’anni prima. Per quanto ci è noto, a oggi esistono solo quarantasei acquerelli di Georgiana Houghton3. L’esposizione a lei dedicata, allestita nel 2019 dal Courtauld Institute of Art di Londra, è stata la prima occasione in cui i suoi dipinti venivano visti nel Regno Unito in quasi centocinquant’anni, e la loro freschezza e originalità, pur attraverso i secoli, è risultata sorprendente. Numerose altre artiste in tutto il mondo hanno condiviso le esplorazioni paranormali di Houghton. In Svizzera, la medium e artista Hélène Smith – morta nel 1929 e considerata dai surrealisti la “musa della scrittura automatica” – sosteneva di poter comunicare, tra gli altri, con i marziani, Victor Hugo e Cagliostro, l’occultista del XVIII secolo. Più tardi nel XX secolo, anche l’autrice e artista tedesca Unica Zürn si cimentò con la scrittura automatica, tessendo la propria autobiografia per mezzo di anagrammi; creò inoltre fantastici disegni di animali chimerici, piante immaginarie e occhi onniveggenti. Negli Stati Uniti, Minnie Evans, nata nel 1892, dipingeva e disegnava intricati volti fusi con la vegetazione in un universo armonioso. Nel descrivere il modo in cui operava, dichiarò: Non ho immaginazione. Non pianifico mai un disegno, accadono e basta. In sogno mi è stato mostrato quello che devo fare, dei quadri. L’intero orizzonte spianato su tutta la Terra si presentava così, con immagini. In tutto il mio giardino, su tutti i lati degli alberi, dappertutto c’erano immagini 4. Evans può anche aver negato la responsabilità per i suoi meravigliosi dipinti, ma la loro esistenza è un dato di fatto. Le sue parole fanno capire che nessun approccio univoco potrà determinare il successo di un’opera d’arte; ridurre l’ispirazione o la motivazione a una formula prevedibile è un esercizio futile. *** Con l’ascesa del cosiddetto “femminismo della seconda ondata” degli anni Sessanta e Settanta, le attiviste hanno sfidato non solo il sessismo delle leggi e dei posti di lavoro, ma anche i vari modi in cui le donne erano state troppo a lungo messe creativamente a tacere dal patriarcato. Nel suo famoso saggio del 1975, Il riso della Medusa, la filosofa femminista francese Hélène Cixous ha coniato l’efficace termine écriture féminine (scrittura femminile), dichiarando: Unica Zürn, Untitled (interwoven double and multiple portraits showing Hans Bellmer), 1965. Collezione privata. Courtesy Andrew Edlin Gallery, New York
Bisogna che la donna scriva se stessa: che la donna scriva della donna e che avvicini le donne alla scrittura da cui sono state allontanate con la stessa violenza con la quale sono state allontanate dai loro corpi: per gli stessi motivi, dalla stessa legge e con lo stesso scopo mortale. La donna deve mettersi nel testo – come nel mondo e nella storia – di sua iniziativa5. Nonostante il radicalismo della proposta di Cixous, secondo cui era necessario che le donne trovassero un nuovo linguaggio per poter inscrivere la loro femminilità, nei decenni precedenti la sua pubblicazione, molte scrittrici – da Gertrude Stein, H.D. e Virginia Woolf, a Djuna Barnes, Joyce Mansour e altre – avevano affrontato la parola scritta per testare di che cosa fosse
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Concrete Poetry: A World View (copertina del libro), 1968
capace. Tra il 1914 e il 1919 la scrittrice e artista Mina Loy, che fu influenzata dal Futurismo e dal Cubismo, aveva creato, a partire da frammenti, poesie sorprendentemente vivide. Nell’Autobiografia di Alice B. Toklas (1933), Stein riassume l’originalità di Loy con l’osservazione: “Mina Loy […] era in grado di capire il testo anche senza le virgole. Lo era sempre stata”6. A sua volta, Loy osservava a proposito di Stein che “non è una scrittrice in nessuno dei sensi attualmente accettati della parola. Non usa le parole per presentare un soggetto, ma usa un soggetto fluido su cui far scorrere le sue parole”7. Entrambe le descrizioni anticipano le intenzioni di un gruppo rivoluzionario di artiste e scrittrici degli anni Sessanta e Settanta del Novecento che hanno esplorato la Poesia Concreta. Il termine – che il collettivo di artisti brasiliani Noigandres ha descritto come “tensione delle parole-cose nello spazio-tempo”8 – è vagamente improprio: più che il peso che la parola implica, la Poesia Concreta ha permesso a parole e lettere di tremare, scoppiare in danza e volare; essere contrarie, insensate, furiose e piene di sentimento. I ricchi contributi delle donne a questa nuova forma d’arte radicale sono stati, per la maggior parte, non riconosciuti dai guardiani della cultura. Nella pubblicazione del 1967 Concrete Poetry: An International Anthology, a cura di Stephen Bann, su ventitré artisti, non compare un solo nome femminile. Nello stesso anno, Emmett Williams e la Something Else Press pubblicano la prima grande antologia internazionale di Poesia Concreta. Comprendeva l’opera di settanta poeti e artisti di cui solo tre erano donne – Ilse Garnier, Bohumila Grögerová e Mary Ellen Solt – e dove Garnier e Grögerová erano rappresentate da opere realizzate con i loro partner uomini. Nel 1968, Mary Ellen Solt curò Concrete Poetry: A World View e anche in questo caso, su circa novanta poeti, figuravano solo quattro donne.
Materializzazione del linguaggio (copertina del catalogo), 1978. Photo e courtesy Archivio Storico della Biennale di Venezia
Furente per la costante omissione delle donne dalla narrazione, nel 1978 l’artista, scrittrice e curatrice italiana Mirella Bentivoglio – la quale riteneva che le categorie fossero state create per farle esplodere – in occasione della 38. Esposizione Internazionale d’Arte curò Materializzazione del linguaggio, la prima mostra nella storia della Biennale dedicata alle artiste. Tuttavia, sebbene la Biennale fosse stata inaugurata a luglio, la mostra di Bentivoglio aprì a settembre: in quanto curatrice di numerose altre mostre dedicate alle artiste, infatti, era stata frettolosamente invitata a realizzarne una in risposta alle diffuse proteste femministe per l’assenza di donne nella mostra principale 9. Il risultato fu l’incontro di ottantuno tra poetesse e artiste contemporanee e storiche, compresa l’opera delle futuriste che erano state messe in ombra dalle loro controparti maschili. Pur lavorando con una vasta gamma di mezzi, tutte avevano cercato, nelle parole di Bentivoglio, di “riattivare la sostanza atrofizzata dello strumento di comunicazione” 10 e liberare le parole dalle restrizioni imposte loro dai dettami patriarcali di genere. Nel catalogo, Bentivoglio scrive: Ovviamente non soltanto le donne stanno portando avanti questo discorso; ma nella donna stessa esso è doppiamente motivato. Smaterializzata in passato nella sublimità astratta della sua pubblica immagine, parallela alla sua pubblica assenza; privatamente confinata nel contatto quotidiano ed esclusivo con le materie, la donna oggi oppone tutta se stessa a un mondo derealizzato nei meccanismi ripetitivi11.
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Il 1978 costituì una pietra miliare nell’arte femminista in tutta Europa. A Belgrado si tenne il seminario Drugarica Žena. Žensko Pitanje – Novi Pristup? (Compagna donna. La questione femminile – un nuovo approccio?); la Prima Esposizione Internazionale Women’s Art fu allestita a Breslavia in Polonia, organizzata dall’artista Natalia LL; e la curatrice e gallerista Romana Loda inaugurò Il volto sinistro dell’arte, l’ultima iterazione della sua decennale serie di mostre dedicate alle artiste – tra cui Marina Abramović, Hanne Darboven, Gina Pane, VALIE EXPORT, Rebecca Horn, la stessa Natalia LL e altre – nella sua galleria a Brescia12.
Women in Concrete Poetry: 1959–1979, 2020. Courtesy Primary Information. In copertina POEMA (POEM) (1979) di Lenora de Barros
L’esaltante e lungamente atteso volume Women in Concrete Poetry: 1959– 1979 13 è una sorta di celebrazione dell’eredità di Materializzazione del linguaggio. Comprende il lavoro di cinquanta artiste da tutto il mondo – da Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Madeline Gins, a Liliane Lijn, Giovanna Sandri, Mary Ellen Solt e altre – che hanno esplorato l’attivazione del linguaggio attraverso la tipografia. Sfogliarne le pagine è assistere all’opera di artiste per le quali era di primaria importanza “liberare le lettere dalle parole e le parole dalle convenzioni che le obbligano a un determinato funzionamento nel linguaggio ordinario e nei testi letterari tradizionali”14. Esplorando il modo in cui dare forma a un mondo interiore così aspramente censurato dalle leggi e dai costumi patriarcali, le cinquantadue lettere dell’alfabeto romano vengono spremute come tanti tubetti di colore. (Come scriveva Bentivoglio: “C’è da credere a un rapporto profondo della donna con l’alfabeto, e non solo, perché per prima ne trasmette la forma ai figli”15). Alcune artiste trattavano le parole come oggetti: minuscole sculture che zampettano sulla pagina fino a trovare il proprio significato; altre creavano nuove forme balbettanti e melodiche. Una sillaba o una frase possono comunicare in un linguaggio facilmente comprensibile, o abbandonare del tutto la leggibilità. Una singola lettera può ruggire; le strutture sono gettate al vento e le ossa del significato spolpate ed esposte agli elementi. Ogni donna scrive la propria storia, pronuncia il proprio nome, plasma il proprio mondo. Il suo corpo si muove nello spazio e atterra sulla pagina.
Mirella Bentivoglio in collaborazione con Annalisa Alloatti, Storia del monumento, 1968. Photo Riccardo Ragazzi. Courtesy Gramma_Epsilon Gallery, Athens. © Mirella Bentivoglio
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Jennifer Higgie è una scrittrice australiana che vive a Londra. È autrice del romanzo Bedlam (Sternberg Press, 2006); curatrice di The Artist’s Joke (The MIT Press, 2007); autrice e illustratrice del libro per bambini There’s Not One (Scribe Publications, 2016). Il suo ultimo libro, The Mirror and the Palette: Rebellion, Revolution and Resilience: 500 Years of Women’s Self-Portraits (2021) è pubblicato da Weidenfeld & Nicolson. Attualmente sta lavorando a un libro sulle artiste e sul mondo degli spiriti.
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Simon Grant, Spiritualist Sisters in Art, in Not Without My Ghosts: The Artist as Medium, London, Hayward Publishing, 2020. Grant ha curato per la Hayward Gallery Touring una mostra dallo stesso titolo, inaugurata presso la Drawing Room di Londra nel 2020. Vasilij Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, a cura di Elena Pontiggia, Milano, Bompiani, 1989. La maggior parte si trova nella collezione della Victorian Spiritualist Union a Melbourne, Australia. Il Monash University Museum of Art sta attualmente lavorando a un catalogo delle opere di Georgiana Houghton. Minnie Evans, citata in Nina Howell Starr, The Lost World of Minnie Evans, in “The Bennington Review”, 111(2), 1969, 41 (https://americanart.si.edu/ artist/minnie-evans-1466). Hélène Cixous, Il riso della Medusa (1975), in Critiche femministe e teorie letterarie, a cura di Raffaella Baccolini et al., Bologna, CLUEB, 2021. Gertrude Stein, Autobiografia di Alice B. Toklas (1933), a cura di Alessandra Sarchi, Venezia, Marsilio, 2021.
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Mina Loy, Gertrude Stein, in Stories and Essays of Mina Loy, a cura di Sara Crangle, Champaign, Dalkey Archive Press, 2011, 233. Women in Concrete Poetry: 1959–1979, a cura di Alex Balgiu e Mónica de la Torre, Brooklyn (NY), Primary Information, 2020, 12. Ibid., 13. Ibid. Ibid. Nel 2019 i curatori Raffaella Perna e Marco Scotini hanno celebrato l’importanza del 1978 con la mostra Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia / The Unexpected Subject: 1978 Art and Feminism in Italy, presso l’FM Centro per l’Arte Contemporanea di Milano. Women in Concrete Poetry: 1959–1979, cit. Ibid., 13. Mirella Bentivoglio, citata da Lucy Ives in But Is It Concrete?, in Poetryfoundation.org, 25 gennaio 2021.
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Mirella Bentivoglio e Annalisa Alloatti
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Milly Canavero
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Josefa Tolrà
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Hélène Smith
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Georgiana Houghton
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Sister Gertrude Morgan
Minnie Evans
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Linda Gazzera
Eusapia Palladino
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Mina Loy
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Djuna Barnes
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Gisèle Prassinos
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[1a–1c] Mirella Bentivoglio in collaborazione con Annalisa Alloatti, Storia del monumento, portfolio contenente 6 litografie su carta, 35 × 25 cm. De Luca Editore, 1968. Photo Riccardo Ragazzi. Archivio Mirella Bentivoglio; Collezione Paolo Cortese. Courtesy Gramma_ Epsilon Gallery, Athens. © Mirella Bentivoglio Tomaso Binga, Dattilocodice (tavola 10), 1978. Dattilografia, inchiostro su carta, 55 × 50 cm. Photo Danilo Donzelli. Courtesy l’Artista; Richard Saltoun, London Giovanna Sandri, Costellazione di lettere, 1977. Serigrafia su cartoncino, 48.5 × 69.5 cm Ilse Garnier, Blason du corps féminin, 1979. Portfolio con 46 illustrazioni. Pubblicato da Editions André Silvaire, Parigi Mary Ellen Solt, Forsythia, 1966. Inchiostro su carta, 29 × 21 cm. Collezione Museum of Contemporary Art, Antwerp Mary Ellen Solt, Geranium, 1966. Inchiostro su carta, 29 × 21 cm. Collezione Museum of Contemporary Art, Antwerp Mary Ellen Solt, Wild Crab, 1966. Inchiostro su carta, 29 × 21 cm. Collezione Museum of Contemporary Art, Antwerp Unica Zürn, La mort de Kennedy, 1964. China su carta, 90 × 74 × 2,4 cm. Photo Katinka Rutz, vision design. Collezione Karin and Gerhard Dammann, Svizzera Milly Canavero, Untitled, 1985. Pennarello su carta, 46,5 × 65 cm. Photo Elmar R. Gruber. The Elmar R. Gruber Collection of Mediumistic Art. © Elmar R. Gruber Milly Canavero, Untitled, 1985. Pennarello su carta, 46,5 × 65 cm. Photo Elmar R. Gruber. The Elmar R. Gruber Collection of Mediumistic Art. © Elmar R. Gruber Milly Canavero, Untitled, 1986. Pennarello su carta, 46,5 × 65 cm. Photo Elmar R. Gruber. The Elmar R. Gruber Collection of Mediumistic Art. © Elmar R. Gruber Josefa Tolrà, Dibujo escritura fluídica, 1954. Inchiostro e pennarello su carta, 28 × 36,5 cm. Collezione privata. © Fundació Josefa Tolrà Hélène Smith, Paysage martien, 1896–1899 ca. Gouache su carta, 25.8 × 21 cm. Photo Bibliothèque de Genève. Ms. Fr. 7843/3, planchet 2 Georgiana Houghton, The Flower of William Stringer, 1866. Acquarello su carta, inchiostro su cartoncino, 2 pagine, 49 × 42 × 3,5 cm (album). Collezione The College of Psychic Studies, London © The College of Psychic Studies, London Alice Rahon, Thunderbird, 1946. Olio su tela, 32,1 × 99,1 cm. Photo Gallery Wendi Norris, San Francisco. Collezione Gallery Wendi Norris
16 Sister Gertrude Morgan, Revelation I JOHN, 1970 ca. Acrilico, matita, inchiostro su 2 pannelli di cartone, 55,6 × 76,2 cm. Courtesy The Museum + The Gallery of Everything, London 17 Sister Gertrude Morgan, untitled (SABBATH DAY Poem), n.d. Pittura su cartoncino, 30,5 × 22 cm. Courtesy The Museum + The Gallery of Everything, London 18 Minnie Evans, untitled, 1967. Olio, inchiostro, carta su tavola, 36,83 × 49,53 cm. Courtesy The Museum + The Gallery of Everything, London 19 Enrico Imoda, Album, 1909. L’album contiene fotografie di sedute spiritiche tenute dalla medium Linda Gazzera a Torino dal 1908 al 1909. Diciotto stampe ai sali d’argento e una stampa all’albumina, di diverse misure, inserite in un album in cartoncino, 14 × 19 × 2 cm. Dono del medico Enrico Imoda a Cesare Lombroso. Archivio storico del Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”, Università di Torino. © Museo “Cesare Lombroso” 20 Fotografo non identificato, Seduta spiritica con Palladino, recto, 1909. Fotografia della levitazione di un tavolo avvenuta durante una seduta spiritica con Eusapia Palladino e altri presso la Società degli Studi Psichici di Milano nel 1909. Stampa all’albumina, 16,8 × 12. Archivio del Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”, Università di Torino. © Museo “Cesare Lombroso” 21 Eugenio Gellona, Calco medianico, recto, 1906. Fotografia di un modello in gesso di 2 mani ottenuto da un calco creato durante una seduta spiritica tenutasi il 30 novembre 1906 a Genova, alla presenza dello spiritista Eugenio Gellona. Stampa all’albumina, 12,5 × 17,5 cm. Archivio del Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”, Università di Torino. © Museo “Cesare Lombroso” 22 Mina Loy, Househunting, 1950 ca. Assemblaggio in tecnica mista, 90 × 105,5 cm. Photo Zukor Art Conservation. Collezione Carolyn Burke. Courtesy Carolyn Burke 23 Djuna Barnes, Ladies Almanack, 1928. Illustazioni. Pubblicato da Edward W. Titus, Parigi, 1928. Courtesy Djuna Barnes papers. Special Collections and University Archives, University of Maryland Libraries 24 Gisèle Prassinos, Portrait de famille, 1975. Tessile, cotone, feltro, seta e bottoni su supporto di juta, 105 × 79 cm. Photo Ville de Paris / Bibliothèque historique. Collezione Bibliothèque historique de la Ville de Paris
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BIO GRAFIE DELLE ARTISTE
(p. 176)
DJUNA BARNES 1892 – 1982, New York City, USA Nel 1928 la scrittrice e giornalista americana Djuna Barnes pubblica clandestinamente Ladies Almanack, un esperimento letterario che mescola prosa, poesia, disegni e qualche verso musicale. Il libro racconta le vicende della dama Evangeline Musset che, insieme alle sue amiche dai nomi bizzarri – come Patience Scalpel, Doll Furious, Señorita Fly-About –, vive la propria omosessualità con fiera e frivola emancipazione. Fin dalla copertina del romanzo, le “membre della setta”, come le chiama Barnes, sono raffigurate come un’armata di avventuriere guerrafondaie che, nei loro vestiti alla moda e in sella a cavalli bianchi, mettono in fuga un preoccupato cavaliere. Se è chiaro che le intenzioni del libro coincidono con una guerra al genere maschile, l’intreccio di parole e immagini è così fitto da renderne criptica la narrazione. Quest’ultima infatti è scandita da una serie di vignette dal forte carattere satirico, che prendono il nome dei mesi dell’anno e sono costellate da una simbologia astrologica riferibile al titolo del libro. La loro estetica ricorda quella delle stampe popolari note in Francia come images d’Épinal e riesce a mitigare i tratti crudi dell’iconografia medievale, con la brillantezza delle più tradizionali atmosfere naïve. Già con The Book of Repulsive Women: 8 Rhythms and 5 Drawings (1915) Barnes aveva promosso un’immagine femminile moderna e disinibita, ispirata alla comunità di femministe ribelli che frequentava al Greenwich Village; Ladies Almanack rappresenta però una femminilità fiera, sicura e addirittura rinvigorita dallo stigma che la società di allora riconosce nella sua omosessualità.
Quando dedica il libro alla compagna e artista Thelma Wood, Barnes è nel pieno del suo soggiorno parigino e, frequentando un gruppo di donne simile a quello che circonda Evangeline Musset, esprime una positività inedita per la sua produzione letteraria. Smantellato il circolo di fiducia della sorellanza – che comprendeva tra le altre Natalie Clifford Barney, Mina Loy e Dorothy Wilde – Barnes torna in America all’inizio degli anni Trenta e raggiunge le tinte più fosche della sua produzione letteraria. Il suo successivo e più famoso romanzo, Nightwood (1936) racconta le derive urbane e gli incontri notturni di Robin Vote che, come l’autrice, cerca di ricucire i frammenti di un’identità ormai inconciliabile con le ostilità e i vizi del mondo moderno. – SM
(p. 168)
M I R E L L A B E N T I VO G L I O 1922, Klagenfurt, Austria – 2017, Roma, Italia In collaborazione con
A N N A L I S A A L L OAT T I 1926 – 2000, Torino, Italia Gli esperimenti grafici di Mirella Bentivoglio, poetessa, artista e curatrice italiana, utilizzano la Poesia Concreta e Visiva per combinare tra loro il discorso femminista e d’avanguardia. Influenzate dagli esperimenti tipografici del Futurismo, del Dadaismo e del Surrealismo, la Poesia Concreta e Visiva – che trattano le lettere e le parole come segni grafici, attivando la materialità del linguaggio – emergono per la prima volta negli anni Quaranta del Novecento, fiorendo negli anni Sessanta e Settanta nelle pratiche associate a gruppi di artisti italiani come la Neoavanguardia,
I Novissimi, il Gruppo 63 e il Gruppo 70. Allo stesso tempo, una nuova ondata del femminismo attraversa l’Italia, guadagnando slancio dalla diffusa mobilitazione dei movimenti di protesta studenteschi e operai del biennio 1968–1969. L’opera di Bentivoglio unisce queste correnti di energia artistica e sociale rivoluzionaria. Bentivoglio decide di abbandonare la poesia convenzionale quando, negli anni Sessanta, inizia a impegnarsi attivamente nel femminismo. Diviene una figura chiave nei movimenti internazionali della Poesia Concreta e Visiva e promuove il lavoro di altre artiste che lavorano nel campo verbo-visivo. Tra il 1971 e il 1981 cura quattordici mostre in Italia e all’estero, tra cui Materializzazione del linguaggio, allestita ai Magazzini del sale per la 38. Esposizione Internazionale d’Arte. Quella mostra – la prima dedicata ad artiste donne che lavorano con il linguaggio come mezzo d’elezione – presenta il lavoro di ottanta artiste italiane e internazionali; aggiunta all’ultimo minuto al programma della Biennale, viene inaugurata nel settembre 1978. Storia del monumento (1968), una cartella comprendente sei serigrafie su carta, viene realizzata in collaborazione con l’artista Annalisa Alloatti. Pagina dopo pagina, le due artiste trasmutano la parola “monumento”, evidenziando i frammenti linguistici contenuti all’interno della parola stessa: nume, me non tu, muto, temo. Bentivoglio e Alloatti smantellano l’imponente significato del monumento come idea astratta liberando, sabotando e slegando il linguaggio da posizioni dialogiche predefinite, rifiutando il discorso patriarcale standardizzato e allo stesso tempo rivendicando e ristabilendo le proprie soggettività. – LC
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(p. 168)
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TOMASO BINGA
M I L LY C A N AV E R O
1931, Salerno, Italia. Vive a Roma, Italia
1920 – 2010, Genova, Italia
Bianca Menna, nata Pucciarelli, sposa se stessa nel 1977. Presso la galleria romana Campo D celebra il matrimonio con il suo alter ego Tomaso Binga e, in una cerimonia documentata da una fotografia, suggella definitivamente la metamorfosi della donna in artista. Già l’ironia dissacrante dietro la scelta di uno pseudonimo maschile basterebbe a esprimere il gioco linguistico alla base della sua pratica, ma la costruzione di una performance tanto irriverente aiuta a comprenderne meglio l’obiettivo. Nel corso della sua lunga carriera artistica, infatti, Tomaso Binga lavora come performer, poetessa, artista visiva utilizzando gesti e parole per cercare di stravolgere i costrutti della società maschilista. Da una parte il corpo – spesso nudo, mima le lettere dell’alfabeto diventando un abecedario carnale e raccontando una donna indipendente (Scrittura vivente, 1976), dall’altra la scrittura – veloce come un sismografo, si rincorre ossessivamente su tavole, taccuini, vestiti e carte da parati con il solo scopo di liberarsi del suo significato e ribaltare le convenzioni linguistiche (Scrittura desemantizzata, 1972–1974).
I pochi disegni medianici di Milly Canavero sono l’unica traccia di una vita ritirata, indipendente e avvolta nel mistero. Avvicinatasi alle pratiche spirituali in tarda età grazie al fortuito incontro con un medium professionista, a partire dal 1973 l’artista genovese comincia a produrre una serie di componimenti che – prima in forma grafica con l’aiuto di una planchette (tavola Ouija per la scrittura automatica), poi come flussi testuali tra il filosofico e il letterario – ritiene essere messaggi provenienti da forze universali ed extraterrestri. Pur differendo l’uno dall’altro in base ai parametri della sessione in cui sono creati, questi disegni assumono in pochi anni un’estetica unica. La precisione con cui Canavero produce queste composizioni è dovuta a gesti ossessivi e ininterrotti, eseguiti in pochi istanti e a mano libera, che seguono solitamente un ordine: dopo uno schema composto da segni circolari, ellittici o spiraliformi, l’artista taglia la composizione con geometrie spigolose, come frecce direzionate verso l’alto, linee rette, triangoli e uno strano alfabeto geroglifico. Nella serie in mostra Untitled (1982–1986), questi codici alfanumerici occupano una posizione interstiziale e, con lo scopo di specificarne il significato o aiutarne la lettura, sono aggiunti diverso tempo dopo la prima stesura del disegno.
Abbracciando consapevolmente una ricerca già diffusa a livello internazionale, Binga gioca con i codici verbali fin dai primi anni Settanta, articolandoli in flussi di scrittura incomprensibili e silenziosi che raggiungono il fruitore come messaggi subliminali. Questa prima produzione assume risvolti concretisti a partire dal 1978, quando invitata da Mirella Bentivoglio a partecipare alla mostra Materializzazione del linguaggio nell’ambito della Biennale Arte, Binga propone una ricerca grafica dagli esiti quasi architettonici. I quadrati dei suoi Dattilocodici sono costituiti dalla ripetizione di un ideogramma che, impresso in due colori e a distanza regolare, è il risultato della sovrapposizione di due diversi grafemi battuti a macchina. Sommando una i a un 9 o un 7 a una j, l’artista annulla l’identità originaria dei singoli elementi alfanumerici per ottenere un carattere tipografico inedito e dal forte valore iconico. Mentre il blu della cornice e il rosso del nucleo assegnano alla struttura dei Dattilocodici un effetto materico, gli ideogrammi lavorano sul versante linguistico decostruendo convenzioni e indirizzando al fruitore un invito verbo-visivo. Grazie al loro potere interlinguistico la comprensione poetica di questi segni non conosce limiti geografici o culturali: se, come sostiene Binga, scrivere non significa descrivere, allora ognuno può proiettare in questi testi la propria soggettività. – SM
estranea al mainstream accademico. Discendente di una schiava di Trinidad, senza istruzione formale oltre la scuola primaria, Evans cresce come devota battista, a lungo affascinata dalla cosmologia della propria fede. Durante l’intera infanzia, è turbata da sogni opprimenti e visioni, ma solo il venerdì santo del 1935, all’età di quarantatré anni, Evans ha una visione in cui una voce celeste le dice di “disegnare o morire”1. Le sue prime prove artistiche sono un paio di piccoli disegni a penna e inchiostro su carta, My Very First e My Second, entrambi datati 1935, ora conservati nella collezione del Whitney Museum of American Art; le opere che seguono sono ulteriormente animate da una presenza divina tratta dal personale paesaggio onirico dell’artista e includono elaborate rappresentazioni di angeli e demoni, nonché una proliferazione di occhi, che per lei rappresentano l’onniscienza di Dio. Benché ricolmi il proprio lavoro di simbologia religiosa, creature chimeriche, vertiginosi elementi botanici e colori chiassosi, Evans ne rifiuta un’interpretazione diretta, sostenendo di non comprendere il significato di ciò che le proviene dall’inconscio. Afferma: “Non ho immaginazione. Non pianifico mai un disegno, succede e basta. In sogno mi è stato mostrato quello che devo fare, dei quadri. Tutto l’intero orizzonte, su tutta la Terra era là fuori, così, con disegni. In tutto il mio cortile, su tutti i lati degli alberi e dappertutto, c’erano disegni”2.
Sebbene l’attitudine alla scrittura in lingue sconosciute permetta di associare la sua pratica alla glossolalia medianica e i suoi connotati estetici siano il risultato di credenze paranormali, l’aspetto distintivo della produzione di Milly Canavero risiede nell’inusuale ordine della sua pittografia e nel fatto che essa non sia il frutto di momenti di alterazione psicofisica. L’artista infatti sembra costruire la sua astrazione in termini sistematici e, senza concedere alcuna vibrazione al corpo o abbandonarsi a stati di trance, gestisce la propria presenza in maniera focalizzata. Nel segno dell’occultismo a cui la sua pratica è ricondotta, le tavole medianiche non sono solo il risultato di moti fisici e interiori ma la traccia di un’esperienza cosmologica, che non può dirsi priva di condizionamenti reali. – SM
Oltre alle ispirazioni religiose, il lavoro di Evans degli anni Quaranta – come Untitled (1943), con le sue delicate fasce di foglie e fiori coronate da un bombo – è influenzato anche dalla lussureggiante vegetazione degli Airlie Gardens a Wilmington, nella Carolina del Nord, dove è impiegata come guardiana e dove spesso dipinge durante il lavoro. Opere successive come untitled (1962–1963 / 1968) e untitled (1967) sono una dimostrazione dei suoi esperimenti con uno stile più denso e altamente pigmentato, caratterizzato da composizioni simmetriche ancorate da volti e circondate da elementi curvilinei composti da vegetazione, farfalle e arcobaleni. In queste emblematiche astrazioni floreali, Evans trasmette le proprie visioni, esprimendo la sua profonda spiritualità attraverso uno stile personale e dinamico. – MW
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M I N N I E E VA N S 1892, Long Creek, USA – 1987, Wilmington, USA
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Trascrizione dattiloscritta da Nina Howell Starr, Conversations with Minnie Evans (1962–1973), Nina Howell Starr Papers, Archives of American Art, Smithsonian Institution, Washington, D.C. Minnie Evans, citata in Nina Howell Starr, The Lost World of Minnie Evans, in “The Bennington Review”, 111(2), 1969, 41.
Nata nel 1892 in una casetta di legno a Long Creek, nella Carolina del Nord, Minnie Evans diviene un’artista in tarda età e decisamente
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ILSE GARNIER
L I N DA GA ZZ E RA
1927, Kaiserslautern, Germania – 2020, Saisseval, Francia
1890, Roma, Italia – 1942, San Paolo, Brasile
La prima edizione di Blason du corps féminin, datata 1979, non è altro che una semplice cartella verde al cui interno, su quarantasei fogli singoli, sono raccolti altrettanti componimenti poetici dell’artista francese Ilse Garnier. Nelle poche pagine di prefazione, le parole del marito e collega Pierre Garnier sostengono che la visione maschilista della storia abbia indebolito la forza poetica del corpo femminile e propone la scrittura della moglie come una valida soluzione per la sua rappresentazione. In ognuna delle tavole che seguono, in effetti, Ilse Garnier si concentra sul corpo di una donna differente attribuendole aggettivi, linee o segni geometrici in grado di illustrarne le qualità. Tratta la lettera o contenuta nella parola francese corps (corpo) come simbolo della figura femminile: la moltiplica quando si riferisce al corpo di una donna libera, ne aumenta il diametro quando è solare, la fa sparire quando è assente. Più in generale, le associa un dinamismo grafico che, in netta opposizione con l’araldica suggerita nel titolo dell’opera, risponde perfettamente all’idea di una femminilità non riducibile a una mera rappresentazione statica. Le tavole rappresentano la celebrazione del non-verbale in ambito poetico e descrivono in maniera eloquente i principi dello Spazialismo letterario, il movimento d’avanguardia che la coppia fonda nel 1963, con lo scopo di decostruire la linearità del corpo testuale e proporre il superamento di qualsiasi limite semantico attraverso le infinite possibilità di combinazione tra lettere e segni geometrici. Già nel 1965, Ilse Garnier aveva applicato questa stessa metodologia a una serie di componimenti chiamati Poèmes mécaniques, che prevedono lo slittamento, la ripetizione o la sottrazione delle lettere fino a creare delle immagini spesso astratte. Queste ultime, fungendo da spartiti, conducono l’artista a pionieristiche sperimentazioni anche nell’ambito della poesia sonora. Non a caso nel 1978, in occasione della sua partecipazione alla mostra Materializzazione del linguaggio, la curatrice Mirella Bentivoglio descrive i componimenti di Garnier come metafore capaci di abbinare l’espressività della parola al fascino dell’immagine e anche in questa seconda esposizione alla Biennale di Venezia, i suoi lavori ribadiscono come la sensibilità poetica venga amplificata dalla libertà con cui il segno costruisce il testo o ne altera l’identità. – SM
Quando lo psicologo Enrico Imoda la presenta alla comunità scientifica internazionale come la più importante medium italiana della sua generazione, Linda Gazzera ha solo ventun anni. Secondo l’esame del medico torinese, già pioniere negli studi psicologici dei fenomeni esoterici, la donna è dotata di particolari abilità medianiche ed è in grado di far “apparire” le anime con cui comunica. Grazie a Imoda, tra il 1908 e il 1909 Gazzera si esibisce in numerosi salotti esoterici italiani ed europei proponendo uno spettacolo scandito in maniera ricorrente. Per evitare qualsiasi dubbio su eventuali manipolazioni, la medium si cambia insieme alla padrona di casa e delega agli altri ospiti la preparazione del cosiddetto “gabinetto medianico”, ovvero un ambiente delimitato da tendaggi utile ad agevolare le apparizioni. Solo a quel punto, caduta in uno stato di trance, Gazzera si abbandona al volere del suo spirito guida – un ufficiale di cavalleria di nome Vincenzo –, che oltre a rispondere alle domande dei presenti e deriderli grottescamente, narra le vicende di altre anime, ne gestisce l’apparizione e ordina l’esecuzione di uno scatto fotografico. Se oggi non è possibile considerare questo materiale visivo come traccia di un’evidenza scientifica, le immagini scattate durante le sedute di Gazzera sono state a lungo utilizzate come documento clinico suscitando le reazioni controverse di rinomati medici internazionali. A parte il Premio Nobel per la medicina Charles Richet, che conferma l’attendibilità delle immagini dopo aver partecipato ad alcune sessioni, i detrattori di Gazzera sono in netta maggioranza e rappresentano il motivo più probabile della fine della sua carriera e del misterioso trasferimento in Brasile. Le diciotto stampe raccolte nel cosiddetto Album Imoda (1909) vengono confezionate dal mentore di Gazzera come omaggio al noto medico e antropologo Cesare Lombroso e, pur non essendo riferibili alla medesima seduta, documentano le varie fasi di una generica sessione seguendo un ordine narrativo carico di pathos. Dopo alcuni scatti che la ritraggono in uno stato di evidente alterazione psicofisica, la medium appare circondata da una serie di figure definite “ectoplasmi”, che coinciderebbero con le anime evocate dallo spirito guida Vincenzo. Sia che si manifestino sotto forma di mani, fiori o volti per lo più femminili, queste sagome completamente bidimensionali sono contenute in drappi voluminosi e, più che flussi di energia occulta, sembrano ritagli dipinti da qualche mano esperta. Ben lungi dalle finalità pseudoscientifiche
di Imoda, queste fotografie sono oggi il documento di un affascinante artificio e, contemporaneamente, la testimonianza di quanto il corpo possa rendersi teatro dei più convincenti incantesimi. – SM
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G E O RG I A NA H O U G H T ON 1814, Las Palmas, Isole Canarie, Spagna – 1884, Londra, UK Nata alle Canarie nel 1814 da genitori britannici, Georgiana Houghton trascorre la maggior parte della propria vita nella Londra vittoriana, assistendo a un periodo di profondo e prolungato risveglio religioso, nonché all’ascesa di tutta una serie di credenze in forze ed energie sovrannaturali, storie occulte e altre misteriose modalità di comunicazione. Lo spiritualismo, che elabora un metodo per comunicare con i defunti nel corso di sedute condotte da medium, ha origine nell’Upstate New York e negli anni Cinquanta del XIX secolo si diffonde in Inghilterra, dove permea rapidamente la cultura artistica e letteraria, fenomeno riscontrabile anche negli scritti di autori come Arthur Conan Doyle e William Butler Yeats. Per Houghton, cristiana devota e artista di formazione, lo spiritualismo permette di mantenere un contatto più stretto con Dio, anche se il suo approccio religioso non è necessariamente di tipo convenzionale. Negli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo avrebbe tradotto quel suo furore religioso nei “disegni di spiriti”, una serie di opere astratte su carta caratterizzate dalla straordinaria molteplicità di strati e sfaccettature. Houghton realizza gli acquerelli The Flower of William Stringer e The Spiritual Crown of Annie Mary Howitt Watts rispettivamente nel 1866 e 1867, poco dopo aver completato i primi disegni medianici. Nell’ottobre del 1865, Houghton – che in seguito alla morte della sorella aveva deciso di dedicare la vita allo spiritualismo – aveva sostenuto di poter entrare in contatto con guide spirituali che abitavano un regno al di là del mondo fisico. Guidata da questi “amici invisibili”, documenta ampiamente le istruzioni ricevute durante questi incontri sovrannaturali in peculiari disegni a matita realizzati con la scrittura automatica e, in seguito, in acquerelli astratti. In The Flower of William Stringer, Houghton annoda linee spiraliformi e linee rette, che scorrono sulla pagina come onde rosse, color seppia e azzurre. The Spiritual Crown of Annie Mary Howitt Watts è composto di riccioli ritmicamente stratificati di bianco e grigio in cima a una massa di linee rosso mirtillo, blu e giallo. Sul verso di ogni lavoro, un’elaborata descrizione tenta di chiarire il messaggio dell’opera, il cui significato, dichiara
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l’artista, proviene da spiriti che semplicemente dirigono la sua mano. L’intenzione di Houghton, come afferma nella sua autobiografia del 1881, Evenings at Home in Spiritual Séance, è quella di “mostrare ‘ciò che il Signore ha fatto per la mia anima’, concedendomi la Luce ora effusa sull’umanità grazie al ristabilito potere della comunione con l’invisibile”1. – MW 1
Georgiana Houghton, citata in Simon Grant, Georgiana Houghton: Medium and Spiritualist, in “Raw Vision”, 92, inverno 2016–2017, 22.
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M I N A L OY 1882, Londra, UK – 1966, Aspen, USA Difficile ricondurre la pratica artistica di Mina Loy a un’unica matrice stilistica: il Modernismo dei suoi lavori è il frutto di una sensibilità irrequieta che, grazie a un continuo girovagare tra Europa e America, si è di volta in volta riconosciuta nell’esperienza futurista, dadaista o surrealista. Dopo una formazione artistica tra Inghilterra e Germania, Loy arriva a Firenze nel 1905 e qui si dedica a una produzione principalmente letteraria che, come dimostrano la raccolta di poesie Aphorisms on Futurism (1914) e la celebre lettera conosciuta come Feminist Manifesto (1914), sembra adottare le stesse “parole in libertà” dell’avanguardia italiana. Contrariamente agli esponenti del gruppo di Marinetti, tuttavia, Loy concepisce i suoi scritti come messaggi per un pubblico principalmente femminile, che invita all’emancipazione intellettuale, sentimentale e sessuale. Lei stessa dimostra di condurre uno stile di vita indipendente e, nel 1916, separatasi dal marito, incomincia un lungo pellegrinaggio internazionale che la conduce in Argentina, Svizzera e Inghilterra fino a portarla a New York nel 1936. Stabilitasi oltreoceano, Loy si dedica a un approccio artistico singolare che, pur vicino alle tecniche dadaiste, raggiunge forti esiti surrealisti. Se già nel collage intitolato Surreal Scene (1930 ca.) l’artista rappresenta il corpo femminile al centro di iconografie tecnologiche, mistiche e scientifiche, suggerendo che ogni donna sia la sede di una complessità mentale e fisica, è con Househunting (1950 ca.) che Mina Loy conferisce un nuovo spessore al femminismo manifestato in Aphorisms. Come fosse la rappresentazione visiva di un verso scritto trent’anni prima – “Forget that you live in houses, that you may live in yourself” (Dimentica di vivere in una casa, che tu possa vivere in te stessa) – l’opera consiste nell’assemblaggio di materiali differenti e presenta la sagoma di una donna che, circondata dalle immagini di dieci architetture, indossa un copricapo riempito con una teiera, un gomitolo di lana, del cibo e dei
panni stesi. Se è chiaro che la rappresentazione di questi ultimi sia un riferimento agli stereotipi che soffocano e impediscono l’indipendenza della donna, il contesto da cui essa è circondata allude a una libertà di tipo opposto e sembra descrivere lo spirito moderno che guida la sua autrice. – SM
Zürn –, le immagini di Matta si allineano perfettamente alla dimensione onirica proposta dal Surrealismo, ma accompagnano le parole di una donna fiera e ribelle, provocante e insolente, che sa quando usare il proprio corpo come un’arma o arrendersi ai suoi umori. – SM
J OYC E M A N S O U R
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1928, Bowden, UK – 1986, Parigi, Francia Per i surrealisti della seconda generazione, quelli che hanno superato l’orrore della Seconda guerra mondiale senza rinunciare a considerare la donna come l’oggetto dei loro desideri più inquieti o la musa delle loro più fantastiche creazioni, Joyce Mansour deve essere stata la quintessenza della provocazione femminile, al contempo irresistibile e respingente. Nata in Inghilterra da genitori di origine egiziana con cui si trasferisce presto al Cairo, la scrittrice e poetessa, ormai ventenne, si avvicina al Surrealismo e, grazie alla pubblicazione della sua prima raccolta di poesie nel 1953, diventa un riferimento per l’ambiente culturale parigino, stringendo una forte amicizia con il suo esponente principale, André Breton. Già il titolo della sua opera prima, Cris (Urla), suggerisce che i suoi componimenti si allontanano dal lirismo della poesia tradizionale e, anzi, sono gli strumenti per gridare sensazioni che spesso coincidono con l’atto sessuale o la performance erotica. Ben oltre l’idea trasognata della femme enfant o dell’amour fou surrealisti, la poesia di Mansour tratteggia senza alcun filtro linguistico l’immagine di una donna emancipata, che non ha paura di abbandonarsi alle più crude pulsioni sessuali, sa gestirle consapevolmente e può essere tanto affascinante quanto pericolosa. Inspiegabilmente misconosciuti nel panorama della letteratura contemporanea, i suoi lavori poetici sono considerati tra i più interessanti del periodo e, quando accompagnati dalle illustrazioni dei tanti artisti che si sono misurati con le sue parole, tra cui Roberto Matta, Hans Bellmer e Wifredo Lam, raggiungono esiti ancora più potenti. La raccolta di poesie intitolata Les Damnations, pubblicata nel 1966 e illustrata dall’artista e architetto cileno Roberto Matta, è l’esempio di un perfetto equilibrio verbo-visivo. La prima edizione del libro contiene undici acqueforti che si alternano al testo. Nonostante la generale astrazione, il titolo suggerisce che queste caotiche visioni intrappolino un immaginario greve e disperato, da cui emergono corpi nudi e distintamente femminili. A differenza degli esiti irrazionali raggiunti dalle colleghe che si avvicinano all’avanguardia negli stessi anni – come Leonora Carrington e Unica
S I S T E R G E RT RU D E M O RGA N 1900, LaFayette, USA – 1980, New Orleans, USA Nel 1934, dopo una serie di rivelazioni divine, Sister Gertrude Morgan – artista autodidatta, devota battista del Sud, predicatrice di strada, musicista e poetessa – lascia il marito “terreno” in Georgia e si stabilisce a New Orleans, dove canta e predica il Vangelo accompagnata da chitarra e tamburello. All’inizio degli anni Quaranta, dopo avere aggiunto “Sister” al proprio nome, inizia a predicare in una missione da lei avviata: la minuscola Everlasting Gospel Mission, ospitata in una tipica shotgun house imbiancata a calce, dove fino al 1980, anno della sua morte, dipinge e compone poesie. In risposta a ciò che lei ritiene essere una chiamata divina a usare l’arte come strumento di predicazione, Morgan sostiene di aver ricevuto l’ordine di diventare la sposa di Cristo, e inizia dunque a indossare un’uniforme bianca da infermiera in previsione del matrimonio divino, come raffigura nel dipinto untitled (SABBATH DAY Poem) (s.d.). Questa sua particolare mitologia personale si manifesta in originalissime ed esuberanti rappresentazioni colorate e giocose del quotidiano e del sacro, che Morgan veicola su qualsiasi superficie le capiti sottomano, come pezzi di cartone, tapparelle, ventagli, vassoi di polistirolo, la custodia della sua chitarra e persino il retro di un cartello “in vendita” piantato nel suo cortile da un agente immobiliare. Molti dei suoi dipinti, come ad esempio untitled (Revelation 7 chap.) (1970 ca.), sono dirette interpretazioni della Bibbia, in questo caso, una visione infantile di angeli che scendono dal cielo; altri, come Revelation I JOHN (1970 ca.), combinano masse disordinate di figure, scarabocchiate citazioni scritturali e autoritratti nella sua uniforme bianca mentre abbraccia o tiene per mano Gesù, come in untitled (New Jerusalem), 1960 / 1970 ca. Nel 1960, Morgan viene scoperta da Larry Borenstein, un mercante d’arte di New Orleans, che diventa un accanito sostenitore della sua arte e musica. Grazie a lui, ben presto cattura l’attenzione del mondo artistico mainstream di New York: Andy
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Warhol è un suo estimatore, tanto da inserirla nel 1973 nel primo numero di “Interview”. In questo stesso periodo, il Black Arts Movement è in pieno fulgore. Tuttavia, Morgan non rientra perfettamente in nessuno di questi due mondi. Non solo ne è separata a livello geografico e nella struttura teorica, ma anche nell’intento artistico. Sostiene infatti che la spinta creativa le venga direttamente da Gesù: “Egli muove la mia mano. Credete che saprei mai fare un quadro come questo da sola?”1. – MW 1
Sister Gertrude Morgan, citata in Sara Barnes, con Elaine Yau e William A. Fagaly, A Mission to Accomplish, in “Raw Vision”, 103, 2019, 50.
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E U S A P I A PA L L A D I N O 1854, Minervino Murge, Regno delle Due Sicilie (attuale Italia) – 1918, Napoli, Italia Il 19 agosto del 1888 il settimanale culturale “Fanfulla della domenica” pubblica una lettera intitolata Una sfida per la scienza, con cui l’imprenditore e spiritista Ercole Chiaia invita apertamente il noto medico e criminologo Cesare Lombroso a considerare l’attendibilità dei prodigi di Eusapia Palladino, la medium di origini pugliesi che sta affascinando i salotti dell’alta borghesia napoletana. Nell’articolo Palladino è descritta come una donna di trent’anni, robusta e analfabeta che, legata a una sedia, è in grado di muovere gli oggetti, di librarsi in aria, di comunicare con i defunti o farli manifestare tramite particolari effetti sonori e visivi. Nonostante le prime resistenze, Lombroso accetta la sfida di Chiaia nel 1891 e, dopo aver assistito ad alcune sedute dimostrative in cui Palladino evoca addirittura il fantasma di sua madre, si dice costretto a rivedere la sua salda fede nella scienza dedicando alla donna una serie di pubblicazioni scientifiche. Nel 1909, all’interno del trattato Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici, il medico classifica le doti “eusapiane” in base alle loro caratteristiche meccaniche o fenomeniche e le abbina a un abbondante materiale fotografico. Oltre ai documenti delle attività di telecinesi, levitazione e apparizione dei defunti, il volume contiene le immagini di alcuni calchi su cui appaiono le impronte di mani o volti: nel corso di alcune sedute, infatti, Palladino si serve di una scatola in legno e, dopo averla toccata in uno stato di trance, pare capace di imprimere le sembianze dei defunti su una tavoletta di creta contenuta al suo interno. Le formelle che derivano da questo processo medianico si distinguono per le eccezionali qualità estetiche e riscuotono l’immediata attenzione del mondo dell’arte, che cerca invano di riprodurne il pathos. Insieme al generale
entusiasmo, tuttavia, l’approvazione di Lombroso e quelle di altri influenti scienziati, tra cui i Premi Nobel Charles Richet o Pierre e Marie Curie, provocano le prime accuse di cialtroneria. Sono in molti a ritenere che i poteri di Palladino coincidano con dei lampanti giochi di prestigio e i detrattori si sfidano nel tentativo di smascherarla. Dopo una serie di pubbliche derisioni e qualche infuocato articolo di giornale, la medium decide di ritirarsi a vita privata e muore a Napoli nella più totale indifferenza. – SM
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GISÈLE PRASSINOS 1920, Costantinopoli (attuale Istanbul), Impero Ottomano (attuale Turchia) – 2015, Parigi, Francia I primi componimenti poetici di Gisèle Prassinos risalgono ai primi anni Trenta quando, appena quattordicenne, si cimenta nella scrittura automatica e viene celebrata dagli esponenti del Surrealismo come una bambina prodigio. Nonostante André Breton e Paul Éluard la ritengano capace di creare le narrazioni inconsce più uniche, l’artista sente di essere guidata da stimoli ben più consapevoli e, pur pubblicando diversi lavori filo-surrealisti come Le Feu maniaque (1939), sviluppa un linguaggio indipendente basato più sulla bizzarria che sul dato onirico. I testi che produce fino al 1939, anno in cui si allontana definitivamente dal movimento, raccontano la storia di assurdi personaggi e descrivono corpi metamorfici simili al cadavre exquis, senza particolari appendici visive. La produzione letteraria di Prassinos adotta una componente figurativa solo a partire dagli anni Sessanta e, ormai diventata prosa, inaugura un approccio intermediale conquistando nuovi spazi e mezzi espressivi. Il più completo esempio della nuova sensibilità è sicuramente Brelin le frou ou le Portrait de famille (1975), la storia illustrata di una strampalata famiglia francese narrata da Brelin, il primogenito di un eccentrico e severissimo scienziato di nome Berge Bergsky. Con lo scopo di sfidare i limiti fisici del libro, Prassinos produce dodici pannelli di stoffa coloratissimi che, cuciti a macchina e rifiniti a mano, riproducono i disegni in bianco e nero contenuti nella pubblicazione. Questi arazzi ritraggono i personaggi della storia come degli strani assemblaggi di figure geometriche e descrivono un immaginario stravagante che è solo apparentemente infantile. A dispetto di quanto possa suggerire l’atmosfera giocosa, infatti, Portrait de famille, forse l’arazzo più rappresentativo della narrazione, è il ritratto della famiglia al completo e sembra svelare i retroscena famigliari attraverso un accurato studio
della composizione. Mentre la sagoma del dottor Bergsky (seconda da sinistra) campeggia sui famigliari come quella di un monarca, la figura di Brelin, simmetrica al padre e abbastanza contrita nell’espressione, sembra l’unica in grado di sfidarne invano l’autorevolezza. Il suo ruolo, come dimostra anche il lavoro Portrait idéal de l’artiste, è quello di un eroe domestico – forse alter ego dell’autrice – antagonista del regime patriarcale istituito dal capofamiglia e, più in generale, dalla società. Prese le distanze dal Surrealismo più radicale, Prassinos dimostra definitivamente di non aver bisogno di alcun automatismo inconscio per narrare le sue storie: il più grande volano delle sue fantasie è la propria esperienza o, semplicemente, la realtà. – SM
(p. 173)
ALICE RAHON 1904, Chenecey-Buillon, France – 1987, Città del Messico, Messico Questa artista è presente anche in La culla della strega. Per leggere la biografia dell’artista, cfr. p. 119.
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G I O VA N N A S A N D R I 1923 – 2002, Roma, Italia Tra le poche artiste italiane a confrontarsi con la Poesia Concreta, Giovanna Sandri è senza dubbio la più sperimentale. Fin dagli anni Sessanta, la sua ricerca spazia tra letteratura e arte, distinguendosi per un approccio radicale cui rimane fedele anche quando la Poesia Visiva addolcisce il rigore tipografico utilizzato dalle esperienze concretiste. Il suo metodo sfida la tradizionale linearità del testo poetico riconoscendo alle sue componenti – parole, lettere, sillabe – un valore estetico equivalente, se non superiore, al loro significato. Come le colleghe internazionali, Sandri non rinuncia al valore comunicativo del linguaggio ma, ispirandosi ai risultati iconici della grafica pubblicitaria, permette al testo di diventare un rompicapo, o un gioco enigmistico. Non a caso Sandri chiama molti dei suoi lavori Costellazioni e, suggerendo un parallelismo tra la fruizione poetica e l’osservazione astronomica, chiede alla lettrice o al lettore di individuare il nodo che ritma e sostiene i suoi componimenti. Anche in termini puramente visuali, in effetti, queste poesie sembrano delle vere e proprie configurazioni astrali che, costruite con caratteri tipografici trasferibili di colore nero o bianco, si alternano a segni grafici senza rispettare alcuna regola grammaticale o lessicale. La libertà con cui l’artista scala,
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taglia, movimenta, inclina e piega il singolo grafema ricorda quella che i futuristi utilizzavano per le loro tavole parolibere, ma raggiunge risultati tanto esasperati, da creare una vertigine nell’occhio dello spettatore e rendere vano qualsiasi tentativo di lettura lineare. A prescindere dalla sua effettiva chiarezza, il messaggio di ogni componimento poetico si esaurisce nel perimetro di una singola pagina e, quando non è ordinato in raccolte editoriali che aiutano a ipotizzare una narrazione, si organizza in fogli singoli o pannelli di grandi dimensioni. Dopo la prima raccolta editoriale intitolata Capitolo zero (1968) e le tante Costellazioni realizzate negli anni Settanta, la ricerca di Sandri sembra avvicinarsi alle sperimentazioni italiane nell’ambito della Poesia Visiva ma, a differenza delle colleghe che prendono la componente visuale delle loro poesie da giornali e riviste, l’artista non rinuncia al concretismo dei suoi caratteri trasferibili e li usa come materiale per formare immagini monocrome, geometriche e dai confini netti. Interpretando letteralmente il titolo della mostra Materializzazione del linguaggio – a cui partecipa nell’ambito della Biennale Arte 1978 – il lavoro di Giovanna Sandri investe il testo di una fisicità che risulta preziosa sia in termini visivi sia di contenuto. – SM
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HÉLÈNE SMITH 1861, Martigny, Svizzera – 1929, Ginevra, Svizzera Nel 1900 lo psicologo Théodore Flournoy pubblica il volume Des Indes à la planète Mars: una ricerca sperimentale che, oltre ad analizzare per la prima volta i fenomeni medianici in termini psicopatologici, descrive specificamente il caso della medium svizzera Hélène Smith. Quando la donna incontra il medico si chiama Catherine-Elise Müller, è una semplice commessa in un negozio di seta svizzero, ed è capace di abbandonarsi a momenti onirico-estatici durante i quali, in maniera completamente automatica, produce scritture in lingue sconosciute o disegni di ambientazioni mai visitate. Condotta da diversi spiriti guida e costantemente monitorata da Flournoy, tra il 1895 e il 1900 Smith produce un gran numero di lavori verbo-visivi che vengono pubblicati insieme alle osservazioni del medico, e ricondotti a tre categorie estetiche: il ciclo Indi, che si esprime tramite paesaggi orientaleggianti o testi in lingua sanscrita; il ciclo Royal, che riproduce interni ed esterni di grandi castelli; il ciclo Marziano, che sembra unire i primi due e impegna Smith in suggestive conversazioni con il mondo extraterrestre.
Mentre comunica in uno stato di trance con il suo principale interlocutore, un marziano di nome Astané, Smith annota le informazioni ricevute utilizzando una scrittura ideogrammatica sconosciuta. Questi segni alieni, in cui il linguista Ferdinand de Saussure ha riconosciuto una versione distorta del francese, hanno precisi scopi descrittivi e accompagnano una serie di disegni che forniscono un’immagine vivida e normalizzata della vita su Marte. Gli abitanti del pianeta alieno sono abbastanza simili a quelli terrestri anche perché, come sostiene la medium, ne sono la reincarnazione. Astané, ad esempio, è rappresentato con i capelli lunghi e una tunica da fachiro, mentre la sua casa e altri edifici hanno caratteristiche riconoscibilmente orientaleggianti. Solo la componente naturale sembra effettivamente incantata: le piante marziane si mostrano rigogliose ma non riconducibili ad alcuna specie conosciuta. In netta opposizione con l’immaginario fantastico dei disegni, le parole che Flournoy utilizza nella sua ricerca assumono il tono distaccato di un’analisi clinica e suscitano il disappunto di Smith; pur essendo ormai adulata da numerosi spiritisti e richiesta per spettacoli dal vivo, la medium si sente tradita e si ritira a vita privata. A distanza di trent’anni dall’uscita del libro e qualche tempo dopo la sua morte, tuttavia, la figura di Smith non cessa di essere popolare e, in pieno clima surrealista, André Breton con le colleghe e i colleghi ne celebrano l’intensità dell’automatismo, proprio sulla base del materiale pubblicato a inizio secolo. – SM
(p. 170)
M A RY E L L E N S O LT
Mentre Moonshot Sonnet (1964) sovrappone griglie e schemi a una serie di immagini lunari fornite dalla NASA e The Peoplemover (1968) produce una serie di slogan a sostegno delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, con Flowers in Concrete (1965–1966) l’artista individua una connessione tra il mondo naturale e la vitalità della produzione poetica. Questa raccolta di poesie assume le sembianze di un erbario verbo-visivo che, articolato in tavole come richiede la botanica, utilizza segni e lettere per riprodurre le fattezze di nove specie floreali. Solt affianca, sovrappone, ribalta i grafemi e, letteralmente, costruisce boccioli di lobelia, zinnia e lillà, petali di geranio, calendula e rosa bianca, rigogliose fronde di corniolo, melo e forsizia. L’immagine dedicata a quest’ultima, presentata anche nella mostra del 1978 Materializzazione del linguaggio, è sicuramente la più complessa e descrive in maniera eloquente la logica compositiva sperimentata da Solt. Come fosse la radice dell’intera pianta, Forsythia – il nome del fiore e titolo della poesia – sostiene tutta la ramificazione verbale e diventa l’acronimo di un messaggio ambiguo. Benché il succedersi dei termini inglesi – “forsythia out race spring’s yellow telegram hope insists action” (forsizia supera telegramma giallo di primavera speranza insiste azione) – non sembri veicolare un messaggio lineare, Solt costruisce il componimento come un invito verbo-visivo per il lettore, nella speranza che sia lui stesso a interpretarne il significato e diventare co-autore dell’opera. In effetti, che siano battute a macchina o scritte a mano, pubblicate in un progetto editoriale o presentate come grandi pannelli alla Biennale, le parole di Solt germogliano nella stessa maniera con cui fioriscono l’immaginazione e la creatività. – SM
1920, Gilmore City, USA – 2007, Santa Clarita, USA (p. 172)
Agli inizi degli anni Sessanta Mary Ellen Solt si avvicina alla Poesia Concreta grazie a un decisivo incontro con i brasiliani della rivista “Noigandres”, che l’avrebbe portata poi alla pubblicazione di una delle maggiori antologie sull’argomento, Concrete Poetry: A World View (1968). Da allora, destreggiandosi tra il rigore della neoavanguardia e le sensibilità interpretative della poesia tradizionale, Solt concepisce il linguaggio come uno strumento di comunicazione versatile capace di organizzarsi secondo relazioni tanto formali quanto lessicali. Le immagini derivate da questo approccio sono costruite come costellazioni di lettere o parole ma, contrariamente al rigore concretista che prevede l’annullamento di qualsiasi soggettivismo, si aprono a continue interpretazioni e letture.
J O S E FA T O L R À 1880 – 1959, Cabrils, Spagna Tra le tante pratiche occulte che si diffondono in Europa tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, come telepatia, telecinesi, spiritualismo, l’approccio medianico è sicuramente quello più affine alla produzione artistica e prevede che un individuo dotato di particolare sensibilità trascriva o illustri i messaggi delle anime con cui è in contatto. Queste capacità coincidono spesso con l’espressione di una creatività anomala che si manifesta improvvisamente in seguito a traumi fisici, psichici o emotivi, come nel caso di Josefa Tolrà, detta Pepeta. Se fino al 1941 la medium è conosciuta nelle campagne di Cabrils come guaritrice e fervente cattolica, pochi anni dopo aver perso il figlio nella
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Corpo orbita
Guerra civile spagnola, comincia ad abbandonarsi a lunghe sessioni di trance durante le quali realizza una gran quantità di disegni e scritti. A prescindere dall’attendibilità della pratica, questi componimenti sono materiali di grande pregio estetico e, quasi ad avvalorare la possibilità che la donna sia guidata da entità disincarnate, veicolano messaggi troppo sofisticati per la sua educazione elementare e producono immagini troppo raffinate per una mano fino ad allora ineducata al disegno. Secondo Tolrà, infatti, le anime con cui è in contatto hanno studiato geografia, scienza, arte e filosofia, e non esitano a sfoggiare le loro competenze in lunghi flussi testuali di poemi, aforismi e riflessioni o in complesse rappresentazioni di coloratissime figure umane, flussi di energia o straordinari paesaggi naturali. Talvolta, come nelle pagine di Llibreta (1944) o nel lavoro Dibujo escritura fluídica (1954) la componente verbale e visuale condividono lo spazio della stessa pagina e, trasformandosi l’una nell’altra, partecipano a un processo metamorfico che pare originato dalla medesima forza ancestrale. Stando all’educazione cattolica di Tolrà, tale energia dovrebbe coincidere con un potente influsso divino ma non è escluso si riferisca a una altrettanto vigorosa azione esoterica. Come dimostrano le iconografie cristiane che l’artista realizza negli stessi anni e in linea con una tendenza comune a molte colleghe medium, i lavori della sensitiva sono disseminati di simbologie occulte e propongono un sincretismo religioso molto vicino alle fascinazioni teosofiche di fine Ottocento, che rendono la febbrile attività medianica di Josefa Tolrà espressione di una sensibilità sorprendentemente moderna. – SM
è vissuta da entrambi come un’occasione di scambio artistico, tanto che la stessa Zürn sottolinea un’affinità tra il lavoro del compagno e il suo. Negli stessi anni in cui posa per Bellmer, infatti, l’artista si dedica a una produzione vastissima che alterna e combina linguaggio e figurazione. Da una parte la scrittura anagrammatica la impegna nella costruzione di testi poetici nati dalla combinazione dello stesso gruppo di lettere, come Hexen Texte (1954) – dall’altra, il disegno le serve come valvola di sfogo per le sue nevrosi e si traduce in lavori inquieti e ossessivi. Se farsi sopraffare dall’inconscio risulta un vantaggio per l’atto creativo, come insegnano le artiste e gli artisti surrealisti che Zürn frequenta a Parigi, i disegni prodotti tra gli anni Cinquanta e Sessanta sono la prova di un’irrequietezza tanto devastante quanto artisticamente proficua. Le fitte composizioni in mostra descrivono un mondo onirico popolato da creature mostruose; il segno che le definisce è evanescente come un’allucinazione, mentre gli elementi che le caratterizzano – soprattutto occhi e labbra – sono frammentati, ripetuti e sovrapposti al punto da rendere impossibile il loro ricongiungimento a una figura umana o animalesca. Quando non sono realizzate a china o inchiostro nero, queste figure assumono un tono ancora più vibrante e, quasi elettriche, emergono dall’oscurità del supporto grazie all’uso di pastelli colorati. Gli interstizi tra un’immagine e l’altra sono spesso riempiti, affiancati o completati da un’angosciata componente testuale che, pur sembrando appuntata con indifferenza, raggiunge potentissimi esiti poetici. Più della componente figurativa, queste scritte, talvolta riferite a nomi di persona o luoghi, accentuano la tensione dei disegni e aiutano a decifrare la gravità dei conflitti interiori di Zürn. – SM
(p. 170)
UNICA ZÜRN 1916, Berlino, Germania – 1970, Parigi, Francia L’inquietudine intrappolata nei lavori artistici di Unica Zürn è la stessa che sembra averne provocato la depressione e causato i ripetuti ricoveri in clinica psichiatrica. Profondamente radicati nel contesto famigliare, gli squilibri di cui l’artista soffre si manifestano fin dalla giovinezza e, con risultati alterni, la accompagnano nella duratura relazione con Hans Bellmer, fino al suicidio avvenuto nel 1970. Dal loro primo incontro nel 1953, l’artista tedesco individua in Zürn la vitalità necessaria ad animare le bambole macabre di cui deforma le membra e, in alcune famose serie fotografiche – come ad esempio Unica Tied Up (1957) – immortala il corpo nudo della compagna, stretto tra corde che ne modificano le fattezze. Per quanto appaia sadica, misogina e scellerata, questa pratica
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L E N O RA D E BA R RO S
1953, San Paolo Vive a San Paolo, Brasile
Lenora de Barros inizia il suo percorso negli anni Settanta, incoraggiata dalle sperimentazioni radicali in corso in quel periodo in Brasile. Viene influenzata in particolare dall’eredità di Noigandres, un gruppo brasiliano formatosi nel 1952, che esplora un nuovo genere di poesia d’avanguardia, dando una maggiore importanza alla grafica del linguaggio. POEMA (POEM) (1979) di de Barros sottolinea con enfasi le proprietà visive e fisiche del linguaggio attraverso i gesti corporei. La sequenza di immagini in bianco e nero cattura i primi piani di una bocca che provocatoriamente mostra la lingua, lingua che lecca i tasti di una macchina da scrivere, interagisce con i martelletti fino a quando questi non le aderiscono bloccando infine il meccanismo interno della macchina. Con questo silenzioso atto di sfida, Lenora de Barros decostruisce la macchina, suggerendo la possibilità della dissoluzione dei confini tra gli idiomi e la trasformazione del linguaggio in narrazioni alternative. Influenzata dalle parole del poeta francese Stéphane Mallarmé, e in modo particolare dalla sfida della pagina bianca, POEMA (POEM) segna l’origine di una poesia “senza parole”, nata dal rapporto tra lingua e macchina da scrivere, esplorando la relazione erotica tra corpo e macchina. La tensione che si crea tra queste due entità sta a indicare la ripetizione e la meccanizzazione del lavoro di genere in ambito sia domestico sia professionale. La lingua di de Barros interferisce con il meccanismo della macchina da scrivere, interrompendo il sistema e di conseguenza sfidando le strutture di potere. Negli anni Ottanta, de Barros si dedica alla scrittura di poesie e lavora per il quotidiano brasiliano “Folha de S.Paulo”. Nel 1990 si trasferisce a Milano dove il suo interesse per la decostruzione del linguaggio viene trasportato nello spazio fisico in occasione della sua prima mostra personale, Poetry Is Something from Nothing (1990), presso lo spazio sperimentale Mercato del sale. Durante questo periodo de Barros incontra artisti del movimento della Poesia Visiva, dalle cui idee e opere, in particolare quelle di Mirella Bentivoglio, trae numerosi stimoli. La sua pratica si è ampliata fino a includere la performance, incorporando Pop Art, Fluxus, Neoconcretismo e Arte Concettuale, pur mantenendo al centro della propria ricerca il rapporto tra linguaggio e corpo. – LC
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Lenora de Barros, POEMA (POEM), 1979 / 2014. Stampa a getto d’inchiostro in bianco e nero su carta cotone, 6 elementi 22,2 × 29,8 cm ciascuno, 139,7 × 29,8 cm complessivi. Fotografia di Fabiana de Barros. Courtesy l’Artista; Gallerie Georg Kargl Fine Arts, Vienna; Bergamin & Gomide, São Paulo
S A B L E E LY S E S M I T H
1986, Los Angeles, USA Vive a New York City, USA
Landscape, una serie di neon su larga scala con testi originali composti dall’artista, fa parte del poliedrico progetto in fieri basato sul complesso industriale carcerario statunitense e sulla violenza endemica contro le persone di colore. Per Smith, la ferita psicologica della carcerazione di massa ha radici storiche e collettive ed è anche personale; l’artista, infatti, da vent’anni – circa due terzi della sua vita – va a trovare il padre in prigione. Concettuali nel loro approccio, le opere di Smith in forma di video, scultura, fotografia, installazione e testo sfidano la narrazione convenzionale sulla carcerazione, attingendo a storie personali ed esperienze quotidiane del sistema penale. Quando esposti in pubblico, i suoi esperimenti con il linguaggio, la forma, il suono e il colore coinvolgono nel loro approccio critico anche i fruitori. Davanti a un’opera di Smith, ci viene chiesto di riesaminare i nostri pregiudizi. I neon di Smith come Landscape VI (2022), con scritte composte da lettere di un bianco freddo, testo giustificato e sottolineato da una linea orizzontale nei toni brillanti dell’arancione e del verde, continuano la tradizione di altre opere d’Arte Concettuale: quelle create con la luce da artiste e artisti come Bruce Nauman, Glenn Ligon e Jenny Holzer, le cui affermazioni, brevi e concise, ironiche o sconcertanti, appaiono come luci a LED su vetrine di negozi, muri esterni, cartelloni e negli spazi delle gallerie. Come negli esperimenti precedenti, in cui la stessa materia della segnaletica al neon evoca una presenza pubblica o una parvenza di autorità da mettere alla prova, nelle serie Landscape Smith genera una tensione tra il carattere intrinsecamente pubblico del neon e la natura delle proprie affermazioni, che possono essere lette simultaneamente come personali e più ampiamente sociali, e segnalano la presenza di luce e poesia in una varietà di registri diversi. Smith ha parlato del proprio interesse per la capacità del linguaggio di spiegare la posizione di un soggetto, di creare vicinanza e distanza mediante l’uso di “io”, o “tu, voi”, o ancora “loro”. Nel connotare un controllo estetico su un certo ambiente, un paesaggio costituisce anche un’astrazione, il quadro generale. – MW
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Sable Elyse Smith, C.R.E.A.M., 2018. Light box in alluminio, acciaio, 355,6 × 833,12 cm. Veduta dell’installazione, Agora, High Line Commission, The High Line, New York City, 2018. Photo Timothy Schenck. Courtesy l’Artista; JTT, New York; Carlos/Ishikawa, London; Regen Projects, Los Angeles Pagine successive: Sable Elyse Smith, Landscape III, 2017. Neon, 243,84 × 365,76 cm. Veduta dell’installazione, Trigger: Gender as a Tool and a Weapon, New Museum, New York City, 2017. Photo Maria Hutchinson / EPW Studio. Courtesy l’Artista; JTT, New York; Carlos/Ishikawa, London; Regen Projects, Los Angeles
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B R O N W Y N K AT Z
1993, Kimberley, Sudafrica Vive a Johannesburg, Sudafrica
Bronwyn Katz crea sculture e installazioni delicate e filamentose a partire sia da materiali naturali come il ferro, sia da oggetti di recupero come materassi, spazzole in lana d’acciaio e lamiere ondulate. Le sue composizioni fluttuanti sono appese alle pareti come dipinti multidimensionali, si stendono su pavimenti come paesaggi topografici e pendono da soffitti o sporgono da terra come fossero stalattiti e stalagmiti. Nella sua pratica, Katz attinge alla consapevolezza che la terra è depositaria di memoria e che i luoghi riflettono le esperienze di coloro che li abitano. Per Katz, la terra ricorda e comunica la memoria della sua occupazione. L’artista utilizza materiali di recupero per far emergere la storia fisica, emotiva e spirituale della loro fabbricazione. Pur spinta da interessi formali, espressi in un linguaggio astratto e minimale, le sue opere di fili sussurranti raccontano storie evocative e peculiari. Le sue sculture fanno riferimento al contesto politico in cui sono state realizzate, rappresentando sottili atti di resistenza che evidenziano i costrutti sociali. Il continuo uso di molle di materassi usati e altri materiali casalinghi, ad esempio, allude alla vita domestica, nello specifico allo spazio intimo del letto, che è spesso il luogo degli eventi più importanti della vita: concepimento, nascita e morte. Gõegõe (2022) è una nuova scultura di grandi dimensioni realizzata con molle di letti e pagliette abrasive nere per pentole. Disposta a pavimento, l’opera, larga sei metri, prende il nome da un serpente acquatico mitologico conosciuto con molti appellativi diversi nelle leggende di numerosi popoli sudafricani. Di questo serpente lucente, dai colori cupi, si sa che vive nei fiumi e, talvolta, è il fiume stesso. Secondo una storia raccontata a Katz dal nonno, un tempo il serpente aveva un diamante sulla fronte, che gli fu rubato da un uomo nel cuore della notte. Al suo risveglio, accecato dall’uomo, il serpente iniziò a distruggere tutto ciò che trovava lungo il cammino. Per Katz, il serpente diviene la metafora del contemporaneo rapporto di sfruttamento che manifestiamo nei confronti della Terra e delle altre creature viventi. – MK
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Bronwyn Katz, //xa//xasen (I) (STUDIO), 2019. Rete di materasso recuperata, pagliette da cucina, 185 × 135 × 40 cm. Photo Peres Projects. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Peres Projects, Berlin. © Bronwyn Katz Pagine successive: Bronwyn Katz, Kãxu-da (I) (Become lost us), 2019 (dettaglio). Rete recuperata, pagliette da cucina, 185 × 135 × 40 cm. Photo Peres Projects. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Peres Projects, Berlin. © Bronwyn Katz
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AMY SILLMAN
1955, Detroit, USA Vive a New York City, USA
La pittrice newyorkese Amy Sillman è nota per la sua pittura robusta, fisica – astrazioni burrascose, gesti estroversi e spontanei, tremori di colore –, rafforzata anche da interventi in forma di scrittura, progetti curatoriali, umorismo e animazione digitale. Con questo approccio multiforme l’artista ha contribuito a rinsaldare i confini della pittura contemporanea di oggi con una pratica ibrida e fisica, eppure speculativa al tempo stesso. Nata a Detroit e cresciuta a Chicago, Sillman si trasferisce a New York nel 1975 e vi trascorre un decennio sviluppando il proprio lavoro mentre collabora con varie pubblicazioni artistiche come “Heresies” e in spazi non-profit come Four Walls. Dalla metà degli anni Novanta inizia ad affermarsi come pittrice ma anche come esigente pensatrice e scrittrice su tematiche legate all’arte, con una pratica che include la pubblicazione ininterrotta della rivista “The O.G.”, varie animazioni per iPhone/iPad e una carriera come docente e curatrice. Sillman ha lavorato a numerose pubblicazioni, tra cui saggi illuminanti sull’Espressionismo Astratto, su elementi della forma e su artiste e artisti, da Laura Owens e Maria Lassnig a Eugène Delacroix. Il ruolo fondamentale di Sillman nel dare nuova linfa all’astrazione gestuale nel XXI secolo si deve, come afferma l’artista, a un’espansione del vocabolario tra il figurativo e l’astratto. In opere come Psychology Today (2006), frammenti di gambe e torsi esplodono da una scatola gialla che galleggia su uno sfondo di piatte strisce di colore. In altre, come il dipinto verde acceso e giallo limone Nose (2010), un naso e una mano appena abbozzati – o almeno le loro evocazioni – spuntano da una composizione dalle striature trasversali, creando dei momenti di comicità. Tenendo alte le aspettative dell’osservatore rispetto a un’esperienza di pittura gestuale, soprattutto in quanto profondamente influenzata dalla gloriosa storia dell’Espressionismo Astratto, queste opere si crogiolano nell’incongruenza, in particolar modo quando queste forme ci fanno ridere. Evocando la scena di un film o un video amatoriale, la nuova opera di Sillman per Il latte dei sogni parla del concetto di cambiamento. Dalla posizione del fruitore, le sue immagini orizzontali e fitte generano una narrazione frammentata che si srotola nello spazio. Nell’inglobare parti del corpo disarticolate, sia umane sia animali, così come un misto di vari approcci formali, narrativi e compositivi, le opere sono dimensionate anche sulla scala del corpo umano del fruitore, che cambia posizione e prospettiva a ogni passo. – MW
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Amy Sillman, XL37 e XL27, 2020. Acrilico, inchiostro su carta, 151,1 × 105,4 cm ciascuno. Photo John Berens. Collezione dell’Artista. Courtesy l’Artista; Gladstone Gallery, New York/Brussels. © Amy Sillman Pagine successive: Amy Sillman, veduta dell’installazione, Twice Removed, Gladstone Gallery, New York City, 2020. Photo David N. Regen/Gladstone Gallery. Courtesy l’Artista; Gladstone Gallery, New York/ Brussels. © Amy Sillman
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L O U I S E L AW L E R
1947, Bronxville, USA Vive a New York City, USA
Louise Lawler manifesta un’estrema consapevolezza dell’atto fotografico nella creazione di immagini. Lawler si afferma a New York nei primi anni Ottanta nell’ambito della Pictures Generation, un gruppo di artiste e artisti interessati a portare avanti una critica delle istituzioni e un’acuta analisi della cultura dei mass media. La strategia critica dei componenti della Pictures Generation, tra i quali Cindy Sherman, Richard Prince, Barbara Kruger, Sherrie Levine e la stessa Lawler, si esprime tramite l’appropriazione di immagini pubblicitarie, slogan e opere d’arte di ampia diffusione, che spronano il pubblico a interrogarsi sulla natura stessa dell’arte. Lawler è conosciuta per fotografie che catturano particolari di opere così come si presentano nelle case di collezionisti, nei magazzini dei musei o nelle case d’asta. Enfatizzando l’“aspetto esteriore” dell’opera nell’ambiente che la ospita, l’artista rivela anche una visione soggettiva, il dietro le quinte del mondo dell’arte, esponendo ciò che spesso viene celato da austere gallerie di stampo tradizionale, e ridefinisce il significato di un’opera nel suo circolare tra vari contesti. Questa idea di trasparenza è spesso corroborata dai titoli e dalle didascalie che accompagnano le sue fotografie. Con atteggiamento esibizionistico, le sue opere sovente si impossessano di quelle di artisti uomini che godono di un eccessivo successo di mercato. Nei suoi lavori più recenti Lawler inizia a sperimentare tramite effetti digitali che modificano le opere e gli spazi da lei documentati, spesso rendendo le scene pressoché irriconoscibili. L’artista aggiunge distorsioni digitali ed estende le immagini fino a occupare completamente lo spazio di esposizione, come nella serie adjusted to fit, in cui le fotografie sono stampate su fogli di vinile adattati per conformarsi alla parete su cui vengono installate, o per riempire intere sale. Trasformando opere documentaristiche in scene riflessive e distorte, l’artista rimane fedele al tentativo di dare una nuova vita alle convenzioni presenti all’interno del mondo della cultura visiva. Le opere di Lawler per Il latte dei sogni combinano i numerosi metodi fotografici da lei impiegati in un’installazione a più strati intitolata No Exit (2022): le fotografie della retrospettiva di Donald Judd al MoMA nel 2020 – scattate a luci spente, dopo la chiusura – sono posizionate direttamente sopra Hair (adjusted to fit) (2005 / 2019 / 2021), un’immagine su vinile che riempie la stanza. Il continuo ritorno di Lawler sulle proprie immagini sfida i presunti significati che attribuiamo all’arte, allo status e alla cultura. In una società plasmata in modo esponenziale dalle tendenze economiche, il suo lavoro offre una prospettiva onesta sulla condizione dell’arte e sulla sua funzione come bene di consumo. – IA
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Louise Lawler, Untitled (Skylight), 2021. Stampa a sublimazione termica su scatola museo, 121,9 × 200 cm. Courtesy l’Artista; Sprüth Magers Pagine successive: Louise Lawler, Hair (adjusted to fit), 2005 / 2019 / 2021. Materiale adesivo per pareti. Dimensioni variabili per adattarsi alle proporzioni di un determinato muro a qualsiasi scala determinata dall’espositore. Courtesy l’Artista; Sprüth Magers
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ALEXANDRA PIRICI
1982, Bucarest Vive a Bucarest, Romania
Alexandra Pirici è un’artista e coreografa rumena, nota per mettere in scena azioni pubbliche, gesti e sculture che spingono a rivalutare le narrazioni della storia e dello spazio urbano, della natura e dell’immaginario digitale, immediatamente percepibili o meno. Sottolineando il ruolo che la presenza di un corpo collettivo può esercitare nel confrontare le strutture di potere – o almeno nel farle conoscere – Pirici, danzatrice professionista, spesso assembla gruppi di performer in formazioni che descrive come sculture viventi che agiscono, si muovono, si spostano e cantano. Attivate per un arco di tempo prolungato, queste coreografie, che vanno da disposizioni minimali a complessi contesti operativi, non sono concepite come eventi singoli, ma come azioni ininterrotte che si svolgono in un continuum, senza nessuna linea narrativa, senza inizio né fine. Alcune delle prime azioni di Pirici hanno avuto luogo nella sua città natale, Bucarest, dove ha iniziato a creare le sue opere performative per parlare della politica culturale rumena. If You Don’t Want Us, We Want You (2011) affronta in modo ironico i banali monumenti agli eroi politici e le sculture pubbliche della città. In una delle numerose azioni di cui consiste l’opera, Pirici mette in scena i performer di fronte a una statua equestre del re Carlo I, che regnò tra il XIX e il XX secolo; gli attori, a terra, impersonano il cavallo, moltiplicandolo, mettendo la scultura sovradimensionata a confronto con la scala umana e cercando di mutarne la valenza. In lavori più recenti, come l’opera performativa su larga scala Aggregate (2017–2019), decine di performer vengono trasformati in veri e propri paesaggi viventi che imitano gesti coreografici riferiti alla cultura di massa. Nell’opera, la collettività si manifesta in questi riferimenti, ma essa è anche enfatizzata nella relazione tra performer e spettatore: sciamando tra il pubblico, danzatori e attori coinvolgono nella rappresentazione tutti coloro che sono presenti nello spazio. La nuova azione performativa di Pirici, Encyclopedia of Relations (2022), ruota attorno alla descrizione di relazioni collettive mutuate dalla biologia e dalla botanica, nel loro ritrovarsi in una continua fase di riconfigurazione. Traendo ispirazione dalle interazioni simbiotiche e parassitarie tra individui, come da quelle trattate in relazioni di tipo più astratto – tra umano e tecnologia, rocce e onde, piante e animali – i performer scelgono di muoversi nello spazio in base a un insieme di azioni possibili, che possono essere combinate e ricombinate all’infinito. Memore del gioco surrealista del “cadavere squisito”, attraverso il corpo il mondo naturale si fonde con il mondo fantastico. – MW
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Alexandra Pirici, Re-collection, 2020. Azione in corso (versione duetto). Veduta della mostra, Dance First Think Later, Museum of Art and History, Geneva, 2020. Photo Emanuelle Bayart. Courtesy l’Artista; Artasperto. © Alessandra Pirici Pagine successive: Alexandra Pirici, Aggregate, 2017–2019. Ambiente performativo. Veduta della mostra, Art Basel Messeplatz, Basilea, 2019. Photo Andrei Dinu. Courtesy l’Artista. © Alessandra Pirici
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Alexandra Pirici, Re-collection, 2018. Azione in corso. Veduta della mostra, Upheaval, Kunsthalle Mannheim, Mannheim, 2020. Photo Alexandra Pirici. Courtesy l’Artista. © Alessandra Pirici
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S P I R A L E V I R A L E , O S E T T E G I R AV O LT E NEL DUELLO MAGICO Marina Warner
“Tutto cambia e nulla muore…”1 Mestra ha un padre, Erisittone, che è un profittatore, un bestemmiatore contro gli dèi e la natura: incapace di vedere altro che il proprio profitto, abbatte un boschetto sacro a Cerere, la dea dell’abbondanza e del raccolto, e in seguito, anche dopo essere stato severamente ammonito, taglia un’enorme quercia antica a cui sono appese preghiere e offerte. Per questo la driade dell’albero lo maledice; Cerere sente la sua disperazione e convoca Fame perché si infili in Erisittone mentre dorme e ne prenda possesso: lui comincia a sognare cibo. Quando si sveglia divora avidamente tutto ciò che trova, finché della sua grande ricchezza non resta più nulla. Per procurarsi altro cibo, i suoi occhi puntano “la figlia, la quale, a dire il vero, non meritava un tale padre”, commenta Ovidio2. Mestra rifiuta di farsi vendere e implora gli dèi di aiutarla. Nettuno ascolta il suo grido e, quando il suo primo cliente la raggiunge, lei scopre di riuscire ad assumere un’altra forma e muta in un pescatore. Ma Erisittone, che nei nuovi poteri metamorfici della ragazza vede un possibile vantaggio per se stesso: “La vende / più volte a più padroni, e lei li pianta / tutti, uno per uno, ora mutandosi / in cavalla, ora in vacca, ora in uccello…”3. La storia si conclude con una gratificante vendetta macabra sull’uomo, che finisce per divorare se stesso. La figlia capace di mutare forma è una figura della sopravvivenza, suo padre un’allegoria vivente del consumismo. Lei non è una ninfa o una dea, ma una ragazza a cui gli dèi hanno concesso poteri polimorfici. La sua storia la riconduce a una categoria speciale di truffatori che continuano a cambiare la loro forma esteriore. Esemplifica un aspetto del principio illustrato nelle Metamorfosi di Ovidio con il discorso finale di Pitagora, il filosofo greco il cui pensiero tanto riecheggia nel pensiero sanscrito e buddhista. La sua dottrina è anche una forma di panpsichismo, e i nomi classici dei protagonisti dei racconti di metamorfosi – così come l’importanza di questi racconti nell’ Umanesimo rinascimentale europeo – non dovrebbero oscurare il fatto che
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la loro fede nella fluidità selvaggia e polimorfa è in profondo contrasto con il concetto occidentale dell’individuo unificato. “Nulla muore”: lo spirito di qualcuno, per quanto senza dimora, disincarnato e smarrito, aleggia ancora. Questo conferisce un accento più gioioso alla perdita del sé che avviene con tanta violenza in molte delle storie di repentina metamorfosi di Ovidio, in cui i soggetti vengono costantemente trasformati in pietra, pianta, uccello o fiume4. Il poeta spesso si limita a trasmettere antefatti per i fenomeni naturali – o a inventarli –, ma sapere che l’usignolo, un tempo, era una donna chiamata Filomela, non si accorda con ciò che intende per “personalità” la tradizione classica umanista cristiana. Eppure questa visione sta perdendo forza, e sia prima sia durante la pandemia da Covid-19, i concetti di empatia tra le specie e tra fenomeni senzienti e non senzienti si sono consolidati. Dalle prime voci sui pangolini al mercato di Wuhan, ai protocolli a base di igienizzante per le mani e mascherina, ognuno di noi è ormai sensibilizzato verso legami invisibili che ci legano alla vita delle piante e degli animali nell’atmosfera comune dell’aria che respiriamo. La catena di trasmissione doveva essere interrotta e la sopravvivenza dipendeva dalla separazione, addirittura dall’isolamento. La pandemia ci ha immerso tutti in un paradosso lancinante: abbiamo imparato che i nostri corpi umani sono vasi comunicanti per forza, non per scelta, che tutti viviamo in una prossimità intima e contagiosa, a prescindere da specie, intenzione, relazione, coscienza o consenso. Tuttavia, riconosciamo anche che la nostra interconnessione globale ha comportato la necessità di tenerci lontani gli uni dagli altri. Le artiste e gli artisti, di conseguenza, si muovono in direzioni opposte: da un lato, i loro lavori sono carichi del senso elettrizzante della nostra umana unione con la terra, le piante e tutte le creature, compresi gli insetti e i mostri (vedi il lavoro di Rosana Paulino); dall’altro, sono angosciati e sconvolti dalla consapevolezza dell’inquinamento, del contagio e della vita subcellulare, microscopica, impalpabile del Coronavirus (un nome troppo grazioso per questo assassino spietato).
In Inghilterra, negli anni Trenta, una giovane vuole disperatamente diventare un cavallo, adotta una iena in lattazione per la sua cara amica, evoca appassionati amplessi con un cinghiale, e imbeve di appetiti cannibalistici frutti, fiori e verdure; in Francia, sogna stormi di farfalle e scrive alla sua cara amica Leonor Fini di averla vista di nuovo in sogno: “Cammina cammina raggiungo un castello in rovina e pieno di gatti”, così scrive Leonora Carrington alla sorella elettiva. “Ti incontro e ci guardiamo allo specchio. Tu hai una testa di lince e io una testa di cavallo”5. Dopo essersi trasferita in Messico, Carrington sviluppa un’altra fertile complicità creativa con Remedios Varo. Insieme, le donne assorbono ogni genere di conoscenza occulta della cosmologia messicana antica; sperimentano visioni indotte dagli stupefacenti. Il primo marito di Varo, Benjamin Péret, compila un prezioso compendio di filosofie e miti latino-americani, uno dei tanti lavori che nutrono le invenzioni originali delle artiste – spesso miti innovativi intessuti nella stoffa delle tradizioni circostanti, piene di divinità animali e infestazioni da parte di creature oniriche6. Nel frattempo, in Inghilterra, anche Edith Rimmington e Ithell Colquhoun attingono alla conoscenza esoterica, producendo straordinarie visioni di uccelli, rocce, fiori in zoomorfosi fantastiche e mutazioni molteplici. Lo stesso virus ha presto cominciato a mostrarsi dedito alla metamorfosi; continua a mutare, generando nuove varianti; i virologi si sforzano di stare al passo e il resto di noi teme che cambierà di nuovo, eludendo i poteri della scienza. È come in quegli incubi in cui vieni inseguito, ma al contrario: siamo noi a inseguire, ad allungare la mano, a mancare la presa. L’irrefrenabilità della metamorfosi potrebbe ricordare un gioco ad acchiapparello se le conseguenze non fossero così mortalmente serie.
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I jinn del Corano – femmine e maschi – sono infinitamente mutevoli; fatti di aria e fuoco, i loro elementi sono le nuvole, le sorgenti e gli abissi del mare. Possono ergersi fino al cielo con la forma di un mostro terrificante munito di zanne, o ridursi alle dimensioni di un seme di melograno e nascondersi in fondo al mare. Nelle Mille e una notte, dopo che un principe viene trasformato in scimmia, una bellissima principessa si propone di salvarlo da un ifrit o jinni maligno, che lo ha maledetto facendogli prendere quella forma. Anche lei è un’incantatrice, una jinniya in forma umana. Quando il malefico jinni la assale in forma di leone, lei si strappa un capello, lo trasforma in una lama affilata e lo taglia in due; la testa di lui diventa uno scorpione, ma lei si tramuta in serpente; il nemico para il colpo e si trasforma in aquila; il serpente diventa un avvoltoio… La sequenza continua: adesso lui è un gatto nero, lei un lupo dal manto striato. Infine, il gatto prende la forma di un melograno ed esplode spargendo semi dappertutto, semi che la principessa, in forma di gallo, cerca di inghiottire… Ma ne rimane uno, e quest’ultimo seme si trasforma in pesce e si tuffa negli abissi. La principessa diventa un pesce più grosso, e si immerge dietro di lui, ma l’ifrit salta fuori dall’acqua come un fuoco di artificio. Lei lo assale e nella conflagrazione che segue lo riduce in cenere, bruciando irrimediabilmente anche se stessa7. Nelle favole, queste concatenazioni o metamorfosi sono note come “duelli magici”, perché la malefica megera delle storie ha questo potere, simile a un virus, di mutare in una sfilza di sembianze diverse. Ci sono degli antecedenti: mutaforma e dèi imbroglioni piroettano nelle leggende celtiche e nella mitologia norrena e riaffiorano tra le storie sulle forze elementari e primordiali nelle fonti greche antiche, così come in Ovidio. Richiamano più da vicino gli approcci contemporanei alla metamorfosi perché mettono in scena un processo di trasformazione più che un’alterazione teleologica dell’aspetto. Questi racconti sono associati anche a forze viscerali di vendetta e ritorsione e sogni atavici di fuga ed evasione.
Quando Zeus desidera la dea Nemesi contro il suo volere, lei si tramuta in un pesce: “Nella sconfinata acqua nera del mare cercò di fuggire, ma Zeus la inseguì […] mentre lei scappava attraverso l’onda del mare in tempesta, […] e di nuovo sulla terra con le sue fertili zolle. E per tutto il tempo continuò a trasformarsi nei vari animali selvatici che la terra nutre”8. Zeus la insegue, trasformandosi a sua volta per tenere il passo, e infine prende la forma di un cigno e la violenta: lei in quel momento ha la forma di un’oca e partorisce un uovo da cui uscirà Elena di Troia9. Il nome della dea – Nemesi – è cruciale: è la vendetta incarnata, e dal crimine di Zeus seguirà una lunga tragedia, mentre il ciclo delle violenze inferte alla donna continua. Quando la stessa Elena verrà rapita da Paride, la sua violazione scatenerà la guerra di Troia.
Nemesi cerca di sfuggire a Zeus tuffandosi nel profondo del mare, l’elemento mutevole per eccellenza; è nei suoi abissi che vive Proteo, la divinità marina il cui nome è diventato sinonimo di “metamorfico”. È il “Vecchio del mare” e suo padre è Poseidone, dio del mare. Come le sirene, altri esseri magici acquatici dotati di preveggenza, Proteo è “veridico”10 e aiuterà il re greco Menelao, marito della rapita Elena di Troia, a trovare la strada del ritorno dopo la caduta della città. Proteo ha una figlia, anch’essa una dea del mare, Eidotea, la quale dice a Menelao che: “Quando il sole ha girato il cielo a metà, / ecco che il veridico Vecchio del mare esce dall’acqua”11, e raduna attorno a sé per fare la siesta un branco di foche (“emerse dall’acqua canuta, / spiranti l’odore pungente del mare profondo”12). Menelao deve sorprenderlo: “Tenetelo lì, benché smanii e agogni scappare. Tenterà di mutarsi in tutti gli animali che esistono in terra, in acqua e in fuoco prodigiosamente ardente. Voi tenetelo forte e stringetelo ancora di più”13.
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Successivamente, quando Menelao colpisce, Proteo lotta selvaggiamente e Menelao descrive la scena nello stile di un bardo: “Il Vecchio non dimenticò la sua arte di inganni, e prima diventò leone dalla folta criniera e dopo serpente e pantera e grosso cinghiale, diventò liquida acqua e albero dall’alto fogliame. Noi forte lo tenevamo…”14. Il Vecchio del mare allora spiega davvero al re greco come tornare a casa, e gli rivela le sofferenze dei suoi amici e dei suoi compagni di combattimento. “Detto così si immerse nel mare ondeggiante”. In seguito Proteo, questo “vecchio dio”, insegna al mortale Peleo come superare la resistenza di Teti, la dea del mare, che arriva in sella a un delfino imbrigliato per fare il suo consueto sonnellino nella sua consueta grotta marina. Peleo, su istruzione di Proteo, la prende e si avvinghia a lei; è quasi come se Proteo fosse riuscito a trasmettere all’aggressore i suoi poteri di trasformazione, proprio come Omero sta offrendo a Ovidio i mezzi verbali per drammatizzare la lotta. Gli anacronismi di Ted Hughes sottolineano la violenza della scena: “Si trovò a stringere una tigre per il pelo della gola mentre la sua zampa lo colpiva con l’impatto di un blocco di ispido bronzo da cinquanta chili lasciato cadere da un bastione”15. Da questo stupro nascerà Achille, l’eroe dal destino segnato della guerra di Troia. A livello psicosociale, nella storia dello stupro di Teti, questa sequenza di metamorfosi risuona con l’esperienza sessuale femminile e gli atavici stratagemmi femminili di autodifesa e riparazione.
Il dio artigiano, Efesto, è nato con il corpo deforme: sua madre Era lo respinge, gettandolo dal Monte Olimpo. Lui precipita nelle profondità del mare, dove Teti lo raccoglie e con grande tenerezza si prende cura di lui. Cresce negli abissi e lì rimane, allestendo fucine al centro dei vulcani. Su richiesta di Teti, fabbrica una magnifica armatura per il figlio di lei, Achille, compreso il celebre scudo, una delle prime opere d’arte mai descritte, in un’epica ecfrasi. È assistito da ancelle d’oro che ha fabbricato lui stesso; gli fanno da aiutanti. Ed è Efesto a plasmare Pandora, la prima donna, come statua di argilla, che in seguito sarà animata dagli dèi. Queste “vergini costruite” sono i primi automi con intelligenza artificiale nella letteratura. Sin dall’inizio, l’immaginazione umana ha legato l’idea delle macchine umane alle forze primordiali, perché Efesto è un maestro del fuoco, così come Teti è una maestra dell’acqua. I mutaforma sono vicini agli elementi – la capacità di trasformarsi riproduce le proprietà dell’acqua e del fuoco. Mestra è sfuggente, abile, evasiva; non è un caso che il dio degli oceani le doni i suoi poteri16. E i cambiamenti proteiformi hanno anche una massa, la massa e il peso dell’acqua.
Quando spunta nelle Mille e una notte, il Vecchio del mare appare come un anziano allampanato, e implora Sinbad di portarlo sulle spalle. Sinbad accetta, e scopre che il suo peso diventa sempre più gravoso a mano a mano che il suo fardello lo incalza ad avanzare17.
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In Crescita e forma, il biologo D’Arcy Thompson analizza le morfologie plasmate dall’acqua; in un passaggio affascinante confronta una goccia di inchiostro, che si espande in un bicchiere, con i tentacoli e le campane o le ombrelle delle meduse. Esplora anche schizzi, fili viscosi, cilindri, e la tensione delle membrane; la sua analisi offre un contesto davvero illuminante alle attuali esplorazioni estetiche della geometria frattale, delle protuberanze o dei buchi topologici, di onde e curve e bulbi e baccelli, di animali e piante simili nelle loro associazioni 18. La consapevolezza della materia elementare, della contingenza e della mutevolezza, ha plasmato un’estetica biomorfica in molte aree diverse dell’arte moderna e contemporanea: dal ciondolare e afflosciarsi delle sculture di Eva Hesse e delle figure cucite di Louise Bourgeois, ai bulbosi atanor in terracotta di Gabriel Chaile, alle strutture rigonfie, molli e fluide di Hannah Levy e Mrinalini Mukherjee. Il cascante è diventato stimolante 19, e il biomorfismo è strettamente legato al plasma e altri fluidi e alla morfologia di balene, meduse, piovre, uova di rana, pesci, calamari, delfini, alghe marine, lumache delle profondità oceaniche e Cyclopteridae di recente scoperta, o grossi vermi da poter fronteggiare le più agghiaccianti paure legate a leggendari mostri ctoni 20. La tendenza estetica acquista una dimensione politica nel lavoro di diverse artiste e artisti, espressa forse con la maggiore potenza nell’“etica idrofanica” di Paul Gilroy. Descrivendo i tentativi di Olaudah Equiano di salvare gli altri membri dell’equipaggio – bianchi (schiavi), così come prigionieri neri – dal naufragio, Gilroy invoca l’importanza cruciale dell’acqua come metafora dell’empatia radicale a cui sta facendo appello: “La condotta [di Equiano] esemplifica la generosità e l’empatia richieste [… dalla] elaborazione di un’etica idrofanica in cui il significato si svela attraverso il ruolo mediatore o la presenza dell’acqua”21. Anche nei corpi metamorfici di oggi, epifanie biomorfiche e liquide conducono a visioni di fusione, autocancellazione, dissoluzione. Più è ermeticamente sigillata la nostra separatezza dagli altri, più diventa impossibile o inammissibile toccare, abbracciare, baciare, pigiarci contro sconosciuti in un luogo affollato, più le idee di fusione e aggrovigliamento prendono a caratterizzare le rappresentazioni. Visioni di contiguità, porosità, mescolanza e assorbimento veicolano terrori da incubo (contiguità significa contagio), ma trasmettono anche desideri nostalgici di prossimità, e anche di abbandono dell’individuo incarnato a quella beatitudine indeterminata e amniotica di unità con l’immensità dell’oceano, dissolto nell’empatia verso gli altri esseri, nel divenire nessuno.
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Marina Warner, scrittrice e docente, nei suoi libri, vincitori di diversi premi, esplora miti e fiabe; tra essi, citiamo Alone of All Her Sex: The Myth and the Cult of the Virgin Mary (Weidenfeld and Nicolson, l976; tr. it. Sola fra le donne. Mito e culto di Maria Vergine, Sellerio, 1999) e Monuments & Maidens: The Allegory of the Female Form (Weidenfeld and Nicolson, 1985; tr. it. Donne e monumenti, Sellerio, 1999). Ha pubblicato cinque romanzi e tre raccolte di racconti; i suoi saggi su arte e letteratura comprendono diversi scritti su Leonora Carrington (introduzioni a The House of Fear e The Seventh Horse; postfazioni a The Debutante e Down Below). Ha curato diverse mostre, tra cui The Inner Eye: Art beyond the Visible (1996). Forms of Enchantment: Writings on Art and Artists è uscito nel 2018 per Thames & Hudson e Inventory of a Life Mislaid: An Unreliable Memoir nel 2021 per William Collins. È professoressa di Inglese e Scrittura creativa al Birkbeck College di Londra e Fellow della British Academy. Nel 2015 ha ricevuto l’Holberg Prize in the Arts and Humanities. Al momento sta scrivendo un libro sul concetto di “santuario”.
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Il verso continua così: “Vaga il nostro spirito, / da un corpo all’altro, quale ch’esso sia, / e dagli uomini passa nelle bestie / e viceversa, né mai si consuma… / nello stesso modo / – così io penso – l’anima trasmigra / in vari corpi rimanendo uguale”. Ovidio, Le metamorfosi, Roma, Newton Compton, 2016, libro XV, vv. 165–172, p. 797. Vorrei citare come ispirazione il poema di Alice Oswald, Nobody, con acquerelli di William Tillyer, London, 21 Publishing, 2018, ristampato come Nobody, London, Jonathan Cape, 2019. Ovidio, Le metamorfosi, cit., libro VIII, v. 847, p. 447. Ibid., vv. 871–874, p. 449. Ad esempio, Dafne si trasforma in una pianta di alloro per sfuggire ad Apollo; “Io, trasformata in giovenca” scrive pateticamente il suo nome sul terreno con lo zoccolo, in modo che i suoi genitori possano riconoscerla; Atteone cerca di ordinare ai suoi cani di stargli lontano, ma ora che è diventato un cervo, lo stesso animale che ha cacciato per tutta la vita, non può parlare né rivelarsi, e così il branco lo aggredisce, facendolo a pezzi; Niobe viene trasformata in una montagna da cui scorrono lacrime per la perdita dei suoi figli, che sono stati pietrificati in forma di statue. Ovidio, Le metamorfosi, cit., libri I, III, VI. Si veda anche P.M.C. Forbes Irving, Metamorphosis in Greek Myths (1990), Oxford, Clarendon Press, l999, passim. Whitney Chadwick, The Militant Muse: Love, War and the Women of Surrealism, London, Thames & Hudson, 2017, 88. Benjamin Péret, Anthologie des mythes, légendes et contes
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populaires d’Amérique, Paris, Albin Michel, 1960. Questo notevole lavoro merita più attenzione – e traduzioni. The Tale of the Second Dervish, in The Arabian Nights: Tales of 1001 Nights, a cura di Robert Irwin, London, Penguin Classics, 2008, I, 86–88. Si veda anche Marina Warner, Stranger Magic: Charmed States and the Arabian Nights, London, Vintage Books, 2014, 36–53, 395–396. The Cypria, a cura di Malcolm Davies, Washington, D.C., The Center for Hellenic Studies, 2019, frammento F7, pp. 86–87. La versione più nota di questo mito vede la mortale Leda vittima dell’aggressione di Zeus e di conseguenza generatrice di due uova, da cui escono Castore e Polluce, Elena e Clitennestra. Si veda Marina Warner, Fantastic Metamorphoses, Other Worlds: Ways of Telling the Self, Oxford, Clarendon Press, 2001, 95, 97–110. Omero, Odissea, Milano, Oscar Mondadori, 2016, libro IV, v. 384, p. 11. Ibid., vv. 400–401, p. 111. Ibid., vv. 405–406, p. 113. Ibid., vv. 416–419, p. 113. Ibid., vv. 455–459, p. 115. Ted Hughes, Tales from Ovid, London, Faber, 1997, p. 102, ispirato alle Metamorfosi di Ovidio, libro XI, vv. 70 ss. Nella storia di Mestra, è Nettuno, il dio del mare, a donarle i poteri di trasformazione e il narratore è il dio fiume Acheloo, che confronta esplicitamente i poteri di lei con la propria maestria nella metamorfosi, pur ammettendo che lei ne dispone in una gamma più ampia. Mestra
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sopravvive ai maltrattamenti del padre per diventare la moglie di Autolico, lui stesso un imbroglione, figlio di Ermes, dio di codici e crocevia. Si veda Ovidio, Le metamorfosi, cit., libro XI. The Fifth Journey of Sindbad, in The Arabian Nights, cit., II, 492–493 (la traduzione di Malcolm C. Lyons non nomina l’incubus come Vecchio del mare, ma altrove lo identifica con lui). D’Arcy W. Thompson, Crescita e forma. La geometria della natura, Torino, Bollati Boringhieri, 2016. Ursula K. Le Guin, The Carrier Bag Theory of Fiction (1986), in Women of Vision: Essays by Women Writing Science Fiction, a cura di Denise DuPont, New York, St. Martin’s Press, 1988 (http://theorytuesdays.com/ wp-content/uploads/2017/02/ The-Carrier-Bag-Theory-of-FictionLe-Guin.pdf). Si veda la traduzione italiana di Teresa Albanese, La sporta: una teoria della narrazione, contenuta in questo volume. Katherine Ellen Foley, Meet the New Species of Deep-Sea Fish So Gooey It Melts When Brought to the Surface, in “Quartz”, 12 settembre 2018 (https:// qz.com/1387690/a-new-fish-found26000-feet-deep-melts-at-thesurface-of-the-sea). Paul Gilroy, Never Again: Refusing Race and Salvaging the Human, Holberg Lecture 2019 (https:// holbergprisen.no/en/holberglecture-never-again-refusing-raceand-salvaging-human). Per le immagini sulla dissoluzione si veda anche il poema di Alice Oswald ispirato all’Odissea, Nobody, cit.
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TEORIA CRITICA POSTUMANA
Rosi Braidotti
INTRODUZIONE
Che si apprezzi o meno il termine, questi sono tempi postumani e gli studi nel campo sono in piena espansione. Alcuni sviluppi spettacolari, in particolare nelle neuroscienze, nelle scienze biologiche e nello studio dei sistemi terrestri ed ecologici, così come nelle tecnologie informatiche digitali, hanno modificato la nostra comune comprensione dei parametri di base che ci permettono di definire l’essere umano. La svolta postumana è innescata dalla convergenza del postumanesimo, da un lato, e del postantropocentrismo, dall’altro. Il primo ruota attorno alla critica dell’ideale umanistico di “Uomo” come rappresentante universale dell’umano, mentre il postantropocentrismo mette in discussione la pretesa superiorità dell’umano, la gerarchia delle specie La posizione critica postumana che difendo e promuove la giustizia parte dall’assunto che è diventato urgente elaboecologica. rare una nuova relazione, più complessa sul piano metodologico e strategico, nei confronti delle radici materialiste della soggettività. Questo posizionamento materialista implica anche una dimensione planetaria, che ci induce a sviluppare una relazione più giusta ed egualitaria con gli altri esseri, umani e non umani. La ricerca, anche nelle scienze umane, deve stare al passo con i tempi, come sottolinea, ad esempio, la diffusa accettazione da parte della comunità accademica e scientifica del termine “Antropocene”1 per definire la nostra era geologica. La teoria critica postumana si rivela all’altezza delle sfide della nostra epoca e opera per riformulare la questione dell’Antropocene. La definizione “teoria critica postumana” contrassegna pertanto l’emergere di un nuovo tipo di discorso che non rappresenta soltanto l’effetto della convergenza di postumanesimo e postantropocentrismo e una piatta equivalenza di questi due filoni di pensiero, piuttosto un salto qualitativo in una direzione nuova e più complessa.
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I L P O S T U M A NO C OM E F IGU R A Z ION E
Il postumano è una figurazione, o una figura concettuale, non un concetto in senso stretto. Esprime l’impegno del filosofo critico verso l’attualità del presente e lo rende operativo per mezzo di una metodologia specifica, che ho sviluppato a partire dal ramo femminista neomaterialista della tradizione filosofica francese post-strutturalista. Il principio fondamentale di questa metodologia è disegnare collettivamente cartografie discorsive e materiali del presente, che diano conto di documenti e monumenti, e quindi delle condizioni semiotiche e materiali della nostra esistenza, compresa la produzione contemporanea delle conoscenze. Una cartografia è una mappa teoricamente fondata e politicamente informata del presente o del momento attuale, anche in funzione della produzione discorsiva. Poggia sulla penetrante filosofia deleuziana del tempo come un continuum, che definisce il presente come concetto stratificato e pluridirezionale. Il presente è la traccia di quello che stiamo smettendo di essere e al tempo stesso il seme di quello che siamo in procinto di diventare: è qui e ora, ma anche virtuale. Si tratta di un concetto fondamentale nella filosofia di Deleuze, che rimanda alla somma totale dei possibili modi alternativi di essere. Deleuze lo sviluppa – sulla falsariga di Spinoza, ma anche di Leibniz – come forma di “prospettivismo”, ovvero l’idea di molteplici mondi possibili e molteplici modalità percettive di questo stesso orizzonte di possibilità. Per Deleuze tale concetto assume connotazioni etiche e rimanda a uno sbalzo intensivo e qualitativo nei modi di divenire. Per estensione, mi sembra significare che il compito della cartografia sia offrire spiragli sulle molteplicità non lineari di queste dimensioni: i critici postumani devono essere tali riguardo alle condizioni attuali, ma anche creativi in termini di nuove figurazioni o strumenti e metodi di navigazione che mirano ad attualizzare il virtuale. Una cartografia adeguata ambisce a realizzare figurazioni o personaggi concettuali alternativi per impostare una rotta attraverso un resoconto cartografico/ racconto del presente che tenga conto, come osservato sopra, dei suoi aspetti frastagliati e non lineari. In altre parole, una figurazione adempie alla duplice funzione di documentare e smascherare le strutture sedentarie e restrittive delle formazioni dominanti del soggetto (potere come potestas, o coercizione). Su un livello più affermativo, tuttavia, la medesima figurazione esprime anche rappresentazioni alternative del soggetto come processo di trasformazione sempre in corso (potere come potentia, o emancipazione). Per certi versi, una figurazione costituisce la drammatizzazione dei due processi del pensiero critico e del divenire virtuale, ma in maniera non dialettica e dinamica. È in questo punto che entrano in gioco anche le epistemologie radicali, come il femminismo e l’antirazzismo, e soprattutto per me il metodo femminista della “politica del posizionamento” di Adrienne Rich, elaborato nei primi anni Ottanta e poi trasformato nelle “conoscenze situate” di Donna Haraway negli anni Novanta. Nel mio sistema filosofico il posizionamento funziona come una forma di immanenza radicale. In una prospettiva cartografica critica, una figurazione produce anche la mappatura dei nostri posizionamenti o collocazioni storiche e sociali, cosa che consente l’analisi delle specifiche formazioni di potere che ci strutturano e l’elaborazione di forme di resistenza appropriate. Quindi la politica del posizionamento offre un metodo, una strategia e una prospettiva d’avvenire di stampo neomaterialista e femminista, che accentua la struttura situata, relazionale, affettiva, incarnata e radicata di tutti i processi di produzione delle conoscenze, comprese quelle generate dal femminismo. La politica del posizionamento, o immanenza radicale, è uno dei principali contributi concettuali del femminismo al pensiero critico contemporaneo. L’altro è la politica affermativa. Definisco quindi il postumano come una figurazione critica e creativa, o una figura concettuale capace di illuminare le complessità del presente, definito come
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l’attuale – cioè lo stato realizzato delle cose – e al tempo stesso il virtuale – cioè i processi in divenire. In termini filosofici – in contrasto con il senso spaziale e geologico del termine – il posizionamento non produce tanto un’entità sostanziale, quanto una figura concettuale che mette in rilievo una serie di discorsi contemporanei emergenti, generati dalle critiche intrecciate dell’umanesimo e dell’antropocentrismo. Quello che il pensiero critico postumano rende pensabile ai nostri tempi, in molte discipline, è il dispiegarsi discorsivo e materiale di questa convergenza acuta. Alcuni di questi discorsi critici sono legati all’estinzione, alla crisi e alla sopravvivenza, ma molti sono generativi e proposizionali. Vorrei esporne i più evidenti. Prima di tutto, qualsiasi concetto residuo di natura umana viene sostituito da un continuum, che Haraway descrive come natureculture2. Questo spostamento pone fine anche alla distinzione categorica tra la vita come bios, prerogativa dell’anthropos, e la vita degli animali e dei non umani, o zoe3. Ciò che invece emerge in primo piano sono le nuove relazioni umano/non umano, che comprendono complesse interfacce mediatiche-tecnologiche di materia biologica e non biologica. La doppia mediazione, bio- e info-tecnologica, è di cruciale importanza per la convergenza postumana. Queste pratiche e discorsi provocano non solo l’interrogazione critica della categoria dell’antropocentrismo, o supremazia della specie, ma insieme ad essa sollevano anche la consapevolezza della struttura relazionale del sé incarnato e posizionato o radicato. Permettono anche una visione “ecologica e filosofica” della soggettività su una molteplicità di livelli nomadici ed “ecosofici”4, che includono le dimensioni ecologiche, sociali e affettive o psichiche. U NA CA RT O G R A F I A DE L L A C ON V E R G E N Z A P O S T U M A NA
Propongo quindi di affrontare il postumano come una molteplicità capace di esprimere un’intuizione fondamentale sul cambio di paradigma che ci porta lontano dall’antropocentrismo. Il sapere postumano copre una gamma di posizioni diverse e agende politiche spesso contrastanti. La proliferazione produttiva del sapere, tuttavia, avviene in parallelo a una considerevole produzione di teoria sociale e di pubblicazioni divulgative che esprimono un’ansia condivisa riguardo al futuro, sia della nostra specie, sia della nostra eredità umanista. In un recente saggio 5, ho elaborato una cartografia preliminare e ho identificato alcuni meta-modelli in diverse aree di ricerca sul postumano e li ho definiti come snodi interdisciplinari creativi, o nuclei produttivi generativi. Il meta-modello che disegnano non è lineare, ma è composto da linee rizomatiche che si muovono a zig zag attraverso campi diversi del sapere – in particolare le aree degli studi critici che sono cresciute in modo interstiziale dagli anni Settanta, oltre a diverse discipline ormai consolidate. Lasciate che faccia qualche esempio: prima di tutto, la letteratura comparativa e i Cultural Studies, che hanno svolto un ruolo pionieristico rinnovando sia i metodi sia le tematiche. Particolarmente rilevanti sono l’ecocritica e gli Animal Studies. Un altro snodo interdisciplinare pionieristico è quello che chiamavamo gli “studi sui media”, che nel sapere postumano hanno compiuto una svolta più materiale per rendere conto dell’economia politica dell’interazione umani/non umani e delle relazioni mediate dei nostri tempi. Le scienze ambientali ed ecologiche sono un altro cruciale agente di innovazione nel pensiero postantropocentrico, con giganti intellettuali come Haraway che stanno a cavallo tra questa disciplina e gli studi sulla scienza e la tecnologia. In tutto il mio lavoro, compreso quello sul postumano, ho sottolineato l’impatto innovativo degli studi femministi e LGBTQ+, e degli studi postcoloniali e decoloniali, come snodi intersezionali. Nella loro campagna contro il dualismo costitutivo del pensiero patriarcale e i loro sforzi di percorrere e auspicabilmente superare questa logica e la violenza fallocentrica che la sostiene, le femministe sono state tra le prime a teorizzare un cambiamento qualitativo postumano basato sul continuum tra soggetti politici radicali umani e non umani. Questa tendenza sta acquistando
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forza nelle teorie queer postumane e inumane contemporanee, con un’enfasi speciale sulla “sessualità postumana”. Una specie di alleanza intergalattica di femministe e LGBTQ+ con mostri e alieni sta al cuore del genere della fantascienza horror, che è una delle più seguite tendenze culturali contemporanee. Promuove la composizione di un’alleanza tra donne e LGBTQ+ come “altre/altr*” rispetto all’“uomo”, e altri “altri” in forma di non bianchi (postcoloniali, neri, ebrei, indigeni e soggetti ibridi), organismi non antropomorfi (animali, insetti, piante, alberi, virus e batteri), compresi gli apparati tecnologici e così via – una colossale ibridazione tra specie. Il principale punto di collegamento tra teorie femministe e la svolta critica postumana per me risiede nel concetto delle corporalità, nel senso delle strutture incarnate e situate o radicate, relazionali e affettive di soggettività. La tradizione materialista femminista rappresenta in questo caso l’anello genealogico mancante, che il neomaterialismo femminista contemporaneo sta ulteriormente sviluppando. Anche l’enfasi sull’incarnazione vitale è in gioco, con il pensiero carnale di radice fenomenologica di Vivian Sobchack, oppure nella “materia vibrante” e nella vita inventiva di Jane Bennett. La “performatività” postumana di Karen Barad lascia il posto alla transcorporalità e al divenire multispecie di Stacy Alaimo6. In altre parole, la critica dell’idea umanista e antropocentrica dell’umano ha generato una serie di visioni e valori alternativi. Questo è tanto più vero se teniamo a mente che l’“umano” non è un termine neutro, ma indice di un sistema di accesso a diritti e privilegi mediante processi di “umanizzazione” (cioè di “normalizzazione”) che sono orientati da e consolidano i rapporti dominanti di potere. E quindi sarebbe ingenuo considerare il postumano come una categoria dotata di intrinseche qualità sovversive o liberatorie: il postumano non è post-potere. Al contrario, ho sostenuto che il genere, la razza, la classe e l’età sono categorie che sostengono seri differenziali di potere e che, per affrontarli, noi critici postumani dobbiamo negoziare nuovi assemblaggi o alleanze trasversali. Uno sviluppo significativo in quest’area è la riformulazione dei Disability Studies nella modalità affermativa che va oltre le rivendicazioni egalitarie, proponendo corpi diversamente abili che sfidano gli standard di normalità, e non solo nei termini della normatività, o eteronormatività di genere. E così, a dispetto della retorica negativa, qui non c’è nessuna crisi delle scienze umane, solo una immensa vitalità di spunti. È fondamentale, tuttavia, sottolineare che questi nuovi modelli di produzione del sapere si svolgono nel contesto del capitalismo avanzato. L’economia globale può essere definita postantropocentrica in quanto reagisce a un unico stimolo: la ricerca del profitto. Di conseguenza, unifica tutte le specie sotto l’imperativo del mercato, e i suoi eccessi minacciano la sostenibilità del nostro pianeta come intero. Il capitalismo avanzato investe nel e al tempo stesso sfrutta il controllo scientifico ed economico e la mercificazione di tutto ciò che vive: controlla e ha brevettato i codici genetici di quasi tutti gli organismi, dai semi al DNA di animali e perfino il genoma umano. Questo contesto produce una forma paradossale e abbastanza opportunistica di postantropocentrismo da parte delle forze di mercato e della ricerca scientifica ad esse collegata, che smerciano allegramente i codici della vita stessa.
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L’economia politica opportunistica del capitalismo biogenetico induce quindi, se non l’effettiva cancellazione, quanto meno l’offuscamento della distinzione tra l’umano e le altre specie, quando si tratta di ricavarne un profitto. Semi, piante, animali, virus e batteri rientrano in questa logica di consumo insaziabile, che non esclude diversi elementi umani, che vengono sistematicamente dis-umanizzati. L’unicità dell’anthropos è intrinsecamente ed esplicitamente rimossa da questa logica di mercificazione e consumo del vivente. Ciò che oggi costituisce il valore aggiunto del capitale è il potere informativo della materia vivente stessa, trasposto in banche dati di informazioni biogenetiche, neurali e mediatiche sulle specie e gli individui, come dimostra a un livello più banale Facebook. L’attenzione è rivolta all’accumulo stesso di dati e di informazioni, alle qualità vitali immanenti della materia e alla sua capacità di autorganizzazione. La mia posizione da deleuziana – sarebbe a dire, da pensatrice critica neospinoziana e materialista – è chiara: la materia vivente è contraddistinta da un’ontologia processuale che interagisce in modi complessi e produttivi con ambienti sociali, psichici ed ecologici, producendo molteplici ecologie di appartenenza7. Per scendere a patti con queste nuove conoscenze si impone un cambio di paradigma riguardo all’umano stesso. In questo complesso campo di forze, la soggettività umana deve essere ridefinita come sé relazionale, nomadico, espanso, generato dall’effetto cumulativo, ma non lineare, né dialettico, di tutti questi fattori8. Inoltre, la capacità relazionale del soggetto postantropocentrico non è ristretta all’interno della nostra specie, ma include molti elementi non antropomorfici: la forza profondamente non umana della vita definita come zoe. Non potenza trascendentale, ma forza immanente trasversale che attraversa e riconnette specie, categorie e dominii, la vita vive, prima, dopo, sotto e sopra la specie umana. Quest’egualitarismo fondato sulla zoe – la vita non umana – è il nucleo della svolta femminista postumana, nel senso di postumanista e postantropocentrica. Si tratta di una risposta materialista, secolare, situata e non sentimentale alla mercificazione opportunistica della vita di tutte le specie, che costituisce la logica del capitalismo cosiddetto “avanzato”. U N A P P R O C C IO M AT E R I A L I S TA V I TA L I S TA
La teoria critica postumana, nella mia prospettiva, è neomaterialista. Poggia sulle ontologie processuali fondate sulla rivalutazione di Spinoza elaborata dai filosofi francesi a partire dagli anni Settanta9, che mette in primo piano la positività della differenza come processo di modulazione differenziale all’interno di una materia comune. Il concetto chiave è che la materia – compresa la quantità specifica di materia formulata e formalizzata negli organismi che costituiscono gli esseri umani stessi – non è organizzata in opposizioni dualistiche tipo mente/corpo, ma si dispiega invece come soggetto in processo, incarnato e situato materialmente. Quindi si tratta di pensare allo stesso tempo i processi di differenziazione e i rispettivi posizionamenti che inducono negli esseri viventi – che richiamano le monadi o prospettive di Leibniz – e l’appartenenza a una materia comune. Questa enfasi sull’univocità della vita non nega dunque il potere delle differenze, ma sostiene piuttosto che esse non sono più strutturate secondo il principio dialettico di opposizione interna o esterna. Quindi non funzionano in modo gerarchico o verticale, ma si sono riorganizzate in strutture orizzontali, che distribuiscono il potere in altri modi. Un pensiero materialista postumano critico consiste dunque nel ridefinire e attivare il concetto stesso di materialismo, definendo la materia come vitale e intelligente, o capace di autorganizzazione, producendo in tal modo la combinazione provocatoria del “materialismo vitalista” o “immanenza radicale”10. Il materialismo vitalista enfatizza l’incarnazione del corpo nella mente e della mente nel corpo: essendo una e immanente a se stessa, la materia si autorganizza negli organismi umani come non umani, ed è spinta dal desiderio ontologico di espressione della sua libertà più intima e costitutiva (conatus).
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Tale approccio offre il vantaggio di ridefinire le tradizionali opposizioni binarie, come natura/cultura e umano/non umano, aprendo la strada a una relazione orizzontale e non gerarchica e quindi anche più egualitaria, tra membri di una stessa specie e anche di specie diverse. Le tradizioni critiche femminista e antirazzista avevano già preparato il terreno, staccando le rivendicazioni della differenza dalle gerarchie della dialettica classica, che non era stata in grado di onorare la loro carica affermativa. La visione – hegeliana ma anche marxista – della differenza come sistema dialettico o opposizionale ha avuto la conseguenza di ridurre intere sezioni di esseri viventi a corpi marginali e sacrificabili: questi sono altri sessualizzati11, razzializzati e naturalizzati che storicamente hanno vissuto la differenza come marchio negativo e continuano a essere stigmatizzati da questa negatività12. In contrasto con la carica negativa delle opposizioni dialettiche, il materialismo vitalista postumano incoraggia la politica nomade del “divenire-minoritario” attraverso una politica di affermazione che ribadisce una visione dinamica e non deterministica della materia come forza relazionale molteplice, multidirezionale. L’enfasi è sulla forza della relazionalità, che non è un modo di negare l’antagonismo, ma piuttosto un metodo diverso per rielaborarlo, a partire dalla specificità dei propri posizionamenti dentro la complessa rete di rapporti sociali che compongono il sé. Questo sé non è un’entità atomizzata ma un soggetto relazionale non unitario, nomade e rivolto all’esterno. La trasversalità è un modo di attualizzare il primato della relazione, dell’interdipendenza e della co-creazione, con un’enfasi sulla vita non umana o a-umana: ciò che conta è la forza e l’autonomia dell’affetto e la logistica della sua attualizzazione13. La trasversalità nomade attualizza l’egualitarismo centrato sulla zoe14. Un altro vantaggio significativo di questo materialismo vitalista postumano è che, introducendo una visione inclusiva postantropocentrica della soggettività, esso accoglie anche gli agenti non umani. Le teorie neomaterialiste vitaliste conducono a un approccio produttivo centrato sulla zoe che ci incoraggia a mettere in questione la violenza e il pensiero gerarchico sorti dall’arroganza umana e dal presupposto dell’eccezionalismo umano trascendentale. La relazionalità materialista riesce ad attivare l’etica postumana come co-costruzione collaborativa e relazionale di soggettività trasversale15. Sul piano metodologico, costruisce anche legami teorici e politici con le epistemologie non occidentali e soprattutto con l’antico campo dei sistemi di conoscenza indigeni, che propongono modalità alternative di co-esistenza con i non umani, di rapporto con l’ambiente e di appartenenza ecosofica16. Per estensione, le ontologie materialiste vitaliste sostengono il nuovo continuum ecologico “natura-cultura-media”, e dissolvono la separazione categorica tra entità naturali e manufatti costruiti. Questo è uno degli aspetti più radicali della teoria critica postumana, in particolare nella misura in cui mette in discussione questa divisione categorica, proponendo in alternativa una classificazione di tutte le entità – cose, oggetti e organismi umani compresi – in termini di forze e impatto sulle altre entità del mondo. In altre parole, un dibattito etico relazionale sulle forze, invece di un discorso su origini e causalità, produce uno spostamento dei sistemi di valori – anche morali ed epistemici – fondati sulla visione antropocentrica del mondo. Inoltre, questo approccio rende possibile espandere il continuum natura-cultura in modo da includere le reti mediatiche e digitali, ovvero le “ecologie dei media”17. Le reti digitali possono essere interpretate come materia vivente non organica, che genera un continuum di sistemi autorganizzanti – di intelligenze dette “artificiali” e di macchine che reagiscono a vivo e in tempi reali. Si tratta di un’ecologia generale di tipo ambientale, tecnologico, sociale, psichico e altro. Non solo facciamo tutti “parte della natura”18, ma abitiamo le naturecultures di Haraway – che sono tecnologicamente mediate e globalmente interconnesse. Tutta la materia vivente è oggi mediata lungo assi molteplici: siamo immersi nelle medianatures 19 e la tecnologia è la nostra seconda natura.
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T E OR I A C R I T ICA P O S T U M A NA
L’approccio cartografico incoraggia un’argomentazione di stampo epistemologico e politico che è in grado di ridefinire la missione delle scienze umane contemporanee20. I criteri fondamentali che caratterizzano questa ridefinizione sono: la precisione cartografica, l’importanza di alleare la funzione critica con le figurazioni creative, l’etica dell’affermazione, la transdisciplinarità, il principio della non linearità, il potere di memoria e immaginazione, e il metodo tattico della defamiliarizzazione21. Consentitemi di illustrarne almeno alcuni. Partiamo dalle temporalità diffuse della condizione postumana. In una filosofia materialista vitalista del divenire il passato viene ricomposto come azione o praxis nel presente, sdoppiato come divenire attuale e virtuale. Questa intensità è al tempo stesso prima e dopo di noi, sia passata sia futura, in un flusso o processo di mutazione, differenziazione o divenire. Il pensiero critico postumano richiede un quadro di riferimento più ampio e un arco temporale che attivi la memoria come forza creativa. Questo ci consente un’apertura affettiva non solo temporale, ma anche spaziale, verso la dimensione geofilosofica o planetaria della “caosmosi”, come la chiama Guattari. Il soggetto pensante è un processo in divenire, in costante trasformazione, situato sulla soglia di atti gratuiti (principio del non-profit) e non strumentali (principio della mobilità o flusso nomade) che esprimono l’energia vitale del divenire trasformativo (principio di non linearità). Queste proprietà definiscono anche il concetto di virtuale nel pensiero di Deleuze e specialmente la prassi dell’attualizzazione del virtuale attraverso l’azione collettiva. Il principio etico-politico è proprio l’attualizzazione dell’intensità delle forze e relazioni affettive che focalizzano il desiderio di cambiamento e lo attivano in azione, movimento, intervento. Ma tra tutti i criteri che gestiscono la teoria critica postumana, il più importante è il metodo tattico della defamiliarizzazione, vale a dire lo sganciamento del soggetto dai modelli identitari familiari e consueti. Elaborato dal pensiero femminista e postcoloniale come metodo centrale per la critica delle formazioni dominanti dei soggetti, il progetto di defamiliarizzare le nostre abitudini di pensiero e di vita attualizza la critica delle diverse formazioni del potere, a partire da quelle che ci costituiscono, che abitiamo e a cui siamo abituati. Staccarci da loro ci permette di evolvere verso una struttura di pensiero postumano. Di conseguenza, queste disidentificazioni avvengono lungo gli stessi assi che avevano strutturato le esclusioni gerarchiche, cioè del divenire-donna/LBGTQ+ (sessualizzazione), divenirealtro-dall’-europeo (razzializzazione), e divenire-animale o -terra (naturalizzazione)22. Alcune di queste deterritorializzazioni coinvolgono agenti antropomorfi, mentre il processo di divenire-animale/terra esige una rottura più drastica con gli schemi consolidati di pensiero antropocentrico e introduce una dimensione planetaria radicalmente immanente. Il pensiero critico postumano si impone il dovere di rendere conto dei nostri deficit etici relazionali, in particolare nei confronti delle persone che sono etichettate come “differenti”, e quindi “altrimenti” umane, oltre che degli altri non antropomorfi. Il quadro etico di riferimento diventa il mondo, con tutti i suoi flussi di divenire indeterminati, interrelazionali, transnazionali, multisessuali, transpecie: una forma nativa o indigena di cosmopolitismo23. Questi criteri, e specialmente la disidentificazione dai canoni dell’umanesimo e dell’antropocentrismo, definiscono una teoria critica postumana che è indissociabile da un’etica, che esige rispetto per le complessità del mondo della vita reale in cui stiamo vivendo. Un’etica affermativa che inoltre è disposta a tradurre e introdurre questa complessità nelle strutture della conoscenza accademica che definiscono le scienze dette “umane”. Credo veramente che l’università contemporanea debba evolvere verso quelle che chiamo “scienze postumane critiche”, con cui intendo una forma intensiva di interdisciplinarità, trasversalità e sconfinamento tra un insieme di discorsi. La teoria critica postumana si traduce in gradi più alti
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di ibridazione inter/transdisciplinare e comporta una intensa defamiliarizzazione delle nostre abitudini di pensiero, attraverso incontri nomadi che sovvertono i protocolli della ragione istituzionale. Una visione della materia come autopoietica comporta quindi una revisione del soggetto di conoscenza come singolarità complessa, assemblaggio affettivo ed entità relazionale vitalista24. Sono questi gli elementi costitutivi delle trasformazioni qualitative indotte dalla teoria critica postumana, in contrasto con una semplice proliferazione quantitativa di nuovi oggetti di studio non umani. Nuovi modelli istituzionali vengono proposti nell’attuale dibattito pubblico sul futuro dell’università, comprese strutture alternative. Ad esempio, il Future of Humanity Institute dell’Università di Oxford incarna il modello transumanista tramite un programma chiamato “Superintelligence”, che combina la fede umanista nella perfettibilità dell’uomo mediante la razionalità scientifica, con un programma di estensione dell’umano attraverso la tecnologia. In uno splendido tributo alla visione dominante della scienza – e alla logica del profitto aziendale –, il direttore Nick Bostrom dichiara la sua fedeltà all’Illuminismo europeo nel combinare la ricerca sui sistemi neuronali con la robotica e le scienze computazionali, la psicologia clinica e la filosofia analitica. In questo progetto transumanista viene prodotto un nuovo tipo di soggettività, come entità superumana meta-razionalista. Il mio pensiero critico postumano invece propone altre piste di ricerca. Io vorrei difendere un approccio diverso, radicato nell’etica affermativa materialista e fondato su un concetto di materia come entità vivente capace di interconnessioni immanenti. Il compito della teoria critica postumana è attivare i soggetti per farli entrare in nuovi assemblaggi affettivi, per spingerli a co-creare alleanze e forze etiche, e codici politici alternativi. La teoria critica postumana segna la fine di quelle che Vandana Shiva ha battezzato “monoculture della mente”25 e persegue la politica radicale del posizionamento, della decolonizzazione e dell’analisi delle forme sociali di esclusione nell’attuale ordine mondiale di “biopirateria”26, “necropolitica”27 ed espropriazione globale28. Pone inoltre in primo piano la soggettività all’interno di un dibattito pubblico sulle nuove tecnologie che spesso elimina questo fattore, dichiarando la soggettività un residuo del vecchio mondo. Ma senza una pratica effettiva della soggettività non possiamo proporre né un’etica né una prassi politica degna del nostro tempo. Perciò io affermo che il soggetto critico postumano è un complesso assemblaggio di umano e non umano, planetario e cosmico, dato e costruito, che richiede una defamiliarizzazione dai modi tradizionali di pensare. La pensatrice critica postumana resta impegnata per la giustizia sociale e, pur riconoscendo l’attrazione fatale della mediazione globale, difficilmente dimenticherà che un terzo della popolazione mondiale non ha nemmeno accesso all’elettricità. C ONC LU S ION E : R IC OM P OR R E L’ U M A N I TÀ
La teoria critica postumana propone di resistere a qualsiasi sintesi: nessuna conclusione è permessa o data per scontata quando si tratta di valutare gli effetti della transizione che l’“umano” e l’“umanità” stanno attraversando in questo momento. È importante invece concentrarsi sulle modalità possibili per
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rendere conto dei processi di trasformazione in corso. Sarebbe falso assumere che la convergenza postumana implichi dei valori intrinsecamente progressisti o rivoluzionari. È addirittura rischioso credere che essa possa smontare automaticamente i rapporti di potere basati su classe, genere, razza, sessualità, età o disabilità29. Ci sono anzi molte e sempre più numerose prove che fanno presagire l’esatto contrario. Ho già sostenuto che quello che ci serve, piuttosto, sono accurati resoconti cartografici delle nuove umanità emergenti. Ci servono nuove posizioni soggettive come alleanze trasversali tra agenti umani e non umani, che potrebbero dare conto dell’ubiquità della mediazione tecnologica e della complessità delle alleanze interspecie, pur sottolineando modelli ricorrenti di esclusione ed emarginazione. Nel mio quadro concettuale, critico, il “noi” postumano non deve essere dato per scontato, ma costruito nella pratica concreta del divenire-postumano come un assemblaggio collettivo. In effetti, “noi” stiamo affrontando insieme questa convergenza postumana. Ma “noi” non siamo la stessa cosa, in termini di posizionamento, potere, responsabilità, potestas e potentia. Il capitalismo avanzato è postantropocentrico in quanto unifica tutte le specie sotto l’imperativo del mercato, e i suoi eccessi minacciano la sostenibilità dell’intero pianeta. Ma nell’era dell’Antropocene, questo stesso sistema si dichiara pure neoumanista nel voler forgiare un nuovo legame panumano, fatto di vulnerabilità e paura dell’estinzione. L’umanità diventa così una categoria al tempo stesso instabile e profondamente controversa nel nostro presente postumano dell’Antropocene. Contro il panumanesimo capitalista, sostengo che “noi” ha senso solo come prassi, cioè entità a venire. Non è il ritorno dell’universalismo umanista, piuttosto un’impresa portata avanti attraverso un progetto condiviso da una collettività trasversale, che mira ad attualizzare un virtuale definito collettivamente. Questo processo eterogeneo di divenire richiede la formazione di un nuovo soggetto politico, cioè il progetto di assemblare un popolo mancante. Partendo dalle filosofie dell’immanenza radicale, dal neomaterialismo e dalla politica femminista del posizionamento, ho proposto cartografie incarnate e situate, relazionali e affettive dei nuovi rapporti di potere che stanno emergendo dall’attuale ordine geopolitico postumano. Invece di abbracciare l’idea di una nuova panumanità, legata da una vulnerabilità condivisa e da un’ansia sulla sopravvivenza e l’estinzione, in quella che Ulrich Beck chiama la “società del rischio globale”, vorrei difendere un prospettivismo critico, collegato a una politica affermativa che mette in primo piano le interconnessioni immanenti ed eterogenee: un’etica transnazionale dello spazio, dei luoghi e dei tempi. Il postumano come figura concettuale e strumento di navigazione esprime la dimensione etica affermativa del divenire-postumano come gesto di autodefinizione collettiva, o specificazione reciproca. Attualizza una comunità che è situata e dunque non universalista, non collegata negativamente dalla vulnerabilità condivisa, dal senso di colpa per un’ancestrale violenza originaria, o una malinconia di stampo ontologico. Penso invece a comunità eterogenee di umani e non umani, alleate sulla base del riconoscimento della reciproca e mutua interdipendenza. Questa soggettività complessa implica molteplici “altri” che per la maggior parte, nell’era dell’Antropocene, non sono antropomorfi. Rifiuto un riavvicinamento all’universalismo eurocentrico, ma considerando la portata globale dei problemi nell’era della convergenza postumana – tra i quali la pandemia che ha decimato i soggetti più vulnerabli e marginalizzati –, riconosco l’importanza di tracciare alcune linee generiche comuni. L’imperativo etico fondamentale è rifiutare di occultare i differenziali di potere che continuano a dividerci. In questo complesso passaggio verso la condizione postumana, in un momento doloroso ma anche colmo di aspettative, credo che, all’interno della ricomposizione postumana dell’“umano”, ci siano in ballo progetti molteplici e potenzialmente contraddittori, molti modi e prospettive per divenire-postumani.
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Rosi Braidotti si è formata all’Australian National University e ha conseguito il dottorato presso l’Università Sorbona di Parigi. È docente universitaria ed è stata fondatrice e direttrice del Centro per le scienze umane all’Università di Utrecht dal 2007 al 2016. Tra le sue pubblicazioni più importanti: Nomadic Subjects (2011; tr. it. Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, 1995) e Nomadic Theory (2011), entrambi editi da Columbia University Press; The Posthuman (2013; tr. it. Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, 2014) e Posthuman Knowledge (2019), entrambi per Polity Press. Nel 2016 ha co-curato Conflicting Humanities con Paul Gilroy, e nel 2018 Posthuman Glossary con Maria Hlavajova, entrambi per Bloomsbury Academic. È membro dell’Australian Academy of the Humanities, dell’Academia Europaea ed è cavaliere dell’Ordine del Leone dei Paesi Bassi.
Teoria critica postumana è la traduzione dell’articolo Posthuman Critical Theory pubblicato in “Journal of Posthuman Studies”, 1(1), 2017, 9–25. Tradotto, rivisto e ristampato per concessione dell’editore e dell’autrice. Copyright © 2017 Pennsylvania State University Press.
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Il chimico e Premio Nobel Paul Crutzen ha coniato il termine “Antropocene” nel 2000 per descrivere l’attuale era geologica in termini di impatto umano sulla sostenibilità del pianeta. L’adozione di “Antropocene” come termine scientifico è stata ufficialmente raccomandata dall’Associazione geologica internazionale a Cape Town nell’agosto 2016. Donna Haraway, The Companion Species Manifesto: Dogs, People, and Significant Otherness, Chicago, Prickly Paradigm Press, 2003. Rosi Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade, a cura di Anna Maria Crispino, Roma, Luca Sossella, 2008. Félix Guattari, Franco La Cecla et al., Le tre ecologie, Milano, Sonda, 2019. Rosi Braidotti, The Contested Posthumanities, in Conflicting Humanities, a cura di Rosi Braidotti e Paul Gilroy, New York, Bloomsbury Academic, 2016, 9–45. Vivian Sobchack, Carnal Thoughts: Embodiment and Moving Image Culture, Berkeley, University of California Press, 2004; Jane Bennett, Vibrant Matter: A Political Ecology of Things, Durham (NC), Duke University Press, 2010; Karen Barad, Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to Matter, in “Signs”, 28(3), 2003, 801–831; Stacy Alaimo, Bodily Natures: Science, Environment, and
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Jadé Fadojutimi, Even an awkward smile can sprout beyond the sun, 2021. Olio, colore a olio, acrilico su tela. 200 × 170 cm. Photo Mark Blower. Collezione privata, Los Angeles. Courtesy l’Artista; Pippy Houldsworth Gallery, London. © Jadé Fadojutimi 2021
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Padiglione Centrale
J A D É FA D O J U T I M I
1993, Londra Vive a Londra, UK
I dipinti su scala monumentale dell’artista britannica Jadé Fadojutimi danno vita ad ambienti immersivi, plasmati da emozioni e ricordi. Già da adolescente, Fadojutimi sviluppa una persistente ossessione nei confronti della cultura pop giapponese. Oggi dipinge spesso al ritmo delle colonne sonore di videogiochi o anime giapponesi, mezzi di comunicazione che, travalicando i tipici racconti eroici, indagano un ampio spettro di emozioni ed esperienze. I momenti nostalgici che Fadojutimi vive nell’atto di dipingere – provenienti anche da ricordi d’infanzia o perfino dagli abiti nel suo guardaroba – trapelano nelle sue tele attraverso una gestualità esplosiva e un intenso uso del colore. Prendendo intuitivamente forma dai frammenti di pensiero e dalle esperienze dell’artista, i suoi dipinti – talvolta portati a termine nel corso di un’unica sessione – dimostrano un senso di liberazione dalle costrizioni dell’identità, lasciando spazio a una soggettività molteplice. Accostandosi a ogni dipinto con un atteggiamento simile al shoshin, il concetto giapponese che significa “la mente del novizio”, Fadojutimi consente agli oggetti quotidiani che popolano la realtà di rendersi irriconoscibili (un osservatore attento potrebbe scorgere oggetti quali calze e cappelli, materiali stampati o la vaga allusione alle linee di un paesaggio), affermando così le proprie qualità trascendenti e metafisiche. Nei suoi dipinti ricorre la combinazione di forme aggrovigliate, tra cui ovali e linee decise ottenute attraverso performanti movimenti esplosivi: l’insieme che ne consegue evoca paesaggi interiori. Attraverso rapide pennellate a strati nei toni del viola sontuoso, arancio acceso, verde acido, blu intenso e giallo brillante, Fadojutimi crea composizioni complesse che oscillano tra la raffigurazione e l’astrazione, dove l’una si dissolve nell’altra. Composti con la forza di movimenti dirompenti, i dipinti di Fadojutimi presentano espressioni istintive, prospettive e percezioni che lottano con il concetto di identità e appartenenza, aprendosi a dimensioni e realtà alternative. Recentemente trasferitasi in uno studio con soffitti alti sei metri, Fadojutimi è oggi in grado di dipingere su una scala che fino a poco tempo fa poteva solo immaginare. Per Il latte dei sogni, ha realizzato tre nuovi dipinti dalle dimensioni ambiziose e monumentali (The Prolific Beauty of Our Panicked Landscape; And that day, she remembered how to purr; e Rebirth; tutti del 2022). Queste opere valorizzano la qualità immersiva centrale nella sua pratica: invece di essere oggetti da osservare a distanza, i dipinti diventano luoghi o momenti all’interno dei quali o accanto ai quali l’osservatore può esistere. – LC & IW
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Jadé Fadojutimi, A Bird’s-Eye View of The Fields of Doubt, 2021. Olio, colore a olio, acrilico su tela. 200 × 300 cm. Collezione privata, California. Photo Mark Blower. Courtesy l’Artista; Taka Ishii Gallery, Tokyo. © Jadé Fadojutimi 2021
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Padiglione Centrale
Jadé Fadojutimi, There exists a glorious world. Its name? The Land of Sustainable Burdens, 2020. Olio, colore a olio, acrilico su tela, 190 × 230 cm. Photo Mark Blower. Courtesy l’Artista; Pippy Houldsworth Gallery, London. © Jadé Fadojutimi 2021 Jadé Fadojutimi, Vital Abundance, 2020. Olio, colore a olio su tela, 110 × 140 cm. Photo Mark Blower. Baltimore Museum of Art Collection. Courtesy l’Artista; Pippy Houldsworth Gallery, London. © Jadé Fadojutimi 2021
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Padiglione Centrale
JULIA PHILLIPS
1985, Amburgo, Germania Vive a Chicago, USA e Berlino, Germania
I titoli delle sculture di Julia Phillips fungono da registro di azioni potenziali: Manipulator, Protector, Muter, Extruder, Mediator, Negotiator, Distancer. Pur radicate nella loro presenza fisica, queste opere, principalmente modellate in ceramica dalle delicate tinte color carne e in pezzi di materiale metallico, risentono profondamente dell’influenza di tale strumentalizzazione del linguaggio; i loro stessi nomi implicano una presenza fantasma che esegue un’azione o che la subisce. Anche dal punto di vista formale, le sculture di Phillips mantengono la suggestione del corpo anonimo, assente o invisibile, rilevabile sia negli spazi cavi e negativi lasciati dai calchi frammentati di colli, clavicole e nuche, sia attraverso dispositivi ricorrenti quali fibbie, cinghie, dadi a farfalla, maschere e maniglie, che alludono al corpo anche quando questo non è ritratto. Nonostante si insinui un barlume di funzionalità – che sia medica, industriale, disciplinare o ricreativa – questi apparati, simili a strumenti, non sono pensati per essere usati. Anzi, la loro disposizione materiale, linguistica e metaforica induce nel fruitore una profonda eco psicologica, sebbene intenzionalmente ambigua, alludendo ai sistemi di potere o di controllo minuzioso che esistono a livello sociopolitico, istituzionale e interpersonale. Se nelle opere precedenti Phillips si è occupata delle relazioni di potere, sia antagoniste sia concilianti, fra molteplici entità o persone, la sua recente serie di sculture datata (2021–2022) – Veiled Purifier, Bower e Stabilizer – sposta l’attenzione sulla relazione dell’individuo con se stesso. Nell’inserire questo gruppo di opere specificamente all’interno di una dimensione spirituale, Phillips adatta i titoli affinché descrivano uno stato di introversione, caratteristico della preghiera. In Veiled Purifier, l’interiorità si esprime dal punto di vista formale con il ricorso al tessuto. Disposta su una base di tessere di mosaico ispirata ai motivi della Basilica di San Marco e raccolta in un velo, l’opera ha la connotazione di un corpo che guarda all’interno di se stesso. Anche Bower adotta elementi architettonici derivanti dalle chiese veneziane per evocare l’alto grado di interiorità cui i singoli possono accedere in questi luoghi spirituali. Qui, una scultura in ceramica e ottone, realizzata a partire da impronte della fronte, del viso e della parte lombare della schiena, allude al gesto dell’inchino. Montata su uno schema di piastrelle in pietra ispirato ai pavimenti della Basilica cinquecentesca di San Giorgio Maggiore, l’esperienza psichica della spiritualità viene estesa al corpo, anche in sua parziale assenza. – MW
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Julia Phillips, Veiled Purifier, 2021–2022. Ceramica, seta, bronzo, marmo, dimensioni variabili. Courtesy Matthew Marks Gallery. © Julia Phillips
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Padiglione Centrale
Julia Phillips, Bower, 2021–2022. Ceramica, bronzo, granito, oggetti in nylon, dimensioni variabili. Courtesy Matthew Marks Gallery. © Julia Phillips
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Julia Phillips, Stabilizer, 2021–2022. Ceramica, bronzo, teca in vetro, 137 × 61 × 28 cm. Courtesy Matthew Marks Gallery. © Julia Phillips
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C H A R L I N E VO N H E Y L
1960, Magonza, Germania Vive a New York City e Marfa, USA In collaborazione con Matt Haimovitz e Jeffrianne Young del Primavera Project
Lavorare come pittrice nel complesso e vivace mondo dell’arte nella Colonia degli anni Ottanta ha portato Charline von Heyl a credere ancora più fermamente nell’importanza del mezzo espressivo da lei scelto. Oltre ad artiste e artisti come Martin Kippenberger, Albert Oehlen e Rosemarie Trockel, la cerchia di von Heyl a Colonia include gli autorevoli critici Diedrich Diederichsen e Isabelle Graw, fondatrice del periodico “TEXTE ZUR KUNST”. Nel 1990 entra a far parte dell’allora Galerie Christian Nagel, dove artiste e artisti come Mark Dion e Andrea Fraser espongono opere decisamente post-pittoriche e concettuali. Caratterizzate da righe, griglie e zigzag, spazi privi di profondità e fondali approssimativi, immagini figurative, strisce a carboncino e intenzionali gocciolamenti di colore, le opere di von Heyl sono ribelli e vivaci, pur restando fedeli alle potenzialità della pittura contemporanea. Le otto opere qui esposte fanno riferimento al mito greco di Zefiro, dio del vento di ponente, e della ninfa Clori, il cui matrimonio con Zefiro le garantisce il dominio sulla primavera; una storia notoriamente riproposta attorno al 1470 come allegoria matrimoniale nel dipinto Primavera di Sandro Botticelli. Von Heyl realizza la serie in collaborazione con Jeffrianne Young e con il violoncellista nominato ai Grammy Matt Haimovitz, che insieme danno vita al Primavera Project: una serie di esecuzioni musicali realizzate da un gruppo di compositori che reinventano il magico enigma elaborato nel quadro di Botticelli. Reinterpretando la libera commistione di immagini dell’antichità e dell’era cristiana – pratica comune ai tempi di Botticelli –, questi dipinti esplorano temi quali la fanciullezza femminile, la trasformazione, il desiderio e l’ambivalenza con affascinanti risultati visivi. The Nymphs (2020) – che cattura l’ambiguo erotismo dello sguardo – e Pagan Prophet (2021) sono stati realizzati con vernice a interferenza, il cui colore sembra cambiare a seconda dell’angolazione da cui si osserva l’opera. Von Heyl trasporta l’antica mitologia anche in eventi recenti: The August Complex (2020) stabilisce un legame intuitivo tra Flora, il nome assunto da Clori in seguito alla sua trasformazione, e la flora e la fauna distrutte nel 2020 dai devastanti incendi che hanno flagellato la California del Nord. Utilizzando immagini in eccesso, composizioni istintive e il coinvolgimento critico nei confronti delle metafore pittoriche di bellezza e soggettività, von Heyl ridefinisce sistematicamente i confini della pittura contemporanea, approcciandola, come lei stessa afferma, come l’atto di “tradurre i pensieri in forme silenziose”. – IW
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Charline von Heyl, Pagan Prophet, 2021. Acrilico su lino, 208,28 × 187,96 cm. Photo Alex Marks. Courtesy l’Artista; Petzel, New York
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Charline von Heyl per Matt Haimovitz e Jeffrianne Young del Primavera Project, Primavera 2020, 2020. Acrilico, carboncino su lino, 208,3 × 558,8 cm. Courtesy l’Artista; Petzel, New York
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SARA ENRICO
1979, Biella, Italia Vive a Torino, Italia
La tuta intera a forma di “T” viene inventata dall’artista futurista Thayaht (pseudonimo di Ernesto Michahelles) nel 1919 con l’intento di realizzare un indumento che fosse in relazione armonica con il corpo. Nei cent’anni trascorsi da allora, la tuta è divenuta un capo di vestiario simbolico: iconica quando indossata su un palcoscenico o sul red carpet, flessibile nella sua neutralità rispetto ai generi, pratica uniforme degli operai, infamante divisa dei detenuti. Come avviene per la moda in generale, la tuta assume una dimensione rappresentativa che muta a seconda di come e perché la si indossa. La copiosa storia e iconografia della tuta è ulteriormente arricchita dalla serie di installazioni scultoree dell’artista Sara Enrico intitolata The Jumpsuit Theme (2017–in corso). Sperimentando la tuta a un livello materico profondo, Enrico avvia un raffronto tra abbigliamento e scultura, indagando come entrambi interagiscano fisicamente con il mondo circostante ed evochino nuovi modi di comunicare, spesso più intimi e personali rispetto ad altre forme di linguaggio. L’interesse dell’artista si concentra sulla pausa, sull’inattività, il momento in cui il corpo rifiuta di funzionare a livelli iperprestazionali e, invece, ricade in uno stato di beato inutilizzo. In questa iterazione dell’installazione, le sculture, create versando cemento pigmentato in una cassaforma morbida di tessuto tecnico realizzato in laboratorio, appaiono comodamente sdraiate sul pavimento, come appisolate. Modellate da abiti usati che donano loro una forma approssimativamente umana, queste sculture sono lunghe e dinoccolate, con una consistenza simile a pelle, risultato del lungo processo di colata. La realizzazione dell’installazione è complessa ed Enrico si è avvalsa dell’assistenza di tecnici esperti in costruzioni e sartoria. L’artista e i suoi collaboratori lavorano i materiali – e i concetti – attraverso strati multipli di trasformazione, raccogliendo e rilasciando energia fisica, fino a quando gli oggetti si fermano e giacciono, completamente immobili. – IA
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Sara Enrico, The Jumpsuit Theme, 2022. Cemento, pigmento, 33 × 125 × 35 cm. Photo Cristina Leoncini. Courtesy l’Artista
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JAC Q U E L I N E H U M P H R I E S
1960, New Orleans, USA Vive a New York City, USA
Jacqueline Humphries si forma come pittrice a New York negli anni Ottanta, in un periodo in cui molti esponenti dell’establishment artistico guardano alla pittura con grande sospetto. All’epoca in cui è studentessa nell’ambito dell’Independent Study Program del Whitney Museum, un programma dall’approccio notoriamente teorico, molti dei suoi compagni, che applicano critiche concettuali postmoderne ai media e alla rappresentazione, considerano la pittura, come si suol dire, “morta”; dipingere, come ha dichiarato la stessa Humphries, era un “suicidio artistico”. Nonostante l’ortodossia teorica di quel momento, per oltre trent’anni Humphries – insieme a un gruppo di artiste fra cui Charline von Heyl, Jutta Koether, Laura Owens e Amy Sillman – riesce ugualmente a stravolgere le tradizioni dell’astrazione pittorica a dispetto della cosiddetta “obsolescenza” dei supporti, sfidando gli assunti tradizionali sulla capacità di questo medium di porsi in modo critico e tracciando nuovi percorsi che portano a un’espansione del significato della pittura. In particolare, Humphries è attenta alla relazione fra astrazione e tecnologia, e molti dei suoi dipinti riflettono inevitabilmente sul misterioso divario fra gli oggetti e le loro rappresentazioni da un lato, e i materiali e la materialità della creazione di immagini dall’altro. Nei primi anni Duemila inizia a creare opere di grandi dimensioni che traggono ispirazione dalla luce proiettata dagli schermi dei computer sui volti degli utenti, usando i colori non riflettenti argento e nero per riprodurre quel misterioso senso di attrazione che si avverte quando si è di fronte al bagliore artificiale di un monitor. Nell’ultimo decennio prende a includere linguaggi e segni rubati dalla tecnologia, come ASCII, CAPTCHA, emoticon ed emoji, nel tentativo di sondare fino a che punto la pittura sia in grado di agire da interfaccia allo stesso modo per l’espressione e per l’incorporeità. Alcune delle sue opere si fondano su un denso strato di simboli tratti dall’ASCII, sistema di codifica basato su caratteri inventato per la comunicazione elettronica negli anni Sessanta; altri si inseriscono in griglie di smiley accuratamente dipinti. Visti insieme, i segni acquisiti dal mondo digitale e i simboli associati a quello espressionistico assumono un tenore ambiguo. Un emoticon rappresenta sia un sentimento autentico sia uno superficiale: gioia, risata, cordialità, soddisfazione, irritabilità, noia. Più spesso, tuttavia, rappresenta il nulla. Più di recente, l’artista inizia a elaborare motivi ispirati al rumore bianco. Alludendo alla volatilità delle immagini ricolme di flussi infiniti di dati, la densa materialità dei modelli stencil di Humphries opera come strumento correttivo rispetto all’idea che la nostra cultura su schermo sia puramente virtuale: è anche fisica. – MW
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Jacqueline Humphries, (#J^^):), 2017. Olio su lino, 254 × 281,9 cm. Photo Jason Mandella. Glenstone Museum. Courtesy l’Artista; Greene Naftali Gallery, New York, © Jacqueline Humphries Pagine successive: Jacqueline Humphries, JHWx, 2021. Olio su lino, 5 pannelli, 281,9 × 254 cm ciascuno. Photo Ron Amstutz. Collezione Glenstone Museum. Courtesy l’Artista; Greene Naftali, New York. © Jacqueline Humphries
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C A R LA AC C A R D I
1924, Trapani, Italia – 2014, Roma, Italia
Artista originalissima nel panorama del secondo dopoguerra italiano, sin dai primi anni del periodo postbellico Carla Accardi contribuisce all’elaborazione di una filosofia e uno stile innovativi per l’astrazione artistica. Ammirata soprattutto per l’esuberanza e l’audacia cromatica dei dipinti realizzati tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta, nelle sue sperimentazioni Accardi esplora temi quali materia, forma, spazio e colore realizzando opere improntate a problematiche linguistiche e influenzate dalla sua militanza marxista e femminista. Nel 1946 Accardi si trasferisce a Roma dove con alcuni amici e colleghi, tra cui il marito Antonio Sanfilippo, fonda in breve tempo il Gruppo Forma 1, di ispirazione marxista. Nel manifesto – di cui peraltro Accardi è l’unica donna firmataria –, così come nelle successive dichiarazioni artistiche, i componenti del collettivo delineano un mezzo per conciliare la politica marxista e l’astrattismo, sottraendosi al contempo al determinismo della geometria. Se i primi dipinti di Accardi raffigurano incastri di forme geometriche, a partire dagli anni Sessanta l’artista accentua l’interazione tra diversi piani spaziali usando pigmentazioni più intense e sostituendo la tela con il sicofoil, un materiale plastico traslucido per imballaggi. In Senza titolo (1967), opera caratterizzata dal marcato orientamento orizzontale, la trasparenza del materiale infonde ai tratti verde fluore-scente un potente carattere ambientale, enfatizzando al contempo la fisicità del supporto, grazie ai listelli del telaio in legno che rimangono ben visibili. In tutti i suoi dipinti, tanto quelli realizzati su sicofoil quanto quelli più tradizionali come le tempere e gli smalti su tela, Accardi dimostra una radicale ristrutturazione delle possibilità intrinseche nel rapporto tra arte e linguaggio. Opere intense, come Assedio rosso n. 3 (1956) e Verdi azzurro (1962), propongono composizioni opache e fluorescenti in cui simboli, cerchi e volute possono essere percepiti come lettere, parole e locuzioni, sebbene non necessariamente destinati alla lettura. Visto sotto forma di simboli, il linguaggio si emancipa totalmente dalla pagina, dai significati assegnati, dalle fogge prescritte e, in molti casi, da qualunque obbligo di comunicazione. Attraverso la reiterazione dei segni e l’espansione dei tratti, i dipinti di Accardi danno vita a un’esperienza che sfuma i confini tra interno ed esterno, tra guardare e leggere, tra vedere e percepire. – MW
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Carla Accardi, Verdi azzurro, 1962. Tempera alla caseina su carta applicata su tela, 70 × 100 cm. Collezione privata. Courtesy Tornabuoni Arte. © Tornabuoni Arte Pagine successive: Carla Accardi, Assedio rosso n. 3, 1956. Smalto su caseina su tela, 97 × 162 cm. Collezione privata. Courtesy Tornabuoni Arte. © Tornabuoni Arte
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VERA MOLNÁR
1924, Budapest, Ungheria Vive a Parigi, Francia
Tutti i lavori dell’artista ungherese Vera Molnár, anche quelli che le hanno valso il titolo di pioniera nell’ambito dell’Arte Algoritmica e Programmata, conservano l’impronta di una solida formazione accademica e si caratterizzano per un rigore formale simile a quello dei più grandi esponenti delle avanguardie, come László Moholy-Nagy, Piet Mondrian e Paul Klee. Già dai primi anni Cinquanta, pochi anni dopo il suo trasferimento a Parigi del 1947, Molnár affina un’innata attitudine al disegno schematico e realizza una serie di composizioni astratte caratterizzate dalla ripetizione di figure geometriche più o meno codificate. Oltre a rendere omaggio ai maestri moderni con titoli che portano il loro nome, questi primi lavori manifestano una sensibilità contemporanea e si allineano alle ricerche sulla programmazione e combinazione del segno grafico condivise da collettivi artistici in tutta Europa. Unica co-fondatrice donna tra gli esponenti del GRAV (Group de Recherche d’Art Visuel), tra il 1961 e il 1968 Molnár perfeziona il suo linguaggio geometrico completandolo con una gestualità sistematica. I lavori che nascono da queste ricerche prendono il nome di Machines imaginaires e sono il risultato dell’applicazione di una regola preordinata che l’artista segue pedissequamente in tutte le fasi della realizzazione. Prima ancora che lo faccia il dispositivo elettronico qualche anno più tardi, Molnár programma la sua produzione artistica con norme e regole algoritmiche che diventano effettivamente meccaniche solo nel 1968. Ottenuto il permesso di utilizzare il computer appena acquistato dall’Università di Parigi, l’artista comunica con la macchina attraverso codici alfanumerici e, affidandosi alla sua capacità di calcolo e rielaborazione grafica, ottiene la stampa di precisissime composizioni geometriche. Fatta eccezione per la foratura che corre sui lati lunghi del supporto cartaceo, ogni lavoro della serie Computer Drawings (1970–1975 ca.) è diverso dall’altro ed è formato da segmenti, punti e forme che rispondono univocamente alla combinazione di parametri immessi nel dispositivo elettronico. Che si presentino come sequenze di quadrati concentrici, sovrapposizioni apparentemente disordinate di poligoni o configurazioni di segmenti caotici, Molnár è consapevole che questi disegni sono il risultato di un dialogo tra l’essere umano e la macchina e, giocando sugli equilibri di questa strana comunicazione, rende il primo più capace e la seconda più sensibile. – SM
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Vera Molnár, Histoire d’I (rif. E), 1977. Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson, 30 × 30 cm. © Galerie Oniris, Rennes
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Padiglione Centrale
Vera Molnár, Hypertransformation, 1974. Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson, 44 × 33 cm. © Galerie Oniris, Rennes Vera Molnár, Transformation de carrés concentriques, 1976. Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson, 54 × 36 cm. © Galerie Oniris, Rennes
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Vera Molnár, Transformation de carrés concentriques, 1976. Disegno generato al computer stampato con plotter su carta Benson, 54 × 36 cm. © Galerie Oniris, Rennes Vera Molnár, Transformation de carrés concentriques, 1974. Disegno generato al computer stampato con plotter su carta, 54 × 36 cm. © Galerie Oniris, Rennes
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S O N I A D E L A U N AY
1885, Odessa, Impero Russo (attuale Ucraina) – 1979, Parigi, Francia
Sonia Delaunay è stata una figura di spicco dell’avanguardia parigina a cavallo tra le due guerre. Nata da genitori ebrei ucraini, Delaunay si trasferisce ancora piccola a San Pietroburgo, ospite di alcuni parenti. A diciotto anni inizia a frequentare l’Accademia di belle arti di Karlsruhe in Germania, realizzando opere che traggono ispirazione dai colori brillanti e dal formalismo solido della pittura neoimpressionista e simbolista. Nel 1905 si stabilisce a Parigi, dove Postimpressionismo e Cubismo imperano nelle gallerie d’arte della città. In un clima fortemente sperimentale, Delaunay e il marito Robert aprono la strada al Simultaneismo, uno stile pittorico astratto che enfatizza gli effetti trascendentali dell’interazione tra i colori. L’arte popolare ucraina e russa – soprattutto il design tessile – esercita una primordiale e duratura influenza su Delaunay e sulla sua pratica che, spingendosi oltre la pittura, spazia all’interno di svariate modalità ed espressioni. Le opere su carta qui selezionate – alcune delle quali destinate alla realizzazione di tessuti – dimostrano l’applicazione dei princìpi di astrazione pittorica ai motivi tessili da parte dell’artista. Individuando composizioni realizzabili sia in trama sia in ordito di fili tessuti al telaio, Delaunay sperimenta il senso del ritmo, del movimento e della profondità creati attraverso un contrasto simultaneo in cui i colori appaiono diversi in base alle tonalità cromatiche circostanti. Una gouache senza titolo del 1930 è un esempio lampante di questo approccio: su una campitura grigio talpa, rettangoli nei toni pesca, giallo, rosa e ocra si sovrappongono a una pittura puntinata rossa e blu, con variazioni tonali che emergono visivamente dall’interazione tra le forme. Senza titolo (Gouache no. 1230) (1930) rappresenta la firma caratteristica di Delaunay nell’impiegare cerchi concentrici e tonalità contrastanti per creare un senso di dinamismo cromatico. Delaunay concepisce le forme pittoriche come unità di informazioni cromatiche – in modo non dissimile dai pixel di un’immagine digitale –, che per vivacità e compenetrazione risultano allo stesso tempo materiche e ottiche. Nel 1918 Delaunay fonda Casa Sonia, un atelier-boutique di arredamento d’interni e moda con sede a Madrid; in questo contesto disegna scenografie, costumi e arredamenti per le opere di Tristan Tzara, i film di Marcel L’Herbier e René Le Somptier. Con l’etichetta “Tissus Delaunay”, le realizzazioni dell’artista spopolano a livello mondiale. Nella sua filosofia, la distinzione tra pittura e modalità espressive tradizionalmente relegate alla sfera artigianale è irrilevante. Trasversalmente alla sua opera, il colore – “la pelle del mondo”, come Delaunay lo descrive – emerge come una costante fonte d’ispirazione. – IW
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Sonia Delaunay, Senza titolo, 1933. Gouache su carta, 11,9 × 10,6 cm. Courtesy Gió Marconi, Milano Sonia Delaunay, Senza titolo, 1929. Gouache su carta, 16,5 × 16,5 cm. Courtesy Gió Marconi, Milano Sonia Delaunay, Senza titolo, 1929. Gouache su carta, 20 × 16 cm. Courtesy Gió Marconi, Milano
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MARINA APOLLONIO DA DA M A I N O LUCIA DI LUCIANO LAURA GRISI G R A Z I A VA R I S C O NA N DA V I G O
La mostra Arte programmata. Arte cinetica. Opere moltiplicate. Opera aperta, organizzata nel 1962 dal poliedrico artista e designer Bruno Munari, segnava un’innovativa collaborazione con l’azienda Olivetti – produttrice del primo personal computer al mondo – presso il negozio del marchio nella Galleria Vittorio Emanuele a Milano. La mostra presentava artisti, spesso associati con il Gruppo T e il Gruppo N, affascinati dalla possibilità di usare le tecnologie computazionali allora nascenti per produrre arte. Nella sua introduzione al catalogo della mostra, il filosofo Umberto Eco suggerisce di pensare a questi artisti come a “programmatori”, vista la loro affinità con gli ingegneri. Tra il 1959 e il 1963, in Italia emergevano diversi gruppi di ispirazione analoga: fra gli altri, il Gruppo V a Rimini, il Gruppo Uno a Roma, il Gruppo MID a Milano e il Gruppo Tempo 3 a Genova. Nel decennio successivo, musei e gallerie di Europa e Stati Uniti ospitano mostre di grafica di ingegneri informatici, mentre in Europa e nelle Americhe gli esponenti dell’ Optical Art e dell’Arte Cinetica indagano l’estetica programmata. Nove tendencije alla Galerija Suvremene Umjetnosti di Zagabria (1961), The Responsive Eye al Museum of Modern Art di New York (1965), la 33. Esposizione Internazionale d’Arte a Venezia (1966), e Cybernetic Serendipity all’Institute of Contemporary Art di Londra (1968) sono solo alcune delle tante mostre che negli anni Sessanta presentano l’Op Art e l’Arte Programmata a un pubblico più vasto. Anche se fino a metà Novecento la parola inglese “computer” indicava coloro che per professione eseguivano calcoli a mano – per lo più donne –, le artiste qui presentate sono in gran parte emarginate dai circoli artistici a predominanza maschile del loro tempo. Le conversazioni sull’Arte Programmata tendono a considerare l’informatica un nuovo, potente strumento per gli artisti o a vedere il computer come potenziale soggetto artistico a sé stante; in ogni caso, non ci sono dubbi che le nuove tecnologie siano appannaggio degli uomini. Le artiste di questa presentazione introducono una complessità somatica nella creazione artistica “programmata”. Che usino materiali e tecnologie effettivamente industriali – come il neon e il Plexiglas di Laura Grisi, le tavole magnetiche di Grazia Varisco, gli specchi e i vetri illuminati di Nanda Vigo – o applichino la logica computazionale al lavoro con i tradizionali mezzi artistici – ad esempio nei rilievi ottico-dinamici di Marina Apollonio, nei gradienti dipinti a mano di Dadamaino o nelle complesse regole matematiche che governano le composizioni in masonite di Lucia Di Luciano –, ogni artista è presente con opere che illustrano i confini tra la tecnologia e l’individuo. Le loro opere enfatizzano gli effetti ottici dei movimenti dello spettatore, trattano gli schermi come membrane epidermiche tra corpo e macchina e complicano le tradizionali modalità di visione tramite l’attrazione o la repulsione di superfici cromatiche e luminose; l’arte viene riconcepita come tecnologia dell’incanto.
Marina Apollonio, Rilievo 703, 1964–1970 (dettaglio). Photo Bruno Bani. Collezione Privata. Courtesy l’Artista
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Padiglione Centrale
SORPRENDENTI Azalea Seratoni
Nominare le cose è sufficiente a volte a provocare un precipitato: dove prima c’era un corpo molle, dopo il nome si vede una moltitudine ramificata di coralli1. È questo l’effetto della mossa teorica di Bruno Munari quando all’inizio degli anni Sessanta sceglie di chiamare “Programmata” una certa arte che gli stava crescendo attorno.
Almanacco Letterario Bompiani (copertina del volume), 1962. Courtesy St. John’s University Archives and Special Collections, Queens, New York
È a Milano che nasce la definizione. Qui Munari faceva molte cose secondo le proprie qualità. Fin dagli anni Trenta mescolava l’arte con i destini della grande editoria e dell’industria – Bompiani, Mondadori, Einaudi, Olivetti, prima e dopo la Ricostruzione – curando l’organizzazione editoriale e la grafica. Valentino Bompiani aveva un suo almanacco letterario che ogni anno offriva uno sguardo sull’attualità della cultura e sembrava annunciare qualche nuova direzione e dimensione del futuro. Il tema scelto per l’edizione del 1962 si legge nel titolo in copertina, tra una striscia di scheda perforata e un’opera che si può dire “preinformatica” di Gianni Colombo: Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura. È nel sommario che la nominazione “Arte Programmata” appare per la prima volta e introduce una lista di artiste e artisti: Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gabriele Devecchi, Gianni Colombo, Grazia Varisco, Enrico Castellani, Karl Gerstner, Enzo Mari, lo stesso Munari, Dieter Roth2. È facile accorgersi che Varisco è l’unica donna. Il Gruppo T prende forma alla fine del 1959. L’incontro è a scuola, negli anni del liceo artistico e dell’Accademia di Brera al corso di Achille Funi. Nel gennaio 1960 Zita Vismara e Mino Pater ospitano nella loro galleria la prima
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Tecnologie dell’incanto
mostra Miriorama 1, alla quale seguono quattro personali di Boriani, Devecchi, Colombo, Anceschi. Miriorama 6 è la seconda collettiva del gruppo, quando Varisco entra a farne parte. L’artista racconta:
Enzo Mari, sulla sinistra, all’inaugurazione della mostra Arte programmata presso il negozio Olivetti di Milano nel maggio 1962. Photo Mario Dondero/Galleria Massimo Minini, Brescia
“i quattro” avviano alla Galleria Pater un contatto per la mostra Miriorama di gennaio. Io, sempre presente e partecipe, mi rendo conto che “i quattro” non pensano e forse non osano fra loro dimostrare di pensare a immaginarmi come componente… Con naturalezza, senza risentimento, per non sentirmi esclusa da una parte dei miei interessi, chiedo semplicemente perché io no? Forse li sorprendo in torto? La risposta alla domanda, riconosciuta motivata, è immediata e consenziente anche se cerca di garantirsi citando precedenti storici francesi (Cercle et Carré con Sophie Taeuber-Arp)… Così sono legittimata parte componente del Gruppo T. Non so… A posteriori ho pensato che alla fine degli anni Cinquanta si pensava e agiva secondo un condizionamento che riguardava maschi e femmine… ovviamente a tutto vantaggio dell’uomo3. Varisco sarà l’unica donna anche nella mostra Arte programmata. Arte cinetica. Opere moltiplicate. Opera aperta che Munari organizza nel maggio 1962, nel negozio Olivetti in Galleria Vittorio Emanuele a Milano4, nella quale, con Munari, partecipano il Gruppo T, Enzo Mari e il Gruppo N.
Il pubblico è riflesso sull’opera Surfacemagnetica di Davide Boriani all’inaugurazione della mostra Arte programmata presso il negozio Olivetti di Milano nel maggio 1962. Photo Mario Dondero/Galleria Massimo Minini, Brescia
C’erano già state delle mostre del Gruppo T, facevano oggetti rudimentali, con la manovella, allora io gli ho detto che c’erano già i motorini, l’elettronica, così hanno fatto molti progetti e io ho proposto all’Olivetti di sponsorizzare una mostra di Arte Programmata […] L’Arte Programmata nasce da una programmazione vera e propria nella quale tu dici, se io combino questo con questo, possono realizzarsi tante condizioni che riesco a prevedere o no. Nella mostra sull’Arte Programmata solo una parte delle opere era realmente Arte Programmata5. La mostra circola a Venezia e a Roma – dove espongono anche gli artisti del GRAV (Groupe de Recherche d’Art Visuel) e Getulio Alviani – e poi a Düsseldorf e Londra, prima di arrivare negli Stati Uniti su iniziativa della Smithsonian Institution6. Nella mostra di Milano Varisco presenta 9x9xX (1961). È un ingranaggio complicatissimo – pale verticali e orizzontali che si muovono secondo la propria ortogonalità attraverso motorini –, meravigliosamente goffo e dinoccolato se si considera la sofisticatezza che gli Schemi luminosi variabili (1961–1968) hanno raggiunto dopo questa prima ipotesi da cui la serie deriva. Nella ricerca è così. L’avanzare delle prove e degli esperimenti, la verifica dei materiali, l’indagine disciplinata su cose che ancora non si sanno ma si devono sapere, trasforma un magma in artificio sublime. Ma quella scatola illuminata da tubi al neon, che si osservava attraverso uno schermo di vetro industriale e con i suoi tagli diagonali produceva una interferenza fin dal primo sguardo, conteneva un desiderio. Mostrava che ciò che conta nell’arte sono le sue implicazioni di conoscenza. Non lo faceva con una forma fissa e compiuta, ma programmando la sua continua variazione. Un motorino, però, produce un movimento meccanizzato che è ripetitivo per definizione. Il succedersi regolare dei fatti inganna la nostra mente, produce una conoscenza che influenza quello che vediamo, proietta quello che sappiamo su
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quello che ancora deve accadere. Si tratta di agire su questo automatismo e porre lo sguardo, tutto il nostro essere, in stato di allerta e disponibilità su ogni piano, perché non faccia affidamento sulla ripetizione, sul reciproco potenziarsi dell’illusione e dell’attesa. Quanto maggiore è la probabilità che un’immagine intervenga, tanto minore è il suo valore di informazione. Perché le immagini si offrano come perennemente nuove e portino con sé la possibilità di sempre nuove informazioni, si progetta un modo per dilazionare la loro ripetizione. La mutevolezza dell’immagine, l’ambiguità della sua imprevedibile metamorfosi provoca una reazione di partecipazione. È un invito a chi guarda a porsi in relazione con l’opera. Ma lo stimolo a rendere agile la sensibilità va oltre considerazioni di ordine formale. È una spinta ad affinare ed estendere la propria capacità di vedere, modificando il comportamento in modo conseguente a ciò di cui si fa esperienza con elasticità massima. È un agire conoscitivo. La percezione è un momento di un’attività più vasta. C’è in quest’arte qualcosa di sovversivo, ma più ancora di utopico, quasi scandaloso per la coscienza comune: mutare al continuo mutarsi di qualcosa. Milano è il posto giusto al momento giusto. Era stata la città del Futurismo che, tra gli “ismi”, aveva impiegato tutta la sua inventiva per realizzare quel fondamentale elemento dell’arte che è il movimento e quell’idea di integrazione tra le arti che avrebbe permeato per molto tempo un contesto culturale e imprenditoriale come quello meneghino, nel quale la prossimità tra progetto e mondo dell’arte sarebbe stata percepita come una consuetudine. A Milano, poi, c’è Lucio Fontana: “Vede, io, purtroppo diciamo, sono un ricercatore”7. Gruppo T, 1962. Anceschi, Boriani, Colombo, Devecchi, Varisco. Artisti al lavoro nelle officine della famiglia Varisco. Courtesy Archivio Varisco
Nanda Vigo interpreterà con splendida grazia questo spirito di unità tra le discipline. Nel 1959 inizia a progettare una casa. La concepisce quasi vuota e sostituisce i muri con pannelli quadrati e rettangolari di vetro satinato, illuminati al loro interno con un sistema di luci al neon. Non si tratta solo di una soluzione tecnica. Il problema con un elemento di per sé elusivo come la luce, apparentemente non formalizzabile, è proprio quello di metterla in forma. Nell’operare di Nanda Vigo, quando sembra volersi liberare dai vincoli di una volumetria o quando costruisce un oggetto o un ambiente come luogo destinato all’esperienza estetica, la luce è materiale privilegiato e al tempo stesso materia dell’opera. Le modalità del suo fare sono tutte variazioni della parola “cronotopico”, che unisce le nozioni di tempo e spazio, come nel suo fare il relazionarsi tra arte e design. È un dialogo di fraintendimenti che non comporta una perdita di senso, bensì fa emergere nuove forme di significazione. Anche Dadamaino ricerca sempre tutto quello che si può. Era stanca dei garbugli di materia dell’Informale. C’era il problema di una dimensione nuova. Come dirà Fontana, “l’arte avrebbe cambiato dimensione… non una dimensione come primo, secondo, terzo piano… ma dimensione come volume di idea”8. Dadamaino inizia dalla tela. La taglia fino a mostrare il telaio e il muro. Nascono i Volumi (1958–1960). In questo vuoto va ad abitare un’ombra. È una forma ovoidale, inizialmente grande quasi quanto il quadro. La osserviamo muoversi nella porzione inferiore, come a cercare un nuovo ritmo. Le aperture diventano due, galleggiano una sopra l’altra, si allungano in verticale. Gli squarci diventano più piccoli e si trasformano
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in figure più regolari. Si dispongono in una fila, in due, in tre. Appare un’eclisse. L’ombra si configura in archi di cerchio, in sezioni di sfera, in una successione temporale. Dadamaino inizia a lavorare con le materie plastiche. Procede con una punteggiatura sempre più precisa, bucando con una fustella e sovrapponendo fogli di rhodoid con cadenza perfettissima. Nei Volumi, prima del taglio, Dadamaino disegna la linea che dovrebbe seguire la lama, ma lo squarcio non coincide mai con il perimetro tracciato dalla matita, come per una sostanziale incapacità di combaciare, di corrispondere. Anche qui, nei Volumi a moduli sfasati (1960–1961), il ricamo aritmetico tremola ai colpi della fustella. È sufficiente un lieve intiepidirsi della mano a far vibrare la testura.
Dadamaino, Volume, 1960. Courtesy Archivio Dadamaino
Ogni opera d’arte crea sempre la propria temporalità. L’Arte Programmata insiste su questa nozione. I Volumi a moduli sfasati parlano del tempo, del tempo che non si spende – ma è un invito a spenderlo – a osservare l’impercettibile variazione di un’ombra negli interstizi di questi fogli bucherellati, simili, ma non congruenti, che interagiscono impalpabilmente nella semitrasparenza. A metà degli anni Settanta, con L’inconscio razionale, l’esperienza percettiva arriverà a un culmine, sulla soglia dell’invisibilità. È una combinatoria di linee intermittenti che fanno solo intuire in filigrana un reticolo. “L’inconscio razionale è stato una specie di ‘tabula rasa’ nel mio processo operativo, in un certo senso assai vicina a quella del 1958, quando ritagliai le tele fino a mettere in vista il telaio”9. Una postura diversa produce una lingua nuova. Dadamaino inventa una specie di scrittura. È un segno che non tace. Si imprime foglio su foglio nel ciclo I fatti della vita (1978–1982), continuamente si addensa e si rarefà in Costellazioni (1981–1987). Nel Movimento delle cose (1987–1996), la superficie si riappropria della trasparenza e si fa spazio, in un esercizio irresistibilmente umano di combinazione di pensiero indifferenziato e articolazione consapevole che è elogio della forma che diviene.
Laura Grisi, installazione di quattro Antinebbia (Antifog), 1968. Collezione privata, Roma. Courtesy Laura Grisi Estate, Roma
Lo spazio è una nozione temporale. Gli ambienti che Laura Grisi realizza nel 1968 sono involucri, stanze chiuse che ricreano i modi con i quali la natura si manifesta: la pioggia, il vento, l’aria, la nebbia. Con una piccola tecnologia – un tubo appeso al soffitto che gocciola o ventilatori nascosti dietro una parete –, o con macchine più complesse come i monoliti trasparenti nei quali si svolgono riccioli spiralici di neon di A Space of Fog, rimette in scena accadimenti che, senza la sua cortese insistenza nel farli notare, sfuggirebbero. In uno spazio nel quale ci si muove e in un tempo che scorre come sensazione del corpo, ne diventiamo coscienti. Grisi mette la persona al centro di un artificio costruito razionalmente – un sussulto continuo da una qualità all’altra, che interessa ciascun singolo elemento dell’opera come ogni minima variazione di respiro e movimento –, sapendo che quel che accadrà sarà “secondo precise linee formative predisposte, che non negano la spontaneità, ma le pongono degli argini e delle direzioni possibili”10. Quando usa l’immagine in movimento del cinema sperimentale, Grisi lo fa a partire da sé. In The Measuring of Time (1969) l’inquadratura è un prodigio
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barocco di scatenamento temporale. La macchina da presa – come percorrendo lo sviluppo della spirale di una conchiglia o la scala di Borromini a Palazzo Barberini – la riprende dalle mani, alla figura intera, alle mani, mentre conta granelli di sabbia. Alla veloce spigolatura di questa vicenda che ci permette di indugiare su alcune figure non solo secondo una disposizione istintiva, ma con il divertimento di mandare in frantumi certe storie e costruirne altre, piace unire Lucia Di Luciano e Marina Apollonio.
Lucia Di Luciano, Irradiazioni N.11, 1965. Photo Bruno Bani. Courtesy l’Artista; 10 A.M. ART Gallery, Milano
L’opera di Di Luciano si offre come una cosa in cui tutte le parti e gli aspetti mostrano una dipendenza e una coerenza. Nelle sue strutture ritmiche di linee, quadrati e rettangoli, l’alternanza di questi ornamenti, di questi motivi fondamentali arricchisce, più di quanto interrompa, la continuità del discorso visivo. Arricchisce questa idea di progressione, ne utilizza tutta l’astratta fecondità e mostra tutta la sua capacità di seduzione sensibile. Di Luciano conduce contemporaneamente al suo operare la molteplicità delle modificazioni che concorrono a formare l’oggetto. Riunisce, con un controllo assoluto, tutti gli elementi della messa in scena della partitura visiva – una rigorosa partitura di interconnessione – fino a quando l’opera è compiuta e sa che l’oggetto, preso in sé, non è che uno stato tra gli altri di una successione di trasformazioni che potrebbe continuare infinitamente. Come in certe composizioni di musica elettronica e concreta basate sulla permutazione di strutture sonore che Luciano Berio, Bruno Maderna e Pietro Grossi iniziano a sperimentare in questi stessi anni negli studi di fonologia musicale di Milano e Firenze, come negli orizzonti epistemologici della scienza, suoni, dati e segni non si possono racchiudere in una singola immagine, si possono raccogliere in organismi di conoscenza, la cui incompletezza e complementarità sono la componente essenziale della loro formulazione. Le trappole percettive di Marina Apollonio concentrano il discorso sulla temporalità in un’estetica di morfologie puro-percettive e geometriche. Il fascino di Dinamica circolare (1964) è dovuto all’allestimento, attraverso l’uso sapiente dei principi che regolano il campo gestaltico, di una iperbolica germinazione che costringe a un’osservazione ipnotizzata di cerchi bianchi infinitamente piccoli che si espandono in cerchi neri che si espandono in cerchi bianchi che si espandono in cerchi neri. Spiccano e colpiscono per la loro freschezza i Rilievi (1964–1970). La qualità percettiva della superficie, la consistenza e struttura della trama metallica ripetono nei tratti fondamentali uno dei principi che stanno alla base di un’attività umana antica, come l’arte di intrecciare. L’intreccio si è conservato come paradigma in ambiti diversissimi, l’organizzazione di un discorso come l’avvicendarsi dei punti di vista nel procedimento cinematografico del montaggio. I Rilievi riverberano questa origine. È naturale capire, a questo punto, su cosa si basa la capacità di attirare e influire di queste opere che tengono l’intelletto sempre teso verso qualche occupazione, pronto a seguire nel loro ben congegnato svolgimento il filo di un percorso di raffinamento e conoscenza e pungolano lo sguardo in un irresistibile inseguimento.
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Azalea Seratoni è storica dell’arte contemporanea. All’attività critica, teorica e di ricerca affianca la pratica curatoriale. Dal 2016 insegna Basic Design alla Scuola politecnica di design di Milano. Alla continua attenzione portata al contemporaneo combina la riflessione storica, interessandosi in particolare ai temi della temporalità e del corpo nell’esperienza artistica, alla teoria dell’immagine e alla cultura visuale, ai confini tra arte e design. Suoi testi sono apparsi su “il verri” e “Progetto grafico”. Nel 2015 ha curato, con Serena Cangiano e Davide Fornari, la mostra e il volume (edito da Johan & Levi) Arte ri-programmata. Un manifesto aperto.
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Gaston Bachelard, La Psychanalyse du feu (1938), Paris, Gallimard, 1949, 70. Almanacco Letterario Bompiani 1962. Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura, a cura di Sergio Morando, Milano, Bompiani, 1961. È plausibile che Bruno Munari conoscesse il libro di Max Bense, Programmierung des Schönen. Allgemeine Texttheorie und Textästhetik (Programmazione del bello. Teoria generale ed estetica del testo), Baden-Baden/Krfeld, Agis, 1960. Grazia Varisco, Appunti con evidenziatore, in Arte ri-programmata. Un manifesto aperto, catalogo della mostra (Milano, Istituto Svizzero, 5–28 marzo 2015), a cura di Serena Cangiano, Davide Fornari e Azalea Seratoni, Monza, Johan & Levi, 2015, 92. Arte programmata. Arte cinetica. Opere moltiplicate. Opera aperta, catalogo della mostra (Negozio Olivetti, Milano/ Venezia/Roma, 1962), a cura di Bruno Munari e Giorgio Soavi, Milano, Officina d’Arte Grafica Lucini, 1962. Andrea Branzi, Il gioco del fare. Colloquio con Bruno Munari sulla sperimentazione, il futurismo, il surrealismo e l’arte concreta, e sulle
fontane che funzionano con cinque sole gocce d’acqua, in “Modo”, 8(71–72), 1984, 40–43. 6 La mostra è ospitata nei negozi Olivetti di Venezia (1962), Roma (1962), Düsseldorf (1963) e al Royal College of Art di Londra (1964). Dal 1964 al 1966 ha viaggiato in diversi luoghi negli Stati Uniti: New York University, New York; Florida State University, Tallahassee; The Junior Art Gallery, Louisville; Columbia Museum of Art, Columbia; Cornell University, Ithaca; Allentown Art Museum, Allentown; State University of New York, New Paltz; Oberlin College, Oberlin; The Arts Club of Chicago, Chicago; George Thomas Hunter Gallery of Art, Chattanooga; Harvard University, Cambridge; Dartmouth College, Hanover; Tampa Art Institute, Tampa. 7 Tommaso Trini, Intervista con Lucio Fontana, in Trini, Mezzo secolo di arte intera. Scritti 1964–2014, a cura di Luca Cerizza, Monza, Johan & Levi, 2016, 273. 8 Ibid. 9 Si veda Dadamaino, Dadamaino, in “Data”, 30, 1978, 44. 10 Umberto Eco, Introduzione, in Arte programmata. Arte cinetica. Opere moltiplicate. Opera aperta, cit., 3.
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Dadamaino, Cromorilievo, inclinazione 30° dal grigio 76 al 90, 1974. Tasselli di legno su tavola, 50 × 50 × 10 cm. Photo Luigi Acerra. Courtesy Archivio Dadamaino 2 Dadamaino, Oggetto ottico-dinamico, 1960–1961. Lastre in alluminio fresato su fili di nylon su struttura in legno, 96 × 96 cm (diagonale). Photo © Tornabuoni Arte. Collezione privata. Courtesy Tornabuoni Arte 3 Marina Apollonio, Rilievo 902, 1964–1969. Alluminio, verde fluorescente, Plexiglas, 49,5 × 49,5 × 6 cm. Photo Paolo Monello. Collezione Prof. Ernesto L. Francalanci. Courtesy l’Artista 4 Marina Apollonio, Rilievo 703, 1964–1970. Alluminio, rosso fluorescente, Plexiglas, 50 × 50 × 5 cm. Photo Bruno Bani. Collezione privata. Courtesy l’Artista 5 Laura Grisi, Sunset Light, 1967. Neon, Plexiglas, acciaio, 219 × 30 × 30 cm. Photo Carlo Favero. Courtesy Laura Grisi Estate; P420, Bologna 6 Grazia Varisco, Schema luminoso variabile R. VOD. LAB., 1964. Oggetto cinetico luminoso, scatola di legno nera, Perspex blu (metacrilato), motore elettrico 3/2 giri al min, lampada neon, 91 × 91 × 12,5 cm. Photo Thomas Libiszewski. Collezione dell’Artista. Courtesy l’Artista; Archivio Varisco 7 Grazia Varisco, Schema luminoso variabile R. VOD. DOM., 1964. Oggetto cinetico luminoso, scatola di legno nera, Perspex blu (metacrilato), motore elettrico 3/2 giri al min, lampada neon, 91 × 91 × 12,5 cm. Photo Thomas Libiszewski. Collezione dell’Artista. Courtesy l’Artista; Archivio Varisco 8 Lucia Di Luciano, Irradiazioni N.9, 1965. Morgan’s paint su masonite, 80 × 80 cm. Photo Bruno Bani. Courtesy l’Artista; 10 A.M. ART Gallery, Milano 9 Nanda Vigo, Cronotopo, 1964. Vetro e alluminio, 60 × 60 × 20 cm. Courtesy Archivio Nanda Vigo, Milano 10 Nanda Vigo, Cronotopo, 1964. Vetro e alluminio, 60 × 60 × 20 cm. Collezione privata, Milano. Courtesy Archivio Nanda Vigo, Milano 11 Nanda Vigo, Diaframma, 1968. Vetro, alluminio e luce di neon, 100 × 100 × 25 cm. Photo Emilio Tremolada. Courtesy Archivio Nanda Vigo, Milano
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BIO GRAFIE DELLE ARTISTE
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MARINA APOLLONIO 1940, Trieste, Italia. Vive a Padova, Italia La ricerca artistica di Marina Apollonio si è concentrata sugli stimoli percettivi generati dall’abbinamento di forme pure che, accuratamente ordinate in configurazioni geometriche bi- e tri-dimensionali, guidano l’occhio dello spettatore in esperienze sensibili tra l’inedito e l’inconsueto. Difficilmente riconducibile a un’unica tendenza estetica, la sua pratica si è continuamente sovrapposta a quella dell’Arte Programmata, Concreta, Cinetica e Optical, condividendone la razionalità del pensiero, la scientificità degli obiettivi e la sistematicità delle forme. Come accade per i colleghi del Gruppo GRAV, Zero, N e T, con cui si è spesso confrontata, l’astrattismo figurativo di Apollonio è profondamente influenzato dagli studi sulla percezione e tutt’oggi cerca un dinamismo che viene ricreato in maniera illusoria dalla gestione grafica delle composizioni. I primi lavori che Apollonio realizza agli inizi degli anni Sessanta sono disegni su carta, minuziosamente campiti con due colori o tonalità, costituiti da figure geometriche ripetute, scalate e ordinate in griglie, in modo da produrre una sensazione di movimento nell’occhio dell’osservatore. L’esperienza visiva proposta da queste composizioni genera una vibrazione che dipende tanto dal movimento simulato sulla superficie quanto dalla posizione assunta dallo spettatore rispetto a questa. Nel tentativo di esplorare la relazione tra l’opera e le condizioni dell’ambiente in cui è inserita, Apollonio modifica geometricamente le prime sperimentazioni ottenendo esiti di volta in volta differenti. Ogni lavoro
della serie Rilievi (1964–1970), ad esempio, sembra essere la versione tridimensionale dei lavori su carta e si presenta come una trama di metallo costituita da sottili fasce in alluminio. Montate su una lastra di masonite colorata, opaca o fluorescente, queste maglie seguono un ordine variabile che ne modifica la grandezza, l’alternanza, la profondità e la sfasatura, conferendo alla composizione un generale dinamismo. A seconda del punto di vista, infatti, il movimento è accentuato dal colore dello sfondo e dalle proprietà fisiche dell’alluminio che rendono la superficie cangiante mentre riflettono il movimento dello spettatore. D’altronde il senso stesso di tutti i lavori di Apollonio coincide con il potere della prospettiva: pur nell’effettiva staticità dell’oggetto, le sue opere incoraggiano infinite possibilità percettive e, dunque, interpretative. – SM
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DA DA M A I N O 1930 – 2004, Milano, Italia Edoarda Emilia Maino (detta Dada) adotta lo pseudonimo Dadamaino a partire dagli anni Sessanta. Dovuto a un fortunato errore di stampa su un catalogo olandese, il buffo cambio di identità coincide con un rinnovamento ben più importante che, dopo le prime ricerche spazialiste, conduce l’artista verso il dinamismo percettivo dell’Arte Programmata. Su questo fronte Dadamaino sviluppa un approccio squisitamente personale e adatta il metodo dell’avanguardia italiana a cicli di lavori attraversati da un’inedita forza emotiva. Tra le prime sperimentazioni, ad esempio, i lavori della serie Volumi a moduli sfasati (1960–1961) seguono il metodo scientifico delle ricerche
percettive ma ne applicano le regole con variazioni tanto leggere quanto decisive: ogni telaio della serie inquadra e sovrappone due o più fogli in plastica trasparente, su cui l’artista realizza dei fori a cadenza regolare. Nonostante la serialità delle incisioni e la configurazione della griglia suggeriscano un ordine preciso e rigoroso, la manualità del gesto artistico e il mancato allineamento tra le superfici rendono ogni taglio irregolare e producono un effetto straniante nell’occhio della spettatrice e dello spettatore. Il disorientamento che colpisce quest’ultimo è il principale obiettivo di Dadamaino e, sfuggendo a qualsiasi controllo razionale, investe di una sfumatura più intima anche le composizioni formalmente più rigorose. Come dei labirinti in miniatura, i Cromorilievi (1972–1975 ca.) sono tavole quadrate su cui vengono applicati dei solidi di forma, colore, orientamento e altezza differenti. Mentre lo schema matematico che ne governa la disposizione impone un’irreversibile staticità, le ombre proiettate dai moduli e la loro variazione cromatica conferiscono a ciascuna composizione un effetto dinamico che raggiunge l’occhio dello spettatore in maniera nuovamente emozionale. L’apparente movimento cui Dadamaino si riferisce è assimilabile a quello di qualsiasi paesaggio che si presenta continuamente diverso in rapporto alla sensibilità di chi lo osserva. Anche quando le sue componenti si fanno delicate attraverso segni grafici colorati a tempera – è il caso delle numerose Costellazioni (1981– 1987) – l’opera che ne deriva assume le caratteristiche di uno scenario interiore e si articola in addensamenti o diradamenti descrivendo moti di inquietudine o serenità. Ben oltre l’esperienza cinetica e già parzialmente interprete delle sensibilità verbo-visive, la ricerca di Dadamaino
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racconta il segno come un corpo, che a prescindere dalla sua forma programmatica o poetica, viene utilizzato per esprimere la sensazione di un movimento percettivo o emotivo. – SM
e la fruizione. Queste opere, al di là del rigore geometrico volutamente antiemozionale, funzionano come una partitura su cui far muovere lo sguardo della spettatrice e dello spettatore concedendo tanti approcci visivi quanti sono gli sguardi che sollecitano. – SM
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ambientale e immersiva: il corpo di quest’ultimo si allinea così alla componente naturale o artificiale delle sculture, riconoscendosi in energie di volta in volta fisiche o intime, scientifiche o spirituali. – SM
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LUCIA DI LUCIANO
G R A Z I A VA R I S C O (p. 263)
1933, Siracusa, Italia. Vive a Formello, Italia
LAURA GRISI
1937, Milano. Vive a Milano, Italia
Tra i tanti contributi artistici nati nell’ambito dell’Arte Programmata, l’approccio di Lucia Di Luciano si è sicuramente distinto per coerenza e rigore. L’essenzialità formale e l’ordine geometrico-matematico che caratterizzano le sue opere sono infatti esempio di una ricerca che ha sapientemente coniugato la scientificità degli studi sulla percezione con l’estetica del più moderno design industriale. Agli inizi degli anni Sessanta, insieme al marito Giovanni Pizzo, con cui condivide la stessa sensibilità razionalista, Di Luciano opera sul territorio romano ed è co-fondatrice di due diversi progetti artistici: il Gruppo 63, durato un solo anno e omonimo della coeva avanguardia letteraria, e l’Operativo R, nato dalle ceneri del primo e di poco più longevo. A differenza di altri gruppi vicini, come Gruppo T e N, entrambi i collettivi propongono una ricerca formale basata su complesse regole matematiche e capace di simulare le strategie della tecnologia senza mai farne uso diretto.
1939, Rodi, Grecia – 2017, Roma, Italia
Agli inizi degli anni Sessanta, qualche mese prima che Bruno Munari e Umberto Eco conino il termine “Arte Programmata” e riconoscano il suo lavoro all’interno della neonata avanguardia italiana, Grazia Varisco avvia una ricerca affine alle più internazionali sensibilità cinetico-percettive. Oltre a una spiccata fascinazione per l’estetica industriale e un’attenzione ai principi che governano la nascente tecnologia computerizzata, l’approccio artistico di Varisco è fin da subito interessato al rapporto che l’opera instaura con lo spettatore e cerca di attivare il coinvolgimento di quest’ultimo con stimoli ed esperienze cinetiche.
La razionalità geometrica con cui Di Luciano contribuisce all’esperienza del gruppo, si fonda sulla ripetizione di forme pure e modulari che, organizzate in griglie, seguono le stesse logiche combinatorie e algoritmiche applicate dal nascente calcolatore automatico. Nel tentativo di seguirne le logiche ed eliminare qualsiasi elemento emozionale dalle sue composizioni, l’artista rinuncia innanzitutto al colore – che introduce in maniera calibrata solo intorno agli anni Settanta – e come dimostra la serie di lavori intitolata Irradiazioni (1965), realizza composizioni psichedeliche grazie al solo accostamento di moduli bianchi e neri. Questi ultimi, ossessivamente realizzati con pennellate di pittura su masonite, sono quadrati e rettangoli matematicamente sequenziati affinché le loro caratteristiche formali possano simulare un certo dinamismo: le figure geometriche sono l’unità elementare delle composizioni e vengono combinate da Di Luciano per ottenere impulsi, vibrazioni e tensioni. I titoli – Rapporto alternativo, Divergenze, Ritmi – ricordano le sperimentazioni strutturaliste del Costruttivismo e della Bauhaus ma, più che focalizzarsi sull’aspetto formale delle composizioni, si concentrano sulle infinite possibilità combinatorie che ne guidano la creazione
Sfuggendo alle categorizzazioni che l’hanno alternativamente ricondotta al Minimalismo americano o all’Arte Povera italiana, a partire dagli anni Sessanta la pratica artistica di Laura Grisi sintetizza le esigenze di un panorama culturale complesso e in costante evoluzione. I suoi lavori registrano l’effetto scenico dei fenomeni naturali e, intrappolandone le qualità in oggetti o ambientazioni tecnologiche, restituiscono un’insolita quanto consapevole immagine del progresso. Grazie a una seducente finitura industriale, gli imponenti pilastri della serie intitolata Sunset Light (1967) celebrano l’esperienza visiva del tramonto fornendone una versione tecnologizzata. Mentre lo scheletro in neon giallo simula il colore caldo dell’atmosfera proiettando una luce diffusa sul pubblico, i movimenti di quest’ultimo si riflettono sul parallelepipedo in Plexiglas generando delle gradazioni che ricordano quelle della superficie solare. Grisi concepisce questi totem luminosi come elementi in equilibrio tra natura e artificio e calibra le loro caratteristiche illuminotecniche per ottenere atmosfere e sensazioni differenti. Negli stessi anni, ad esempio, l’artista si concentra sulla forma e sulla dimensione dei neon di Sunset Light e, dopo averli colorati, piegati su se stessi e infine rinchiusi in strutture trasparenti a diverse altezze, ottiene l’iconico effetto delle Spiral Light (1968). Identiche alle precedenti per l’involucro in Plexiglas, queste sculture sono caratterizzate da un’anima luminosa di colore blu che, avvitata vorticosamente su se stessa, crea un’atmosfera crepuscolare. Quando non sono isolate nello spazio, queste sculture si uniscono in configurazioni teatrali ed enfatizzano gli stimoli percettivi di cui sono capaci. Nel caso di A Space of Fog (1968), l’artista posiziona nello spazio sei pilastri dalla serie Spiral Light e si affida alla loro luce fendinebbia per diradare la fitta foschia artificiale in cui sono inseriti. Al di là dell’evidente spettacolo percettivo – successivamente ottenuto simulando anche altri fenomeni naturali come pioggia o vento – queste opere di Laura Grisi, con l’ausilio di uno stratagemma meccanico e tecnologico, creano paesaggi reali o figurati che mettono lo spettatore al centro di un’esperienza
Non è un caso che il collettivo a cui l’artista si unisce nel 1960 si chiami Gruppo T (dove “T” sta per “tempo”) né che gli altri membri – Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo e Gabriele Devecchi – siano soliti considerare il pubblico come un “co-autore” e accompagnino l’esposizione dei loro lavori con la dicitura “si prega di toccare”. Le Tavole magnetiche (1959–1962) che sanciscono il debutto di Varisco nel collettivo si presentano come delle semplici superfici metalliche, su cui il pubblico è invitato a muovere calamite di colori, forme e dimensioni differenti raggiungendo risultati al contempo ludici e sensoriali. Insistendo su questa ricerca, l’artista concepisce anche i lavori successivi come dei catalizzatori di stimoli e, pur senza prevedere lo stesso coinvolgimento tattile delle tavole, ne progetta il funzionamento affinché le loro variazioni formali sollecitino le percezioni di chi le osserva. Già presenti alla Biennale nelle edizioni del 1964 e 1986, ad esempio, gli Schemi luminosi variabili (1961–1968) dimostrano il massimo grado di un movimento reale e illusorio. A prescindere dalla dimensione, ognuno di questi lavori è composto da una scatola nera con una superficie esterna in Perspex blu. Al suo interno un motore elettrico permette la rotazione di una seconda superficie trasparente, intarsiata di un pattern geometrico e retroilluminata da una lampada al neon. Proprio grazie all’intervento congiunto di movimento e luce, dal fondo scuro delle superfici in plastica emergono tagli luminosi che, come un caleidoscopio, cambiano orientamento
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Tecnologie dell’incanto
e si combinano all’infinito producendo illusioni ottiche, interferenze o sovrapposizioni. Nel 1962, quando il prototipo degli Schemi luminosi variabili – anche conosciuto con il titolo 9x9xX – viene incluso nella prima celebre mostra di Arte Programmata curata da Bruno Munari e Giorgio Soavi presso il Negozio Olivetti di Milano, la sua forma cangiante chiarisce immediatamente la sensibilità che impegnerà la lunga carriera di Varisco. – SM
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NA N DA V I G O
e configurazioni labirintiche in base alla loro disposizione. Adattando la funzione originaria che ne prevedeva l’utilizzo per la costruzione di due torri cimiteriali a Rozzano (Milano), Vigo sovrappone o affianca questi elementi scultorei per delimitare delle zone di sospensione spazio-temporale e fornire allo spettatore le più cangianti esperienze percettive e sensoriali. Attraversarne il perimetro – così come confrontarsi con qualsiasi oggetto o spazio progettato dall’artista – significa abbandonarsi a un’avventura radicale in cui tutto vibra e diventa cinetico, a prescindere dal suo reale movimento. – SM
1936 – 2020, Milano, Italia Alla fine degli anni Cinquanta, quando Nanda Vigo torna in Italia dopo una formazione politecnica tra Svizzera e America, la scena artistica milanese è attraversata da un inedito fervore. Vicina agli esponenti italiani del Gruppo Zero – tra cui Lucio Fontana e Piero Manzoni –, l’artista abbraccia le sperimentazioni cinetico-percettive e le declina con un linguaggio ibrido tra arte, design e architettura. Fin dai primi progetti, il suo approccio multidisciplinare è finalizzato a un’idea di arte olistica in cui oggetti, ambientazioni, allestimenti ed edifici vengono uniformati da un decisivo utilizzo della luce. Che sia naturale o artificiale, Vigo ne gestisce le proprietà fisiche e raggiunge risultati dal forte valore sensoriale anche grazie all’utilizzo di tecnologie o materiali industriali come vetro stampato, specchi, neon, Perspex e alluminio. Secondo l’artista la luce non ha dimensione e, come evidenzia nel suo Manifesto cronotopico del 1964, si adatta a qualsiasi configurazione fisica, producendo un’esperienza spazialmente e temporalmente alterata. A dimostrazione di ciò, i Cronotopi (1962–1968) sono strutture di forma parallelepipeda in alluminio e vetro industriale, che vengono posizionate a terra o su piedistalli per riflettere la luce che le illumina, dall’interno o dall’esterno. Mutuando il loro nome dall’ambito fisico, l’artista li chiama anche Spazi-tempi (dal greco cronos, “tempo” e topos, “spazio”) e, per l’iridescenza che emanano a seconda delle scanalature del vetro, li dichiara capaci di trasportare lo spettatore in un’altra dimensione. In effetti, specie quando sono installati in ambienti attraversabili, queste sculture offrono l’illusione di una costante variazione delle superfici e propongono un’atmosfera contemplativa, sospesa e mistica. A partire dal 1967, Vigo costruisce i cosiddetti Ambienti cronotopici utilizzando moduli alternativi o complementari ai Cronotopi. Pur essendo simili a questi ultimi, infatti, i Diaframmi (1968) sono costituiti da un telaio in ferro tubolare tamponato con vetri stampati, e creano architetture
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Padiglione Centrale
L I L L I A N S C H WA R T Z
1927, Cincinnati, USA Vive a New York City, USA
Nella celebre mostra The Machine as Seen at the End of the Mechanical Age (1968) tenutasi al MoMA di New York, gli anni Sessanta sanciscono la fine dell’era della macchina e l’inizio di una nuova età cibernetica; nello stesso periodo un consistente numero di artiste e artisti internazionali comincia a guardare alla tecnologia come a un sistema di conoscenze dall’alto potenziale artistico. Come i tanti pionieri di quella che in pochi anni sarà battezzata New Media Art, anche l’artista americana Lillian Schwartz subisce il fascino della crescente innovazione tecnologica e, dopo una formazione tradizionale nell’ambito della pittura e della calligrafia, si serve della collaborazione di ingegneri, programmatori e sviluppatori per produrre nuove esperienze visive. Computer dalle dimensioni umane, schermi a tubo catodico e luci stroboscopiche sostituiscono gli strumenti tradizionali e le opere di Schwartz cominciano a produrre esperienze di fruizione interattiva e multisensoriale. Nella mostra al MoMA, ad esempio, l’artista presenta l’installazione Proxima Centauri (1968) e insieme all’ingegnere danese Per Biorn – membro come lei del gruppo E.A.T. (Experiments in Art and Technology) – realizza una cupola di plastica traslucida al cui interno vengono generati una serie di effetti luminosi di colore rosso. A prescindere dal fatto che la configurazione visiva varii a seconda della posizione dello spettatore producendo un affascinante dinamica percettiva, in questo come in altri lavori l’obiettivo di Schwartz è quello di utilizzare la tecnologica come strumento per le proprie finalità concettuali e non come oggetto di una pura fascinazione avveniristica, come era stato per altre artiste e artisti fino alla decade precedente. A partire dagli anni Settanta, quando inizia a lavorare nei laboratori di sviluppo e ricerca della società americana di telecomunicazioni AT&T, Schwartz elabora un linguaggio ibrido che, grazie alla sovrapposizione di fotogrammi analogici colorati a mano e disegni geometrici prodotti da codici informatici, genera psichedeliche immagini in movimento. Alcuni dei brevi video ottenuti da questo procedimento, come Googolplex, Enigma, o Mis-Takes (tutti del 1972), sono caratterizzati da forme in continua trasformazione e, accompagnate da musiche elettroniche incalzanti, producono un inusuale straniamento mistico, quasi spirituale. Nonostante gli strumenti rivoluzionari e l’ipnotica estetica futurista, infatti, il lavoro di Lillian Schwartz è al servizio di tematiche senza tempo di cui offre una versione tecnologizzata. – SM
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Lillian Schwartz, Enigma (stills), 1972. Film, 4 min 5 sec. From the Collections of The Henry Ford. © The Henry Ford
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Padiglione Centrale
ULLA WIGGEN
1942, Stoccolma Vive a Stoccolma, Svezia
Il 1968 rappresenta un momento apicale per l’arte basata sui sistemi, reso possibile dal crescente accesso degli artisti alle risorse informatiche attraverso università, istituti di ricerca e società di comunicazione, nonché dalla diffusione di teorie mutuate dai campi scientifici. Esplorando i limiti e le possibilità della cibernetica come fusione tra arte e scienza, Cybernetic Serendipity – la storica mostra del 1968 curata dalla britannica Jasia Reichardt presso l’ICA di Londra – esponeva opere che spaziavano tra numerosi supporti, tra cui lavori di computer grafica, musica, poesia, robot e giochi. In questo contesto compariva inoltre una serie di dipinti in acrilico e a gouache su tavola raffiguranti i circuiti interni di dispositivi elettronici dell’artista svedese Ulla Wiggen. Intitolate TRASK e Vägledare (entrambe del 1967), queste opere catturano un archetipo della cultura tecnologica in uno stile dalla precisione impeccabile. Benché i dipinti di Wiggen siano rappresentazioni, più che dimostrazioni, di operazioni meccaniche, il loro stile dall’oggettività appiattita trasmette tematiche complesse riguardanti l’aspetto tattile della tecnologia. Wiggen è profondamente coinvolta nella scena artistica e tecnologica di Stoccolma che si raccoglie intorno al Moderna Museet, allora diretto da Pontus Hultén. Nelle sue prime gouache di circuiti stampati e bit elettronici, come Förstärkare e Kretsfamilj (entrambe del 1964), crea strati di pittura straordinariamente definiti, effetto ottenuto utilizzando garze mediche intrecciate al posto della tela. Dopo il 1969, Ulla Wiggen inizia a studiare per diventare psicoterapeuta clinica, facendone la propria occupazione primaria per i successivi quarant’anni. Nel 2013, l’accoglienza entusiasta della personale Computer Paintings al Moderna Museet di Stoccolma riaccende in lei l’ispirazione a dipingere. Nei lavori successivi, l’interesse di Wiggen per i circuiti del cervello e degli occhi sostituisce quello per le macchine fabbricate dall’uomo, esplorando il modo in cui gli organi decontestualizzati evocano un senso di coinvolgimento con il mondo che è logico e nel contempo incomprensibile. Nei suoi Iris Paintings (2016–in corso), Wiggen dipinge laboriosamente su tavole circolari iridi umane nei toni dell’azzurro, del verde e del nocciola. L’artista ha dichiarato di voler esprimere visivamente l’effetto di sfocamento della propria vista causato dalla cataratta prima di essere curata: uno stato al confine tra chiarezza e ambiguità. Le iridi assumono una qualità inquietante. I visitatori sono resi consapevoli del proprio movimento e della propria posizione nello spazio, come se fossero sorvegliati da un voyeur fantasma. Visto dalla posizione dell’artista, pur nel tentativo di suddividerlo nelle sue parti costitutive, il corpo risulta non meno enigmatico. – MW
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Ulla Wiggen, Iris XVIII Line, 2020. Acrilico su pannello, 113,5 × 119 cm. Courtesy l’Artista; Belenius, Stockholm; Galerie Buchholz. © Ulla Wiggen
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Ulla Wiggen, Kretsfamilj, 1964. Gouache su pannello, garza, 35 × 30 cm. Photo Åsa Lundén. Bonnier Group Art Collection. Courtesy l’Artista; The Bonnier Group, Stockholm, Sweden; Moderna Museet, Stockholm. © Ulla Wiggen Ulla Wiggen, TRASK, 1967. Acrilico su pannello, 150 × 80 cm. Photo Åsa Lundén. Collezione Moderna Museet, Stockholm. Purchase 1968. Courtesy l’Artista; Moderna Museet, Stockholm. © Ulla Wiggen
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AG N E S D E N E S
1931, Budapest, Ungheria Vive a New York City, USA
L’artista americana Agnes Denes è la pioniera riconosciuta dell’Arte Concettuale, Ambientale, Ecologica e della Land Art. A partire dagli anni Sessanta, gli obiettivi politici di Denes sono resi espliciti nella sua opera poliedrica, incentrata su questioni ecologiche orientate a un futuro postantropocenico. Aspirando a un idealismo visionario rigenerante, le sue opere assumono la forma di disegni tra cui assonometrie, diagrammi, sculture, fotografie e monumentali installazioni pubbliche. Nella celebre opera Wheatfield—A Confrontation (1982), Denes semina circa un ettaro di grano in una discarica di Manhattan, a un isolato da Wall Street, che in seguito diventerà Battery Park City. All’ampio campo di grano fanno da cornice le Torri Gemelle, simbolo degli eccessi del capitalismo. La prossimità spaziale tra avidità imprenditoriale e spazio agricolo mette in luce l’impegno di Denes per il recupero della terra e produce un duro confronto rispetto alla cattiva gestione dei rifiuti e al problema della fame nel mondo. La transitorietà di questo lavoro, durato quattro mesi, si contrappone all’opera collaborativa Tree Mountain—A Living Time Capsule—11,000 Trees, 11,000 People, 400 Years (1992–1996). Questa foresta vergine, che verrà mantenuta per quattro secoli, è situata su una montagnola artificiale che Denes ha creato nei pressi di Ylöjärvi in Finlandia. Undicimila pini sono stati piantati da undicimila persone secondo uno schema matematico derivato dalle proporzioni del rapporto aureo e dai modelli di crescita di ananas e girasoli. Nelle stampe monotipo Introspection I—Evolution (1968–1971) e Introspection II—Machines, Tools & Weapons (1969–1972), Denes visualizza in maniera diagrammatica i sistemi di conoscenza. La prima stampa ripercorre su scala enciclopedica gli sviluppi evolutivi dell’uomo primitivo dalla scimmia al presente. Nello stile delle acqueforti e delle illustrazioni tratte da libri di medicina e ingegneria, la stampa presenta studi anatomici e tavole tassonomiche. La seconda stampa ripercorre la storia della tecnologia dai primi strumenti artificiali alle macchine del XX secolo. L’approccio interdisciplinare di Denes, volto ad ampliare il campo della scienza attraverso quello visivo, è prova del suo impegno nel ridefinire nozioni analitiche astratte per formare nuovi sistemi di linguaggio e conoscenza che dissolvano le barriere tra i settori. Le innovazioni del suo lavoro possono essere descritte al meglio dalla sua invenzione di una “filosofia visiva”, che trasforma concetti invisibili – come la matematica, la logica e i processi di pensiero – in una forma visuale resa finemente. In questo modo, Denes apre la strada a nuove associazioni e comprensioni, re-immaginando il rapporto degli esseri umani con la Terra. – LC
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Agnes Denes, Introspection I—Evolution, 1968–1971 (dettaglio). Monostampa, 107,63 × 542,29 cm. Photo Stan Narten. Courtesy Leslie Tonkonow Artworks + Projects. © Agnes Denes
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Agnes Denes, Introspection I—Evolution, 1968–1971. Monostampa, 107,63 × 542,29 cm. Photo Stan Narten. Courtesy Leslie Tonkonow Artworks + Projects. © Agnes Denes Agnes Denes, Introspection II—Machines, Tools, & Weapons, 1969–1972. Monostampa, 101,6 × 626,75 cm. Photo Stan Narten. Courtesy Leslie Tonkonow Artworks + Projects. © Agnes Denes
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CHARLOTTE JOHANNESSON
1943, Malmö, Svezia Vive a Skanör, Svezia
Charlotte Johannesson si è formata come tessitrice specializzata in tecniche tradizionali negli anni Sessanta. Nello stesso periodo fonda a Malmö l’atelier di tessitura Cannabis, dal nome della pianta dalla quale ricava le fibre per le sue opere, e in evidente connubio con la droga prediletta dalla controcultura del periodo. Johannesson inizia a praticare l’artigianato tessile come arte in grado di rappresentare le ingiustizie sociopolitiche, spesso ricorrendo a uno stile satirico, accompagnato da slogan. In questo trae ispirazione dalla pioniera della tessitura Hannah Ryggen (1894–1970), norvegese, ma anche lei nata a Malmö e autodidatta. L’attitudine politica di Johannesson si rivela attraverso un femminismo ottimista o in arazzi come Drop Dead (1977), in cui critica la bomba all’idrogeno, allora in fase di sviluppo. Nel 1978 Johannesson inizia a fondere le tecniche di tessitura con le prime tecnologie informatiche, quando baratta un suo arazzo per un Apple II, uno dei primi personal computer prodotti in serie, e applica la traducibilità delle linee verticali e orizzontali di un telaio ai linguaggi di programmazione. Tra il 1981 e il 1985, insieme al compagno Sture Johannesson, dirige The Digital Theatre, uno dei primi studi di computer grafica d’Europa. Come artista digitale, Johannesson compone mappature per produrre immaginari digitali, su schermo o su plotter. La sua fascinazione per i primi “micro-computer”, come vengono chiamati al tempo, spesso emerge come soggetto della sua opera: nella stampa plotter Computer mind (1981–1986), ad esempio, l’artista ritrae una figura collegata a un computer mediante il sistema nervoso. Applicate a tessuti e stampe, le immagini generate dal computer presentano un effetto pixelato (il termine “pixel” è stato inventato nel 1965 per descrivere immagini video legate ai viaggi spaziali). Dagli anni Ottanta, numerose opere di Johannesson includono raffigurazioni di mappe del mondo e immagini della Terra vista dallo spazio, abbinate a slogan tratti dalla cultura pop come in Take me to another world (1981–1986 e 2019) e The Target Is Destroyed (2019). Intrecciando le tecniche tradizionali di tessitura con la ricerca sperimentale delle prime tecnologie informatiche, Johannesson continua a reinventare la sua pratica per esplorare nuove possibilità di cambiamento sociale e culturale. – LC
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Charlotte Johannesson, Pixel dream, 1981–1986. Stampa originale da plotter, 42 × 52 cm. Photo Helene Toresdotter. Courtesy l’Artista; Hollybush Gardens, London. © Charlotte Johannesson
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SIDSEL MEINECHE HANSEN
1981, Ry, Danimarca Vive a Londra, UK
In un mondo in cui le telecamere a circuito chiuso registrano ogni singola sequenza della vita pubblica, le immagini private catturate con il cellulare vengono incessantemente caricate sui social, il deep fake dilaga e gli avatar digitali sono in grado di simulare il comportamento umano con crescente accuratezza, diventa progressivamente più difficile separare la nostra visione collettiva del corpo dalla vita digitale. L’opera provocatoria e sconcertante dell’artista danese Sidsel Meineche Hansen mette nitidamente a fuoco le modalità con cui diverse tipologie di mezzi fotografici, televisivi e digitali impattano sulla percezione di noi stessi e della nostra vita quotidiana. Sullo sfondo di scene popolate da esseri smembrati e avatar generati al computer, il corpo digitale occupa uno spazio iperreale tangibile, generalmente associato all’estetica industriale dell’intrattenimento e del gaming. Tuttavia, spingendosi oltre lo studio concreto della rappresentazione digitale, l’opera di Hansen si focalizza sull’accumulo del capitale prodotto attraverso la classificazione di genere di questi corpi, soprattutto nell’ambito della pornografia. In molti dei suoi video animati, Hansen fa ricorso a modelli umani 3D preconfezionati e ipersessualizzati, disponibili tramite i software open source rivolti a game designer e ai distributori di materiale di intrattenimento per adulti, includendo, tra gli altri, “apparati genitali” e “set di posa” impiegati per animare le scene a sfondo sessuale. Riflettendo sul ruolo che il genere riveste nella mercificazione di questi oggetti 3D, il video Maintenancer (2018), realizzato in collaborazione con la regista Therese Henningsen, si concentra sulla manutenzione delle sex doll in silicone in una casa di piacere tedesca, ponendo lo spettatore di fronte sia ai corpi di donne creati e idealizzati per il consumo, sia al lavoro di conservazione necessario per preservare il loro aspetto illusorio. Come in altre opere, tra cui Love Doll Resurrect (2019), i generi porno e horror si innestano nel mondo digitale, indicando una transizione nella sfera del sesso postumano. Molte delle sculture di Hansen seguono una logica simile a quella che caratterizza le sue bambole digitali, anche se le prime sono collocate e vivono in uno spazio fisico. Daddy Mould (2018), lo stampo vuoto in vetroresina di una sex doll in silicone e Untitled (Sex Robot) (2018–2019), una marionetta snodabile di legno, incarnano la funzionalità fisica umana pur preservando la loro condizione di oggetto. Come i corpi tecnologicizzati che popolano i video di Hansen, arte, sesso e prodotto sono intrinsecamente legati. – MW
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Sidsel Meineche Hansen, Daddy Mould, 2018. Calco industriale in due parti in fibra di vetro, resina, vaselina, 149 × 37 × 92 cm e 149 × 48 × 89 cm. Veduta dell’installazione, Sidsel Meineche Hansen, End-User, Kunsthal Aarhus, Århus, 2018. Courtesy l’Artista; Rodeo, London / Piraeus
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Sidsel Meineche Hansen, Untitled (Sex Robot) 2018 / 2019. Bambola snodata a grandezza naturale in legno, 176 × 25 × 40 cm. Photo Frank Sperling. Courtesy l’Artista; Rodeo, London / Piraeus Sidsel Meineche Hansen, Maintenancer, 2018. Video digitale, suono, in collaborazione con Therese Henningsen, 13 min 5 sec.Courtesy l’Artista; Rodeo, London / Piraeus
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ELLE PÉREZ
1989, New York City Vive a New York City, USA
Anziché sfruttare la forza documentale, espressione di verità insita nella fotografia, l’artista newyorkese Elle Pérez si interessa ai livelli di significato che l’osservatore proietta sullo scatto, oltre che all’intimità connaturata all’atto fotografico in termini di contatto visivo e attenzione. Per l’artista, questo approccio offre potenzialità più ampie: la fotografia diventa un mezzo per riesaminare il mondo e scoprire un nuovo senso narrativo e affettivo nelle cose in cui ci si imbatte quotidianamente. Pérez raggruppa le proprie immagini in “configurazioni”, trattando ciascuna fotografia come un’unità in sequenza sintattica continua. Formando moduli espressivi e affettivi distinti, queste configurazioni invitano l’osservatore a instaurare con l’immagine un rapporto di scambio reciproco: ciò che otteniamo da queste visioni frammentate, e ciò che significano, è tanto il risultato del nostro processo di osservazione – in cui identifichiamo ripetizioni, echi e allusioni – quanto il prodotto dell’effettivo contenuto raffigurato. L’insieme di fotografie qui presentate in mostra, digitali e non, di grande e piccolo formato, intreccia intimità e tradizioni provenienti da mondi che a prima vista appaiono distinti. Una serie include fotografie dei cemí caraibici, le sculture devozionali della tradizione indigena Taíno in cui dimora lo spirito di una persona specifica, tradizionalmente consultate in riti sciamanici per ottenere un consiglio o una guarigione. Un’altra serie è dedicata al muay thai – arte marziale e sport da combattimento che per Pérez rappresenta una pratica di ricerca e autosperimentazione sul corpo – e, più nello specifico, l’ambigua intimità del clinch, in cui i contendenti si stringono in un serrato corpo a corpo stando in piedi. Nel riconoscere in queste pratiche l’autonomia e la trasformazione del corpo come temi centrali, Pérez presenta le tradizioni indigene come forme di body hacking, respingendo con decisione l’idea che le modifiche apportate al corpo, in particolare al corpo transgender, siano considerate aberranti o innaturali. Ugualmente centrale in questo gruppo di opere è la sperimentazione tecnica operata dall’artista, che spinge all’estremo la capacità delle fotocamere digitali di rilevare i livelli minimi di luminosità e gioca con le distorsioni spaziali rese possibili dalle lenti di grande formato. Benché il significato di queste immagini possa risultare ambiguo, lampi di riconoscimento si producono nell’interazione tra gesto, linea, ombra, paesaggi fisici e mentali tracciati nei contenuti rappresentati. Anziché parlare ognuna per sé, le fotografie di Pérez cantano in coro: il loro significato non risiede nelle singole voci, ma nelle armonie che risultano dalla loro convergenza. – IW
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Elle Pérez, pull, 2020 / 2021. Stampa digitale ai sali d’argento, 111,76 × 74,61 cm. Courtesy l’Artista; 47 Canal
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Elle Pérez, Charles with Blood, 2019. Courtesy l’Artista; 47 Canal Elle Pérez, Petal, 2020 / 2021. Stampa digitale ai sali d’argento, 111,76 × 84,77 cm. Courtesy l’Artista; 47 Canal
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A N E TA G R Z E S Z Y K O W S K A
1974, Varsavia Vive a Varsavia, Polonia
L’artista polacca Aneta Grzeszykowska utilizza il corpo – il proprio e quello di altri – come materiale per mettere in discussione le norme sociali che circondano l’identità e la rappresentazione, in un modo che mette la sua pratica in dialogo con il lavoro di artiste femministe quali Alina Szapocznikow, Ana Mendieta e Cindy Sherman. Quest’ultima, in particolare, è diretta fonte di ispirazione della serie fotografica di Grzeszykowska Untitled Film Stills (2006), nella quale l’artista si appropria dell’omonima, iconica serie di Sherman degli anni Settanta, riproponendo a colori le fotografie originali. Mentre le fotografie di Sherman usano costumi, set e tropi derivati dalla storia del cinema per suggerire fotogrammi di film che in realtà non esistono, la risposta di Grzeszykowska è di impersonare la stessa Sherman, così come i suoi personaggi fittizi, aggiornando e rifacendosi alla critica dell’artista ai costrutti mediatizzati di identità. Serie quali Beauty Masks (2017) utilizzano oggetti di scena, come frammenti di parti del corpo modellate in pelle di cinghiale e maschere cosmetiche, sfidando i confini dell’autorappresentazione attraverso la deformazione, l’abiezione e l’invocazione del grottesco. L’opera di Grzeszykowska fonde le dicotomie di umano e macchina, organico e sintetico, seducente e ripugnante. Nella serie MAMA (2018), Grzeszykowska esplora e sovverte il rapporto tra madre e figlia ritraendo la propria figlia mentre interagisce con una bambola di silicone che assomiglia in modo inquietante all’artista stessa. Le fotografie catturano la bambina che imita e assume un ruolo materno, facendo il bagno e abbracciando la bambola, mentre simultaneamente la tratta come un giocattolo: dipingendo la sua faccia, seppellendola nella sporcizia e portandola in giro su un carretto. La rappresentazione iperrealistica della bambola non fa che aumentare la violenza latente che sottolinea queste scene di cura e affetto. Oscillando tra un essere umano affidato alle azioni imprevedibili di un bambino e un semplice oggetto, la bambola rende indistinto il confine tra l’animato e l’inanimato. L’affermazione di soggettività, possesso e controllo della bambina sull’oggetto simile a un cadavere – che evoca la figura feticizzata della docile marionetta surrealista che si adegua ai desideri dell’artista – viene qui rettificata nelle complessità del rapporto madre-figlia. La bambola di Grzeszykowska simboleggia una rottura dei vincoli assegnati ai corpi e ai ruoli sociali, riesaminando la maternità attraverso un’esplorazione dell’autoalienazione. – LC
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Aneta Grzeszykowska, Mama # 50, 2018. Inchiostro pigmentato su carta cotone, 50 × 36 cm. Courtesy l’Artista; Raster; Lyles and King Gallery
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Padiglione Centrale
Aneta Grzeszykowska, Mama # 34, 2018. Stampa manuale ai sali d’argento, 50 × 36 cm. Courtesy l’Artista; Raster; Lyles and King Gallery
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Aneta Grzeszykowska, Mama # 32, 2018. Inchiostro pigmentato su carta cotone, 50 × 36 cm. Courtesy l’Artista; Raster; Lyles and King Gallery
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Padiglione Centrale
JUNE CRESPO
1982, Pamplona, Spagna Vive a Bilbao, Spagna
June Crespo realizza sculture “spontanee” utilizzando materiali industriali che alludono tanto ad architetture quanto a forme corporee. A partire da fibra di vetro, resina, ceramica, bronzo e tondini, l’artista taglia, smembra, espande e ricombina elementi e materiali esistenti, trasformandoli in nuove forme intuitive che offrono letture potenzialmente differenti a ciascun osservatore. Alcune sculture incorporano elementi riconoscibili: ammassi di busti e arti di manichini in cemento, pile di indumenti, riviste, o radiatori in ghisa. Altre si dissolvono interamente nell’astratto e nell’amorfo: dinoccolati totem in resina, calchi di calcestruzzo di forme vagamente industriali fissati alle pareti con cinghie fermacarico, o strati su strati di sottili tondini di ferro. Ognuna delle sculture di Crespo evoca un corpo inglobato all’interno di uno spazio architettonico, talvolta attraverso la fotografia del frammento di una persona, talaltra attraverso l’apertura incurvata di un elemento di fusione. Incorporando indumenti – propri e altrui – in mezzo a fibre di vetro, armature in ferro e altri materiali industriali, Crespo rimanda a spazi domestici, intimi. Le sue opere diventano corazze che evocano i vari modi in cui l’ambiente costruito può essere al contempo supporto e costrizione per il corpo e la mente umani. Le installazioni di Crespo rispecchiano sia futuri paesaggi urbani distopici, sia la nostra esperienza contemporanea di creature cibernetiche composite. L’artista definisce le proprie sculture come recipienti, o addirittura come “i gesti manuali di tutti i contenitori precedenti”. Per Il latte dei sogni, Crespo presenta una nuova serie di sculture che costituiscono l’evoluzione di HELMETS (2020), un corpus di opere esposte per la prima volta nel 2020 presso Artium, il museo della Comunità autonoma dei Paesi Baschi ad Álava, in Spagna. La serie comprende due coppie di torsi in alluminio impilati l’uno sull’altro, con le spine di colata (attraverso cui il metallo liquido è versato nello stampo) ancora attaccate ai bordi della scultura, e un gruppo di statue in calcestruzzo che esibiscono l’impronta in rilievo di fusti da trasporto. – MK
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June Crespo, HELMETS VI, 2019. Colata di acciaio inossidabile, bronzo, rivestimento in ceramica, acciaio, 128 × 95 × 62 cm. Photo Daniel Mera. Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía. Courtesy l’Artista; Carreras Mugica Gallery, Bilbao
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HANNAH LEVY
1991, New York City Vive a New York City, USA
Le sculture antropomorfe di Hannah Levy suscitano forme di consapevolezza fisica grazie alla combinazione di materiali corporei e industriali. L’artista si appropria di oggetti di uso comune per renderli alieni, utilizzando materiali inaspettati, oppure distorcendo o esagerando le loro proprietà formali. Il vocabolario visivo di Levy comprende strumenti medici, attrezzature per l’esercizio fisico, barre di sicurezza, vegetali, dolci e perle. Levy rende strano e magnetico ciò che è normalmente tanto familiare da risultare quasi invisibile, creando oggetti che esistono in un limbo definito dall’artista “purgatorio del design”. Contemporaneamente seducenti e snervanti, questi oggetti stimolano una repulsione e un’attrazione così estreme da rasentare l’umorismo. Le sculture di Levy si ispirano spesso al design modernista del XX secolo. Combinando queste allusioni con stampi carnali e corporei, l’artista infonde alla geometria pura dell’ideale modernista uno stridente ritorno alla materia organica, accentuando la sensualità preesistente celata nel design moderno. Mentre le forme metalliche e lineari evocano associazioni con arredi domestici o da ufficio, i rivestimenti simil-pelle confondono la separazione tra vita e morte, animale e prostetico, estraniando gli oggetti cui si riferiscono e mettendo l’osservatore in una posizione di ambiguità e inquietudine rispetto alla scultura. L’opera di Levy deve al Surrealismo il fascino per l’inquietante e il degradante, mentre assume un punto di vista retrospettivo e ambivalente sulla cultura materiale dell’ultimo secolo. Per Il latte dei sogni, Levy realizza un gruppo di tre nuove sculture. Untitled (2022) è una struttura minacciosa, simile a un artropode, in equilibrio su quattro gambe metalliche lucide, che sostengono una sacca di vetro afflosciato, realizzata lasciando che il peso del materiale fuso e bollente ne determinasse la forma prima del completo raffreddamento. Untitled (2022) consiste di una sottile membrana di silicone tesa su una struttura in acciaio a forma d’ala. L’opera ricorda l’anatomia della struttura alare dei pipistrelli, associando la possibilità controintuitiva del volo di un mammifero senza piumaggio alla forma ambigua della tenda, che è sia accessorio per il tempo libero degli amanti della natura, sia tragica necessità per chi non ha casa. Untitled (2022) è la copia di un nocciolo di pesca, grande come una sedia, intagliata nel marmo, materiale usato per la scultura nelle tradizioni artigianali antiche e contemporanee, che tuttavia contiene sorprendenti quantità di cianuro. Ciascuna delle tre sculture si colloca in modo ambiguo tra arredo funzionale e oggetto di contemplazione estetica, dando una forma corporea ai cicli di produzione, consumo e smaltimento alla base della vita contemporanea. – IW
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Hannah Levy, Untitled, 2021. Acciaio nichelato, silicone, 172,72 × 187,96 × 187,96 cm. Courtesy Casey Kaplan, New York; Mother’s Tankstation, Dublin. © Hannah Levy
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Padiglione Centrale
Hannah Levy, Untitled (dettaglio), 2021. Acciaio nichelato, silicone, 172,72 × 187,96 × 187,96 cm. Courtesy Casey Kaplan, New York; Mother’s Tankstation, Dublin. © Hannah Levy Hannah Levy, Untitled (dettaglio), 2021. Acciaio nichelato, silicone, 152,4 × 177,8 × 215,9 cm. Courtesy Casey Kaplan, New York; Mother’s Tankstation, Dublin. © Hannah Levy Hannah Levy, Untitled, 2018. Acciaio nichelato, silicone, gomma, cerniera, 266,7 × 246,38 × 246,38 cm. Courtesy l’Artista; Casey Kaplan, New York; Mother’s Tankstation, Dublino; Collezione Rennie, Vancouver. © Hannah Levy
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SHUANG LI
1990, Monti Wuyi, Cina Vive a Berlino, Germania e Ginevra, Svizzera
Shuang Li è cresciuta nel contesto rurale della Cina sudorientale, tra YouTube e MySpace, circondata da console Nintendo contraffatte, videogame piratati e CD dakou, dischi invenduti ritirati dal mercato occidentale e importati in Cina come eccedenze di plastica, distribuiti sottobanco per tutti gli anni Novanta. Sintonizzata sin da bambina sui meccanismi interni che regolano le tecnologie come seducenti agenti di intrattenimento, l’artista ha presto compreso la loro capacità di fungere da vettore di profondo controllo sugli individui nella nuova era cinese di sviluppo accelerato e neoliberalismo globale. Volgendo lo sguardo verso l’influenza incrociata della tecnologia sulle formazioni culturali di razza, genere, sessualità o nazionalità, l’opera di Li, che si realizza in modo interdisciplinare con video, sculture, suoni e installazioni, sottolinea l’attrito tra biopolitica e corpo, desiderio digitalizzato e intimità tra le persone. Sulla scia di molte artiste e artisti surrealisti dell’inizio del XX secolo, che avevano spesso affrontato il rapporto tra sessualità e mercificazione nell’esplorazione della figura umana, sovente rappresentata nelle sue parti smembrate o attraverso distorsioni esagerate, Li permea di erotismo corporeo gli spazi digitali del consumismo. Nella videoinstallazione T (2017–2018), l’artista mette in scena due piedi generati al computer che oscillano e si agitano in primo piano, come fossero separati dal resto del corpo del soggetto. Queste immagini di disincarnazione sono accompagnate dalla voce narrante dell’addetta alla vendita di calze da donna del sito di e-commerce cinese Taobao, che, nel corso del video, si rivela essere un maschio sessista cisgender che parla con voce fintamente femminile. Attraverso la femminilità e la desiderabilità esibite al solo scopo di aumentare le vendite online, la narrazione complica ulteriormente il feticismo delle merci nell’era digitale. In questo contesto, il tema del lavoro si intreccia agli stereotipi di genere, ai sistemi globali della domanda e a un’invisibile catena di distribuzione parallela, evidenziando come, nello spazio virtuale, questi punti cardine resistano a ogni tentativo di ancoraggio. In ÆTHER (Poor Objects) (2021), il cui titolo gioca sulla parola inglese ether (etere), Li amalgama riprese eterogenee, come un’eclissi solare associata a immagini illuminate da luci ad anello, strumento d’elezione di influencer e vlogger, ora diffuso tra gli impiegati che sempre più spesso trascorrono le giornate immersi nel proprio portatile, lavorando da casa a causa della pandemia di Covid-19. Plasmando un collegamento estetico e concettuale tra questi anelli di luce – uno naturale, l’altro artificiale, entrambi straordinari –, Li rappresenta lo slittamento tra esperienza virtuale e dimensione fisica dell’esistenza. – MW
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Shuang Li, I Want to Sleep More but by Your Side, 2018–2019. Installazione video, 25 min 27 sec, musica di Eli Osheyack. Commissionato dal Guangdong Times Museum per la mostra Modes of Encounter: An Inquiry. Veduta dell’installazione, Peres Projects, ART021, Shanghai, 2021. Photo Lao Cui. Courtesy l’Artista; Peres Projects, Berlin. © Shuang Li
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Padiglione Centrale
E LA I N E C A M E RO N -W E I R
1985, Red Deer, Canada Vive a New York City, USA
Gli oggetti scultorei di Elaine Cameron-Weir uniscono materiali durevoli come metallo, vetro, cemento e pietra a elementi effimeri quali fiamme, profumi e luce. Queste opere sono spesso caratterizzate da una flessibilità intrinseca garantita dall’impiego di carrucole, metallo duttile ed elementi funzionali provenienti dal settore militare, medico e scientifico. Le sue sculture ricordano strumenti chirurgici, attrezzature di laboratorio, apparecchi di tortura, oggetti feticcio, equipaggiamenti militari o armature medievali in cui protezione, piacere e dolore convivono in un equilibrio precario. All’interno di queste composizioni postumane, passato e futuro si fondono con l’ausilio di oggetti che suggeriscono una storia di rituali – spesso accompagnati dall’aroma dell’incenso naturale utilizzato in pratiche spirituali, officinali e funerarie –, insieme a congegni meccanici o tecnologici come illuminazione teatrale e luci al neon. La natura multisensoriale di queste opere provoca nell’osservatore un coinvolgimento viscerale, un effetto somatico accentuato da elementi che portano l’impronta di tracce corporee. In una serie di opere iniziata nel 2017, ampi teli di seta, generalmente utilizzati per la realizzazione di paracadute militari, sono racchiusi all’interno di una griglia tubolare in acciaio inossidabile, a suggerire rughe e pieghe dell’epidermide. Questi oggetti dalla natura ibrida evocano la fusione tra corpo, tecnologia e macchina, sancendo un legame permeabile tra la sfera umana e non. L’opera Low Relief Icon (Figure 1) and Low Relief Icon (Figure 2) (2021) è costituita da nastri trasportatori in tensione a cui fa da contrappeso una serie di casse metalliche impiegate dall’esercito americano per il trasporto di resti umani. Le bare sono collocate su un pavimento modulare in metallo, adibito a uno scopo diverso rispetto alla sua funzione originaria di celare i cavi elettrici; ciascuna è illuminata dalla luce tremolante di candele che rimandano a un rito funerario, mentre i feretri evocano il lutto e la violenza sponsorizzata dallo Stato. I dischi di peltro posti sui nastri trasportatori sono decorati dall’effigie ripetuta del crocifisso, evocativo della narrazione eroica del sacrificio individuale che offusca le azioni di uno Stato che paragona la vita a un oggetto usa e getta. Ricavata da un fondale funerario riadattato e illuminato da luci al neon e faretti, l’opera Right Hand Left Hand, Grinds a Fantasizer’s Dust (2021) si pone come una porta che, attirandoci con una falsa promessa di salvezza, offre una riflessione sull’inarrestabile sfruttamento della vita. – LC
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Elaine Cameron-Weir, Untitled, 2018. Paracadute in seta, acciaio inossidabile, pelle, 121,92 × 91,44 × 17,78 cm. Veduta della mostra, III: Heavyshield, Knowles, Cameron-Weir, Remai Modern, Canada, 2018. Photo Blaine Campbell. Courtesy l’Artista; JTT, New York; Hannah Hoffman, Los Angeles Pagine successive: Elaine Cameron-Weir, veduta dell’installazione, Elaine Cameron-Weir: STAR CLUB REDEMPTION BOOTH, Henry Art Gallery, University of Washington, Seattle, 2021. Photo Jonathan Vanderweit. Courtesy l’Artista; Henry Art Gallery, Seattle; JTT, New York; Hannah Hoffman, Los Angeles
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Padiglione Centrale
B I RG I T J Ü RG E N S S E N
1949 – 2003, Vienna, Austria
L’artista austriaca Birgit Jürgenssen, scomparsa prematuramente a cinquantaquattro anni, ha prodotto una considerevole quantità di opere d’arte, tra cui fotografie, disegni, dipinti, sculture e abbigliamento, che manifestano un’acuta prospettiva femminista in una Vienna dominata dalla mascolinità trasgressiva dell’Azionismo e dai costumi conservatori della borghesia austriaca. Presente, insieme ad altri artisti viennesi come VALIE EXPORT e Maria Lassnig, in diversi circoli d’avanguardia negli anni Settanta e Ottanta, tramite l’autoritratto Jürgenssen sperimenta, con sguardo indagatore, le raffigurazioni del corpo femminile e i cliché sulla rappresentazione dei generi, riuscendo così a fondere materiali che parlano di identità e di essere, di psicoanalisi freudiana e Surrealismo, mantenendo al contempo un livello di pensiero politico inequivocabilmente utopistico. Come scrisse una volta, “tra ‘la veglia e il sogno’ possiamo imparare a ‘vedere’ e riconoscere un ‘domani’ nel futuro”1. Meno noti delle sue acclamate serie fotografiche, i disegni di Jürgenssen degli anni Settanta esprimono una prospettiva sul femminismo realizzata specificamente attraverso tavole oniriche ispirate a Freud. In queste composizioni surreali, tutte contraddistinte dalle eccezionali abilità dell’artista nello schizzo, i corpi sono mostrati sia in termini metaforici, sia letterali: sono presentati in varie fasi di metamorfosi, spesso concepiti come esseri ibridi tra l’umano e l’animale; anche agli oggetti spuntano appendici animali. Nel disegno Fehlende Glieder (Missing Limbs) (1974) una figura ben vestita, metà umana e metà crostaceo, esibisce un’acconciatura simile a Medusa, con ricci di chele spinose. Il corpo nudo seduto che infila un indice nella bocca di un uomo inginocchiato in Ohne Titel (1977) ha l’inconfondibile testa pelosa e la schiena ricurva di un gatto nero. Ricordando le opere ricche di elementi psicosessuali dei protagonisti dell’avanguardia quali Meret Oppenheim, lavori come Ohne Titel (1974) mostrano piccoli coltelli che intagliano elementi animali – un’estremità piumata, una coda di pesce, la zampa di uno scarafaggio – rivelando la spinta erotica, psicologica ed emotiva che arde appena sotto la superficie delle cose. Froschschultergürtel (Ergänzung zum menschlichen Bewegungsapparat) (1974) toglie l’ambiguità delle relazioni tra le forme e i confini della mente interna e del corpo esterno. Nel ritrarre una donna che indossa un bikini e una cuffia da nuoto su una spiaggia placida, Jürgenssen fissa con una cinghia uno scudo di ossa all’esterno del corpo della figura. Che si tratti di una fantasia o di un incubo, qui la rappresentazione della femminilità viene legata a qualcosa che non è fisso ed è al contempo inconoscibile. – MW
1
Birgit Jürgenssen, citata in Werner Dornik, The Search Within: Art between Implosion and Explosion, Vienna, Österreichisch-Indische Gesellschaft, 1998, 76.
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Birgit Jürgenssen, Untitled, 1974. Matita, matita colorata su carta fatta a mano, 43,6 × 62,2 cm. Photo Pixelstorm. Courtesy Estate Birgit Jürgenssen; Galerie Hubert Winter, Vienna
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Padiglione Centrale
Birgit Jürgenssen, Frog Shoulder Belt (Addition to Human Motion Apparatus), 1974. Matita, matita colorata su carta fatta a mano, 45 × 62,5 cm. Photo Pixelstorm. Courtesy Estate Birgit Jürgenssen; Galerie Hubert Winter, Vienna Birgit Jürgenssen, Missing Limbs, 1974. Matita, matita colorata su carta fatta a mano, 62,5 × 43,5 cm. Photo Pixelstorm. VERBUND COLLECTION, Vienna. Courtesy Estate Birgit Jürgenssen, Vienna
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P. S TA F F
1987, Bognor Regis, UK Vive a Londra, UK e Los Angeles, USA
Per la realizzazione di film, installazioni e componimenti poetici, l’artista P. Staff attinge a varie fonti di ispirazione, materiali e contesti, i cui esempi più recenti sono la necropolitica di Achille Mbembe, le teorie dell’affetto, la transpoetica di autrici e autori quali Che Gossett ed Eva Hayward, nonché i suoi stessi approfondimenti su coreografia e danza moderna, astrologia e fine vita. Nella pratica interdisciplinare di Staff, questi variegati fili conduttori servono a enfatizzare i processi mediante cui il corpo – soprattutto quello delle persone queer, trans o disabili – viene interpretato, normato e disciplinato in una società rigorosamente controllata da capitalismo, tecnologia e regime legislativo. Nella celebre opera intitolata Weed Killer (2017), Staff offre una spietata visione di malattia e intimità. Parte del video è un monologo adattato da The Summer of Her Baldness (2004) di Catherine Lord. Questo libro autobiografico contiene una riflessione sulla devastazione provocata dalla chemioterapia, che l’autrice descrive come “spararsi in vena del diserbante”, evidenziando il paradosso del dover assumere sostanze estremamente tossiche per poter restare in vita. L’intreccio di sofferenza e contaminazione è un tema costante nell’opera di Staff, così come lo è la cromia acida e fluorescente scelta per le immagini. In On Venus (2019), videoinstallazione su grande scala originariamente realizzata per Serpentine Galleries a Londra e ora riallestita per Il latte dei sogni, Staff prosegue la propria disamina sullo scambio tra corpi, ecosistemi e istituzioni da una prospettiva queer e trans. Allestito su un pavimento a specchio inondato da una luce gialla radioattiva, ambiente che l’artista definisce come “ontologicamente disforico”, il film è composto da due parti. La prima propone riprese graffiate, distorte e sovrapposte che documentano la produzione agroindustriale di beni come urina, sperma, carne, pelli e pellicce, a loro volta utilizzati in vari modi per la produzione di indumenti, farmaci e altre merci. La seconda parte ruota attorno a un componimento poetico che descrive la vita sul pianeta Venere, una realtà omologa a quella terrestre, descritta però come uno stato di non vita o al confine con la morte, uno stato queer dell’esistenza, volatile e in costante metamorfosi, investito dalla violenza che deriva da pressione e calore, venti distruttivi e il disorientante passaggio dal giorno alla notte. Collocata tra l’ecologico e l’industriale, l’opera di Staff raffigura gli stati di violenza che sono alla base della creazione di un soggetto umano, al contempo vicino e lontano, interrogandosi su quale sia la posta in gioco nella creazione di futuri vivibili. – MW
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P. Staff, veduta dell’installazione, P. Staff: On Venus, Serpentine Galleries, London, 2019. Photo © Hugo Glendinning
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Padiglione Centrale
A M B R A C A S TA G N E T T I
1993, Genova, Italia Vive a Milano, Italia
Le sculture, i video, le installazioni e le performance di Ambra Castagnetti scaturiscono dal desiderio di trasformare la nostra relazione con il corpo e con gli esseri viventi che ci circondano. Per Castagnetti, la catarsi facilita la metamorfosi, ed è per questo che nella sua pratica spesso utilizza processi trasformativi. Installazioni quali HONEY e LYCHEN (entrambe del 2021), ad esempio, risultanti dall’amalgama di materiali naturali e sintetici, sembrano liquefarsi alla base in pozze di melma nera. Ispirandosi a un antico rituale legato alla corrida, per Tauromachia (2021) Castagnetti crea una fusione in bronzo raffigurante le corna di un toro, mentre in Cheree Cheree (2021) realizza il calco dell’impronta di un groviglio serpentiforme su uno sfondo di ceramica annerito. La performance è indispensabile alla genesi della sua pratica scultorea, poiché l’artista ritiene che azione e personificazione attiva siano le modalità più efficaci per superare i limiti dell’identità. In una recente performance intitolata Black Milk (2021), Castagnetti lega i performer a sculture di ceramica nera con l’ausilio di corde e catene. La connessione tra gli attori sottolinea la convinzione dell’artista secondo cui il corpo esiste sempre in relazione agli altri e alla nostra capacità di modificare la situazione che ci circonda. Per Il latte dei sogni, Castagnetti realizza Dependency (2022), una serie di sculture posizionate su basi provviste di ruote e rivestite in alluminio spazzolato, che ricordano delle tavole operatorie sopra le quali si trovano dei serpenti in ceramica e una testa medusea, ammucchiati come esemplari scientifici abbandonati. Alla parete sono appese alcune sculture destinate a essere indossate dai performer in un evento a metà tra le pratiche BDSM e un antico rituale interspecie. L’opera di Castagnetti prende le mosse dal concetto di “corpo consapevole” teorizzato dall’antropologa Nancy Scheper-Hughes, e dal credo paleolitico della fluidità, idea per cui gli esseri umani, gli animali, i vegetali e le altre entità viventi possono trasformarsi mutuando la propria forma l’uno dall’altro. Per l’artista il corpo non ha un’identità immutabile, bensì sono le circostanze ambientali, sociali e politiche che concorrono a definirlo in ogni singolo momento. – MK
Ambra Castagnetti è tra i quattro beneficiari della borsa di studio per l’edizione inaugurale della Biennale College Arte, un’iniziativa lanciata nel 2021. Quest’opera è fuori concorso.
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Ambra Castagnetti, veduta dell’installazione Aphros, Rolando Anselmi Galerie, Roma, 2021. Courtesy l’Artista
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Padiglione Centrale
C O S I M A VO N B O N I N
1962, Mombasa, Kenya Vive a Colonia, Germania
Cosima von Bonin emerge negli anni Novanta nel contesto della leggendaria scena artistica di Colonia, dove le sue prime opere concettuali rivendicano un carattere collettivo ed effimero. Da allora, pur avendo sperimentato a lungo l’uso di vari materiali, tra cui tessuti, ricami e fotografie, Von Bonin mantiene nella creazione dei suoi oggetti lo spirito giocoso e ironico che ha contraddistinto l’arte di molte esponenti della sua cerchia di riferimento, quali Rosemarie Trockel, Charline von Heyl e Jutta Koether, il cui lavoro unisce riferimenti a storia dell’arte, cultura pop e musica con un acuto senso dell’umorismo. Nella sua pratica artistica questi principi vanno di pari passo a un approccio destabilizzante nei confronti di attività artigianali e domestiche, tramite sculture e installazioni che sollecitano implicitamente i costrutti del femminismo nella società occidentale. Molti dei progetti intrapresi negli ultimi anni includono installazioni popolate da sagome di tessuto raffiguranti personaggi dell’universo dei cartoni animati – pesci, balene, funghi, cani, razzi – le cui tenere sembianze evocano molteplici contraddizioni: meraviglia e orrore, morbidezza e rigidità, umorismo e dolore. Nei contributi di von Bonin per Il latte dei sogni (tutti del 2022), queste contraddizioni emergono attraverso alcuni dei soggetti più cari all’artista: le creature marine. Sulla facciata del Padiglione Centrale troviamo, come fossero collocate sul frontone di un tempio greco, WHAT IF THEY BARK 01-07, una installazione scultorea fatta di squali e pesci di plastica che brandiscono tavole da surf, chitarre elettriche, ukulele, sarong, missili imbottiti rivestiti con un tessuto a quadretti. Dietro le colonne della facciata dello stesso edificio l’artista installa SCALLOPS (GLASS VERSION), una coppia di capesante su un’altalena a trapezio ed HERMIT CRAB (GLASS VERSION), un paio di paffute chele di granchio avvinghiate a una betoniera, mentre poco lontano, nell’installazione VENICE 1984, delle creature marine circondano una barca veneziana. Giocando con questioni d’attualità quali il capitale, il tempo libero, il comfort e la prestazione individuale, von Bonin ironizza sui vezzi dell’arte contemporanea e della storia dell’arte – in modo particolare le leggendarie origini del readymade. – MW
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Cosima von Bonin, THE BONIN / OSWALD EMPIRE’S NOTHING #05 (CVB’S SANS CLOTHING. MOST RISQUE. I’D BE DELIGHTED. & MVO’S ORANGE HERMIT CRAB ON OFF-WHITE TABLE NEXT TO PINK TABLE SONG), 2010. Materiali e dimensioni variabili. Photo Markus Tretter. © Kunsthaus Bregenz, Cosima von Bonin
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Padiglione Centrale
Cosima von Bonin, installation view, WHAT IF IT BARKS? Featuring AUTHORITY PUREE, Petzel Gallery, New York City, 2018. Photo Jason Mandella. Courtesy l’Artista; Petzel, New York. © Cosima von Bonin Cosima von Bonin, WHAT IF IT BARKS 4 (GERRY LOPEZ SURFBOARD VERSION), 2018. Plastica, tessuto, legno, supporto in acciaio, catene, tavola da surf Gerry Lopez anni Settanta, cordino, borsa termica in pelle/plastica con smile, sciarpe, 200,7 × 114,3 × 103 cm. Photo Jason Mandella. Courtesy l’Artista; Petzel, New York
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MÜGE YILMAZ
1985, Istanbul, Turchia Vive ad Amsterdam, Paesi Bassi
Müge Yilmaz ci invita a considerare la natura come un essere dotato di pensiero e azione propri, e a seguirla nelle sue installazioni e rituali di protezione. Le sculture e le performance di Yilmaz attingono alla miriade di riferimenti antichi letti con occhi femministi, che spaziano dal luvio geroglifico dell’Anatolia tra il Neolitico e l’Età del Bronzo, all’amuleto hamsa (mano di Fatima), ai tradizionali tatuaggi realizzati con cenere mescolata a latte materno destinati a una nuova figlia. Nell’opera On Protection (2021), l’artista collabora con una storica dell’arte e un’archeozoologa per allestire una galleria con raffigurazioni di rituali protettivi e divinità femminili in legno intagliato a macchina e a mano. Le sue sculture appaiono come le ombre dipinte di dèi e animali, gesti congelati nel tempo sulla parete di un tempio o di una caverna, pronti a essere scoperti da una generazione futura. Sculture di paesaggi immaginari con titoli come A New Élan Vital (2013) e Vibrational Objects (2014) richiamano pensatori come Jane Bennett e Henri Bergson, i quali teorizzano che la materia si organizzi e agisca autonomamente. L’opera The Water, the Soil, the Jungle (2016) è caratterizzata da tre performer che indossano dei costumi ondeggianti e mimetici in materiale simile all’erba, rispettivamente colorati di bianco, marrone e verde. Da allora, i tre personaggi – acqua, terra e giungla – sono apparsi in molte altre performance: in The Concrete: The Mountain (Night Search) (2017), in cui i personaggi guidano il pubblico alla scoperta di sorgenti d’acqua; in The Water (2017), dove l’artista circumnaviga l’isola di San Michele durante la 57. Esposizione Internazionale d’Arte, ricreando il dipinto di Arnold Böcklin L’isola dei morti (1880). Per questa edizione, Yilmaz realizza The Adventures of Umay Ixa Kayakızı (2022). L’installazione rappresenta la biblioteca e il lavoro di una vita di Umay, un’astronauta in pensione. Nello “studiolo” segreto, all’interno di una nave-isola, Umay dedica la sua vita a leggere e scrivere testi di fantascienza femminista – opere rare, scritte da donne che si firmano con il proprio nome o sotto pseudonimo maschile. Intagliate a mano da Umay, le sculture totemiche dipinte con accese tonalità blu e verdi diventano i ripiani che ospitano la sua biblioteca, i suoi artefatti e i suoi cimeli – i nipoti stessi dell’astronauta. Le figure possiedono teste di animali, mani recanti potenti glifi e occhi animati intenti a fissare l’osservatore. – MK
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Müge Yilmaz, The Adventures of Umay Ixa Kayakizi (Feminist Science Fiction Library), 2021. Legno di betulla tagliato con CNC e intagliato a mano, legno di pioppo, bambù, libri vari, vetro, luci, piante, schermo olografico, semi vari. Commissionato da Other Futures, Amsterdam. Opera in creta di Lorena Matic. Photo Pieter Kers | beeld.nu
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RE-INCANTO E CHI’XI S I LV I A F E D E R I C I E S I LV I A R I V E R A C U S I C A N Q U I IN CONVERSAZIONE Moderata da Manuela Hansen
Silvia Federici (1942, Parma, Italia) è un’attivista femminista, autrice e accademica. Nel 1972 ha co-fondato il Collettivo femminista internazionale, un’organizzazione che ha lanciato la campagna internazionale Wages for Housework (Salario per il lavoro domestico). Silvia Rivera Cusicanqui (1949, La Paz, Bolivia) è un’attivista aymara, sociologa, e studiosa di storia orale. Nel 1983 si è unita ad altri intellettuali indigeni e mestizos (meticci) con cui ha fondato Taller de Historia Oral Andina (Laboratorio di storia orale andina), un gruppo indipendente dedicato alle questioni dell’oralità, dell’identità e dei movimenti sociali popolari e indigeni, principalmente nella regione degli Aymara. Nella conversazione qui riportata, avvenuta su Zoom nel marzo 2021, toccano concetti come la proposta di Silvia Federici di “re-incantare” il mondo attraverso i commons, ovvero i beni comuni, e il concetto di chi’xi di Silvia Rivera Cusicanqui. Sono state invitate a conversare su queste idee e a riflettere sul presente. Per iniziare, potete dirmi dove vi siete incontrate per la prima volta e come siete venute a conoscenza del vostro reciproco lavoro?
MH
SRC Ci siamo incontrate alla Fiera internazionale del libro di Zócalo a Città del Messico. Era il 2017 o il 2018. Avevo già letto Calibano e la strega di Silvia Federici, pubblicato in spagnolo da Tinta Limón1. Da allora ammiro molto il lavoro accademico di Silvia, il modo in cui usa le immagini, perché da tempo riflettevo sull’importanza delle immagini come veicoli di significati culturali non facilmente traducibili a parole. SF Silvia, secondo me ci siamo incontrate prima, ma non ci siamo parlate. Non eri venuta a quell’incontro sui beni comuni organizzato da Raquel
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Gutiérrez a Puebla2? Ti ho vista al simposio, e in quel momento Raquel mi ha dato i tuoi libri e ho iniziato a leggerti. SRC
È vero, hai ragione.
Dal vostro lavoro si percepisce un senso di urgenza. Silvia Federici, tu sostieni che la rivisitazione e il rinvigorimento del collettivo e dei beni comuni ci consentirà di riconnettere ciò che il capitalismo ha diviso, ovvero il nostro rapporto con il corpo, con la natura e con gli altri, permettendoci di “re-incantare” il mondo. Puoi riassumere brevemente questi concetti? MH
SF Ci sono vari modi di intendere il concetto di beni comuni, e ci sono stati molti scritti provenienti dal Sud. I beni comuni, in generale, rappresentano una diversa concezione di come è organizzata la società e di come riproduciamo la nostra vita. È la concezione di una società organizzata non attorno al principio dello Stato o del mercato, ma una società in cui le persone hanno uguale accesso alla ricchezza che producono, alla ricchezza della natura, e anche al senso di responsabilità per la loro ricchezza. Si tratta di creare pratiche di collaborazione e cooperazione contrarie al modo competitivo che ci viene imposto nel capitalismo. In questo senso, i beni comuni sono un modo per rivendicare e riconquistare il nostro rapporto con il mondo naturale e con gli altri. Rappresentano una politica che, contrariamente ai movimenti socialisti marxisti, non rimanda la rivoluzione a un futuro che non arriva mai, ma cerca di cambiare il presente.
MH
Puoi dirci anche qualcosa di più sul concetto di incanto? Credo stiamo vivendo in un modo che continuamente ci mutila. Abbiamo perso la capacità di relazionarci con il mondo naturale, ci relazioniamo ad esso in un modo molto utilitaristico e distruttivo. Adesso è primavera a New York e io abito vicino a un parco, e quando vado al parco, vedo la magia, vedo la natura riprendere vita, vedo il re-incanto del mondo. Siamo diventati ciechi e sordi alla bellezza e alla magia di questo mondo, alla sua creatività e agli organismi viventi che ci circondano. E il re-incanto del mondo è intimamente connesso alla nozione di bene comune, che è una lotta che sta già accadendo in tanti luoghi, in particolare in America Latina per via della tradizione indigena, e anche in Africa; in tutti quei luoghi in cui esistono ancora strutture comuni. Questo si sta riversando negli Stati Uniti, dove, ad esempio, c’è un grande interesse per l’agricoltura urbana e per le forme di scambio non monetarie. Alcuni dicono che ci stiamo muovendo verso un “mondo rur-urbano”, rurale e urbano allo stesso tempo. Re-incantare il mondo significa ri-ruralizzare il mondo urbano, re-immaginare forme di vita comuni e vivere in una relazione con il mondo in cui si interagisce con la natura perché ne fai parte. SF
Silvia Rivera, in Un mundo chi’xi es posible. Ensayos desde un presente en crisis, ci inviti a immaginare un mondo chi’xi che ci permetterà di emanciparci dall’illusione dell’“Uno”, di sfidare i dualismi pervasivi riconoscendo la nostra scissione interna e la nostra incarnata contraddizione indotta dalla colonizzazione3. Puoi presentarci il concetto di chi’xi?
MH
Chi’xi è una metafora concettuale appresa da uno scultore aymara che mi ha raccontato che certi animali sono chi’xi perché indeterminati e
SRC
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contraddittori: sono sia femmine che maschi, abitano sia l’alaxpacha, il regno esterno, superiore del giorno, sia il manqhapacha, il mondo sotterraneo, che è oscuro e interiore. Animali ed entità come la lucertola o il serpente saltano e attraversano i confini di spazi contraddittori. È stato molto interessante scoprire che è proprio la contraddizione che dà forza a queste entità. C’è una schizofrenia sociale collettiva quando si nega l’altra metà della propria identità, l’identità che è sepolta dal colonialismo. Ad esempio, l’autocoscienza della popolazione indiana è divisa tra la parte indiana cancellata dalla storia e la tradizione occidentale. Dobbiamo quindi risollevare il lato indiano dalle modalità delle imposizioni coloniali, perché il problema con l’identità indigena, così come con l’identità femminile, è che è definita dall’esterno, e la nostra stessa autodefinizione di solito contraddice questa definizione proveniente dall’esterno. A questo proposito, il concetto aymara di pä chuyma, che io traduco come l’idea di doppio legame sviluppata da Gayatri Spivak sulla base dell’idea di schizofrenia di Gregory Bateson, si riferisce all’anima disgiuntiva, o divisa, soffocante e paralizzante, portata dalla colonizzazione. Un gesto di decolonizzazione della propria identità significherebbe allora riconoscere che il colonizzatore vive anche nel colonizzato, e presentare le proprie contraddizioni interne, lavorando con – e a partire da – esse. In altre parole, dallo stato mentale paralizzante e schizofrenico pä chuyma si può diventare chi’xi interrogando e riorganizzando le differenze gerarchiche all’interno della propria identità. Secondo te Silvia, il concetto di chi’xi può applicarsi al di là della cultura andina? Penso alla sua potenziale relazione con il concetto di queer, ad esempio, in quanto chi’xi non presuppone l’ibrido o sintesi ma una contraddizione, qualcosa che è e allo stesso tempo non è.
MH
Ho sempre pensato che con chi’xi si volessero espressamente affrontare le contraddizioni del mondo andino. Ma poiché tante culture si trovano di fronte alla brutalità del colonialismo e a questo doppio legame tra colonizzatore e colonizzato, immagino che in realtà il chi’xi possa essere applicato a molti conflitti di identità e possa anche essere inteso come una via positiva verso l’autocostruzione. Credo che il chi’xi abbia qualcosa a che fare con l’idea di queer, perché una buona idea non può solo essere il prodotto di una testa, deve essere già nell’aria prima che venga espressa a parole. SRC
Vorrei approfondire i punti di contatto tra i vostri scritti. Ritenete che i progetti di re-incantare il mondo e di un mondo chi’xi si intersechino o si completino a vicenda?
MH
SF Quando Silvia parlava del queer, pensavo all’esperienza dell’essere donna, che è una contraddizione vivente costante, è l’esperienza di vivere contemporaneamente in due mondi. Da un lato, essere donna porta con sé un’intera disciplina, radicata nei compiti che ci vengono assegnati all’interno dell’organizzazione capitalista del lavoro. Allo stesso tempo, le stesse cose contro cui stiamo combattendo sono anche cose da cui impariamo. Combatterle ci dà forza e forme particolari di conoscenza ed è qui che il concetto di donna, come identità collettiva, contestata, in costante cambiamento, si rapporta al concetto di chi’xi.
E vedi qualche relazione tra il chi’xi di Silvia e la tua concezione dei beni comuni? Qual è il ruolo della micropolitica in questi progetti?
MH
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SF Il chi’xi di Silvia è decisamente collegato al mio concetto di beni comuni. Costruire relazioni e strutture comuni, in un mondo circondato da relazioni individualiste capitaliste, significa destreggiarsi costantemente tra la contraddizione e vivere in due mondi allo stesso tempo. La micropolitica del partire dal qui e ora, con le persone con cui si hanno affinità, è cruciale. Una cosa che apprezzo del movimento delle donne è l’idea che il personale sia politico, spesso erroneamente intesa come idea secondo la quale i cambiamenti nella tua vita personale sono sufficienti. Ma c’è qualcosa di positivo in questo concetto, ovvero che non puoi pensare di cambiare il mondo a meno che non cambi anche la tua vita quotidiana. La politica alienata è quando vai a una manifestazione, ma poi torni a casa e tutto rimane uguale. Cambiare la nostra vita significa affrontare le contraddizioni che sperimentiamo nella nostra vita; imparare da loro trasforma le nostre relazioni, il nostro senso di solidarietà… ed è anche questo che per me è compreso nel concetto di bene comune. SRC Parlando della possibile complementarità dei nostri punti di vista, direi che in un ambiente alienato di oppressioni troncate o interrotte e di individualizzazione capitalista, si cerca di – e si può – superare questa situazione ricostruendo i legami comunitari attraverso le affinità. L’idea di comunalidad, comunanza, che Raquel Gutiérrez ha sviluppato come idea di entramados comunitarios, vale a dire un tessuto di relazioni intrecciate che formano una comunità, è un processo che può essere realizzato attraverso la deliberata unione di affinità4. Il bene comune non è ereditato, né basato su legami di sangue o di contratto, ma è una via d’uscita spontanea dall’alienazione e dalla sofferenza. MH Per immaginare e costruire un mondo chi’xi e re-incantato, entrambe ci invitate a esaminare e a utilizzare le epistemologie e ontologie indigene. Silvia Federici, in Re-incantare il mondo e in Beyond the Periphery of the Skin, sostieni che le pratiche comuni delle comunità indigene, in particolare delle donne di quelle comunità, costituiscono un’ispirazione per un re-incanto contemporaneo del nostro mondo5. Silvia Rivera, tu dici che l’epistemologia indigena in cui gli esseri animati e inanimati sono soggetti tanto quanto gli esseri umani, ci offre alternative per superare le narrazioni capitaliste e antropocentriche nord-atlantiche6. Potete entrambe argomentare queste idee? SF C’è una sterminata storia e letteratura sul modo in cui la distruzione e la commercializzazione della natura e lo sfruttamento del lavoro umano si siano combinati nel processo di conquista capitalista patriarcale. Sotto questo aspetto, la lotta delle popolazioni indigene è molto legata alla lotta femminista. La letteratura proveniente dal Brasile o dall’Argentina ci dice quanto spesso, nel processo di difesa della terra dall’estrazione mineraria o petrolifera, si sia sviluppata una prospettiva femminista. Perché per difendere le foreste o bonificare acque e terre, devi combattere le strutture patriarcali. Il comportamento patriarcale degli uomini è un grande ostacolo alla capacità di resistenza delle donne, prosciuga la loro energia, e in molti casi rimane comunque un ostacolo. Ed è qui che entra in gioco la questione di rimettere in comune il mondo, perché a meno che non creiamo immediatamente un’alternativa positiva, in questa situazione noi, umani e non umani, non sopravvivremo.
Silvia, sono d’accordo con te che lo spazio agricolo urbano è diventato un luogo privilegiato di rimessa in comune e di re-incanto, perché ha la capacità di cambiare la nostra percezione. Ad esempio, abbiamo fatto alcuni SRC
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laboratori con i bambini nel nostro spazio agricolo urbano, dove seminavano ortaggi che poi venivano a raccogliere. È stato molto bello vedere l’effetto che questo ha avuto nelle loro soggettività, rendersi conto che la carota non viene dal supermercato ma dalla terra. Sì, ora le scuole portano i bambini negli orti comunali perché molti di loro pensano che le patate o le carote provengano da sacchetti di plastica, e vedere una carota che esce dalla terra è magico.
SF
SRC
Sì, è una vera magia.
Puoi dirmi qualcosa di più sull’idea di magia? Qual è la forza della magia per il mondo in cui viviamo oggi?
MH
SF La magia per me è una conoscenza e una sensazione della creatività e dell’interconnessione di ogni cosa nella natura e nelle relazioni umane. Nel caso della carota, vederla uscire dalla terra è rendersi conto che la terra ha in sé grandi poteri creativi. Da questa terra bruna nasce una carota, una cipolla, nascono i fiori in primavera, le foglie sugli alberi. Quando dico che questo è magico, riconosco l’esistenza di forze, di poteri che non sono visibili e tuttavia sono trasformativi. Sfortunatamente, l’idea di magia è più spesso associata alla stregoneria, al desiderio di manipolare le cose o acquisire nuove cose o poteri.
Silvia Rivera, ti riferivi allo spazio El Tambo? Puoi dirci di più sul progetto?
MH
SRC È successo per caso. Un’amica ci ha prestato il suo terreno di 800 mq in una zona molto popolare del centro di La Paz, che si chiama Tembladerani. Abbiamo iniziato nel 2010, quindi sono passati undici anni. Era una discarica e per molti anni abbiamo pulito la terra e abbiamo finito per costruire una casa. Ogni anno facciamo delle cerimonie e un ciclo di rituali, che è un altro modo per ricostruire la comunità e re-incantare il mondo. Ad esempio, dialoghiamo con la Pachamama, la Madre Terra, e i suoi momenti ciclici. Prestiamo attenzione a processi nel cielo a cui le persone urbane di solito non pensano, come ad esempio l’effetto della luna piena o dei movimenti crescenti e calanti sulle piante. In città di solito non sai dove sono l’Oriente e l’Occidente perché non ti relazioni a dove sorge o tramonta il sole. Ma una volta che diventi consapevole dei cicli dell’universo, la tua esperienza urbana può uscirne completamente trasformata. Questo dialogo ti dà la sensazione di un mondo che viene re-incantato. Ti senti parte e in compagnia di tutti gli esseri e le entità non umane che rispondono alle tue cure e viceversa.
MH
Silvia Federici che cosa ne pensi? SF Sono completamente d’accordo con Silvia sull’importanza del rito. Voglio citare un libro in spagnolo, Gobierno comunal indígena y estado Guatemalteco (Governo della comunità indigena e Stato guatemalteco) di Gladys Tzul Tzul7. Gladys è una straordinaria donna del Guatemala e ha scritto questo potente libro sul sistema indigeno di Totonicapán, da cui proviene. Descrive un mondo in cui l’organizzazione di quella che chiamiamo “vita politica” nasce dalla riproduzione quotidiana e parla in particolare dell’importanza dei rituali. Ad esempio, scrive della fiesta, che non è solo stare insieme, bere
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e divertirsi. La fiesta è un rito, un momento di ri-significazione di ciò che vuol dire essere nella comunità. La gente ci lavora tutto l’anno. I rituali fanno parte della creazione di un interesse comune, di una storia comune. Un altro aspetto della lotta in America Latina che mi ha ispirato nella formulazione del concetto di beni comuni è l’idea che viviamo in tempi diversi e simultanei. Quando le persone dicono “compañero presente”, esprimono un gesto di solidarietà non solo con i vivi, ma anche con coloro che sono morti. Significa “siamo i tuoi alleati, siamo la tua voce, non sei morto, sei con noi, ci stai ancora ispirando”. Perché il mondo dei morti e il mondo dei vivi sono continui, non sono separati. Anche qui i rituali, come il Giorno dei morti in Messico, sono importanti. Questa solidarietà con coloro che non sono più con noi, questa volontà di renderli parte della nostra vita e non dimenticare ciò per cui hanno lottato, essere il loro sguardo, la loro voce… tutto questo fa parte del re-incantare il mondo. Riguardo al concetto di temporalità, Silvia Rivera, dici di essere riluttante a usare il prefisso “post”. Parli anche di decoloniale come una tendenza e dell’anticoloniale come una lotta. Ci puoi spiegare che cosa intendi con questo?
MH
Nell’idea aymara della circolarità del tempo, la natura a spirale del tempo ritorna a un punto precedente, ma su un nuovo livello. Il tempo ritorna allo stesso punto ma non è mai esattamente lo stesso. E secondo me la parte lineare nell’idea di postcolonialismo, o “post” di qualsivoglia cosa, è illusoria perché rivela l’impazienza di sbarazzarsi del passato, di superarlo e infine di trascenderlo. Penso anche che il postcolonialismo sia più un desiderio che una descrizione della realtà. Peggio ancora, il decoloniale è una moda che passerà molto presto. L’anticoloniale, invece, è una lotta che non solo è molto attuale oggi, ma non ha ancora raggiunto una condizione di postcolonialità. Il desiderio di postcolonialità va bene, ma la realtà non va confusa con il desiderio. SRC
Sono molto d’accordo con te Silvia, sulla circolarità del tempo. Sono anch’io contraria alla tendenza “post” e uso invece “anticoloniale”. Non uso mai postcoloniale o decoloniale, sempre anticoloniale. Perché il colonialismo non è finito. Stiamo assistendo a espropriazioni di massa, evacuazioni di massa, milioni di persone cacciate dalle loro terre originarie e poi lasciate a morire nel Mediterraneo o nelle carceri degli Stati Uniti. A proposito della circolarità del tempo, è tornata anche la caccia alle streghe. SF
A tal proposito, ha senso parlare o immaginare un mondo post-pandemia?
MH
Sono molto pessimista. Penso che questa sia la prima di una serie di pandemie a venire. Non credo quindi che possiamo ancora affrontare il periodo post-pandemia. Penso anche però che dovremmo lottare contro il pessimismo.
SRC
MH Silvia Federici, da tempo combatti contro l’indifferenza nei confronti del lavoro riproduttivo nella nostra società capitalista. Credi che la pandemia abbia portato maggiore consapevolezza sull’indispensabile lavoro di cura degli altri, o lavoro riproduttivo?
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SF Penso che la pandemia stia portando una nuova attenzione sulla crisi che le donne vivono da tempo. La questione delle donne che ora stanno a casa con il telelavoro e poi magari si prendono cura dei bambini e della loro didattica a distanza, e poi fanno i lavori domestici, per non parlare di quando qualcuno si ammala a casa: questa è l’enormità di che cosa sia il lavoro riproduttivo. E molte donne – le cosiddette “lavoratrici essenziali” – non hanno il privilegio di stare a casa. Senza lavoro riproduttivo nulla si muove. È importante per la vita delle persone ma anche per la riproduzione della forza lavoro, quindi i veri beneficiari sono i datori di lavoro e l’intero mondo capitalista. Ho combattuto il movimento femminista per non aver fatto abbastanza in questo senso. Oggi tutto viene rinchiuso, recintato o confinato. Ora compriamo acqua in bottiglia, presto compreremo aria in bottiglia per poter respirare. Questa pandemia ci ha dimostrato che solo grazie al lockdown, che ha ridotto l’inquinamento, in molte regioni del mondo le persone hanno potuto vedere il cielo. Questo è un crimine enorme. Ci dicono i numeri delle persone che muoiono di Covid ma non quelli di coloro che muoiono di cancro perché questo ci porterebbe a interrogarci sulla responsabilità di tutte le sostanze chimiche che entrano nella terra e nel nostro corpo, e sul ruolo delle aziende farmaceutiche. La storia degli ultimi trent’anni è una storia di epidemie; in Africa, ad esempio, migliaia di persone sono morte di colera, meningite, ebola. Parliamo di Covid, oggi, solo perché ne sono colpiti Europa e Stati Uniti. Ma in tutto il mondo le persone stanno morendo perché il loro sistema immunitario è stato distrutto, poiché vivono in condizioni antigieniche e senza le risorse più basilari.
A proposito del rinchiudere, del recingere, da decenni sostieni che il capitalismo sta conducendo una guerra contro il nostro corpo – contro quello femminile in particolare – attraverso strategie di confinamento. Quali sono le forme più evidenti oggi?
MH
SF Le chiusure sono onnipresenti. Le politiche in atto oggi sono costruite su processi di confinamento costante: della terra, della conoscenza, dei nostri corpi. Parlando di violazione dei corpi, oggi vengono brevettati anche i geni umani. Il capitalismo ha imparato molto tempo fa che rompere i legami connettivi che le persone hanno tra loro nella comunità, trasformandoci in persone chiuse in se stesse, isolate, singole isole, conferisce un grande potere. Quando si è soli, isolati dalle altre persone, si viene sconfitti più facilmente. Penso che ora molti dei lavori che si facevano fuori casa vengano rimandati a casa perché ciò riduce i costi di produzione per le aziende, inoltre avere una forza lavoro dispersa impedisce alle persone di organizzarsi. Il razzismo è una forma di reclusione. Negli Stati Uniti gli studi dimostrano che all’interno della comunità nera, anche le persone che hanno livelli di reddito abbastanza alti hanno un’aspettativa di vita inferiore a quella dei bianchi con lo stesso livello di reddito. Questo perché la tensione di vivere in una società razzista ha un effetto diretto sul nostro corpo. Quindi, dobbiamo creare nuove strutture. Una nuova società.
MH
Vorrei tornare sulla questione della vita con e nella pandemia. La pandemia ha avuto effetti molto contraddittori. Da un lato, all’improvviso c’è stata un’atmosfera incredibilmente limpida, il mondo si è fermato e la natura ha ricominciato a fiorire. D’altra parte, un terribile
SRC
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effetto della reclusione è stato l’aumento dei femminicidi. Inoltre, non possiamo abbracciarci, non possiamo stringerci la mano, manteniamo una distanza fisica. Ma, in un certo senso, ciò ha anche dato voce a precedenti reti di parentela e reti di quartiere. Con il Covid ora abbiamo una società che pone molta più enfasi al piccolo che al grande, dove ci rendiamo conto di poter cambiare certi atteggiamenti delle persone che ci circondano. E parlando del chi’xi, penso che possiamo prendere queste contraddizioni come un’opportunità per migliorare i modi di adattamento più positivi e creativi e per cercare di non rafforzare gli atteggiamenti reciproci più egoisti e diffidenti. Ad esempio, abbiamo imparato che se non possiamo abbracciarci, le nostre parole diventano un’importante espressione delle nostre emozioni. Se vogliamo evitare che si avverino le previsioni più negative riguardo a ciò che ci riserva il futuro, dobbiamo re-imparare a fidarci delle nostre relazioni immediate – dei nostri vicini e famigliari – e a coltivarle. Sono d’accordo con te, Silvia. Questo è un grande momento di opportunità. Mi auguro che sapremo come utilizzarlo.
SF
Silvia Federici ha scritto fra gli altri Caliban and the Witch: Women, the Body and Primitive Accumulation (Autonomedia, 2004; tr. it. Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, 2015); Re-Enchanting the World: Feminism and the Politics of the Commons (PM Press, 2018; tr. it. Re-incantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, Ombre Corte, 2021); Beyond the Periphery of the Skin: Rethinking, Remaking, and Reclaiming the Body in Contemporary Capitalism (PM Press, 2020). Silvia Rivera Cusicanqui è autrice fra gli altri di Sociología de la imagen. Miradas chi’xi desde la historia andina (Tinta Limón, 2015), Un mundo chi’xi es posible. Ensayos desde un presente en crisis (Tinta Limón, 2018). Manuela Hansen è una curatrice argentina che attualmente vive a New York.
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Silvia Federici, Caliban and the Witch: Women, the Body, and Primitive Accumulation, New York, Autonomedia, 2004 (tr. it. Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Milano-Udine, Mimesis, 2015). Raquel Gutiérrez Aguilar è un’intellettuale messicana militante e docente di Sociologia presso la Beemérita Universidad Autónoma de Puebla. Si veda Silvia Rivera Cusicanqui, Un mundo chi’xi es posible. Ensayos desde un presente en crisis, Buenos Aires, Tinta Limón, 2018, 17, 56, 81. Si veda Raquel Gutiérrez Aguilar, Horizontes comunitario-populares. Producción de común más allá de políticas estado-céntricas, Madrid, Traficantes de Sueños, 2017.
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Si veda Silvia Federici, Re-Enchanting the World: Feminism and the Politics of the Commons, Oakland (CA), PM Press, 2018 (tr. it. Re-incantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, a cura di Anna Curcio, Verona, Ombre Corte, 2021); Federici, Beyond the Periphery of the Skin: Rethinking, Remaking, and Reclaiming the Body in Contemporary Capitalism, Oakland (CA), PM Press, 2020, 96. Si veda Rivera Cusicanqui, Un mundo chi’xi es posible, cit., 90. Si veda Gladys Tzul Tzul, Gobierno comunal indígena y estado Guatemalteco. Algunas claves críticas para comprender su tensa relación (Il governo comunale indigeno e lo Stato guatemalteco. Alcune chiavi critiche per capire il loro teso rapporto), Guatemala, Instituto Amaq’, 2018.
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R MOST
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AR S E NA
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SIMONE LEIGH
1967, Chicago, USA Vive a New York City, USA
Attraverso l’utilizzo di tecniche scultoree premoderne e contemporanee, tra cui fusione a cera persa e smaltatura al sale, combinate con materiali di forte valenza culturale quali conchiglie cipree, banane verdi, rafia e foglie di tabacco, Simone Leigh ha sviluppato nell’arco di due decenni un corpo poetico di sculture, installazioni, video e opere di arte relazionale che pongono al centro la razza, la bellezza, la comunità e la cura, in riferimento al corpo delle donne di colore e all’impegno intellettuale. In origine collocata sulla High Line di New York nel 2019, Brick House – il monumentale busto in bronzo di una donna nera la cui gonna ricorda una casa di argilla – torreggiava, simile a una divinità, sulla trafficata Decima strada di Manhattan. Si tratta di un formidabile rovesciamento della tradizione della scultura figurativa in bronzo della statuaria confederata, molti esempi della quale sono stati abbattuti in tutti gli Stati Uniti negli ultimi anni. In parte donna, in parte casa, Brick House è una scultura attraverso la quale storia, etnografia e soggettività femminile nera sono espresse con materiali, forme, e anche attraverso i profondi rimandi culturali che queste entità esprimono. Creata come parte della serie Anatomy of Architecture (2016–in corso), Brick House appartiene a un gruppo di sculture che fonde corpi e riferimenti architettonici. Come in molti dei recenti progetti di Leigh, la serie include passaggi attraverso molteplici percorsi culturali panafricani e afro-diasporici: dalle case a obice del popolo Mousgoum in Ciad e Camerun, agli edifici in argilla e legno dei Batammaliba in Togo, dalle statuette nigeriane ibeji, alla tradizione artigianale afroamericana del XIX secolo delle brocche antropomorfe, fino al Mammy’s Cupboard, un ristorante a Natchez, nel Mississippi, costruito con le sembianze dell’archetipo razzista della mammy, la cui enorme gonna rossa ospita la sala da pranzo. Come ha affermato l’artista stessa, quando ha iniziato a lavorare a questa serie stava pensando anche alla lunga tradizione di associare il corpo femminile, nella storia dell’arte, all’idea di abitazione, contenitore, strumento o “loophole of retreat” (scappatoia di ritiro), ovvero spazi in cui nascondersi, fuggire e rifugiarsi, come descritto dalla scrittrice e schiava liberata Harriet Jacobs nella sua autobiografia del 1861 Vita di una ragazza schiava. Evocando via via l’idea di contenitore, spazio confortevole, oggetto di consumo, santuario, Brick House fornisce un potente ritratto del corpo della donna nera come un luogo di molteplicità. – MW
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Simone Leigh, Brick House, 2019. High Line Plinth Commission, High Line, New York City, 2019. Photo Timothy Schenck. Collezione privata. Courtesy l’Artista; the High Line. © Simone Leigh
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Simone Leigh, Brick House, 2019. High Line Plinth Commission, High Line, New York City, 2019. Photo Timothy Schenck. Collezione privata. Courtesy l’Artista; the High Line. © Simone Leigh
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B E L K I S AY Ó N
1967 – 1999, L’Avana, Cuba
Pur essendo un’atea dichiarata, l’artista cubana Belkis Ayón dedica gran parte della propria opera a codici, simboli e racconti degli Abakuá, una confraternita segreta di schiavi afrocubani originaria dell’area compresa tra la Nigeria sudorientale e il Camerun, il cui mito di fondazione si basa sull’atto di tradimento commesso da una donna. Secondo la leggenda, riempiendo una brocca al fiume, la principessa Sikán catturò accidentalmente un pesce magico in grado di garantire pace e prosperità a chi lo avesse udito parlare. Mentre portava il pesce al padre, la fanciulla giurò che avrebbe mantenuto il segreto, ma poi lo confidò al compagno e per questo fu condannata a morte. Personaggio centrale in tutta l’opera di Ayón, Sikán è solitamente raffigurata priva di lineamenti, a eccezione degli occhi, e assume diverse sembianze all’interno della vasta, e spesso sconcertante, mitologia Abakuá. Allo stesso tempo, Ayón fa interamente propria la tradizione Abakuá, che di per sé è priva di un’iconografia figurativa tramandata. Incarnando un mondo per metà frutto di invenzione e per metà d’adozione, Sikán compare anche in scene religiose tratte dalle scritture giudeo-cristiane, nonché in scenari misteriosi che rievocano la vita di Ayón: quella di una vera donna afrocubana alla fine del millennio, assorbita dai suoi drammi interiori. Il ciclo in tre parti La consagración I, II e III (1991) costituisce una delle opere in cui Ayón mette in scena la sua fascinazione per la società Abakúa. Ciascuna sezione, impostata su formati ad arco e composizioni simmetricamente bilanciate che imitano le pale d’altare religiose medievali, raffigura una scena di unzione spirituale o di annuncio con dettagli elaborati. Come gran parte dell’arte di Ayón realizzata durante la sua breve ma intensa carriera, queste stampe, e le altre opere in mostra, sono state create tramite la tecnica di stampa della collografia, un approccio simile al collage in cui materiali eterogenei sono ammassati su una lastra per creare una composizione, in contrasto con tecniche come l’acquaforte o il taglio del legno, in cui le immagini sono scolpite sulla superficie della lastra. Come metodo, la collografia permette una vasta gamma di toni, texture e forme; nelle abili mani di Ayón, le sottili gradazioni di neri, bianchi e grigi assumono un peso magico e evocativo. – MW
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Belkis Ayón, Resurrección, 1998. Collografia, 263 × 212 cm. Photo Watch Hill Foundation. Collezione Watch Hill Foundation and von Christierson Family. Courtesy Watch Hill Foundation and von Christierson Family. © Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba
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Belkis Ayón, La consagración I, 1991. Monotipo su carta, 12 parti. Trittico, parte 1, 225 × 300 cm. Photo José A. Figueroa. Courtesy Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba; The State Russian Museum. © Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba; © The State Russian Museum 2022 Belkis Ayón, La consagración II, 1991. Monotipo su carta, 12 parti. Trittico, parte 2, 225 × 300 cm. Photo José A. Figueroa. Courtesy Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba; The State Russian Museum. © Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba; © The State Russian Museum 2022 Belkis Ayón, La consagración III, 1991. Monotipo su carta, 12 parti. Trittico, parte 3, 225 × 300 cm. Photo José A. Figueroa. Courtesy Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba; The State Russian Museum. © Belkis Ayón Estate, Havana, Cuba; © The State Russian Museum 2022
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GABRIEL CHAILE
1985, San Miguel de Tucumán, Argentina. Vive a Buenos Aires, Argentina e Lisbona, Portogallo
La pratica artistica di Gabriel Chaile comprende sculture, disegni e installazioni. Ogni creazione è influenzata dal rapporto dell’artista con le comunità in stato di indigenza, i rituali e le tradizioni artistiche del suo luogo di origine. Cresciuto nella città settentrionale di San Miguel de Tucumán in una famiglia di retaggio spagnolo, afro-arabo e indigeno di Candelaria, Chaile impiega spesso materiali, forme e simboli archetipici associati alle vestigia archeologiche delle civiltà precolombiane, in una sintesi poetica e al contempo umoristica. Autodefinendosi “antropologo visuale”, l’artista richiama l’attenzione sulle concezioni comunitarie tradizionali della produzione estetica locale oscurate dal potere coloniale e crea spazi in cui precedente storico, epistemologie indigene e consuetudini artigianali premonitrici si mescolano alla vita contemporanea. Chaile realizza le sue caratteristiche sculture in argilla, mattone, adobe, bronzo o ferro rifacendosi a una teoria che lui stesso definisce “genealogia della forma”. Creando oggetti come pentole e forni di argilla, molti dei quali realmente utilizzabili per la preparazione di cibo, l’artista evoca il rapporto tra i recipienti argentini tradizionali – di cui illustra anche l’evoluzione nel corso del tempo – e il nutrimento, il sostegno, la collaborazione e le attività della comunità. Assumendo spesso tratti antropomorfi o incorporando uova e altre forme oblunghe, questi manufatti volgono lo sguardo al passato, anche nel momento in cui continuano a svolgere la loro funzione nell’oggi. La recente opera intitolata La Malinche (2019) è un forno di argilla che assume la forma di un ibrido tra donna e uccello. Il titolo riprende il nome dell’interprete indigena a servizio di Hernán Cortés, il conquistatore che sottomise buona parte del Messico alla dominazione spagnola all’inizio del XVI secolo. Richiamando una varietà di immagini e associazioni tratte dalla tradizione ceramica precolombiana dell’Argentina nordorientale, in parte oscurata nel tempo, quest’opera ritrae un semplice recipiente per la sopravvivenza nel pieno di un processo di trasformazione, pervaso dal corpo di una figura storica, a lungo additata come traditrice e interpretata come vittima della conquista coloniale. Le cinque nuove sculture di Chaile per Il latte dei sogni prendono analogamente la forma di fornaci ibride uomoanimale che si rifanno ad antichi vasi di ceramica, qui disposte in modo da evocare un tempio, una fabbrica o un alveare. Al suo centro, una scultura di adobe di sette metri di altezza coglie un essere ibrido in piena trasformazione. Nel complesso, la nuova serie di Chaile è un’espressione della capacità del corpo di fare comunità, del dare e prendersi cura, plasmato dalla storia, ma vissuto nel presente. – MW
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Gabriel Chaile, veduta della mostra, Genealogía de la forma, Barro, Buenos Aires, 2019. Photo Santiago Orti. Courtesy l’Artista; Barro, Buenos Aires
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Gabriel Chaile, Indudablemente estos músicos están rayados, 2021. Argilla, legno, corde da chitarra, tempera, struttura in metallo, 143 × 116 × 167 cm. Photo Andrea Rossetti. Courtesy l’Artista; ChertLüdde, Berlin Gabriel Chaile, Mamá luchona, 2021. Veduta della mostra, 2021 Triennial: Soft Water Hard Stone, New Museum, New York City, 2021. Photo Dario Lasagni. Courtesy l’Artista; Barro, Buenos Aires; ChertLüdde, Berlin
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FICRE GHEBREYESUS
1962, Asmara, Eritrea – 2012, New Haven, USA
Meditativi e nel contempo esuberanti, gli aggraziati dipinti acrilici e a olio di Ficre Ghebreyesus catturano la complessità dell’infanzia dell’artista in Africa orientale e la sua vita nella diaspora, presentando un mondo soffuso di ricordi, visioni e storie. Popolati da vorticose raffigurazioni di barche, aeroplani, angeli, pesci e strumenti musicali, la loro qualità onirica si legge come una sorta di romanticismo, poiché questi paesaggi fantastici e audacemente colorati nascono dalla nostalgia autentica di un tempo e di un luogo interrotti dal conflitto. Nato da una famiglia copta ad Asmara, capitale dell’Eritrea, all’inizio della difficile Guerra d’indipendenza del Paese dall’Etiopia durata trent’anni (1961–1991), Ghebreyesus lascia ancora adolescente la sua città natale come rifugiato, per poi viaggiare e vivere in Sudan, Italia e Germania, prima di stabilirsi definitivamente a New Haven, nel Connecticut. Qui, Ghebreyesus apre assieme ai fratelli un famoso ristorante di cucina dell’Africa orientale, e vi lavora come cuoco. Si dedica inoltre all’arte, iscrivendosi infine al Master of Fine Arts di Yale. Cuoco per quasi tutta la vita adulta, Ghebreyesus sceglie di rifiutare gran parte delle opportunità espositive che gli si presentano. Alla sua morte, nel 2012, la maggior parte dei suoi dipinti non è mai stata esposta pubblicamente. Le tele a più strati City with a River Running Through (2011), Nude with Bottle Tree (2011 ca.) e Fish (2008–2011 ca.), rimandano alle influenze interconnesse dell’infanzia ad Asmara e dell’età adulta nella diaspora, utilizzando il concetto di stratificazione sia dal punto di vista formale, sia metaforico. La grande opera non intelaiata City with a River Running Through presenta un paesaggio urbano costruito in un patchwork colorato a scacchiera, con motivi e forme arancioni e color pesca che ricordano i tradizionali cesti e ricami eritrei, così come le case moderniste sparse in tutta Asmara. In Nude with Bottle Tree una figura appare accanto a un albero in un paesaggio densamente articolato. L’antica usanza di abbinare contenitori dismessi ai rami degli alberi – tradizione originata nel Regno del Congo sulla costa dell’Africa occidentale – arriva nelle Americhe portata da individui costretti in schiavitù e da allora è strettamente associata alle comunità afroamericane negli Stati Uniti meridionali, dove è spesso interpretata come mezzo per allontanare gli spiriti maligni. Sul lato destro della tela compare un’altra figura che regge uno strumento musicale e che ricorda le sculture yoruba di cavalieri a cavallo, figure rituali raffiguranti guerrieri armati. Insieme, si trovano a un bivio tra mondi. Come nelle maggiori opere di Ghebreyesus, identità e patria sono in perenne mutamento. – MW
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Ficre Ghebreyesus, Nude with Bottle Tree, 2011 ca. Acrilico su tela, 182,9 × 213,4 cm. Photo Christopher Burke Studio. Collezione privata. Courtesy Galerie Lelong & Co., New York. © The Estate of Ficre Ghebreyesus
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Ficre Ghebreyesus, City with a River Running Through, 2011. Acrilico su tela non tesa, 185,4 × 563,2 cm. Photo Christopher Burke Studio. Courtesy Galerie Lelong & Co., New York. © The Estate of Ficre Ghebreyesus
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P O R T I A Z VAVA H E R A
1985, Harare Vive ad Harare, Zimbabwe
Portia Zvavahera vede attraverso i sogni. Come lei stessa afferma: “Il sogno è come il profeta che parla del futuro, di quanto accadrà o della causa per la quale qualcosa avverrà in futuro. Tutti dormiamo; tutti sogniamo”1. Attingendo alle immagini e alle sensazioni radicate nel suo subconscio, Zvavahera coniuga l’intensità emotiva della sua vita interiore al misticismo indigeno dello Zimbabwe e alla dottrina pentecostale apostolica che ha contraddistinto la sua educazione. I giganteschi dipinti mistici dell’artista di Harare comunicano per lo più una visione spirituale di momenti quotidiani, tra cui le rappresentazioni della sua famiglia, di animali proteiformi, di figure che partecipano a cortei nuziali o inginocchiate nell’atto di pregare, o di donne impegnate nel parto e in rituali secolari connotati come tipicamente femminili, quali l’accudimento dei bambini. In queste opere dai motivi vivaci, Zvavahera ritrae le sue protagoniste come figure divine che occupano uno spazio a metà tra il fantastico e l’allegorico, tra un piano spirituale e uno terreno. I dipinti di Zvavahera sono il risultato di un processo rituale di pittura e stencil che crea motivi stratificati con colori brillanti. Attraverso questo metodo, le campiture delle sue tele costituiscono forme modellate sovrapposte a palette cromatiche piatte, evocative della xilografia tipicamente impiegata nella stampa tessile dello Zimbabwe, dando vita a una dinamica ritmica, quasi musicale, tra il materiale e il segno grafico. Per Il latte dei sogni, Zvavahera presenta una serie di quattro nuove opere che proseguono la sua indagine sulla pittura come forma di catarsi spirituale. Avviluppate da spirali di colore che ricordano un mantello avvolgente, le figure di dipinti come Kudonhedzwa kwevanhu (2022) sembrano galleggiare dentro e fuori dai piani dell’esistenza, incorniciate da frammenti del mondo naturale, insieme a creature ultraterrene simili a gufi, intente a osservare dall’alto un momento di condivisione. Ritraendo queste figure mistiche con l’ausilio di colori a olio e sofisticate pennellate, Zvavahera si confronta con le visioni angoscianti che popolano il suo subconscio per individuare i moniti, o le lezioni, che queste potrebbero rivelare. – MW
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Portia Zvavahera, citata in Sabine Russ, Portia Zvavahera by Netsayi, in “BOMB”, 134, 2015, 36–45 (https://bombmagazine. org/articles/portia-zvavahera).
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Portia Zvavahera, Ndirikukuona (I can see you), 2021. Inchiostro da stampa a base oleosa, colore a olio su tela, 220,7 × 191,5 × 7,9 cm. Photo Stephen Arnold. Courtesy l’Artista; Stevenson; David Zwirner. © Portia Zvavahera
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Arsenale
Portia Zvavahera, Ndirikuda kubuda (I want to come out), 2021. Inchiostro da stampa a base oleosa, colore a olio su tela, 208 × 180,7 × 7,9 cm. Photo Stephen Arnold. Courtesy l’Artista; Stevenson; David Zwirner. © Portia Zvavahera
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Portia Zvavahera, This is where I travelled [4], 2020. Inchiostro da stampa a base oleosa, colore a olio su tela, 242,5 × 201 cm. Photo Jack Hems. Courtesy l’Artista; Stevenson; David Zwirner. © Portia Zvavahera
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Arsenale
R O S A N A PA U L I N O
1967, San Paolo Vive a San Paolo, Brasile
La poliedrica attività di Rosana Paulino abbraccia numerosi ambiti quali disegno, ricamo, incisione, serigrafia, collage, scultura e installazione, intesi come mezzi che, utilizzati per attivare la memoria collettiva e personale, riflettono la sua posizione di donna di colore in Brasile. Paulino esplora la storia della violenza razziale – la reificazione e la sottomissione perpetrate nei confronti delle persone di origine africana – e il persistente retaggio della schiavitù in Brasile. Nel suo lavoro l’artista analizza in dettaglio l’elaborazione e la diffusione delle teorie colonialiste e razziste che, plasmando il sapere scientifico, sono servite a giustificare l’imperialismo europeo e il commercio degli schiavi. Nel denunciare le pratiche di sfruttamento, i disegni della serie Wet Nurse (2005) esaminano il ruolo delle balie di colore, donne ridotte in schiavitù che allattavano i figli del padrone. Un groviglio di vene che si diramano da seni arrossati spunta dai capezzoli a indicare il latte e, al contempo, a suggerire gocce di sangue, a volte presenti nei corpi tratteggiati dei neonati. Nella serie di disegni Weavers (2003), dai seni, dalle vagine, dagli occhi e dalle bocche delle donne spuntano delle radici, intrecci di fili che sembrano avvolgere e torturare chi li ha generati. La serie Senhora das plantas (2019) ritrae corpi femminili dai quali si diramano viluppi di radici e piante, e in cui le donne raffigurate assumono un ruolo attivo nella materializzazione della vita. Nella serie Jatobá (2019) tronchi emergono dal suolo e si innalzano fino a confondersi con corpi umani che, a loro volta, si fondono e sono avvolti da fiori, piante e alberi. La presenza delle radici rizomatiche evidenzia l’interesse dell’artista per la biologia, reso ancora più esplicito in alcuni studi di animali e disegni a carattere biologico che rappresentano organismi in uno stato costante di mutazione e trasformazione. Nella serie di disegni antropomorfi Carapace of Protection, eseguita nel primo decennio del Duemila, delle figure emergono da alcuni bozzoli, nei quali il processo di metamorfosi concede ai corpi – a metà tra essere umano e insetto – un momentaneo senso di euforia in quella che è un’affascinante esistenza transitoria. Rivelando la promessa di trasformazione e la possibilità di evitare paradigmi immutabili, la pelle diventa la reliquia di un tempo passato e simboleggia la caduta delle costrizioni. Nei suoi disegni, Paulino offre l’opportunità di ricostruire identità, storie e miti condannando, al tempo stesso, la violenza del dominio e dell’emarginazione perpetrata a scapito degli afrodiscendenti, e soprattutto, dei corpi delle donne di colore. – LC
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Rosana Paulino, from Jatobá series, 2019. Acquarello, grafite su carta, 65 × 50 cm. Photo Bruno Leão. Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM São Paulo, Brussels, New York. © Rosana Paulino
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Arsenale
Rosana Paulino, from Jatobá series, 2019. Acquarello, grafite su carta, 65 × 50 cm. Photo Bruno Leão. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM São Paulo, Brussels, New York. © Rosana Paulino Rosana Paulino, from Senhora das Plantas series, 2019. Acquarello, grafite su carta, 37,5 × 27,5 cm. Photo Bruno Leão. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM São Paulo, Brussels, New York. © Rosana Paulino Rosana Paulino, from Senhora das Plantas series, 2019. Acquarello, grafite su carta, 37,5 × 27,5 cm. Photo Bruno Leão. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM São Paulo, Brussels, New York. © Rosana Paulino
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Arsenale
T H AO N G U Y E N P H A N
1987, Ho Chi Minh Vive a Ho Chi Minh, Vietnam
Formatasi come pittrice, l’artista vietnamita Thao Nguyen Phan realizza installazioni e video che esaminano storia e civiltà attraverso un intreccio tra reale e immaginario. L’opera di Phan mescola mitologia e folclore a temi urgenti come l’amnesia storica, l’industrializzazione, la sicurezza alimentare e l’ambiente. I suoi progetti recenti esplorano la bellezza e la sofferenza che circondano il fiume Mekong, che, partendo dall’altopiano del Tibet, attraversa la provincia cinese dello Yunnan, il Myanmar, la Thailandia, il Laos e la Cambogia prima di raggiungere il mare lungo la costa del Vietnam. Combinando riferimenti letterari, biografie immaginarie, pseudodocumentari e rivisitazioni di storie popolari, Phan analizza i cambiamenti sociali e ambientali occorsi lungo il fiume a causa del cambiamento climatico, del sovrasfruttamento delle risorse ittiche, della costruzione di dighe e del saccheggio subito dal patrimonio culturale in seguito al colonialismo. L’ultimo film di Phan, intitolato First Rain, Brise-Soleil (2021–in corso), approfondisce le esplorazioni dell’artista nella regione del Mekong attraverso una narrazione intrisa di poesia. Il film si apre con una citazione di Matsuo Bashō, poeta giapponese del periodo Edo, per proseguire con la storia di un artigiano khmer specializzato nella costruzione di brise-soleil, le strutture frangisole diffuse in tutto il Sud del mondo per ombreggiare e arieggiare gli ambienti e che, in città come Ho Chi Minh (prima del 1976 chiamata Saigon), uniscono le tecniche tradizionali vietnamite di costruzione artigianale a un materiale come il calcestruzzo, associato al dominio statunitense. Attraverso la narrazione in prima persona di un personaggio immaginario, l’opera tratta il tema dell’imperialismo statunitense nella regione e la guerra cambogianovietnamita del 1977–1991. Nella seconda parte, il film è ambientato al tempo delle guerre feudali del XVIII secolo, incentrandosi sulla storia d’amore tra un guaritore vietnamita e una donna khmer che si dipana lungo il simbolismo del frutto durian, di cui il delta del Mekong è una delle principali aree di produzione. Opponendo la solitudine del contesto urbano di Saigon al paesaggio apparentemente lussureggiante del Mekong, Phan affronta il tema dell’amore romantico dal punto di vista di diverse donne, dando forma a una narrazione che si trasforma e fluisce come il fiume stesso. Esponendo la violenza e la distruzione sperimentate dal delta del Mekong nel passato e nel presente, First Rain, Brise-Soleil propone una visione più delicata della modernità, che abbraccia la poesia e il lirismo della cultura indigena e il fragile ecosistema della regione. – IW
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Thao Nguyen Phan, Becoming Aluvium (still), 2019–2020. Video a colori a canale singolo, 16 min 40 sec. Prodotto e commissionato da Han Nefkens Foundation in collaborazione con Joan Miró Foundation, Barcelona; WIELS Contemporary Art Centre, Brussels; Chisenhale Gallery. Courtesy l’Artista
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Thao Nguyen Phan, First Rain, Brise-Soleil (still), 2021–in corso. Installazione video a tre canali, colore, suono, 16 min. Courtesy l’Artista; Galleria Zink Waldkirchen, Germania. © Thao Nguyen Phan
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B R I T TA M A R A K AT T - L A B B A
1951, Idivuoma, Sápmi/Svezia Settentrionale. Vive a Övre Soppero, Sápmi/Svezia Settentrionale
L’artista Britta Marakatt-Labba proviene da una famiglia di allevatori di renne che vive in Sápmi, uno dei territori più settentrionali del pianeta, patria delle comunità indigene dei Sami, che attraversa il Nord di Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. Per più di quarant’anni, nella sua pratica artistica Marakatt-Labba ha legato inscindibilmente i metodi di narrazione visiva alla cultura di queste popolazioni e al paesaggio nordico, realizzando opere toccanti che alternano passato e presente grazie all’unione di antiche usanze, pratiche culturali, tradizioni orali e miti con ricordi personali e momenti di vita quotidiana. Ferma sostenitrice dell’autodeterminazione e della decolonizzazione di questa terra, alla fine degli anni Settanta Marakatt-Labba entra a far parte del Sámi Dáidujoavku, gruppo di artiste e artisti Sami impegnati nell’affermazione della propria autonomia artistica e attivi nelle proteste contro l’espansione dell’industria estrattiva e delle centrali idroelettriche nella regione. Marakatt-Labba è conosciuta per i suoi poetici ricami eseguiti con sottili fili di lana, seta e lino su tessuto bianco, nonché per stampe, illustrazioni, scenografie e costumi realizzati per il cinema e il teatro. Tra le opere più celebrate figura Historjá (2003–2007), un racconto ricamato lungo ventiquattro metri che narra la storia, il territorio e la cosmologia delle popolazioni Sami in una rappresentazione che, per il carattere monumentale e il livello di dettaglio, rimanda ad altri epici capolavori tessili del passato, come l’arazzo di Bayeux. Raffigurazione di un paesaggio culturale eterogeneo, Historjá presenta scene e narrazioni che sono spesso considerate marginali nella storia ufficiale. Nei nuovi ricami, intitolati Milky Way e In the Footsteps of the Stars (entrambi del 2021), i paesaggi sembrano rifratti attraverso una sfera o riflessi in un occhio, in un rimando alle proiezioni ellittiche impiegate per realizzare le immagini bidimensionali dei planisferi. All’interno degli spazi delineati da questi confini, Marakatt-Labba evoca immagini di piante, animali, stelle e figure che indossano ladjogáhpir rossi, i particolari copricapi delle donne Sami sovrastati da un corno ricurvo in legno e ricoperto di tessuto ricamato. In passato oggetto di divieto da parte delle autorità cristiane, oggi il ladjogáhpir conosce un ritorno di popolarità con il movimento per l’autonomia dei Sami. I ricami di Marakatt-Labba, grazie al distintivo ibridismo iconografico dell’artista, gettano dunque un ponte tra la storia culturale dei Sami e il presente. – MW
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Britta Marakatt-Labba, Circle 4, 2021–2022. Ricami, appliqué, 35 × 35 cm. Photo Hans Olof Utsi. Collezione privata. Courtesy l’Artista
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Britta Marakatt-Labba. View, 2020. Ricami, appliqué, 162 × 30 cm. Photo Hans Olof Utsi. Northern Norwegian Museum of Art, Tromsø, Norway. Courtesy l’Artista Britta Marakatt-Labba. Felled, 2021. Ricami, appliqué, 128 × 35 cm. Photo Hans Olof Utsi. Northern Norwegian Museum of Art, Tromsø, Norway. Courtesy l’Artista
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E G L Ė B U DV Y T Y T Ė IN COLLABORAZIONE CON MARIJA OLŠAUSKAITĖ E JULIJA STEP ONAITYTĖ
Eglė Budvytytė 1981, Kaunas, Lituania Vive a Vilnius, Lituania e Amsterdam, Paesi Bassi In collaborazione con Marija Olšauskaitė e Julija Steponaitytė 1989, Vilnius Vive a Vilnius, Lituania e New York City, USA 1992, Vilnius Vive a Vilnius, Lituania e Amsterdam, Paesi Bassi
Lavorando all’intersezione di musica, poesia, video e performance, l’artista lituana Eglė Budvytytė esplora il potere della collettività, della vulnerabilità e della permeabilità nelle relazioni tra i corpi e gli ambienti che essi abitano. Si avvicina al movimento e al gesto come tecnologie per un possibile sovvertimento della normatività di genere e dei ruoli sociali, dimostrando il potere della performance di rovesciare le narrazioni dominanti che governano lo spazio pubblico. In alcune opere esamina l’arrogante dominio degli esseri umani su animali, piante, batteri e funghi, tutti elementi essenziali al mantenimento delle ecologie. Songs from the Compost: mutating bodies, imploding stars (2020) è un film girato tra le foreste di licheni e le dune di sabbia della penisola dei Curoni, in Lituania. Qui Budvytytė attinge dagli scritti della biologa Lynn Margulis sulla teoria dell’endosimbiosi – l’interazione e la cooperazione di organismi compositi – così come dal mondo speculativo della scrittrice di fantascienza Octavia E. Butler, i cui testi stravolgono la gerarchia antropocentrica attraverso tropi di ibridazione e simbiosi. Il video è accompagnato da ipnotici paesaggi sonori, da una composizione musicale del sound artist Steve Martin Snider, e dalla voce narrante dell’artista stessa, che, amplificata attraverso un processore di effetti vocali, si riverbera mentre Budvytytė cambia forma tra generi, identità e stati, dando origine a un ipnotico ciclo di feedback. Alternandosi tra una fitta foresta e la spiaggia ondeggiante, i primi fotogrammi del video raffigurano dei corpi che camminano in stato di trance attraverso il bosco e che giacciono vicini l’uno all’altro sul terreno ricoperto di licheni della foresta. Grovigli rizomatici si manifestano in una figura irta di squame, fusa con e inglobata dagli elementi naturali. Un coro di voci chiede l’abolizione del genere attraverso l’incarnazione di esseri non binari. Superando la spiaggia in striscianti contorsioni fino a raggiungere l’acqua, i corpi si discostano dalla presunta superiorità della verticalità umana. Questi corpi personificano l’interdipendenza, la disintegrazione e la decadenza, confutando l’illusione di autonoma autosufficienza. Songs from the Compost: mutating bodies, imploding stars dimostra la necessità di reti interconnesse tra esseri umani e non umani che possano nutrire le relazioni interspecie. – LC
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Eglė Budvytytė in collaborazione con Marija Olšauskaitė e Julija Steponaitytė, Songs from the Compost: mutating bodies, imploding stars (stills), 2020. Video in 4K, 30 min. Courtesy l’Artista. © Eglė Budvytytė
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Arsenale
NIKI DE SAINT PHALLE
1930, Neuilly-sur-Seine, Francia – 2002, La Jolla, USA
L’opera di Niki de Saint Phalle è incentrata sulla ricerca di una “libertà totale”. L’artista persegue l’autonomia non solo rispetto alle realtà sociali a dominanza maschile proprie della sua educazione e ai mondi artistici attraversati nel corso della vita, ma anche contro le limitazioni imposte dai committenti, dalle istituzioni tradizionali delle belle arti e dai singoli linguaggi artistici. De Saint Phalle è conosciuta soprattutto per le sue Nanas (in francese colloquiale “pollastrelle”), dinamiche gigantesse dalle tonalità caleidoscopiche che troviamo ancora saltellare in piazze e fontane cittadine, e nel Giardino dei Tarocchi (1979–2002), il grande parco di sculture che l’artista realizza in Toscana popolandolo di creature fantastiche ornate di mosaici e specchi. Il lavoro di de Saint Phalle ha del prodigioso nel suo rimbalzare tra i generi. Dopo aver avviato la propria carriera con una serie di Tirs, realizzati sparando con una carabina per far esplodere sacchetti di pittura sulla tela, l’artista amplia presto la propria pratica creando sculture, installazioni, opere d’arte pubblica, architetture, giardini, parchi giochi, video e film, oltre a diverse serie di edizioni come litografie, bambole gonfiabili, profumi e gioielli, che le hanno consentito di raggiungere un pubblico vastissimo e di finanziare i suoi più ambiziosi progetti all’aperto. Le forme femminili create da de Saint Phalle sono ampie e prorompenti, con seni, addomi e glutei accentuati da immagini di cuori, fiori, soli e cerchi concentrici simili a mandala. I corpi scolpiti diventano contenitori di fantasia, gioia e cura e custodi delle aspettative del singolo osservatore rispetto al corpo femminile. Con Hon-en katedral (1966), opera presentata al Moderna Museet di Stoccolma e frutto della collaborazione tra de Saint Phalle, il suo compagno Jean Tinguely e altri artisti, i visitatori possono letteralmente entrare nella scultura, che giace supina, attraverso l’apertura posta tra le gambe. Qui, la figura femminile diviene una casa in cui dimorare e in cui abbondano i preconcetti su lavoro e ruoli domestici. Imponente con i suoi oltre 2,5 metri di altezza, Gwendolyn (1966 / 1990) è una delle prime Nanas monumentali di de Saint Phalle, realizzata in resina di poliestere. Le curve ampie e sinuose di Gwendolyn sono contrapposte a una testa e dei piedi minuscoli e non enfatizzano adeguatamente la sua gravidanza, che è invece annunciata con orgoglio dal grande bersaglio dipinto sull’addome. È possibile che l’opera debba il nome a Gwynne, figlia della migliore amica dell’artista Clarice Rivers, il cui ritratto è considerato l’ispirazione originale di de Saint Phalle per la serie delle Nanas. – MK
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Niki de Saint Phalle, Gwendolyn, 1966 / 1990. Resina di poliestere dipinta su base in metallo, 262,3 × 200,3 × 125,1 cm. Courtesy l’Artista; Salon 94, New York. © Niki Charitable Art Foundation
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Nel suo saggio del 1986 intitolato The Carrier Bag Theory of Fiction, Ursula K. Le Guin riprende la radicale riformulazione della genesi della cultura umana elaborata dall’antropologa Elizabeth Fisher per spiegare il potere pervasivo della narrazione. Fisher ipotizza che la capacità di invenzione umana nasca dagli atti di raccolta e cura, che in genere sono stati trascurati in favore delle narrazioni eroiche e tendenzialmente maschili di dominio sulla natura. Invece delle frecce e delle lance da caccia, spesso identificate come le prime invenzioni tecnologiche umane, Le Guin ci ricorda che le prime creazioni dei nostri antenati non possono che essere state i contenitori per conservare noci, bacche, frutti e cereali, insieme alle borse e alle reti usate per trasportarli. “L’abbiamo sentita, abbiamo tutti sentito dei bastoni e delle lance e delle spade, […] delle cose lunghe e dure”, scrive Le Guin, “ma non abbiamo sentito della cosa in cui mettere le cose, il contenitore per la cosa contenuta. Questa è una storia nuova. È una novità”. Il testo di Le Guin ci esorta a considerare il contenitore come metafora per pensare attraverso la tecnologia e la scrittura narrativa, a riconoscere che le storie non sono prometeiche né apocalittiche, piuttosto dei recipienti che aprono spazi all’espressione della vita. Partendo dalla potente metafora di Le Guin, questa presentazione è concepita come un’iconologia di recipienti in varie forme – tra cui reti, borse, uova, gusci, ciotole e scatole – e dei loro legami simbolici, spirituali o metaforici con la natura e con il corpo, sia realizzati in forme scultoree simili a borse, sia in ceramiche volumetriche o in esplorazioni scientifiche della riproduzione corporea. Tenendo conto delle argomentazioni di alcune critiche femministe contro la tendenza a collegare simbolicamente il corpo femminile a un contenitore – in particolare, durante la gestazione –, questa presentazione considera il recipiente non solo come un veicolo vuoto per trasportare altri oggetti, ma come potente dispositivo metaforico e strumento espressivo a pieno titolo. Gli oggetti di design di Sophie Taeuber-Arp, ad esempio, sono contenitori funzionali impregnati dell’ethos della modernità attraverso la loro decorazione astratta. Le sculture uterine che Ruth Asawa intreccia con il fil di ferro restano aperte e trasparenti, senza un esterno o un interno definibili e in costante trattativa con l’ambiente circostante. Per contrasto, la porcellana vivacemente smaltata e il grès di Toshiko Takaezu sono pienamente chiusi, ed evocano corpi planetari o la fertilità e il mistero della natura. Forme volumetriche sono esplorate come recipienti per trasportare la vita nello studio meticoloso di insetti e fiori del Suriname di Maria Sibylla Merian, con una particolare attenzione al genio scultoreo della natura, e nei corpi delle fantastiche creature a carapace che popolano i quadri di Bridget Tichenor. Il motivo ricorrente dell’uovo – recipiente che è prodotto e a sua volta crea nuova vita – nei calchi in gesso ovoidali di Mária Bartuszová incontra i più letterali modelli in cartapesta dell’utero usati da Aletta Jacobs nei suoi pionieristici studi anatomici. Le ceramiche di Tecla Tofano, invece, instillano un potente immaginario politico e femminista in un mezzo espressivo tradizionalmente sessualizzato e svalutato, mentre Maruja Mallo trasforma le forme concave delle conchiglie in precari ritratti di corpi sensuali. Sculture sospese nel soggiorno dell’abitazione di Ruth Asawa a Noe Valley, 1991. Photo © Laurence Cuneo. Courtesy David Zwirner. Artwork © 2021 Ruth Asawa Lanier, Inc. / Artists Rights Society (ARS), NY
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UN CONTENITORE CHE COSA POTREBBE ESSERE? Christina Sharpe
Il contenitore si presenta come forma, recipiente, sacca, corpo, nave e ci sono ceramiste e ceramisti, tessitrici e tessitori e pittrici e pittori che trattano materiali tattili, apparentemente impenetrabili, trasformandoli in forme agili, sinuose, fragili, vigorose e aggraziate. Sono artiste e artisti che lavorano con l’intelligenza del materiale. E le opere che ne risultano suggeriscono ciò che un contenitore potrebbe essere, fare o indicare. Ecco dunque le sculture sospese in filo metallico di Ruth Asawa: opere intricate, fluide e permeabili realizzate a mano.
Ruth Asawa, Untitled (S.030, Hanging Eight Separate Cones Suspended through Their Centers), 1952 ca. Photo Dan Bradica. Collezione privata. Courtesy David Zwirner. Artwork © 2021 Ruth Asawa Lanier, Inc. / Artists Rights Society (ARS), New York
Indicano movimento, congelano il movimento. Il movimento è insito anche nella loro immobilità. Le forme richiamano la vita vegetale: sono botaniche e organiche. Quella che per Asawa era “la loro forma continua” è tratta dal mondo naturale e sembra, perlomeno a me, un gesto che possiede porosità, necessità di trasformazione, necessità di mutare forma. Sono forme che si contrappongono a un certo tipo di rigidità formale e materiale, sono eleganti, giocose e precise. Scrive Thessaly La Force: “Sono stata in una galleria in cui erano appese le sculture in filo metallico di Asawa. Ondeggiavano sospinte dal movimento del mio corpo mentre le ombre del filo intrecciato danzavano sul pavimento. Per un attimo, mi sono sentita dolcemente trasportata altrove: nel profondo del mare, in una foresta o forse in un qualche luogo del tutto ultraterreno” 1. Le sculture sono stratificate, rendono visibile il movimento tra l’interno e l’esterno. Sono meditazioni sul flusso mutevole, sulla permeabilità, su
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Una foglia una zucca un guscio
ciò che è dentro e ciò che è fuori. Sono biomorfiche, piene di occhi, o uova. Sembrano rendere esplicito molto di ciò che potrebbe essere un contenitore: il carico di rottura, la vulnerabilità e l’elasticità di un corpo o di una forma, il modo in cui potrebbe cedere, il modo in cui potrebbe o non potrebbe tornare allo stato iniziale. Ci sono forme e quelle che sembrano essere figure e figure all’interno delle figure e ci sono linee. Asawa racconta: “Ero interessata all’economia di una linea, a fare qualcosa nello spazio, a racchiuderlo senza bloccarlo. È ancora trasparente. Mi sono resa conto che se volevo creare queste forme, che si incastrano e si intrecciano, lo potevo fare solo con una linea perché una linea può andare ovunque” 2. Una linea può essere una sorta di contenitore. Tratta atlantica degli schiavi, Middle Passage, rivoluzione haitiana e vudù si uniscono nel dipinto di Frantz Zéphirin The Slave Ship Brooks (2007), una rivisitazione dell’omonima nave.
Frantz Zéphirin, The Slave Ship Brooks, 2007. Photo Marcus Rediker. Collezione Marcus Rediker
La storica Brooks appare e riappare. C’è la nave Brooks che fece undici viaggi e salpò per la prima volta da Liverpool nel 1781. Ci sono poi i disegni in sezione della Brooks creati nel 1787 e diffusi dagli abolizionisti per descrivere il modo crudele in cui erano stipati gli schiavi all’interno della nave e che, con la dicitura “Descrizione di una nave negriera”, furono usati come strumento a sostegno dell’abolizionismo. In quei disegni i 454 africani immaginati nello spazio della stiva sono disposti in file ripetute e sono in gran parte, anche se non del tutto, indifferenziati. Le decine e decine di figure sono passive, i loro corpi usati per mettere in evidenza la crudeltà del sistema più efficiente adottato per lo stivaggio e il trasferimento degli africani durante la lunga e spaventosa traversata atlantica. La cosmologia della Brooks di Zéphirin ci rivela gli occhi di quegli africani chiusi nella stiva della nave mentre sono sorvegliati dai membri dell’equipaggio rappresentati come animali: un topo e una poiana impugnano fucili, un coccodrillo brandisce una lancia, un cinghiale regge un fucile e una frusta. Una figura scheletrica, le spalle rivolte alla stiva, con un cannocchiale scruta l’orizzonte. Un’altra figura, che pare essere il capitano, regge un manifesto o un atto di vendita. C’è stata una rivolta a bordo di questa nave e ci sono undici uomini africani, parzialmente sommersi, legati uno accanto all’altro per il collo e incatenati allo scafo. “Due degli schiavi, a destra Toussaint Louverture e a sinistra Dutty Boukman, si liberano dalle catene e con il braccio sollevato in un gesto carico di speranza, annunciano la rivoluzione haitiana che si apprestano a guidare” 3. Naturalmente né Boukman né Louverture si trovavano sulla nave negriera Brooks ma, in ogni viaggio fatto da quella nave, e in ogni viaggio compiuto da ogni singolo schiavista, c’erano desideri e azioni rivolti alla libertà. “Ogni capitano dava per scontato che gli schiavi avrebbero fatto di tutto per fuggire” 4. Qui sono raffigurate molteplici apocalissi, ma anche molteplici inizi. Questa nave-contenitore si muove da secoli. È un passaggio continuo?
Magdalene Odundo, Untitled Vessel, Symmetrical Series, 2009. Photo Lewis Ronald. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Thomas Dane Gallery. © Magdalene Odundo
Che spazio c’era su quelle spaventose navi per la fragilità, per lo spirito, per il delicato contenitore del corpo?
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Arsenale
Le sublimi sculture in ceramica di Magdalene Odundo coniugano la morbidezza del corpo in quanto contenitore e il contenitore come oggetto che si anima nelle sue mani. Queste sculture in terracotta sono lucide, paraboliche, scavate e solide allo stesso tempo. Dice l’artista: “Da sempre identifico l’argilla con l’umanità che è dentro di noi, fragile come il nostro corpo. Può ribaltarsi. È sempre all’erta, ma se spingi anche solo un po’ sul perno sbagliato, ti spezzerà il cuore” 5. Il corpo non è dopotutto un contenitore? Un contenitore che racchiude contenitori, vene, arterie. Il corpo è un vuoto? Un contenitore è una forma, un colore? Per molti anni, all’inizio di ogni discorso, Simone Leigh ha affermato due cose: che il proprio lavoro è incentrato sulle donne nere e che noi, donne nere, costituiamo il pubblico principale cui è rivolta la sua opera. È importante ascoltare e conoscere questo aspetto. Questa premurosa supremazia è la pratica della cura messa in atto da Leigh – anche se, anche quando gli spazi della cura in cui ci introduce sono effimeri.
Simone Leigh, Brick House, 2019. Photo Timothy Schenck. Collezione privata. Courtesy l’Artista; the High Line. © Simone Leigh
Leigh ha “pensato al lavoro delle donne nere, alle forme di conoscenza che portano dentro di loro, a quali lavori svolgono e a cui non viene dato valore” 6. La sua Brick House (2019), alta quasi cinque metri, è la scultura in bronzo di una donna, con un’acconciatura afro e quattro treccine, ognuna chiusa e decorata da una conchiglia di ciprea. Leigh immagina le treccine di Brick House come contrafforti: sono difesa, fortificazione, sostegno. Il busto è una combinazione di forme, gonna e casa insieme. Leigh intreccia il corporeo, l’utilizzabile, l’abitabile e l’etereo. Qui abbiamo il corpo come un contenitore che il mondo cerca di rompere, ma nelle mani e nell’immaginazione dell’artista assume valore, viene accudito, reso intensamente bello. Un contenitore è una persona “in cui è infuso qualcosa (come la grazia)”7?+ Lasciando New York City alla fine del 2019, ho intravisto per l’ultima volta Brick House che si ergeva sopra la High Line e ne sono rimasta conquistata. Quindi, un contenitore potrebbe essere una nave, una persona, una casa, un recipiente, una pianta, un guscio, un’amaca, un oggetto incrinato e antropomorfo simile a un uovo. Potrebbe essere un recipiente, una forma che contiene liquidi o solidi, o anche una figura che consente il movimento, il trasferimento, la trasformazione, la metamorfosi o il passaggio dell’aria e della luce. Potrebbe essere un mezzo di fuga. Che cos’è un contenitore in un’epoca di crescente catastrofe? Una casa è un contenitore? Una nazione lo è? Che cosa è, o dovrebbe o potrebbe essere un contenitore in tempi di rifiuto e di resistenza? Un contenitore è un modo per re-immaginare? Che cos’è, o potrebbe essere, un contenitore alla fine di un mondo e all’inizio di un altro?
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È un movimento come l’abolizionismo? Un movimento dotato della capacità di creare le condizioni per l’intera nostra prosperità? Che cos’è un contenitore quando gli incendi boschivi sono tanto estesi e roventi da produrre pirocumulonembi che propagano il fuoco nell’aria? Sono incendi talmente giganteschi da formare nuvole che generano proprie condizioni atmosferiche. Che cos’è un contenitore quando nel Canada occidentale le nuvole di fuoco provocano 710.117 fulmini nel giro di quindici ore? Che cos’è un contenitore quando un miliardo di creature marine – cozze, vongole, stelle marine e lumache – cuociono nel loro stesso guscio?
Mária Bartuszová, Untitled (dalla serie Endless Egg), 1985. Photo Michael Brzezinski. Courtesy The Estate of Mária Bartuszová, Košice; Alison Jacques, London. © The Archive of Mária Bartuszová, Košice
Un contenitore è allora una conchiglia? Un contenitore è allora un oceano? Un contenitore puzza di putrefazione? Se si bolle nella propria pelle, un contenitore può contenerci? Che cos’è un contenitore quando i falchetti implumi saltano dai nidi per sfuggire al caldo estremo? Un nido è contenitore? Un uovo, lo è? Che cos’è un contenitore quando i livelli del mare si stanno alzando e i titoli a caratteri cubitali delle ultime notizie avvertono che la calotta glaciale della Groenlandia ha subito il maggior scioglimento mai avvenuto 8? Che cos’è un contenitore quando nel fiume Sacramento i giovani salmoni rischiano di morire perché l’acqua è troppo calda per mantenerli in vita? Alcuni pesci sono stati portati in altri specchi d’acqua su camion e altri in aereo. “Prendere o sollevare per mezzo di un contenitore”. È il corpo o l’essere portati, un contenitore? Che cos’è un contenitore quando “le pire funerarie bruciano e i becchini non conoscono riposo?” 9. Un contenitore è vulnerabile? È febbrile? Un contenitore è un sudario? È una bara? Qual è il contenitore per piangere tutto ciò? Che cos’è un contenitore quando la temperatura di bulbo umido – ovvero la temperatura alla quale il sudore non evapora più e quindi gli esseri umani non possono più disperdere calore – rischia di essere raggiunta in diversi luoghi del mondo? Che cos’è un contenitore per contenere una pelle? Una membrana? Una vita? Che cos’è un contenitore quando nei primi sei mesi del 2021 più di 1146 persone sono morte nel Mar Mediterraneo mentre tentavano di raggiungere le coste europee? Questi migranti, profughi da condizioni brutali, sono stati abbandonati alla deriva e talvolta sono annegati, o sono morti per la disidratazione e il caldo. Le potenze europee pensano che non intervenire in loro soccorso impedirà alle persone di fuggire da vite invivibili, quelle stesse vite
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invivibili prodotte dalle attività estrattive e dallo sfruttamento perpetrato dalle stesse potenze. Che cos’è un contenitore quando si è rinchiusi nella stessa stiva che, a partire dalle prime navi fino a queste ultime, contrassegna le economie capitaliste? Ci sono navi che non sono concepite per trasportare un gran numero di persone e che tuttavia attraversano il Mediterraneo e l’Atlantico stipate di centinaia di persone che hanno lasciato un Paese e stanno tentando di raggiungerne un altro alla ricerca di un qualcosa come la sicurezza. Un contenitore è una fossa? Che cos’è un contenitore in un periodo di siccità in cui al tempo stesso si muore annegati? Che cos’è un contenitore quando il deserto del Sahara si sta espandendo nel Sahel? Che cos’è un contenitore quando i funzionari europei abbandonano più di cinquecento migranti a rischio di annegamento nel Mar Mediterraneo? Un contenitore è una brocca di plastica un tempo piena di acqua potabile e ora vuota? Un contenitore è un oceano non potabile e impraticabile? Che cos’è un contenitore quando ci sono oltre 1862 piattaforme petrolifere nel Golfo del Messico e l’oceano brucia per la rottura di un oleodotto? Un contenitore è una piattaforma fissa o è una piattaforma mobile? E l’oceano? Che cos’è un contenitore quando le foreste in Siberia bruciano? Quando tutto è in fiamme? Un contenitore è una pianta? È una foresta? Ci sono contenitori che si muovono e contengono migliaia di turisti. Si chiamano navi da crociera. Ci sono contenitori che si muovono e contengono centinaia di lavoratori. Anche questi sono chiamati navi da crociera. Che cos’è un contenitore quando quei lavoratori sono bloccati per mesi su navi che non si muovono e non possono tornare al Paese d’origine perché le frontiere sono state chiuse a causa della diffusione del Covid-19? Che cos’è un contenitore inteso per il piacere, ma non per la vita?
Bridget Tichenor, Tarde Alegre, 1955. Photo Javier Hinojosa. Collezione privata. © Estate of Bridget Tichenor
Che cos’è questo contenitore, la Ever Given, una delle navi da carico più grandi al mondo, con “una stazza lorda di 220.940 tonnellate, stazza netta di 99.155 e portata lorda di 199.629” 10, bloccata nel canale di Suez e che ha creato un ingorgo di più di altre venti navi da carico? Che cos’è un contenitore quando l’uomo più ricco del mondo finanzia un volo privato suborbitale mentre i suoi dipendenti con salario minimo
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dormono in tende vicino ai magazzini dove lavorano, o vivono in camper nei parcheggi perché non possono permettersi un alloggio? Che cos’è un contenitore quando questi stessi lavoratori sono costretti a indossare dei pannolini o a urinare nelle bottiglie perché le esigenze di produttività precludono le pause per il bagno? Un camper è un contenitore? Un parcheggio è un contenitore? Migliaia e migliaia di metri quadrati di magazzino sono un contenitore? Che cos’è un contenitore spinto ai limiti della sopportazione? 1
Thessaly La Force, The JapaneseAmerican Sculptor Who, Despite Persecution, Made Her Mark, in “The New York Times Style Magazine”, 20 luglio 2020 (www.nytimes. com/2020/07/20/t-magazine/ ruth-asawa.html). 2 Ruth Asawa, a Working Life, in Google Arts & Culture, contenuto adattato da The Sculpture of Ruth Asawa: Contours in the Air, catalogo della mostra (San Francisco, Fine Arts Museums of San Francisco, 18 novembre 2006 – 28 gennaio 2007), a cura di Daniell Cornell, Berkeley (CA), University of California Press, 2006 (https://artsandculture. google.com/exhibit/ruth-asawa-aworking-life/hAIygGBPp11bIg). 3 Marcus Rediker, Motley Crews and the Crucible of Culture: The Art of Frantz Zéphirin, in “Beacon Broadside”, 12 agosto 2014 (www.beaconbroadside. com/broadside/2014/08/the-art-offrantz-zephirin.html). 4 Mahamdallie Hassan, Marcus Rediker, The Slave Ship: Marcus Rediker, in “Socialist Review”, 320, dicembre 2007 (http://socialistreview.org.uk/320/ slave-ship-marcus-rediker). 5 New Work by Magdalene A.N. Odundo Dbe, mostra personale (New York City, 3E 89th Street, Salon 94, 8 maggio – 30 luglio 2021; https://salon94.com/artists/ magdalene-an-odundo). 6 Rianna Jade Parker, “What We Carry in the Flesh”: The Majestic Bodies of Simone Leigh, in “Frieze”, 4 giugno 2019 (www.frieze.com/article/ what-we-carry-flesh-majestic-bodiessimone-leigh). 7 Secondo il Merriam-Webster, una definizione del vocabolo “Vessel” [qui reso principalmente come “contenitore”, N.d.T.] è: “A person into whom some quality (such as grace) is infused”. Cfr. Merriam-Webster.com Dictionary, Merriam-Webster (www.merriamwebster.com/dictionary/vessel). 8 Kasha Patel, The Greenland Ice Sheet Experienced a Massive Melting Event Last Week, in “The Washington Post”, 8 agosto 2021 (www.washingtonpost.com/ weather/2021/08/05/ greenland-melt-event-season-2021). 9 David Pierson, M.N. Parth, Funeral Pyres Burn. Gravediggers Know No Rest. India’s Covid-19 Crisis Is a “Nightmare”, in “Yahoo! News”, 28 aprile 2021 (https://news.yahoo.com/funeral-pyresburn-gravediggers-know-190718726. html). 10 Ruth Michaelson, Michael Safi, Tugs, Tides and 200,000 Tons: Experts Fear Ever Given May Be Stuck in Suez for Weeks, in “The Guardian”, 27 marzo 2021 (www.theguardian.com/ world/2021/mar/27/ tugs-tides-and-200000-tons-expertsfear-ever-given-may-be-stuck-in-suezfor-weeks). 11 Derrick Bell, The Space Traders, precedentemente pubblicato in Bell, Faces at the Bottom of the Well: The Permanence of Racism, New York, Basic Books, 1992.
Che cos’è un contenitore quando un altro degli uomini più ricchi del mondo finanzia un aereo spaziale supersonico? Maggiore colonizzazione, maggiori insediamenti, più violenza, un sistema più brutale di allontanamento e spostamento di persone da un luogo all’altro. Nel racconto di Derrick Bell The Space Traders 11, alla fine del XX secolo arrivano centinaia di navi per portare via tutte le persone di colore, nude e in catene, destinate ancora una volta alla schiavitù in un altro nuovo mondo. Sono questi i contenitori? Che cos’è un contenitore che si muove e si ferma di fronte alla malvagia logistica del salvabile e del degno, del prezioso, dell’usa e getta e del fungibile? Annegare e volare sono la stessa cosa? Qual è la giustapposizione di un contenitore? Il corpo è un contenitore. Ci sono persone contraddistinte solo come semplici contenitori, carne, plastica, sacrificabili, fungibili, svalutate. Ce ne sono altre contrassegnate come perfettibili e portatrici di conoscenza; altre definite come portatrici di malattie. Ci sono contenitori contrassegnati per lavorare; persone contrassegnate per morire. C’è l’immaginazione come contenitore. Un contenitore è un inventario? Un contenitore che cosa potrebbe essere? Che cosa potrebbe essere alla fine di questo mondo? What Could a Vessel Be? (Un contenitore che cosa potrebbe essere?) Copyright ©+2021, Christina Sharpe. Tutti i diritti riservati
Christina Sharpe è scrittrice, docente e titolare della Canada Research Chair in Black Studies in the Humanities presso la York University di Toronto. Ha pubblicato Monstrous Intimacies: Making Post-Slavery Subjects (Duke University Press, 2010) e In the Wake: On Blackness and Being (Duke University Press, 2016). Il suo terzo libro, Ordinary Notes, uscirà nel 2022 (Knopf/FSG/Daunt). Attualmente sta lavorando a una monografia intitolata Black. Still. Life. (Duke University Press, 2025). I suoi saggi recenti compaiono in “Art in America”; Okwui Enwezor e Naomi Beckwith, Grief and Grievance: Art and Mourning in America (Phaidon, 2020); Sarah Meister et al., Dorothea Lange: Words & Pictures (MoMa, 2020); Alison Saar: Of Aether and Earthe, a cura di Alison Saar e Irene Tsatsos (Benton Museum of Art at Pomona College, 2020); Reconstructions: Architecture and Blackness in America, a cura di Sean Anderson e Mabel O. Wilson (MoMa, 2021); e in Jennifer Packer: The Eye Is Not Satisfied with Seeing, a cura di Melissa Blanchflower e Natalia Grabowska (Walther König, 2021). 373
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Ruth Asawa, Untitled (S.273, Hanging Nine-Lobed, Single Layered Continuous Form), 1959 ca. Filo di rame nichelato, 238,76 × 45,72 × 45,72 cm. Photo Laurence Cuneo. Collezione privata. Courtesy David Zwirner. © 2021 Ruth Asawa Lanier, Inc. / Artists Rights Society (ARS), NY Aletta Jacobs, Womb Models by the Ateliers Auzoux, 1840. Modello in cartapesta, 25 × 25 × 25 cm. Photo S.L. Ackermann, University Museum Groningen. © Universitymuseum Groningen Sophie Taeuber-Arp, Geometric Forms and Letters (Pompadour), 1920. Perle di vetro, cordoncino, tessuto, 17,3 × 13 × 0,3 cm. Photo Alex Delfanne. © Stiftung Arp e.V., Berlin / Rolandswerth In alto a sinistra: Mária Bartuszová, Untitled, 1984–1985. Gesso, 11 × 11 × 12 cm. Photo Michael Brzezinski. Courtesy The Estate of Mária Bartuszová, Košice; Alison Jacques, London. © The Archive of Mária Bartuszová, Košice In alto a destra: Mária Bartuszová, Untitled, 1984–1985. Gesso, 17,5 × 17,5 × 20 cm. Photo Michael Brzezinski. Courtesy The Estate of Mária Bartuszová, Košice; Alison Jacques, London. © The Archive of Mária Bartuszová, Košice In basso a sinistra: Mária Bartuszová, Untitled (dalla serie Endless Egg), 1985. Gesso, 30,5 × 14,5 × 11 cm. Photo Michael Brzezinski. Courtesy The Estate of Mária Bartuszová, Košice; Alison Jacques, London. © The Archive of Mária Bartuszová, Košice In basso a destra: Mária Bartuszová, Untitled, 1986. Gesso, 15 × 13 × 11 cm. Photo Michael Brzezinski. Courtesy The Estate of Mária Bartuszová, Košice; Alison Jacques, London. © The Archive of Mária Bartuszová, Košice Toshiko Takaezu, Untitled Closed Form, 1960. Grès smaltato, 17,5 × 16,5 × 16,5 cm. Photo William E Hacker. Collezione privata. © The Family of Toshiko Takaezu Bridget Tichenor, La Espera (The Wait), 1961. Olio su masonite, 25 × 38 cm. Photo Javier Hinojosa. Collezione privata. © Estate of Bridget Tichenor Maruja Mallo, Naturaleza viva XIV, 1943. Olio su masonite, 42,9 × 30,5 cm. Colección Leandro Navarro, Madrid. Courtesy Galeria Leandro Navarro, Madrid; Ortuzar Projects, New York. © VEGAP Toshiko Takaezu, Cherry Blossom / Sakura, 2000 ca. Grès smaltato, 132 × 59 × 59 cm. Photo William E Hacker. Collezione privata. © The Family of Toshiko Takaezu Maria Sibylla Merian, Metamorphosis Insectorum Surinamensium, Tavola 5, 1719, seconda edizione. Incisione colorata a mano su carta, 52,07 × 36,83 cm. Photo Lee Stalsworth. Courtesy the National Museum of Women in the Arts, Washington, D.C., Gift of Wallace and Wilhelmina Holladay Maria Sibylla Merian, Metamorphosis Insectorum Surinamensium, Tavola 48, 1702–1703. Acquarello e bodycolor con gomma arabica su linee leggermente incise su pergamena, 38,4 × 27,7 cm. Courtesy Royal Collection Trust / © Her Majesty Queen Elizabeth II 2021 Tecla Tofano, Vessel with personage (dalla serie The Canned), 1969. Terracotta e ceramica smaltata, 40 × 24 × 24 cm. Photo Luis Becerra. Collezione Luis Felipe Farias. Courtesy Daniel Cordova. © Estate of Tecla Tofano Tecla Tofano, On the way to liberation (dalla serie Of the Female Gender), 1975. Terracotta e ceramica smaltata, 30 × 20 × 12 cm. Photo Luis Becerra. Collezione Luis Felipe Farias. Courtesy Daniel Cordova. © Estate of Tecla Tofano
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Tecla Tofano
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BIO GRAFIE DELLE ARTISTE
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R U T H A S AWA 1926, Norwalk, USA – 2013, San Francisco, USA Ruth Asawa – artista innovativa e sostenitrice dell’educazione all’arte – è nota per le sue intricate sculture sospese in filo metallico, concepite come disegni lineari in uno spazio tridimensionale. Nata in una famiglia di orticoltori nel Sud rurale della California, Asawa inizia a praticare arte sin da adolescente, durante la Seconda guerra mondiale, all’epoca della detenzione in un campo di internamento imposta dal governo statunitense a lei, alla sua famiglia e a migliaia di persone di origine giapponese, tra cui alcuni animatori della Walt Disney, che le insegnano a disegnare e dipingere. Dopo il suo rilascio, Asawa si iscrive al Milwaukee State Teachers College, ma a causa della perdurante discriminazione contro i giapponesi americani, le viene negata la licenza di insegnante. Si rivolge quindi al leggendario Black Mountain College, vicino ad Asheville, nella Carolina del Nord. Lì, tra il 1946 e il 1949, condivide gli spazi di apprendimento e di vita con John Cage, Willem de Kooning, Robert Rauschenberg, Jacob Lawrence, Gwendolyn Knight, Anni Albers, nonché con il suo futuro marito, l’architetto Albert Lanier. I suoi mentori includono l’artista ed ex docente della Bauhaus Josef Albers, l’architetto e inventore Richard Buckminster Fuller e il coreografo d’avanguardia Merce Cunningham, i cui insegnamenti innovativi in ambito di spazio, forma, materia e movimento costituiscono un’influenza duratura e determinante nel suo lavoro. Dopo essersi trasferita a San Francisco nel 1949, Asawa inizia a costruire sculture sospese, trasformando materiali industriali di uso quotidiano – ottone grezzo, acciaio e filo di rame pesante – in forme sferiche sinuose e aggraziate che, nonostante la tridimensionalità, non contengono alcuna massa interna. Ispirata a una tecnica di intreccio di ceste appresa durante una vacanza estiva in Messico nel 1947, all’epoca del suo periodo al Black Mountain College, le sculture in filo metallico di Asawa come Untitled (S.030, Hanging Eight Separate Cones Suspended through Their Centers; 1952 ca.) si fondano sulle qualità specifiche del materiale da lei scelto. Sfruttando la malleabilità, traslucidità
e robustezza del filo, la scultura sospesa Untitled (S.101, Hanging Single-Lobed, Five-Layered Continuous Form within a Form; 1962 ca.) è composta da una serie di bozzoli diafani in filo di bronzo – forma che conferisce all’opera un’identità quasi uterina. Nella loro allusione a forme quali onde, piante e alberi, le creazioni sinuose di Asawa attuano un uso specifico della connessione formale tra le superfici interne ed esterne dell’opera, una relazione che l’artista da tempo descrive come interdipendente e integrale. – MW
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M Á R I A B A R T U S Z O VÁ 1936, Praga, Cecoslovacchia (attuale Repubblica Ceca) – 1996, Košice, Slovacchia Anche nei rari casi in cui non sono realizzate in gesso, le oltre cinquecento opere dell’artista ceca Mária Bartuszová sembrano essere la traccia di una natura misteriosa di cui, così fragili, organiche e in qualche caso effimere, evocano forme e qualità sensibili. Fin dagli anni Sessanta, una volta lasciata Praga, sua città natale, e trasferitasi a Košice, l’artista avvia una ricerca delicata e ossessiva che utilizza materiali poveri per confrontarsi – e forse collaborare – con la potenza generativa dei fenomeni naturali. Appendendo dei grandi palloni di plastica a un supporto e versando al loro interno delle colate di gesso, Bartuszová utilizza la forza di gravità per creare delle forme rotondeggianti e astratte che ricordano nidi, semi, uova e, talvolta, possono sembrare parti materne o erotiche del corpo umano. Uno dei suoi primi lavori, Untitled (Drop) (1963–1964), ad esempio, non è altro che una grande goccia di gesso candido che, appesa al ramo di un albero e ottenuta con quella che l’artista chiama la tecnica del gravistimulated casting, è eternamente arrestata nel fatale momento della sua caduta. Questa sensazione di precarietà fisica accompagna Bartuszová anche negli anni Ottanta quando, ormai definitivamente ispirata dal mondo naturale, produce una serie di sculture ricorrentemente ovoidali che, oltre a simulare la purezza delle forme organiche, ne ripropongono la fragile deperibilità. Rispetto alle forme piene dei lavori precedenti, infatti, i calchi in gesso realizzati in questa fase di sperimentazione sono sempre cavi e fatti di sottili e
fragilissime patine di materiale intero o frammentato. Bartuszová li realizza con una tecnica definita pneumatic shaping che, a differenza del procedimento utilizzato negli anni Sessanta, non prevede il riempimento dei palloncini in plastica ma il loro rivestimento; prima che le superfici esterne collassino sotto la pressione generata dalla solidificazione del gesso, l’artista modella la forma del palloncino deformandola, comprimendola, stratificandola e infine legandola con delle corde. Se questi “organismi viventi” – come li definisce Bartuszová – ricordano inevitabilmente le fattezze di uova o bozzoli già schiusi o pronti a farlo, il loro essere oggetti rotondi, spesso legati e uniti in configurazioni collettive, li rende simbolo di un’umanità inclusiva fatta di relazione e confronto. – SM
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A L E T TA J A C O B S 1854, Sappemeer, Paesi Bassi – 1929, Baarn, Paesi Bassi Tra i tanti primati di Aletta Jacobs, che nel corso della sua carriera è stata la prima donna ammessa in un’università olandese e per molto tempo l’unica a esercitare la professione medica nei Paesi Bassi, c’è anche quello di essere stata una delle maggiori rappresentanti internazionali del movimento femminista. Oltre ad aver presieduto l’Associazione per il suffragio femminile olandese e con essa essersi battuta fino a ottenere il suffragio universale il 9 agosto 1919, Aletta Jacobs ha abbinato il coraggio delle più importanti battaglie civili alla solidità di una preparazione scientifica, allora considerata un esclusivo privilegio maschile. Dopo aver aperto il primo consultorio del Paese, avviato una delle più importanti campagne di sensibilizzazione anticoncezionale ed essersi battuta per l’abolizione della prostituzione, nel 1897 Jacobs pubblica il volume De Vrouw. Haar bouw en haar inwendige organen (La donna. La sua corporatura e i suoi organi interni); un contributo innovativo per la letteratura scientifica che, coadiuvato da tavole scomponibili illustrate dalla stessa studiosa, descrive dettagliatamente il corpo della donna – sistema riproduttivo compreso. Come sottolinea la prefazione alla prima
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edizione del volume, la ricerca aveva soprattutto uno scopo divulgativo e, nonostante non escludesse la possibilità di colmare l’ignoranza di alcuni colleghi uomini, mirava a spiegare il funzionamento degli organi genitali al crescente numero di donne che non volevano più guardare alla propria sessualità come a un mistero. Le parole e i disegni di Jacobs, infatti, descrivono il corpo come un contenitore di organi distinti, ognuno con il proprio compito e senza alcuna gerarchia, che contribuiscono in maniera sinergica al perfetto funzionamento dell’organismo. D’altra parte, la stessa letteratura scientifica di fine Ottocento stava iniziando a riordinare le scoperte della fisiologia moderna e, quando non poteva studiarne la complessità grazie alla dissezione dei cadaveri, riproduceva le parti del corpo umano con plastici di studio. I modelli di utero realizzati dalla pionieristica bottega di Auzoux, ad esempio, sono delle vere e proprie sculture che, riprodotte in scala e realizzate in cartapesta dettagliatamente colorata, descrivono diversi stadi di una gravidanza con esiti tanto scientifici quanto artistici. Sicuramente sono l’esempio di una crescente attenzione medica al corpo femminile e, essendo stati utilizzati come materiale di studio da Aletta Jacobs, sembrano conservare la tenacia del suo congiunto impegno scientifico e civile. – SM
capacità di rappresentare scene irreali con estrema disinvoltura. Conchiglie, alghe, ortensie, coralli, uva, gerani e, più in generale, esemplari del mondo marino e terrestre sono sospesi in atmosfere oniriche o fondali uniformi che, montati uno sull’altro, sembrano generare delle strane figure ibride simili al cadavre exquis. Ma mentre il gioco surrealista prevede l’accostamento casuale e automatico di più immagini o parole, l’artista è ben consapevole del forte simbolismo che veicolano i suoi lavori. Riconoscendo a ogni elemento della composizione un’affinità specifica con una parte del corpo femminile, ottiene delle eccentriche silhouette in cui la componente floreale corrisponde sempre alla capigliatura e grandi conchiglie definiscono il busto o il ventre. La loro concavità è una chiara allusione agli organi sessuali femminili che, proprio come un guscio, contengono il materiale organico più prezioso o sono la sede del più audace desiderio erotico. In ogni caso un’accezione non esclude l’altra: secondo Maruja Mallo il corpo della donna è il contenitore di una complessità che, come dimostra la foto in Cile e ribadisce un buffo appellativo affibbiatole dall’amico Dalí, rende lei stessa una creatura “mitad ángel, mitad marisco” (metà angelo, metà crostaceo). – SM
rati demoniaci dalla cultura del tempo, sono in realtà creature capaci di affascinanti trasformazioni. Da quel momento le loro metamorfosi sono l’unico soggetto della sua pratica artistica che, supportata dal puro empirismo, si traduce in una straordinaria documentazione scientifica capace di rivoluzionare l’iconografia naturalistica. Per la prima volta, ad esempio, i sessanta coloratissimi acquerelli contenuti in Metamorphosis Insectorum Surinamensium mostrano una novantina di specie di animali insieme alla pianta su cui avviene la metamorfosi. Nella tavola numero 11 l’artista rappresenta un esemplare di Erythrina fusca, comunemente conosciuto come albero di corallo, mentre ospita tra le sue foglie e i suoi baccelli un gruppo di larve, bruchi e crisalidi destinati a trasformarsi nelle falene della seta che gli volano intorno. In un’altra, la numero 5, Merian raffigura il ciclo vitale di una falena di tipo Pseudosphinx tetrio che, di un colore dorato e con una vistosa proboscide arricciata, è rappresentata con una certa licenza artistica mentre si avvina a una radice di manioca abitata da un boa. Al di là di ogni valutazione scientifica, lo scenario offerto da queste immagini è quello di una natura spettacolare, ciclica e delicata che apre l’immaginazione a un mondo magico in cui ogni dettaglio è pronto a trasformarsi in altro. – SM
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M A R I A S I BY L L A M E R I A N (p. 378)
M A RU JA M A L L O 1902, Viveiro, Spagna – 1995, Madrid, Spagna Una fotografia scattata nel 1945 sulle rive cilene dell’Oceano Pacifico ritrae l’artista spagnola Maruja Mallo come una strana divinità marina, mentre in piedi su una roccia è ricoperta dalla testa ai piedi da un groviglio di alghe lunghe e filamentose. Pur essendo la documentazione di un momento conviviale trascorso insieme al poeta e amico Pablo Neruda, l’immagine dell’ironico travestimento riassume sia la fascinazione che la pittrice nutre per il mondo naturale, sia la sensibilità con cui ne approccia l’iconografia. A partire dal 1936, quando lo scoppio della Guerra civile spagnola la costringe ad abbandonare Madrid e a rifugiarsi in Argentina, la produzione artistica di Mallo si allontana dalle ricerche surrealiste condivise con l’amico Salvador Dalí e sembra avvicinarsi alle sensibilità latinoamericane del Realismo Magico. Già dal titolo, la serie di lavori pittorici Naturaleza viva (1942) si sottrae alle atmosfere cupe spesso associate al genere pittorico della natura morta e, utilizzando colori brillanti, pattern ipnotici e forme seducenti, si caratterizza per la straniante
(p. 379)
1647, Francoforte sul Meno, Libera Città Imperiale del Sacro Romano Impero (attuale Germania) – 1717, Amsterdam, Repubblica Olandese (attuali Paesi Bassi) Nel 1705 la naturalista e disegnatrice Maria Sibylla Merian pubblica il libro Metamorphosis Insectorum Surinamensium, un volume fondamentale per l’entomologia moderna, in cui attraverso tavole minuziosamente decorate e un corpus testuale in latino e olandese, la studiosa espone i risultati di una ricerca sugli insetti condotta in Suriname cinque anni prima. Nel 1699 Merian affronta il primo viaggio per scopi scientifici mai intrapreso da una donna e, arrivata nella colonia olandese dopo mesi di navigazione, dedica i successivi due anni a raccogliere materiale di studio sul ciclo vitale delle farfalle tropicali. A differenza di altri scienziati europei che utilizzano i coloni come manovalanza, Merian si lascia guidare dagli abitanti delle comunità locali e, grazie alle loro conoscenze, perfeziona il suo metodo di studio. La fascinazione per gli insetti risale alla prima giovinezza, quando apprendista disegnatrice nello studio artistico del patrigno, comincia ad allevare e collezionare bachi da seta. Il suo acuto sguardo di disegnatrice incontra quello di studiosa e, in poco tempo, le permette di capire che quegli strani animali conside-
T O S H I K O TA K A E Z U 1922, Pepeekeo, USA – 2011, Honolulu, USA Tutti i lavori che l’artista hawaiana Toshiko Takaezu realizza a partire dagli anni Sessanta sono l’esempio di una sorprendente maestria nell’arte ceramica, perfezionata dopo un lungo soggiorno in Giappone alla ricerca delle sue origini. Sia che si tengano sul palmo di una mano, sia che superino le dimensioni di un individuo, le sue opere sono oggetti rotondeggianti, riccamente decorati e rigorosamente cavi. Le loro fattezze lavorate al tornio o modellate a mano risultano simili a quelle dei più comuni vasi, ma non si prestano a conservare alcun materiale. A eccezione di un’impercettibile apertura nella parte sommitale del manufatto – peraltro necessaria allo sfiato dei gas in fase di cottura –, la maggioranza dei lavori di Takaezu si caratterizza per forme allungate o sferiche che, quasi completamente chiuse, delimitano uno spazio di aria scura e inaccessibile allo sguardo. Questo misterioso ambiente corrisponde all’essenza delle sue sculture e, come l’anima per il corpo, ne definisce l’unicità. Tale investitura mistica e ancestrale, in effetti, rende ogni opera una figura totemica che, anche quando installata collettivamente come nelle serie Trees
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Una foglia una zucca un guscio
(1970 ca.) o Stars (1999), mantiene un’identità specifica esaltata dal trattamento delle superfici e dalla scelta cromatica. Mentre le pareti esterne di tutte le sculture di Takaezu ricordano la levigatezza dei paesaggi vulcanici da cui l’artista proviene, il colore che le ricopre è caratterizzato da segni e colature imprecisi che, ottenuti dall’immersione di ogni scultura in almeno due o tre tinte differenti, richiamano le sfumature dei paesaggi reali o immaginati, con cui Takaezu ha avuto a che fare. Gli Untitled (Stoneware), ad esempio, hanno le fattezze di bizzarri corpi celesti e appartengono alla serie di lavori intitolati Moons (1980–2000 ca.). Talvolta chiamati con il corrispettivo hawaiano Mahina, sono delle sfere di grès con un piccolo foro alla base. Blu e dorate, perlate e ocra, opache o lucide, queste opere sono decorate con tocchi di colore affini all’immaginario cosmologico cui si riferiscono e, quando radunate in installazioni collettive, sembrano unite da una narrazione misteriosa quanto i loro interni. Cullate su amache e sospese tra gli alberi come nella celebre installazione Gaea (Earth Mother) (1990), queste sculture di Takaezu alludono alla fertilità della natura o del ventre materno. – SM
(p. 375)
S O P H I E TA E U B E R -A R P 1889, Davos, Svizzera – 1943, Zurigo, Svizzera Questa artista è presente anche in La seduzione del cyborg. Per leggere la biografia dell’artista, cfr. p. 526.
(p. 377)
BRIDGET TICHENOR
dell’onirico con una precisione tecnica maniacale. La stessa Tichenor, che fino a quel momento ha lavorato come indossatrice per Coco Chanel e poi come editor di “Vogue”, ha ricevuto una formazione pittorica accademica e ha studiato prima in Italia con Giorgio de Chirico e poi negli Stati Uniti con Paul Cadmus. Mentre dal maestro avanguardista ha ripreso l’evidente approccio metafisico, dall’amico newyorkese ha appreso le tecniche pittoriche dell’antica tempera all’uovo e le ha messe al servizio di una fascinazione per la mitologia precolombiana, il misticismo e per una serie di narrazioni criptiche dal forte valore simbolico. Gli stessi individui-guscio, in effetti, sembrano pervasi da una strana forza occulta e non è detto che le loro sembianze, così sinuosamente caratterizzate da corpi-contenitori, non si riferiscano all’iconografia mostruosa e grottesca con cui le colleghe naturalizzate messicane, Carrington e Varo tra tutte, trattano la rappresentazione del corpo. Il lavoro Dueto solitario (1964), ad esempio, raffigura un desolato paesaggio vulcanico in cui sono inserite due grandi conchiglie maculate dipinte con precisione scientifica. Entrambe hanno l’apertura del guscio rivolta verso lo spettatore, ma, mentre una è completamente chiusa e allude esplicitamente all’anatomia dei genitali femminili, l’altra è ampia e capiente e, nella propria cavità, custodisce una Luna antropomorfa dallo sguardo ipnotico. Attingendo al firmamento di mitologie che associano il corpo celeste a un immaginario magicamente sacrale, Tichenor racconta la conchiglia come una donna che, oltre a essere un incubatore di maternità, può diventare una divinità ammaliante e seducente in perfetta comunione cosmica con la natura. – SM
1917, Parigi, Francia – 1990, Città del Messico, Messico
(p.380)
Tra le tante creature fantastiche che popolano i lavori pittorici dell’artista Bridget Tichenor spiccano degli strani personaggi dai volti umani che, spesso dotati di lunghe zampe da insetto, vivono all’interno di gusci, carapaci o corazze. I loro corpi ibridi hanno dimensioni ciclopiche e, solitari o in gruppo, sovrastano paesaggi naturali dalle atmosfere sospese, crepuscolari e chiaramente riferibili al Surrealismo o al Realismo Magico. Come la quasi totalità della produzione pittorica di Tichenor, questi dipinti sono realizzati a partire dagli anni Cinquanta, quando, stabilitasi in Messico, condivide le ricerche delle amiche europee Leonora Carrington, Remedios Varo e Alice Rahon che, espatriate in Centro America per sfuggire agli orrori della guerra, si dedicano alla rappresentazione
1927, Napoli, Italia – 1995, Caracas, Venezuela
T E C L A T O FA N O
Tecla Tofano rifiuta di conformarsi allo stile artistico dominante imposto dalla controparte maschile nel Venezuela degli anni Sessanta e Settanta. Quando lo Zeitgeist esige astrazione, lei esplora lo stile figurativo. Quando va di moda la pittura, Tofano diventa una ceramista. E quando arriva la Pop Art con la produzione seriale, Tofano realizza sculture rigorosamente a mano. Forse, più di tutto, si oppone al maschilismo in Venezuela e, lottando per l’uguaglianza tra uomini e donne, promuove perfino alternative di genere non binario, come nella sua mostra Ella, él… ellos (1978) alla Galería de Arte Nacional di Caracas, caratterizzata dall’esposizione di grandi figure in ceramica che presentano una
donna, un uomo e una persona senza genere. Nel corso di un’intensa carriera, la sua opera è sistematicamente all’avanguardia. Tofano lascia Napoli nel 1952 per trasferirsi a Caracas insieme al marito venezuelano. Poco dopo si iscrive alla Escuela de Artes Plásticas y Artes Aplicadas per studiare ceramica e smalto con il ceramista Miguel Arroyo. In questa prima fase, tra la metà degli anni Cinquanta e il 1963, Tofano realizza oggetti in ceramica tradizionali e funzionali avvalendosi di un tornio a ruota. Concepiti come recipienti dai colori vivaci e dalla superficie ruvida, privi di decori ed elementi narrativi, questi oggetti sono ispirati alla semplicità giapponese e scandinava. È promotrice del movimento politico di sinistra Movimiento al Socialismo, attivista del collettivo femminista Miércoles e fondatrice del Centro de Estudios de la Mujer all’Universidad Central de Venezuela, e in questo periodo anche la sua opera appare impegnata politicamente. Dal 1964 al 1978 la sua attenzione si sposta dalla ceramica al figurativo; realizza opere modellate a mano e installazioni su grande scala spesso caratterizzate da parti del corpo e oggetti di uso quotidiano che riflettono uno stile asimmetrico e una finitura ruvida. On the Way to Liberation (dalla serie Of the Female Gender) è una delle opere più significative di Tofano, esposta per la prima volta nel 1975 in occasione della personale Del género femenino alla Galería Viva México di Caracas. Questa statuetta raffigura una donna incinta con le mani intrecciate sopra la testa mentre dal suo ventre fuoriesce un serpente che si avvolge a spirale attorno al simbolo femminile capovolto, che diventa croce. En vía de liberación affronta simultaneamente il sacrificio della maternità e, in modo critico, la natura remissiva dell’istinto materno all’interno della società. Nel corso della sua carriera, nelle vesti di artista, autrice e organizzatrice, Tofano si è battuta contro l’oppressione sistematica delle minoranze, impegnandosi strenuamente a favore della legittimazione delle donne e della promozione di un futuro libero dai tradizionali ruoli di genere. – IA
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Arsenale
FRANTZ ZÉPHIRIN
1968, Cap-Haïtien, Haiti Vive a Port-au-Prince, Haiti
La carriera artistica di Frantz Zéphirin inizia ai tempi in cui, ancora ragazzino, dipinge quadri raffiguranti le residenze coloniali che si stagliano lungo la costa di Cap-Haïtien, per poi venderli ai turisti delle navi da crociera che fanno scalo nella città portuale. Da adolescente, inizia a esporre in gallerie locali, celando la sua vera età: autodidatta e risoluto, sviluppa rapidamente uno stile distintivo che coniuga colori vivaci e motivi intricati in composizioni affollate, incentrate sul paesaggio di Haiti e la sua complessa storia di schiavitù, ribellione, rivoluzione e resistenza spirituale. Cap-Haïtien, o Le Cap, era il porto principale dell’ex colonia francese e, durante il XVIII secolo, vi faceva scalo un numero inimmaginabile di navi che trasportavano schiavi rapiti in Africa occidentale. The Slave Ship Brooks (2007) ritrae la famigerata nave negriera Brooks, che trasportava nei Caraibi migliaia di schiavi africani. In questa potente composizione, l’artista inverte gli effetti di disumanizzazione: gli schiavisti sono ritratti come animali, mentre gli africani sono umani costretti a sbirciare fuori dal ventre del vascello. Le figure incatenate allo scafo sono i ribelli, precursori di coloro che avrebbero guidato la Rivoluzione haitiana e messo fine al dominio coloniale francese. Il fervore artistico di Zéphirin discende da questo retaggio di ribellione e indipendenza conquistata a caro prezzo. L’opera di Zéphirin coglie, inoltre, la potenza del vudù, religione maggioritaria di Haiti sviluppatasi combinando elementi del cattolicesimo e delle religioni tradizionali dell’Africa centrale e occidentale. Zéphirin stesso è un sacerdote vudù e attualmente vive e lavora in un tempio situato sulle montagne di Port-au-Prince. Spesso connesso al Surrealismo per le sue incursioni nel fantastico, l’artista preferisce definire il proprio stile “animalismo storico”: dipinti storici saturi dell’energia mistica del vudù e della ricchezza faunistica e floristica di Haiti. Al centro di Les Esprits Indien en face Colonisation (2000) compare una sirena, per metà indigena Taíno e per metà pesce; per braccia ha un serpente e un uccello e il suo volto riporta i motivi della maschera rossa della morte. Sullo sfondo, al largo, si distingue un vascello spagnolo, El Conquistador, che porta malattia e persecuzione nei Caraibi. La donna ha uno sguardo deciso e diretto, lo stesso dell’uomo africano che si affaccia dal suo petto, presagio del rapimento e del lavoro forzato degli africani che avrebbero soppiantato i nativi vittime di eccidio. Insieme, i due mettono l’osservatore davanti a ciò che rappresentano per l’artista: l’oltraggio morale per i milioni di vite perdute a causa del colonialismo e del genocidio. – IA
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Frantz Zéphirin, The Slave Ship Brooks, 2007. Olio su tela, 76,2 × 101,6 cm. Photo Marcus Rediker. Collezione Marcus Rediker
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Arsenale
C É L E S T I N FA U S T I N
1948, Lafond, Haiti – 1981, Pétion-Ville, Haiti
Il paesaggio onirico dai toni psichedelici raffigurato nel dipinto di Faustin dal titolo Pourtant ma Maison est Vide (1979) coglie uno spazio intriso di spiritualità, fantasia, erotismo e dilemma metafisico: il luogo in cui si incontrano vivi e spiriti. Esemplare dimostrazione del virtuosismo tecnico e della vivida immaginazione dell’artista, l’opera rappresenta una dimensione straordinaria dell’arte haitiana del XX secolo ispirata dal vudù, credenza diffusa sull’isola che affonda le sue radici nelle religioni dell’Africa occidentale, in quelle del popolo indigeno Taíno, nel cattolicesimo, nell’Islam, nel folclore europeo e nella massoneria. La generazione di Faustin, erede del “Rinascimento haitiano”, negli anni Quaranta e Cinquanta orbita intorno a pittori come Hector Hyppolite, il cui interesse per i sogni e l’inconscio collima con l’arte surrealista attirando personaggi come André Breton e Aimé Césaire. In questo contesto Faustin ritrae l’esperienza vissuta dei mondi mitici e spirituali, altrimenti invisibili, che plasmano attivamente la vita sociale e politica di Haiti. Nipote di una sacerdotessa vudù, in gioventù Faustin viene dichiarato unito in matrimonio mistico con Erzulie Dantor, l’irruente loa (spirito) vudù dell’amore materno, che si diceva gli conferisse l’eccezionale talento artistico ma, per contro, ne controllasse tormentosamente i sogni. La breve vita di Faustin si consuma in gran parte durante il brutale regime dei Duvalier, i famigerati padre e figlio conosciuti come Papa Doc e Bébé Doc, al potere dal 1957 al 1986. Nella sua opera, l’artista non affronta direttamente le vicende politiche del suo tempo, ma le visioni surreali di paradisi spirituali che permeano i suoi dipinti, come Jardin d’Éden (1979), mettono in scena il poetico tormento dell’essere vivi. In Pourtant ma Maison est Vide, immagini allucinatorie si dissolvono in un cupo paesaggio surreale dominato in primo piano da due figure nude, azzurre e glabre, intente a preparare la macellazione rituale di una pecora; sono Erzulie Dantor, che impugna un coltello, e un uomo magro, seduto a terra, che tiene la mano sinistra sull’inguine, a sua protezione. Sullo sfondo, in un’ulteriore espressione del toccante mix di vudù, realtà storica e tormento psicologico, una donna dall’aspetto spettrale indugia sull’uscio di una capanna mentre un uomo con un machete, che gli storici identificano con lo schiavo fuggiasco simbolo della rivoluzione haitiana Nèg Mawon, si affretta verso le montagne avvolte nell’ombra. Come rifletteva lo stesso intellettuale martinicano Édouard Glissant, “il mito prefigura la storia quanto ne ripete necessariamente gli accidenti che ha trasfigurato, vale a dire che è a sua volta produttore di storia”. – MW
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Édouard Glissant, Caribbean Discourse: Selected Essays, Charleston (VA), University of Virginia Press, 1989, 71.
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Célestin Faustin, Pourtant ma Maison est Vide, 1979. Olio su tela, 30,48 × 40,64 cm. Photo Marcus Rediker. Collezione Marcus Rediker Célestin Faustin, Respectez ce contrat, 1981. Olio su tela, 40,64 × 60,96 cm. Photo Marcus Rediker. Collezione Marcus Rediker
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Arsenale
M Y R L A N D E C O N S TA N T
1968, Port-au-Prince Vive a Port-au-Prince, Haiti
Con la sua innovazione artistica del drapo Vodou, la bandiera vudù, Myrlande Constant ha modificato profondamente il modo in cui l’arte sacra del suo Paese viene recepita da chi non ha dimestichezza con le tradizioni di Haiti. Nella religione haitiana, le bandiere sono oggetti sacri rituali che onorano gli spiriti che rappresentano. Storicamente sono realizzate con paillettes scintillanti che evocano i loa, o gli “invisibili”, spiriti che conducono gli esseri umani al cospetto di Bondyé, il divino creatore. Durante il dispiegamento cerimoniale della bandiera, i loa vengono evocati affinché dimorino nei corpi della congregazione, in un momento di trasformazione corporea. Constant opera in un ambiente interamente maschile di fabbricanti di bandiere, quando, nei primi anni Novanta, imprime un cambiamento radicale alla tradizione sostituendo i lustrini con perline di vetro. L’artista apprende questa laboriosa tecnica di ricamo con perline chiamata tambour lavorando accanto alla madre in una fabbrica locale di abiti nuziali. Inizialmente, la singolarità dei manufatti realizzati da Constant fa sì che la sua arte venga considerata distintamente femminile, ma dopo trent’anni di dedizione a questa pratica, il metodo e lo stile di Constant influenzano ogni creatore di drapo Vodou oggi in attività. Le sue bandiere sono di grande formato, spesso larghe fino a due metri, fissate a telai di legno. Sul retro, Constant disegna le sue affollate e animate composizioni, che poi vengono ricamate a mano con le perline dall’artista e dai suoi molti assistenti. In un atto di per sé sacro, l’artista non vede mai il fronte prima che sia ultimato. Le opere di Constant, in cui colori vivaci e sfumature iridescenti rendono multidimensionale il piano della trama, fondono la cultura contemporanea con la storia haitiana e la religione vudù: idoli e santi cristiani (che pure appartengono a questo sistema ibrido di credenze) sono spesso immersi in atmosfere magiche, intercalate da momenti umoristici, su bandiere che esistono tanto come opere d’arte autonome, quanto come oggetti sacri. In una cornice immaginifica fatta di chitarre elettriche, pesci albini e ricami di perle puramente decorativi, Sirenes (2020) mostra un gruppo di loa che emergono dal mare in un esuberante raduno. Le figure sono esseri ibridi, i cui corpi trasmutano da umani ad animali, a creature mitiche. In modo analogo, GUEDE (Baron) (2020) mette in risalto il sincretismo della religione vudù e della cultura haitiana presentando spiriti della fertilità e defunti attorniati da altari, croci e pentacoli pagani. Coniugando simboli iconici a una tecnica innovativa, l’audace opera di Constant arricchisce la fluidità culturale che alimenta nel profondo l’anima di Haiti, sfidando le tradizionali connotazioni di genere. – IA
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Myrlande Constant, GUEDE (Baron), 2020. Paillettes, perline di vetro, nappe di seta su cotone, 224 × 216 × 10,5 cm. Photo Armando Vaquer. Laura Lee Brown and Steve Wilson, 21c Museum Hotels. Courtesy l’Artista; CENTRAL FINE Gallery, Miami Beach. © Myrlande Constant
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Arsenale
Myrlande Constant, Saint Nicolas, 2020. Paillettes, perline di vetro, nappe di seta su tela, 200 × 226 cm. Photo Armando Vaquer. Collezione privata. Courtesy l’Artista; CENTRAL FINE Gallery, Miami Beach. © Myrlande Constant
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Myrlande Constant, Sirenes, 2020. Paillettes, perline di vetro, nappe di seta su tela, 208 × 261 cm. Photo Armando Vaquer. Collezione privata. Courtesy l’Artista; CENTRAL FINE Gallery, Miami Beach. © Myrlande Constant
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Arsenale
FELIPE BAEZA
1987, Guanajuato, Messico Vive a New York City, USA
Mi apro contro la mia volontà sognando altri pianeti Sogno altri modi di vedere questa vita Queste parole danno il titolo a un imponente dipinto di Felipe Baeza, artista che, combinando collage, materiali vari (come spago e paillettes), tempera all’uovo e incisione, realizza opere bidimensionali fortemente materiche. I sogni di altri pianeti, di un’altra vita, prendono forma attraverso corpi, spesso metà umani e metà vegetali, ritratti in uno stato di trasformazione. Da teste umane prorompe un ricco fogliame, che si impossessa di tronco e arti e si fa eroticamente strada dentro e fuori bocche bramose. Quello di Baeza è un linguaggio passionale, reso più intenso dall’utilizzo di una gamma cromatica tra viola, indaco, nero, rosso sangue e ciliegia. In linea con i concetti che definiscono la sua opera, l’approccio di Baeza alla materia è visibile anche nei nuovi lavori in mostra alla Biennale Arte 2022, seguito di una serie alla quale l’artista lavora dal 2018. Avvalendosi di carta e decalcomanie, dapprima Baeza costruisce le sue figure, strato dopo strato, su pannelli, tela e carta e successivamente leviga, incide e altera fisicamente gli elementi di ogni composizione. Nel contribuire a ridefinire i tradizionali processi pittorici e grafici, questa intensa manipolazione materica si collega all’intento dell’artista di creare corpi ibridi, o “corpi profughi”, come lui stesso afferma. Riflettendo sulla propria esperienza di migrante dal Messico agli Stati Uniti e sulla migrazione in atto a livello globale, le sue opere, densamente stratificate, ritraggono esseri umani, corpi interspecie e piante nell’atto di fondersi in un processo di metamorfosi. Descritti dall’artista come lettere d’amore, i suoi dipinti e collage sono profondamente intimi, una forma di fantasioso autoritratto e costruzione del futuro – i corpi emarginati e liberati di Baeza si ergono trionfanti, una dichiarazione a sostegno dei molti stati dell’essere e della molteplicità dei modi di intendere e vivere la vita. Baeza esplora il “corpo profugo” in una serie di collage su carta dal titolo Gente del Occidente de México (2017–2019). Fondendo l’antico con il contemporaneo, Baeza combina una serie di fotografie di sculture precolombiane in pietra con frammenti di corpi umani tratti da giornali di moda e riviste erotiche. L’incontro tra pietra e carne dà vita a nuovi esseri che, né umani né reperti, incarnano in qualche modo entrambe le categorie. Quest’opera, come quelle più recenti, sancisce il riconoscimento e l’accettazione di tutte le identità politicizzate storicamente rinnegate. – IA
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Felipe Baeza, Por caminos ignorados, por hendiduras secretas, por las misteriosas vetas de troncos recién cortados, 2020. Inchiostro, Flashe, acrilico, vernice, spago, tempera all’uovo, ritagli di collage su carta, 227,33 × 280,67 cm. Photo Ian Byers-Gamber. Collezione Thelma and AC Hudgins. Courtesy Maureen Paley, London. © Felipe Baeza
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Arsenale
Felipe Baeza, Don’t draw attention to yourself you’re already… (dettaglio), 2022. Inchiostro, ricamo, spago, acrilico, collage di carta su tela, 91,44 × 76,2 cm. Photo Brad Farwell. Courtesy Maureen Paley, London. © Felipe Baeza Felipe Baeza, Wayward (dettaglio), 2021. Inchiostro, ritagli di carta, grafite, spago, acrilico, collage su carta, 167,64 × 121,92. Collezione Allison and Larry Berg. Courtesy Maureen Paley, London. © Felipe Baeza
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Arsenale
LU I Z RO Q U E
1979, Cachoeira do Sul, Brasile Vive a San Paolo, Brasile
Grattacieli high-tech nel deserto, luci scintillanti di megalopoli erette tra le montagne sudamericane, abitazioni sotterranee, cani a bordo di jet privati vuoti, nuvole di fumo che si alzano da edifici modernisti in fiamme: nei cortometraggi dell’artista brasiliano Luiz Roque, opere d’arte e oggetti modernisti, animali, danzatori gender-fluid, celebri travesti e paesaggi urbani trovano spazio in atmosfere fantastiche e fantascientifiche, come apparentemente sospesi nel tempo. Assumendo spesso la forma di vignette cinematografiche accompagnate da colonne sonore oniriche, i film di Roque affrontano aspetti sociali, geopolitici e ambientali vitali per la cultura contemporanea, come l’identità, la bioetica queer, l’automazione e l’intelligenza artificiale, posizionando i soggetti in ambientazioni surreali, da un lato languidamente utopiche e sinistramente postapocalittiche. Generalmente le opere di Roque rappresentano voci e storie queer, specie in rapporto alla storia coloniale del Brasile e ai suoi lasciti nell’attualità. Il film muto in Super8 presentato qui, Urubu (2020), intrattiene invece un dialogo più diretto con il contesto della pandemia da Covid-19, che ha costretto l’artista a trascorrere molti mesi rinchiuso nel suo appartamento di San Paolo a causa del lockdown disposto dal governo brasiliano. Urubu è ispirato in egual misura dall’attenzione dell’artista per le sue immediate vicinanze durante il confinamento e dall’interesse per la visione di documentari naturalistici. Durante il lungo tempo trascorso in isolamento, dalla finestra del suo appartamento Roque ha puntato la videocamera verso le architetture storicamente stratificate di San Paolo: le immagini del volo di un urubu, uccello urbano comune in città, distillano poeticamente la sensazione di sospensione generata dalle condizioni senza precedenti imposte dalla pandemia. Il video è caratteristico dell’approccio ibrido di Roque e combina tecniche visive derivate dal cinema, in questo caso il loop temporale, con immagini che richiamano le premesse ipotetiche della fantascienza e la propensione contemplativa e distaccata dei documentari. Analogamente, il corto notturno XXI (2022) riflette sulle controversie attorno al corpo, sui desideri automatici e sui dialoghi tra figure umane e non umane nella calda estate di una città latinoamericana. – MW
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Luiz Roque, Urubu (stills), 2020. Video Full HD trasferito da film Super8 (in loop). Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM, San Paolo, Bruxelles, New York
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Arsenale
P I N A R E E S A N P I TA K
1961, Bangkok Vive a Bangkok, Thailandia
Nel corso degli ultimi quarant’anni, Pinaree Sanpitak ha sviluppato una propria iconografia distintiva, un enigmatico inventario di simboli che rappresentano il corpo femminile distillato nelle sue parti più elementari, espresse in varie forme attraverso recipienti, seni, uova e profili sottilmente incurvati. In dipinti e disegni delicati, Sanpitak impiega un repertorio estetico di forme estremamente minimali, stimolando emozioni complesse a partire da immagini molto semplici. Caratterizzate dalla sensibilità e dal segno etereo di linee, motivi, consistenze e colori, nonostante la loro sobrietà queste opere sommesse si impongono oltre le ripetizioni sistematiche del Minimalismo. Piuttosto, la pratica dell’artista è legata a una fascinazione per il proprio corpo e alle concezioni di sacralità e spiritualità che questo racchiude. A partire dalla fine degli anni Ottanta, Sanpitak inizia a evocare l’esperienza vissuta dalle donne che abitano i propri corpi, riflettendo sulla potenza di ciò all’interno di un quadro universale. A metà degli anni Novanta, ispirata dalla formidabile esperienza di essere fonte di nutrimento mentre allatta suo figlio, inizia a raffinare i propri interessi producendo numerose immagini di seni, che debuttano nella rivoluzionaria mostra Breast Works, allestita a Bangkok nel 1994. Nella nuova serie qui esposta – che comprende dipinti fortemente saturi e dalle ricche texture ottenute mediante pittura acrilica, piume, foglie d’oro e argento, e seta –, l’artista riduce il motivo del seno alla forma del cumulo e del recipiente, correlando esperienze corporee e personali a forme che richiamano le ciotole per le offerte e gli stupa, strutture sacre buddhiste caratterizzate dalla cupola emisferica e diffuse sia in Thailandia sia in molti Paesi dell’Estremo Oriente e del Sud-Est asiatico. Sanpitak ha ampliato la riflessione sul corpo come recipiente andando oltre la fertilità, la capacità di offrire nutrimento, la spiritualità e l’architettura, rappresentando lo stesso concetto come contenitore di percezione e vissuto, o come ricettacolo del vuoto, elemento fondamentale nel pensiero buddhista e testimonianza del costante interesse di Sanpitak per i limiti dell’esperienza corporea. Nei disegni tracciati a matita e carboncino della serie Offering Vessels, realizzata nei primi anni Duemila, i recipienti appaiono come eleganti ciotole larghe e basse con cui l’artista esprime una capacità conviviale di dare e ricevere. Più che una semplice espressione della figura fisica, le ciotole raffigurate in opere come Offering Vessels #8 (2001–2002) e Offering Vessels #16 (2002) testimoniano la vasta portata delle potenzialità del corpo, sia nel sacro, sia nel profano. – MW
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Pinaree Sanpitak, Offering Vessel, 2021. Acrilico, matita su tela, 250 × 250 cm. Photo Aroon Permpoonsopol. Courtesy l’Artista. © Pinaree Sanpitak
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Arsenale
Pinaree Sanpitak, Breast Vessel in the Blacks, 2021. Acrilico, carta, carboncino su tela, 185 × 185 cm. Photo Aroon Permpoonsopol. Courtesy l’Artista. © Pinaree Sanpitak
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Pinaree Sanpitak, Breast Vessel in the Reds, 2021. Acrilico, matita, piume su tela, 250 × 250 cm. Photo Aroon Permpoonsopol. Courtesy l’Artista. © Pinaree Sanpitak
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Arsenale
M AG DA L E N E O D U N D O
1950, Nairobi, Kenya Vive a Farnham, UK
Antropomorfi e sobri, i vasi di ceramica di Magdalene Odundo parlano di una cultura stratificata dell’arte della ceramica, nel solco di una tradizione secolare che associa il corpo femminile all’architettura o ai recipienti. Plasmati a mano e raschiati con la scorza di zucca, gli oggetti dell’artista sono realizzati con un metodo laborioso che prevede il graduale svuotamento di una palla di argilla, per poi tirare lentamente la materia verso l’alto a formare il vaso. Dopo aver dato forma all’argilla, invece di usare i tradizionali smalti vitrei necessari a sigillare l’esterno del vaso, Odundo utilizza una barbottina in terra sigillata finissima, ne lucida la superficie con pietre e utensili, e cuoce i suoi oggetti più volte, trasformando la materia prima in lucidissime e voluttuose sculture rosso-arancio e nero. Nata nel Kenya coloniale del 1950, Odundo si avvicina alla ceramica solo in seguito al suo trasferimento in Inghilterra nel 1971. Qui continua gli studi di arte e design, conseguendo la laurea al Royal College of Art nel 1982. Ispirata dai suoi primi mentori – fra cui Eduardo Paolozzi, Michael Cardew, Zoë Ellison e Henry Hammond – Odundo sviluppa un interesse per la scultura modernista, le ceramiche degli antichi Greci e le tradizioni artigianali di tutto il mondo. All’inizio degli anni Settanta si reca in Nigeria per studiare al Pottery Training Centre di Abuja, dove realizza terrecotte dalle forme arrotondate, decorate con iscrizioni geometriche lineari e ispirate alle forme piene ed essenziali del vasellame creato dalle donne di Abuja. Questa esperienza ha un forte impatto su di lei: le consente di entrare in contatto con tecniche legate alla storia dei materiali indigeni e di apportare complessi costrutti concettuali alla propria attività di ceramista. Pur rimanendo ancorata alle tradizioni delle ceramiche dell’Africa, l’opera di Odundo dialoga intensamente con il corpo. Non solo le movenze di danza che accompagnano la sagomatura a mano dei suoi pezzi si contrappongono alla produzione commerciale e ai movimenti meccanici del tornio, ma anche i colli raffinati, i bordi netti, le pose gestuali e le sagome panciute dei suoi vasi trasmettono corporeità. Per Odundo, i vasi in argilla hanno un interno e un esterno. “Sono convinta che il corpo stesso sia un recipiente; contiene noi, in quanto persone”, ama ripetere. “Senza il guscio esterno del corpo, noi non esisteremmo”1. In quanto tali, essendo provvisti sia di pelle che di corpo, i vasi di Odundo racchiudono un’interiorità. – MW
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Magdalene Odundo, citata in Jonathan Anderson, Worlds in a Vessel, in “Blau International”, 3, 2020–2021.
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Magdalene Odundo, Untitled Vessel, Symmetrical Series, 2009. Ceramica, 51 × 23 cm. Photo Lewis Ronald. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Thomas Dane Gallery. © Magdalene Odundo
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Arsenale
Magdalene Odundo, Untitled Vessel, Symmetrical Series, 2017. Ceramica, 63,5 × 33,3 cm. Photo Dan Bradica. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Thomas Dane Gallery. © Magdalene Odundo
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Magdalene Odundo, Untitled Vessel, 2020–2021. Ceramica, 57 × 32 cm. Photo David Westwood. Wakefield Council Permanent Art Collection (The Hepworth Wakefield). Courtesy l’Artista; Thomas Dane Gallery. © Magdalene Odundo
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Arsenale
S A O D AT I S M A I L O VA
1981, Tashkent Vive a Tashkent, Uzbekistan e Parigi, Francia
Il filo di un linguaggio onirico lega le opere video di Saodat Ismailova, abbracciando temi come memoria, spiritualità, immortalità ed estinzione. Nell’opera video Chillpiq (2016), due autobus bianchi attraversano un paesaggio desolato, portando quaranta donne a scalare un sito archeologico situato su una vetta sacra nei pressi dei monti Karatau, in Karakalpakstan. Le donne compiono il loro tradizionale rituale di preghiera per la fertilità girando intorno all’asta portabandiera e legandovi un panno, un riferimento al Qyrq Qyz, la storia mitologica che narra di quaranta fanciulle sepolte in questo sito, in seguito all’ultima battaglia tra Amazzoni e Persiani. Mentre il sole tramonta, le immagini delle donne si dissolvono, come fantasmi che entrano a far parte del regno delle quaranta fanciulle del mito. La sua nuova opera video a tre canali Chillahona (2022) è girata a Tashkent nelle celle sotterranee chiamate per l’appunto chillahona, strutture destinate alla pratica dell’isolamento e della meditazione spesso costruite accanto alle tombe dei santi locali in Asia centrale, oggi utilizzate dalla popolazione per l’autoisolamento. Costruita a forma di cupola ottagonale con nervature, la cella è composta di tre livelli, a loro volta riprodotti nei tre canali video. Il primo schermo documenta persone che visitano la chillahona; il secondo ritrae i devoti che compiono i loro riti e le loro preghiere; mentre il terzo segue la visita di una giovane donna in difficoltà e il suo momento di autoisolamento. Accanto ai video è appeso un palyak, un ricamo tradizionale di Tashkent che rappresenta la cosmologia femminile ed evoca protezione, guarigione e fertilità, realizzato dall’artista con un tessuto bianco e illuminato da una luce colorata. Operando tra i confini di spazi reali e immaginari, Ismailova attinge alla specifica identità culturale e alla storia dell’Asia centrale, spesso attraverso conoscenze ancestrali ed epici racconti folcloristici che hanno come protagoniste donne, allo scopo di rivelare una comprensione più ampia di che cosa significhi essere umani. – LC
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Saodat Ismailova, The Haunted (still), 2017. Video HD a canale singolo, 16:9, 24 min. Photo Anu Vahtra. Collezione Centre Pompidou, Parigi. Courtesy l’Artista; The Haunted, Trømso Kunstforening (TKF), Norway. © Saodat Ismailova Saodat Ismailova, Two Horizons (still), 2017. Video HD a due canali, 16:9, 22 min. Courtesy l’Artista. © Saodat Ismailova
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V I O L E TA PA R R A
1917, San Fabián de Alico, Cile – 1967, Santiago, Cile
Conosciuta per lo più come icona della scena musicale latino-americana, Violeta Parra è stata una sperimentatrice versatile e, oltre a essersi misurata con la scrittura, è stata autrice di una produzione visiva composita. Dall’inizio degli anni Sessanta, infatti, ormai ottenuto un eccezionale successo internazionale come cantautrice, Parra comincia a realizzare le sue canciones que se pintan (canzoni che si dipingono): una serie di quadri, sculture e ricami che, in perfetta continuità con le sue musiche, sono espressione di una profonda fascinazione per la cultura popolare del suo Paese. Le arpilleras – i suoi monumentali arazzi – costituiscono sicuramente il corpus di opere più complesso e, con le loro raffigurazioni ancestrali ispirate all’arte precolombiana, veicolano narrazioni cariche di un pathos senza tempo. Parra le concepisce come appunti visivi e, da autodidatta, ricama le loro figure senza seguire un disegno precostituito. Descrivono donne, uomini o animali radunati in festose scene corali, eventi storici o momenti di vita spirituale, dove spesse cuciture di lana, scampoli di macramè e trecce di tessuto lavorato a maglia diventano lo schema di base per dare tridimensionalità alle protagoniste e ai protagonisti. I loro corpi si trasformano l’uno nell’altro come fossero impegnati in continue metamorfosi e, spesso resi labirintici dalle cuciture che li attraversano, diventano contenitori di un’identità spirituale o di una memoria collettiva, che talvolta dimostra un impegno sociale. Il lavoro Combate naval I (1964), ad esempio, denuncia i soprusi subiti dal Cile durante la Guerra del Pacifico (1879–1884) e rappresenta la fierezza con cui il più grande eroe nazionale, il capitano Arturo Prat, brandisce una bandiera cilena mentre il suo vascello Esmeralda affonda. El circo (1961), invece, sembra essere un omaggio ai primi palcoscenici calcati da Parra e rappresenta un gruppo di coloratissimi personaggi che danzano, ballano e cantano, forse inebriati dai fumi emanati dalla grossa brocca al centro della composizione, o magari vittime di tutti i mali che quello strano vaso di pandora riversa su di loro. Come dimostra la grande mostra personale che inaugura al Musée des Arts Décoratifs di Parigi nel 1964, pochi anni prima del suo tragico suicidio, le sue arpilleras rappresentano lo strumento per registrare urgenze al contempo personali e collettive, colte e popolari, locali e internazionali. – SM
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Violeta Parra, El circo, 1961. Iuta con lanigrafia, 153 × 240 cm. Photo Marcelo Montealegre. Courtesy Fundación Violeta Parra Violeta Parra, Árbol de la vida, 1963. Iuta con lanigrafia, 166 × 127 cm. Photo Marcelo Montealegre. Courtesy Fundación Violeta Parra
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S A F I A FA R H AT
1924 – 2004, Radès, Tunisia
Le gigantesche opere in tessuto dell’artista, docente e attivista tunisina Safia Farhat declinano la tessitura come l’espressione dello spirito riformatore della propria epoca. Dissolvendo i confini tra arte, artigianato e design, i suoi arazzi riccamente strutturati, come il vibrante dittico verde Gafsa & ailleurs (1983), rivelano l’ingegnosità del suo approccio, applicato anche a vetrate e ceramiche. Farhat, cresciuta in una famiglia dell’élite di Radès – città portuale dove nel 2016 viene inaugurato un museo a lei dedicato –, è tra le poche donne a ricevere un’istruzione scolastica primaria e secondaria sotto il dominio coloniale francese. Dopo l’indipendenza della Tunisia dalla Francia nel 1956, Farhat diviene la prima donna tunisina a insegnare all’Institut supérieur des beaux-arts di Tunisi, dove è a capo del Laboratorio di decorazione dal 1958 al 1966, assumendo poi la direzione della scuola in cui rimane fino al 1973. Nel panorama post-indipendenza, i ruoli delle donne nella famiglia sono notevolmente ampliati, per cui all’epoca anche le donne devono contribuire alla produttività nazionale. In Tunisia la tessitura è sempre stata una tradizionale attività domestica: in seguito all’indipendenza, diventa il simbolo della Tunisianité – patrimonio culturale tunisino – e sotto il patrocinio del governo, migliaia di tessitrici rurali sono impiegate ai telai al servizio del Paese appena formatosi. La strumentalizzazione del mezzo operata da Farhat viene interpretata come un’elaborazione del Modernismo e la dichiarazione dell’autonomia e della creatività artistica femminile, o come un omaggio a una tradizione fondata sul lavoro delle donne, il tutto abbinato al suo impegno per la conservazione del patrimonio culturale nordafricano. Combinazione di audaci motivi geometrici, colori accesi e motivi figurativi tessuti con lane tinte e filate a mano, Gafsa & ailleurs attinge alle tradizioni artigianali tunisine a cui le donne dell’interno meridionale del Paese hanno dato vita, evocando al contempo l’entusiasmo per il nuovo. Questa fusione tra lo storico e il contemporaneo si manifesta anche nella composizione di Farhat. Mescolando diversi spessori e trame, l’imponente dittico tridimensionale assume una qualità simile al collage, raffigurando un paesaggio verdeggiante, punteggiato da un cavallo al galoppo che sembra catapultarsi verso un terreno fantastico di forme astratte. Fondendo il mondo naturale con quello immaginato, tecniche antiche con nuove applicazioni, Gafsa & ailleurs è una proiezione postcoloniale indirizzata al futuro e un cenno al passato culturale di Farhat. – MW
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Safia Farhat, Diptyque Gafsa & ailleurs, 1983. Arazzo, dittico, 320 × 294 cm e 293 × 167 cm. Photo Slim Gomri, © Slim Gomri/Musée Safia Farhat. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Museum Safia Farhat, Tunis. © Safia Farhat
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RO B E RT O G I L D E M ON T E S
1950, Guadalajara, Messico Vive a La Peñita de Jaltemba, Messico
Roberto Gil de Montes si trasferisce da Guadalajara a Los Angeles da bambino, per andare a vivere in un quartiere nella zona orientale della città che stava crescendo come centro del Movimento chicano. I dipinti che Gil de Montes inizia a produrre dopo il diploma all’Otis College of Art and Design riflettono il suo coinvolgimento con l’arte chicana e le amicizie con artisti come Carlos Almaraz, e impiegano elementi narrativi frammentati, colori vitali e composizioni nettamente frontali. La sua opera rivisita e reinventa in egual misura la tradizione, sia con frequenti riferimenti all’iconografia precolombiana e huichol e alle esperienze quotidiane e oniriche della vita dell’artista, sia con le influenze stilistiche talvolta percepibili dei modernisti classici messicani, quali Rufino Tamayo e Frida Kahlo. Oltre a fungere da referenti culturali, queste immagini sono permeate in modo personale dalla sessualità dell’artista e dalle sue acute osservazioni sull’interazione tra il fantastico e il mondano. Gil de Montes esplora le realtà parzialmente nascoste e le storie dimenticate o immaginarie dell’esuberante luogo in cui risiede, sulla costa occidentale del Messico, spesso ritraendo creature – tra cui cani, giaguari, cervi e danzatori – che in queste zone assumono un significato cosmologico. Il dipinto a olio El Pescador (2020) ironizza sulla Nascita di Venere di Sandro Botticelli (1484–1486 ca.), sostituendo la figura della dea, che notoriamente si erge da una conchiglia gigante, con la raffigurazione di un giovane pescatore sdraiato. L’aranceto stilizzato del dipinto di Botticelli viene rimpiazzato da una spiaggia sabbiosa con una palma da cocco. Nei dipinti UP ed El monje (entrambi del 2021), in cui i soggetti vengono capovolti in verticale oppure osservati attraverso le increspature dell’acqua, il dinamismo è sospeso, i campi visivi scombussolati. In UP la figura è a penzoloni, autonoma, distinta, appesa a un punto che si trova al di sopra della sommità della tela: non c’è una linea dell’orizzonte a creare una partizione né a fornire un orientamento o a implicare una sostanziale stabilità della postura. In El monje, le pennellate tratteggiate dei fiori sull’acqua in movimento, oltre a richiamare la morte di Ofelia in Shakespeare, suggeriscono l’inesorabile progredire ondeggiante verso una destinazione ignota, che è tanto corporea quanto fittizia. È un immaginario di incongruenza e di colore, di istintivo e frainteso, dove la fedeltà all’assurdo e la reverenza per tutto ciò che è umile sono fonte di chiarificazione e illuminazione attraverso un’ingenuità solo apparente. – IW
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Roberto Gil de Montes, UP, 2021. Olio su tela, 116,5 × 85,5 × 4,5 cm. Photo Gerardo Landa Rojano. Collezione Beth Rudin DeWoody. Courtesy l’Artista; Kurimanzutto, Mexico City / New York
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Arsenale
Roberto Gil de Montes, Endangered Species, 2021. Olio su lino, 148,8 × 149,5 × 4 cm. Photo Gerardo Landa Rojano. X Museum, Beijing. Courtesy l’Artista; Kurimanzutto, Mexico City / New York
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Roberto Gil de Montes, El Pescador, 2020. Olio su lino, 196 × 257 × 4,5 cm. Sifang Art Museum, Nanjing, China. Courtesy l’Artista; Kurimanzutto, Mexico City / New York
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Arsenale
Roberto Gil de Montes, El monje, 2021. Olio su tela, 116,5 × 85,5 × 4,5 cm. Collezione privata. Courtesy l’Artista; Kurimanzutto, Mexico City / New York
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L A S P O R TA : U N A T E O R I A D E L L A N A R R A Z I O N E Ursula K. Le Guin
Nelle regioni temperate e tropicali in cui, da quel che sappiamo, gli ominidi si sono evoluti in esseri umani, il cibo della specie era in gran parte vegetale. Dal sessantacinque all’ottanta per cento di ciò che gli esseri umani mangiavano in quelle regioni nel Paleolitico, nel Neolitico e in altre epoche preistoriche, era frutto di raccolta; solo nell’estremo Artico la carne era una componente fondamentale della dieta. I cacciatori di mammut occupano spettacolarmente le pareti delle grotte e la mente, ma quel che facevamo in realtà per mantenerci vivi e grassi era raccogliere semi, radici, germogli, virgulti, foglie, noci, bacche, frutti e chicchi, con aggiunta di insetti e molluschi più uccelli, pesci, ratti, conigli e altri animaletti senza zanne Quindici ore a settimana per la sussistenza lasciano catturati con reti o trappole per assicurare un sacco di tempo per altre cose. Tanto tempo che le proteine. E non ci sforzavamo nemmeno forse gli irrequieti che non avevano un bambino intortroppo, senza dubbio molto meno dei conno a ravvivare le loro giornate, o la capacità di creare, tadini schiavizzati nei campi altrui dopo cucinare o cantare, o pensieri particolarmente intel’invenzione dell’agricoltura, molto meno ressanti da pensare, decidevano di andare a caccia di degli operai stipendiati dopo l’invenzione mammut. I cacciatori abili tornavano poi barcollando della civiltà. La persona media della preicon un carico di carne, parecchio avorio, e una storia. storia poteva godere di un buon tenore di Non era la carne a fare la differenza. Era la storia. vita con una settimana lavorativa di una quindicina di ore. È difficile raccontare una storia davvero avvincente su come ho sgusciato un seme di avena selvatica, e poi un altro, e un altro, e un altro ancora, dopodiché mi sono grattato i morsi dei moscerini, e Ool ha detto qualcosa di spiritoso, poi siamo andati al ruscello per bere dell’acqua e guardare le salamandre per un po’, e poi ho trovato un altro campo di avena… No, non c’è proprio paragone, non può competere con il modo in cui ho conficcato la mia lancia in profondità nel titanico fianco peloso mentre Oob, impalato su una delle due colossali zanne, si contorceva urlando e il sangue
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zampillava dappertutto in torrenti cremisi, e Boob veniva ridotto in poltiglia dal mammut che gli crollava addosso dopo che avevo scoccato la mia freccia infallibile trafiggendogli l’occhio fino al cervello. In questa storia non c’è solo Azione, c’è un Eroe. Gli eroi sono potenti. Prima che te ne accorga, gli uomini e le donne nel campo di avena selvatica e le loro figlie e i loro figli e l’arte degli artigiani e i pensieri dei pensierosi e le canzoni dei cantanti fanno tutti parte di essa, sono tutti stati ridotti al servizio della trama dell’Eroe. Ma la storia non è la loro. È la sua. Mentre stava progettando il libro che poi sarebbe diventato Le tre ghinee, Virginia Woolf si appuntò un titolo sul taccuino: “Glossario”; le era venuto in mente di reinventare l’inglese secondo un nuovo programma, allo scopo di raccontare una storia diversa. Una delle voci di questo glossario è “eroismo”, definito come “botulismo”. Ed “eroe”, nel dizionario di Woolf, è “bottiglia”. L’eroe come bottiglia, una riconsiderazione impietosa. Io propongo la bottiglia come eroe. Non semplicemente la bottiglia di vino o di gin, ma la bottiglia nel suo senso più antico di contenitore in generale, una cosa che ne custodisce un’altra. Se non avete qualcosa in cui riporlo, il cibo vi sfuggirà, anche una cosa poco agguerrita e priva di risorse come l’avena. Ne ficcate tutta quella che potete nello stomaco finché ce l’avete a portata di mano, essendo quello il contenitore primario; ma che cosa fate la mattina dopo, quando vi svegliate, e piove e fa freddo, e sarebbe bello avere solo qualche manciata di avena da masticare e da dare alla piccola Oom per farla tacere, però mica si poteva portarne a casa più della quantità che sta dentro lo stomaco o nella mano? Finisce che dovete alzarvi e andare fino a quel maledetto campo d’avena sotto la pioggia, e non sarebbe comodo se aveste qualcosa in cui mettere la piccolissima Oo Oo in modo da poter raccogliere l’avena con entrambe le mani? Una foglia una zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore. Una custodia. Un recipiente. “Il primo supporto culturale è stato con ogni probabilità un recipiente […] Molti studiosi ritengono che le prime invenzioni culturali debbano essere state un contenitore per custodire i prodotti raccolti e qualche specie di tracolla o sporta di rete”. Così dice Elizabeth Fisher in Woman’s Creation1. Ma no, non può essere. Che fine ha fatto quell’oggetto meraviglioso, grosso, lungo, duro, un osso se non sbaglio, con cui l’Uomo-Scimmia nel film picchia qualcuno per la prima volta e che poi, grugnendo estasiato per aver perpetrato il primo vero omicidio, scaglia verso il cielo, finché a forza di ruotare non diventa una navicella spaziale che avanza nel cosmo per fecondarlo e generare al termine della pellicola un adorabile feto, un maschietto, ovviamente, che se ne va alla deriva attorno alla Via Lattea senza (strano a dirsi) un utero, senza una matrice che dir si voglia? Non lo so. E nemmeno me ne importa. Non è questa la storia che sto raccontando. L’abbiamo sentita, abbiamo tutti sentito dei bastoni e delle lance e delle spade, delle cose con cui colpire e infilzare e percuotere, delle cose lunghe e dure, ma non abbiamo sentito della cosa in cui mettere le cose, il contenitore per la cosa contenuta. Questa è una storia nuova. È una novità. Eppure è vecchia. Prima – se ci pensate, di certo molto prima – dell’arma, un utensile tardivo, lussuoso, superfluo; molto prima degli utili coltello e ascia; insieme agli indispensabili tosaerba, macina e scavatrice – perché a cosa serve dissotterrare tante patate se non avete niente con cui portare a casa quelle che non mangiate? – con o prima dell’attrezzo che spinge l’energia all’esterno, abbiamo fabbricato
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l’attrezzo che porta l’energia dentro casa. A me sembra logico. Sono una seguace di quella che Fisher chiama “teoria della sporta” dell’evoluzione umana. Questa teoria, oltre a illuminare vaste aree di oscurità teorica e a scansare vaste aree di assurdità teorica (abitate in larga misura da tigri, volpi e altri mammiferi altamente territoriali), mi radica anche, in prima persona, nella cultura umana come non mi era mai successo. Finché la cultura veniva spiegata come se originasse e si evolvesse dall’uso di oggetti lunghi e duri per colpire, picchiare e uccidere, non ho mai pensato di averci, o di volerci avere, qualcosa a che fare. (“Quella che Freud ha scambiato per mancanza di civiltà è la mancanza, nella donna, di lealtà alla civiltà”, ha osservato Lillian Smith). A quanto pare, la società, la civiltà di cui parlavano questi studiosi era la loro; la possedevano, la apprezzavano; erano umani, pienamente umani, dediti a picchiare, bastonare, spintonare, uccidere. Volendo essere umana anch’io, ho cercato prove del fatto che lo sono; ma se era questo che serviva, fabbricare un’arma e usarla per uccidere, allora senza dubbio ero molto difettosa come essere umano, o non ero umana affatto.
Giusto, avrebbero detto quelli. Tu sei una donna. Forse neanche umana, senza dubbio difettosa. Ora stai buona mentre continuiamo a raccontare la Storia dell’Ascesa dell’Uomo-Eroe. Continuate pure, dico io, avviandomi verso il campo dell’arena selvatica, con Oo Oo nella fascia a tracolla e la piccola Oom che porta il cestino. Continuate a raccontare come il mammut si abbatte su Boob e come Caino si abbatte su Abele e come la bomba si abbatte su Nagasaki e come la gelatina incendiaria si abbatte sugli abitanti del villaggio e come i missili si abbatteranno sull’impero del male, e tutti gli altri passi nell’Ascesa dell’Uomo.
Se è una caratteristica umana riporre una cosa che desiderate perché è utilizzabile, commestibile o bella, in una borsa, o in un cestino, o su un pezzo di corteccia o di foglia arrotolata, o in una rete intessuta dei vostri capelli, o qualsiasi altra cosa vi venga in mente, e poi portarla a casa con voi, dove la casa non è che un altro tipo, più grande, di marsupio o borsa, un contenitore per le persone, e poi in seguito tirarla fuori e mangiarla o condividerla o metterla via per l’inverno in un contenitore più solido o infilarla nella borsa delle medicine o nel santuario o nel museo, il posto sacro, l’area che contiene ciò che è sacro, e il giorno dopo magari ricominciare da capo – se fare questo è umano, se è questo che serve, allora in fin dei conti sono umana. Per la prima volta in modo pieno, libero e felice. Fatemelo precisare subito, non un essere umano privo di aggressività o bellicosità. Sono una donna collerica sull’orlo della vecchiaia, che sventola la borsetta attorno a sé per combattere i malintenzionati. E tuttavia non mi considero eroica per questo, nessuno lo farebbe. È solo una di quelle maledette cose che tocca fare per poter continuare a raccogliere avena selvatica e raccontare storie. È la storia che fa la differenza. È la storia che mi ha tenuto nascosta la mia umanità, la storia che raccontavano i cacciatori di mammut sul colpire, picchiare, stuprare, uccidere, sull’Eroe. La prodigiosa, velenosa storia del Botulismo. La storia dell’assassino. A volte sembra che questa storia stia volgendo al termine. Se non vogliamo arrivare al punto che non esistano più storie di nessun tipo, penso che alcuni di noi qua fuori in mezzo all’avena selvatica, in mezzo al grano straniero, farebbero meglio a cominciare a raccontarne un’altra, con cui forse le persone potranno andare avanti quando finirà la vecchia. Forse. Il problema è che ci siamo tutti concessi
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di diventare parte della storia dell’assassino, e quindi potremmo finire insieme ad essa. È dunque con un certo senso di urgenza che cerco la natura, il soggetto, le parole dell’altra storia, quella mai raccontata, la storia della vita. Non affiora alle labbra con la facilità, con la spensieratezza della storia dell’assassino; eppure “mai raccontata” è un’esagerazione. Sono secoli che la gente racconta la storia della vita, con ogni genere di modalità e parole. Miti di creazione e trasformazione, storie di imbrogli, storie del folclore, barzellette, romanzi… Il romanzo in sostanza è un tipo di storia non eroica. Certo, l’Eroe se n’è spesso impadronito, perché è questa la sua natura imperialista e il suo impulso incontrollabile, conquistare tutto e comandarlo e al tempo stesso emanare severi decreti e leggi per contenere il proprio impulso incontrollabile ad annientarlo. Così l’Eroe ha decretato attraverso i legislatori suoi portavoce: primo, che la forma propria della narrazione è quella della freccia o della lancia, che comincia qui e va dritta là dove TAC! colpisce il bersaglio (che cade stecchito); secondo, che il nucleo portante della narrazione, romanzo compreso, è il conflitto; e terzo, che la storia non vale niente se dentro non c’è lui. Io dissento su tutta la linea. Mi spingerei fino a dire che la forma naturale, propria, opportuna del romanzo potrebbe essere quella del sacco, o della sporta. Un libro contiene parole. Le parole contengono cose. Veicolano significati. Un romanzo è una borsa delle medicine, che tiene le cose in un rapporto particolare, potente, tra loro e tra loro e noi. Il rapporto tra gli elementi del romanzo può anche essere conflittuale, ma la riduzione della narrazione al conflitto è un’assurdità. (Ho letto un manuale di scrittura che diceva: “Una storia dovrebbe essere intesa come una battaglia”, e continuava a colpi di strategie, attacchi, vittorie e via dicendo). Conflitto, competizione, stress, lotta ecc., all’interno della narrazione concepita come sporta/ventre/scatola/casa/ borsa delle medicine, potrebbero essere visti come elementi necessari di un intero che non può di per sé essere caratterizzato come conflitto o come armonia, perché E così, quando sono arrivata a scrivere romanzi di fanil suo scopo non è la risoluzione né la stasi, tascienza, mi trascinavo dietro questa grossa, pesante ma un processo costante. sporta, la mia borsa piena di imbranati e smidollati, e minuscoli chicchi di cose più piccoli di un granello di Per finire, è chiaro che l’Eroe non si trova senape, e reti intricate che, come si scopre dipanandole molto a suo agio in questa sporta. Ha con pazienza, contengono un unico ciottolo azzurro, un bisogno di un palcoscenico, un piedistallo cronometro imperturbabile che segna l’ora su un altro o una vetta. Se lo metti in un sacco assomondo, e un teschio di topo; piena di inizi senza finale, miglia a un coniglio, a una patata. di iniziazioni, di perdite, di trasformazioni e traduzioni, e molti più imbrogli che conflitti, molti meno trionfi Per questo mi piacciono i romanzi: non che trappole e illusioni; piena di navicelle spaziali che contengono eroi, ma persone. si arenano, missioni che falliscono, e persone che non capiscono. Ho detto che è difficile trarre un racconto avvincente da come si sguscia l’avena selvatica, non ho detto che è impossibile. Chi ha mai detto che scrivere un romanzo sia facile? Se la fantascienza è la mitologia della tecnologia moderna, allora il suo mito è tragico. La “tecnologia”, o la “scienza moderna” (per usare le parole che si usano di solito, in un’abbreviazione poco meditata che sta per le scienze “dure” e l’alta tecnologia, fondate sulla crescita economica continua), è un’impresa eroica, erculea,
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prometeica, concepita come trionfo, e in ultima analisi come tragedia. La narrazione che incarna questo mito sarà, ed è stata, trionfante (l’Uomo sottomette la Terra, lo spazio, gli alieni, la morte, il futuro e via dicendo) e tragica (apocalisse, olocausto, allora o adesso). Se, invece, si evita la modalità lineare, progressiva del tecno-eroico, la freccia (assassina) del tempo, e si ridefiniscono la tecnologia e la scienza come una sporta primariamente culturale più che un’arma di dominio, un piacevole effetto collaterale è che la fantascienza può essere vista come un campo assai meno rigido e ristretto, non necessariamente prometeico o apocalittico, al contrario: un genere realistico, più che mitologico. È un realismo strano, ma anche la realtà è strana. La fantascienza interpretata nel modo giusto, come tutte le narrazioni serie, per quanto divertente, è un modo di descrivere quello che succede davvero, quello che le persone fanno e sentono davvero, il modo in cui si rapportano con tutto il resto che sta dentro questo enorme sacco, questo ventre dell’universo, questo grembo di cose che saranno e tomba di cose che furono, questa storia senza fine. In essa, come in tutte le narrazioni, c’è abbastanza spazio per contenere anche l’Uomo nel posto che gli compete, il suo posto nello schema delle cose; c’è abbastanza tempo per raccogliere un sacco di avena selvatica e anche seminarla, cantare alla piccola Oom, ascoltare le storielle di Ool, contemplare le salamandre, e ancora la storia non è finita. Restano ancora semi da raccogliere, e altro spazio nella sacca delle stelle. (1986) Ursula Kroeber Le Guin (1929–2018) è stata una celebre scrittrice americana, la cui produzione include ventuno romanzi, undici volumi di racconti, undici volumi di poesia, tredici libri per bambini, cinque raccolte di saggi e quattro traduzioni. Il respiro e l’immaginazione della sua opera le hanno fatto vincere sei premi Nebula, sette premi Hugo, e il Grand Master dell’SFWA, insieme al PEN/Malamud e molti altri riconoscimenti. Nel 2014 le è stata assegnata la National Book Foundation’s Medal for Distinguished Contribution to American Letters, e nel 2016 è entrata nel ristretto numero di autori pubblicati in vita dalla Library of America.
La sporta: una teoria della narrazione è la traduzione di The Carrier Bag Theory of Fiction. Copyright © 1986 Ursula K. Le Guin. Pubblicato per la prima volta in Women of Vision nel 1988, e poi in Dancing at the Edge of the World, edito da Grove/Atlantic nel 1989, il saggio è stato tradotto con il permesso di Curtis Brown, Ltd. 1
Elizabeth Fisher, Woman’s Creation: Sexual Evolution and the Shaping of Society, New York, McGraw-Hill, 1975.
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SEMINARE MONDI UN SACCHETTO DI SEMI PER LA TERRAFORMAZIONE C O N G L I A LT R I D E L L A T E R R A Donna J. Haraway
Lo slogan politico che indossavo all’epoca dello Scudo spaziale di Reagan negli anni Ottanta recitava: “Cyborgs for Earthly Survival!” (Cyborg per la sopravvivenza della Terra). I terrificanti tempi di George H.W. Bush, e i Bush successivi, mi hanno fatto passare agli slogan rubati al duro addestramento cinofilo Schutzhund, “Run Fast, Bite Hard!” (Corri veloce, mordi forte) e “Shut Up and Train!” (Taci e allenati). Oggi, il mio slogan è: “Stay with the Trouble!” (Resta nei guai), ma in tutti questi nodi – e specialmente ora, dovunquequandunque si trovi quel potente e capiente tempoluogo – abbiamo bisogno di un tipo di saggezza dura e sporca. Istruiti da specie compagne della miriade di regni terrestri in tutti i loro tempiluogo, abbiamo bisogno di riseminare le nostre anime e i nostri mondi natali per prosperare – di nuovo o forse solo per la prima volta – su un pianeta vulnerabile, che non è ancora stato ucciso 1. Non abbiamo solo la necessità di essere riseminati, ma anche di essere reinoculati con quanto fermenta, fissa i nutrienti e stimola tutto ciò di cui i semi hanno bisogno per crescere rigogliosi. Il recupero è ancora possibile, ma solo nell’alleanza multispecie, oltre le micidiali divisioni di natura, cultura, tecnologia e di organismo, linguaggio e macchina2. Me l’hanno insegnato le cyborg femministe; me l’hanno insegnato i mondi umanimali di cani, galline, tartarughe e lupi; e, in contrappunto fungino, microbico, simbiogenetico, me lo insegnano gli alberi di acacia dell’Africa, delle Americhe, dell’Australia e delle isole del Pacifico, con le loro congerie di associati che si estendono attraverso i taxa. Seminare mondi significa aprire la storia delle specie compagne a qualcosa che superi la sua implacabile diversità e i suoi urgenti problemi. Per studiare il tipo di sapienza situata, mortale e germinale di cui abbiamo bisogno, mi allaccio a Ursula K. Le Guin e Octavia E. Butler3. È importante quali storie raccontiamo per raccontare altre storie; è importante quali concetti pensiamo per pensare altri concetti. È importante sapere dovecome Uroboro divorerà di nuovo la sua coda. È così che il fare-mondo procede con se stesso al tempo dei draghi. Sono kōan semplicissimi e nel contempo difficilissimi; vediamo che tipo di risultato generano. Attenta studiosa di draghi, Le Guin mi ha trasmesso la teoria della sporta come narrazione e quella sulla storia naturalculturale4. Le sue teorie, le sue storie, sono sporte capienti per raccogliere, trasportare e raccontare le cose della vita. “Una foglia una zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore. Una custodia. Un recipiente”5. È tanta la storia della Terra raccontata sulla spinta della fantasia delle prime seducenti parole e armi, delle prime seducenti armi come parole, e viceversa. Strumento, arma, parola: ovvero il Verbo fatto carne a immagine del dio celeste. In una storia tragica con un unico vero attore – un reale creatore del mondo, l’eroe: questo è il racconto forgia-Uomini del cacciatore in missione per
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uccidere e riportare il terribile bottino. È un racconto d’azione crudo, spietato, bellicoso che rinvia la sofferenza di una passività vischiosa e putrefatta oltre ogni sopportazione. Tutti gli altri in questo racconto fallico sono oggetti di scena, terreno, appigli per la trama o preda. Non contano; il loro compito è quello di essere di intralcio, di essere superati, di essere la strada, il condotto, ma non il viaggiatore, non il generatore. L’ultima cosa che l’eroe vuole sapere è che le sue seducenti parole e armi saranno inutili senza una sporta, un contenitore, una rete. Tuttavia, nessun avventuriero dovrebbe uscire di casa senza un sacco. Come sono entrati improvvisamente nella storia una fionda, un vaso, una bottiglia? Come fanno cose così umili a portare avanti la storia? O, forse addirittura peggio per l’eroe, come fanno quelle cose concave, scavate, quei buchi nell’Essere a generare, fin dall’inizio, storie più ricche, più bizzarre, più piene, inadatte, continue, storie che riservano spazio al cacciatore, ma che non erano e non sono su di lui, l’Umano che si crea da sé, la macchina forgia-Uomini della Storia. La leggera curvatura del guscio che contiene appena un po’ d’acqua, solo qualche seme da regalare e da ricevere, suggerisce storie di con-divenire, di induzione reciproca, di specie compagne, il cui compito nella vita e nella morte non è quello di porre fine al farestorie, al fare-mondo. Con una conchiglia e una rete, diventare umano, diventare humus, diventare terrestre, assumono un’altra forma, ovvero la forma serpentina che si snoda a latere del con-divenire. C’è spazio per il conflitto nella storia di Le Guin, ma le sue narrazioni-sporta sono ricche di molto altro, in racconti meravigliosi e disordinati da usare per riraccontare o riseminare, possibilità per andare avanti ora e nella profonda storia della Terra. “A volte sembra che questa storia [eroica] stia volgendo al termine. Se non vogliamo arrivare al punto che non esistano più storie di nessun tipo, penso che alcuni di noi qua fuori in mezzo all’avena selvatica, in mezzo al grano straniero, farebbero meglio a cominciare a raccontarne un’altra, con cui forse le persone potranno andare avanti quando finirà la vecchia. […] È dunque con un certo senso di urgenza che cerco la natura, il soggetto, le parole dell’altra storia, quella mai raccontata, la storia della vita”6. Octavia E. Butler sa tutto sulle storie non raccontate, quelle che hanno bisogno di un sacchetto di semi ricucito e di un seminatore itinerante per scavare un posto in cui fiorire dopo le catastrofi di quella Storia Tagliente. Nella Parabola del seminatore, l’iperempatica adolescente statunitense Lauren Oya Olamina è cresciuta in una gated community di Los Angeles. Importante nella santeria del Nuovo Mondo e nei culti cattolici della Vergine Maria, Oya – ovvero madre di nove figli – è, per la cultura Yoruba, l’Orisha (la divinità) del fiume Niger, con i suoi nove affluenti. Vento, creazione e morte sono i suoi attributi e poteri per il fare-mondo. Il dono e la maledizione di Olamina è la sua ineluttabile capacità di sentire il dolore di tutti gli esseri viventi, risultato di una droga assunta dalla madre tossicodipendente durante la gravidanza. Dopo l’uccisione della sua famiglia, la giovane migra da una società devastata e morente con un eterogeneo gruppo di sopravvissuti, per seminare una nuova comunità radicata in una religione chiamata Earthseed (Seme della Terra). Nell’arco narrativo di quella che doveva essere una trilogia (Parable of the Trickster [La parabola dell’imbroglione] alla sua morte rimase incompiuta), il fare-mondo fantascientifico di Butler immaginava che Earthseed alla fine fiorisse su un nuovo pianeta natale tra le stelle. Ma Olamina ha dato vita alla prima comunità Earthseed nella California settentrionale, ed è lì e in altri luoghi sulla Terra che le mie esplorazioni per riseminare il nostro mondo originario devono rimanere, il mondo in cui le lezioni di Butler si applicano con particolare intensità. Nei romanzi della Parable (Parabola), “Dio è cambiamento” ed Earthseed insegna che i semi della vita sulla Terra possono essere trapiantati e possono adattarsi e prosperare in ogni sorta di luogo e tempo, per quanto inaspettato e sempre
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pericoloso. Si noti bene “possono”, non necessariamente “potrebbero” o “dovrebbero”. L’intera opera di Butler come autrice di fantascienza è incentrata sul problema della distruzione e della prosperità ferita – non della semplice sopravvivenza – nell’esilio, nella diaspora, nel rapimento e nel trasporto – il dono-fardello terreno dei discendenti di schiavi, dei rifugiati, degli immigrati, dei viaggiatori e anche degli indigeni. Non è un peso che scompare con l’insediamento. Nella modalità fantascienza 7, la mia scrittura funziona e opera solo sulla Terra, nel fango di cyborg, cani, alberi di acacia, formiche, microbi e di tutti i loro simili e della loro progenie. Con la torsione nel ventre che l’etimo provoca, ricordo anche che genia imbocca la strada di generare. Terranoidi tutti, noi siamo affini laterali oltre che arborei – prole sparsa dal vento – in un’infetta e squallida generazione dopo generazione, specie sciatta dopo specie sciatta. Piantare semi richiede mezzo, terreno, materia, madre. Queste parole mi interessano molto per e nella modalità di attenzione della terraformazione fantascientifica. Nella modalità femminista della fantascienza, la materia non è mai “semplice” mezzo per il seme “informatore”; piuttosto, mescolati nella sporta narrativa del pianeta Terra, parenti e progenie hanno rapporti molto più fecondi per il faremondo. Materia è una parola potente e consapevolmente concreta, la matrice e la generatrice delle cose, affine alla generatrice fluviale Oya. Non serve scavare o nuotare a lungo per arrivare alla materia come fonte, suolo, flusso, ragione e cose correlate – la materia della cosa, la generatrice che è allo stesso tempo fluida e solida, matematica e carnale – e, per quella via etimologica, a un tono di materia come legno, come legno interno duro (in portoghese madeira). Materia, mater, mutter mi obbliga – obbliga noi, quel collettivo raccolto nella sporta narrativa di Beyond the Cyborg – ad affrontare il problema naturalculturale multispecie sulla Terra. È tempo di tornare alla questione della ricerca di semi per la terraformazione che recuperi un mondo terreno di diversità, dovequando non scarseggiano le conoscenze su come uccidere. La mia sporta per la terraformazione è colma di semi di acacia, ma, come vedremo, anche questa collezione porta con sé la sua parte di guai. Comincio con il cadavere decapitato di una formica, trovato da scienziati-esploratori accanto al Seme 31, in una fila di semi di acacia degerminati, all’estremità di una galleria di una colonia di formiche nel racconto di Le Guin L’autrice dei semi di acacia e altri estratti da Rivista dell’Associazione di Teriolinguistica. I teriolinguisti erano incerti sull’interpretazione da dare al messaggio composto con l’essudato ghiandolare che la formica sembrava aver scritto sui semi allineati. L’incertezza riguardava sia l’interpretazione della scritta, sia chi fosse la formica: un’intrusa uccisa dai soldati della colonia? Una ribelle residente che scrive messaggi sediziosi sulla regina e le sue uova? Una poetessa tragica mirmense? 8. I teriolinguisti non potevano applicare le regole dei linguaggi umani al loro compito, e la loro comprensione della comunicazione animale era (è) ancora frammentaria, piena di ipotesi sulla profonda differenza naturalculturale. Dallo studio scientifico ed ermeneutico di altri linguaggi animali registrati in difficili spedizioni di scoperta, i teriolinguisti affermavano che “il linguaggio è comunicazione” e che molti animali usano una semiotica cinestetica collettiva attiva e un linguaggio chimico-sensoriale, visivo e tattile. Potrebbero anche essere stati turbati dalla loro lettura dell’inatteso testo di essudato di questa formica, ma erano certi che almeno stavano affrontando atti teriolinguistici e che un giorno avrebbero imparato a leggerli. Le piante, tuttavia, ipotizzavano, “non comunicano” e quindi non hanno linguaggio. Qualcos’altro accade nel mondo vegetale, forse qualcosa che dovrebbe essere chiamato “arte”9. La fitolinguistica, perseguita in questa direzione dagli scienziati e dagli esploratori, era appena agli inizi e avrebbe sicuramente richiesto modalità di attenzione, metodologia sul campo e invenzione concettuale completamente
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nuove. Il presidente dell’Associazione dei teriolinguisti declamava entusiasta: “Se esiste un’arte vegetativa e non comunicativa, noi dovremo ri-pensare gli elementi stessi della nostra scienza, e apprendere tutta una nuova serie di tecniche. Infatti è semplicemente impossibile utilizzare le capacità critiche e tecniche appropriate allo studio dei gialli sull’assassinio delle donnole, o dell’erotica dei batraci, o delle saghe sotterranee dei vermi, applicandole all’arte della sequoia e della zucchina”10. A mio avviso, il presidente ha ragione sulla necessità di mettere in discussione i tessuti delle proprie conoscenze e i modi di apprendimento per rispondere alla differenza non antropocentrica. Ma uno sguardo più attento a quella formica decapitata e ai semi di acacia degerminati, avrebbe dovuto dire a quegli scienziati ancora zoocentrici, che la loro sublime estetizzazione delle piante li ha portati fuori strada rispetto alle specie compagne che formano la terra. Le piante sono consumate comunicatrici in una vasta gamma di modalità terrene, creando e scambiando significati tra, e all’interno di, una stupefacente serie di associati attraverso i taxa degli esseri viventi. Le piante, insieme a batteri e funghi, sono anche le linee vitali di comunicazione degli animali con il mondo abiotico, dal sole, al gas, alla roccia. Per approfondire questo argomento, per ora devo lasciare la storia di Le Guin e attingere invece alle narrazioni degli studenti di simbiosi, simbiogenesi e biologia evolutiva ecologica dello sviluppo 11. Acacie e formiche possono fare quasi tutto il lavoro per me. Con millecinquecento specie (di cui circa mille indigene dell’Australia), il genere Acacia è uno dei più grandi generi di alberi e arbusti della Terra. Diverse acacie prosperano nei climi temperati, tropicali e desertici attraverso gli oceani e i continenti. Sono specie cruciali, che mantengono la sana biodiversità di ecologie complesse, ospitano molti inquilini e nutrono una moltitudine di commensali. Ricollocate da dovunque provenissero, le acacie sono state le preferite dei silvicoltori coloniali umani e sono ancora la merce di scambio di paesaggisti e allevatori di piante. In quelle storie, alcune acacie diventano invasive distruttrici di ecologie endemiche, che sono la responsabilità speciale dei biologi restauratori e di semplici cittadini di luoghi in via di recupero12. In parte e per intero, le acacie si presentano nei luoghi più inaspettati. Generose, ci donano splendidi legni duri come la koa hawaiana, e vengono abbattute nell’avido, sterminatore, eccesso capitalista globale. Le acacie producono anche le umili gomme polisaccaridi, compresa la gomma arabica dell’Acacia senegal, presenti in prodotti industriali umani come gelati, lozioni per le mani, birra, inchiostro, gelatine e francobolli vecchio stile. Questi stessi essudati costituiscono il sistema immunitario proprio delle acacie, e in quanto tali, contribuiscono a rimarginare le ferite e a combattere funghi e batteri opportunisti. Le api ricavano dai fiori di acacia un miele pregiato, tra i pochi che non cristallizza. Molti animali, tra cui falene, esseri umani e l’unico ragno vegetariano conosciuto, usano le acacie come alimento. Le persone si affidano alle acacie per la pasta di semi, i baccelli fritti, il curry, i germogli, i semi tostati e la root beer. Le acacie appartengono alla vasta famiglia delle leguminose. Ciò significa che, tra i loro numerosi talenti, in associazione con funghi simbionti micorrizici (che ospitano i propri endosimbionti batterici), molte acacie fissano l’azoto, cruciale per la fertilità del suolo, la crescita delle piante e l’esistenza degli animali 13. Nel difendersi dagli animali da pascolo e dai parassiti, le acacie sono vere e proprie fabbriche chimiche di alcaloidi, producendo molti composti che sono psicoattivi negli animali come me. Dal punto di vista delle giraffe, le acacie sfoggiano deliziose insalate a foglia sulle loro chiome, e rispondono all’assidua potatura delle giraffe producendo il pittoresco paesaggio di alberi a cima piatta della savana africana apprezzato dai fotografi umani e dalle imprese turistiche, per non parlare della salvifica frescura offerta a molte creature.
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Sostenuta all’interno di questa grande sacca narrativa sono pronta ad aggiungere alcuni miei dettagli alla storia-sporta in corso nel romanzo di Le Guin. Quella della formica decapitata e del suo seme di acacia/tavoletta di scrittura. I teriolinguisti si preoccupavano del messaggio che cercavano di decifrare nella scritta, io però sono completamente presa da ciò che in primo luogo ha avvicinato formica e seme di acacia. Come si conoscevano; come comunicavano; perché la formica ha dipinto il suo messaggio su quella superficie lucida? L’indizio sta nel seme degerminato. L’Acacia verticillata, l’arbusto australiano imparentato con l’acacia costiera che tanto preoccupa gli ecologi della California meridionale, produce semi che vengono dispersi dalle formiche. Le astute acacie attirano l’attenzione delle formiche con un vistoso picciolo attorcigliato attorno a ogni seme. Le formiche portano i semi così ornati nel loro formicaio, dove consumano a loro piacimento i piccioli ricchi di grassi, detti “elaiosomi”. Con il tempo, i semi germinano dal bel grembo fornito dalle gallerie delle formiche, mentre queste ultime hanno il cibo nutriente e ipercalorico di cui hanno bisogno per alimentare tutte quelle narrazioni delle loro stacanoviste abitudini. In termini ecologico-evolutivi, queste formiche e acacie sono necessarie per la reciproca attività riproduttiva. Alcune alleanze formica-acacia sono molto più complesse di così, raggiungendo i tessuti interni di ciascun partecipante, modellando i genomi e i modelli di sviluppo delle strutture e delle funzioni di entrambe le specie compagne. Diverse acacie dell’America centrale producono grandi strutture cave simili a spine chiamate “stipole” che forniscono riparo a diverse specie di formiche Pseudomyrmex ferrugineus. “Le formiche si nutrono di una secrezione di linfa sul gambo fogliare e sui piccoli corpuscoli alimentari ricchi di lipidi [e di proteine] all’estremità delle foglioline detti corpuscoli di Belt. In cambio, le formiche offrono protezione alla pianta contro gli erbivori” 14. Nulla vale quanto un deciso stuolo di formiche arrabbiate e pronte a pungere per dissuadere il pasto di una giornata, e il brucatore di foglie di qualsiasi specie si dirigerà verso dispense meno infestate. Nello speciale in cinque parti della BBC Science and Nature del 2005 con David Attenborough, nell’episodio intitolato Intimate Relations, questi scenari sono presentati in maniera squisitamente dettagliata e attraente. Assistiamo anche al fatto che “alcune formiche ‘coltivano’ gli alberi che danno loro riparo, creando aree dette ‘giardini del diavolo’. Per accertarsi che crescano senza rivali, sopprimono tutte le altre piantine circostanti” 15. Le formiche svolgono questo compito rosicchiando metodicamente rami e germogli e quindi iniettando acido formico nel tessuto conduttore delle piante incriminate. Simili reciprocità formica-acacia si osservano anche in Africa. Ad esempio, le acacie fischianti del Kenya forniscono rifugio alle formiche nelle spine e nei cosiddetti “nettari extranuziali” per le loro formiche simbiotiche quali la Crematogaster mimosae. A loro volta, le formiche proteggono la pianta attaccando i grandi mammiferi erbivori e gli scarafaggi che la danneggiano. Più si osserva, più si capisce che l’essenza del vivere e del morire sulla Terra è un contorto gioco multispecie chiamato “simbiosi”, ovvero quel legarsi insieme di specie compagne, sedute alla stessa tavola. Le formiche e le acacie sono gruppi molto diversificati e altamente popolati. Possono essere grandi viaggiatrici oppure sedentarie incapaci di sopravvivere lontane dai paesi e dai luoghi natali. Sedentarie o viaggiatrici, il loro modo di vivere e morire incide sulla terraformazione, passata e presente. Le formiche e le acacie bramano associarsi con creature di ogni sorta di dimensione e scala, e sono opportuniste rispetto al vivere e morire in tempiluogo evolutivi e organismici o coloniali. Queste specie, in tutte le loro complessità e continuità, causano grandi danni e sostengono interi mondi, a volte in associazione con gli umani,
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a volte no. Il diavolo si nasconde davvero nei dettagli delle naturecultures responsive, abitate da specie compagne responsabili. Loro – noi – siamo qui per vivere e morire insieme, non solo per pensare e scrivere insieme. Anche quello, certo, ma anche per seminare mondi insieme, per scrivere di essudati di formiche su semi di acacia, per far sì che le storie continuino. La mia storia di questi simbionti smaliziati è, al pari della storia-sporta di Le Guin – con la vecchia scorbutica pronta a prendere a borsettate i teppisti e l’autrice che brama tanto il casino quanto l’ordine delle sue presuntuose creature, umane e non –, un racconto di rettitudine e pace finale. Come Le Guin, mi impegno nei dettagli pignoli e dirompenti di buone storie che non so come finire. Le buone storie attingono a ricchi passati per dare sostegno a densi presenti e far proseguire la storia per chi verrà dopo 16. Queste specie compagne danno il La a storie senza capo né coda, scritte da cani, con tutti i ringhi, morsi, cuccioli, giochi, fiutate che ne conseguono. La simbiogenesi non è sinonimo di bene, ma di divenire insieme in responsabilità. Finalmente, ed era ora, la simpoiesi sostituisce l’autopoiesi e tutte le altre fantasie di sistemi autoformanti e autosostenenti. Simpoiesi è una sporta per la continuità, un giogo per il con-divenire, per restare nei guai dell’ereditare i danni e le conquiste delle molteplici storie naturalculturali, coloniali e postcoloniali, raccontando di un recupero ancora possibile. I teriolinguisti di Le Guin, pur avvolti nelle loro pelli animali, ebbero la visione di queste possibilità spaventose e stimolanti: “E con loro, o dopo di loro, forse andrà un avventuriero ancora più audace, il primo geolinguista che, ignorando le liriche delicate e transeunti dei licheni, leggerà al di sotto di questi le poesie ancora meno comunicative, ancora più passive, interamente atemporali, fredde e vulcaniche delle rocce; ognuna delle quali sarà una parola detta moltissimo tempo fa, dalla Terra stessa, nell’immensa solitudine, la più immensa comunità, dello spazio”17. Comunicativa e muta, la vecchia signora e la sua borsa si troveranno nelle comunità Earthseed sulla Terra e in tutto il tempospazio. Mutter, materia, madre.
Sowing Worlds: A Seed Bag for Terraforming with Earth Others (Seminare mondi. Un sacchetto di semi per la terraformazione con gli altri della Terra) è ripreso e leggermente modificato da Beyond the Cyborg: Adventures with Donna Haraway, a cura di Margret Grebowicz e Helen Merrick, New York, Columbia University Press, 2013, 137–146, 173–175. Una versione leggermente rivista è apparsa in Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Durham, Duke University Press, 2016. Quest’ultimo libro è pubblicato anche in italiano con il titolo Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Roma, Nero Edizioni, 2019, privo tuttavia di questo saggio. Tradotto, curato e riprodotto per gentile concessione della Columbia University Press. Copyright © 2013 Columbia University Press.
Donna J. Haraway è professoressa emerita presso il Dipartimento di History of Consciousness dell’Università della California, Santa Cruz. Ha conseguito il PhD in Biologia a Yale nel 1972, insegna Studi scientifici e tecnologici, Teoria femminista e Studi multispecie, argomenti di cui si occupa anche nei suoi scritti. Fra le sue pubblicazioni figurano: Crystals, Fabrics, and Fields (Yale University Press, 1976, 2004); Primate Visions (Routledge, 1989); Simians, Cyborgs, and Women (Routledge, 1991; tr. it. Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, 1995); Modest_ Witness@Second_Millennium.FemaleMan©_Meets_OncoMouseTM (Routledge, 1997, 20182; tr. it. Testimone_Modesta@FemaleMan©_ incontra_Oncotopo™. Femminismo e tecnoscienza, Feltrinelli, 2000); The Companion Species Manifesto (Prickly Paradigm Press, 2003; tr. it. Compagni di specie. Affinità e diversità tra esseri umani e cani, Sansoni, 2003); The Haraway Reader (Routledge, 2003); When Species Meet (University of Minnesota Press, 2008); Manifestly Haraway (University of Minnesota Press, 2016); e Staying with the Trouble (Duke University Press, 2016). Con Adele Clarke ha co-curato Making Kin Not Population (Prickly Paradigm Press, 2018), che affronta questioni sui numeri umani, sulla giustizia riproduttiva e ambientale femminista antirazzista e sulla proliferazione multispecie.
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Nello scrivere di specie compagne traggo spunto da Anna Tsing, Unruly Edges: Mushrooms as Companion Species, in “Environmental Humanities”, 1(1), 2012, 141–154 (ora disponibile in http://tsingmushrooms.blogspot.com. au). Senza l’ingannevole conforto offerto dall’eccezionalismo umano, Tsing riesce sia a raccontare la storia del mondo dal punto di vista degli associati fungini, sia a riscrivere il libro di Engels L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Quello di Tsing è un racconto di fabulazione speculativa, un genere di fantascienza cruciale per la teoria femminista. Lei e io siamo in una relazione di induzione reciproca, quel fondamentale processo evolutivo di sviluppo ecologico del fare-mondo che è alla base di tutto il con-divenire. Cfr. Scott F. Gilbert, David Epel, Ecological Developmental Biology: Integrating Epigenetics, Medicine, and Evolution, Sunderland (MA), Sinauer Associates, 2008. Il libro di Deborah Bird Rose, Reports from a Wild Country: Ethics for Decolonisation (Sydney, University of New South Wales Press, 2004) mi ha insegnato che il recupero, non la riconciliazione o il restauro, è ciò che è necessario e forse la sola cosa possibile. Trovo utili molte delle parole che iniziano con ri- o re-, tra cui rinascita e resilienza. Post- invece può essere un problema. Per Le Guin si veda soprattutto Il mondo della foresta, Milano, Editrice Nord, 1977 (ed. or. The Word for World Is Forest, New York, Berkley Books, 1976) e L’autrice dei semi di acacia e altri estratti da Rivista dell’Associazione di Teriolinguistica, in La rosa dei venti, Milano, Editrice Nord, 1984 (ed. or. “The Author of Acacia Seeds” and Other Extracts from the Journal of the Association of Therolinguistics, in Le Guin, The Compass Rose: Short Stories, New York, Harper & Row, 1982). La versione originale di questo racconto comparve per la prima volta nel 1974 in Fellowship of the Stars. Per Butler si veda soprattutto La parabola del seminatore, Roma, Fanucci, 2000 (ed. or. Parable of the Sower, New York, Four Walls Eight Windows, 1993), e La parabola dei talenti, Roma, Fanucci, 2001 (ed. or. Parable of the Talents, New York, Seven Stories Press, 1998). Butler ha ispirato una nuova generazione di “storie dai movimenti per la giustizia sociale”. Si veda Octavia’s Brood: Science Fiction Stories from Social Justice Movements, a cura di Adrienne M. Brown e Walidah Imarisha, Chico (CA), AK Press, 2015. Il lavoro di Le Guin pervade anche molti scritti per la giustizia ambientale e la rinascita ambientale. The Carrier Bag Theory of Fiction (La sporta: una teoria della narrazione) di Le Guin ha plasmato il mio pensiero sulla narrativa nella teoria evoluzionistica e sulla figura della donna raccoglitrice in Primate Visions. Le Guin ha appreso della “teoria della sporta dell’evoluzione umana” da Elizabeth Fisher, Woman’s Creation: Sexual Evolution and the Shaping of Society, New York, McGraw-Hill, 1979, durante quel periodo di grandi, coraggiose, speculative e terrene storie che infuocavano la teoria femminista negli anni Settanta e Ottanta. Come la fabulazione speculativa, il femminismo speculativo era, ed è, una pratica fantascientifica. Ursula K. Le Guin, The Carrier Bag Theory of Fiction (1986), in Women of Vision: Essays by Women Writing Science Fiction, a cura di Denise DuPont, New York, St. Martin’s Press, 1988, 166. Le Guin, The Carrier Bag Theory of Fiction, cit., 169.
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Qui, la mia guida con e attraverso la fantascienza, la mia Mystra, è Joshua LaBare, Farfetchings: On and in the SF Mode, tesi di laurea, University of California Santa Cruz, 2010: il termine Mystra di LaBare inizia ad acquisire significati a p. 17. LaBare sostiene che la fantascienza fondamentalmente non è un genere, anche nel senso esteso che include film, fumetti e molto altro, oltre al libro o alla rivista stampati. La fantascienza è, piuttosto, una modalità di attenzione, una teoria della storia e una pratica di fare-mondo. Scrive: “Ciò che chiamo ‘modalità fantascienza’ offre un criterio per concentrare quell’attenzione, per immaginare e progettare alternative al mondo che è, ahimè, il caso” (p. 1). LaBare suggerisce che la modalità fantascienza presti attenzione al “concepibile, possibile, inesorabile, plausibile e logico” (corsivo nell’originale, p. 27). Le Guin è una delle sue principali Mystra, specialmente nel richiamo di ciò che lei intende per “parlare al contrario” nel romanzo di fantascienza Always Coming Home (Sempre la valle), ambientato in una postapocalittica California settentrionale. Leggere La parabola del seminatore insieme a Sempre la valle è un buon modo per i viaggiatori costieri di riempire la sporta per una terraformazione rigenerativa prima dell’apocalisse, anziché subito dopo. Istruiti in questa modalità fantascientifica, forse gli umani e gli altri della Terra possono evitare l’inesorabile disastro e piantare il plausibile germe delle possibilità per un recupero multispecie e multiluogotempo, prima che sia troppo tardi. Myrmex (Μύρμηξ) in greco significa “formica”; una leggenda narra che una fanciulla attica di nome Myrmex irritò Atena attribuendo a se stessa l’invenzione dell’aratro, opera della dea, che quindi la trasformò in formica. A giudicare dalle gallerie che le formiche scavano in tutto il mondo e confrontando la cosa con gli attributi più celesti e cerebrali di Atena, penso che Myrmex avesse maggiore diritto all’attribuzione dell’invenzione dell’aratro. Uscire dal cervello di papà non è certo la stessa cosa che scavare gallerie e canalette nella terra, che si sia dea, donna o formica. Per quanto riguarda le formiche vere e proprie, non si può fare meglio di Deborah M. Gordon, Ants at Work: How an Insect Society Is Organized, New York, The Free Press, 1999; Gordon, Ant Encounters: Interaction Networks and Colony Behavior, Princeton (NJ), Princeton University Press, 2010; e Gordon, The Ecology of Collective Behavior, in “PLoS Biology”, 12(3), 2014. Per una visione in contrapposizione alla spiegazione cfr. Bert Hölldobler, Edward O. Wilson, The Superorganism: The Beauty, Elegance, and Strangeness of Insect Societies, New York, WW Norton, 2009, e Hölldobler, Wilson, The Ants, Cambridge (MA), Belknap Press, 1990. Basandosi sui propri studi relativi allo sviluppo del comportamento nelle colonie di formiche mietitrici nel deserto dell’Arizona e sull’evidenza che le singole formiche cambiano compito nel corso della vita, Gordon ha messo in discussione l’enfasi posta da Wilson sul comportamento rigidamente determinato delle formiche. Per me, Wilson rappresenta l’eroica Atena a fronte dell’inventiva fanciulla attica Myrmex di Gordon, dotata di sacchetto di semi e strumento di scavo. Per iniziare con le acacie, si veda la voce “Acacia” di Wikipedia, e poi Biology of Acacia, un numero speciale di “Australian Systematic Botany” (2003). Per non pensare che l’intera azione di costruzione
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del mondo sia una storia di formiche, cfr. Adam Mann, Termites Help Build Savanna Societies, in “Science Magazine”, 25 maggio 2010. Le Guin, L’autrice dei semi di acacia, cit., 29. Ibid. Cfr. ad esempio Gilbert, Epel, Ecological Developmental Biology, cit.; Scott F. Gilbert et al., Symbiosis as a Source of Selectable Epigenetic Variation, in “Philosophical Transactions of The Royal Society B: Biological Sciences”, 365(1540), 2010, 671–678; Margaret McFall-Ngai, The Development of Cooperative Associations between Animals and Bacteria, in “American Zoologist”, 38(4), 1998, 593–608; McFall-Ngai, Unseen Forces: The Influence of Bacteria on Animal Development, in “Developmental Biology”, 242(1), 2002, 1–14; e Myra J. Hird, The Origins of Sociable Life: Evolution after Science Studies, London, Palgrave Macmillan, 2009. Sulla simbiogenesi come motore del cambiamento evolutivo, cfr. Lynn Margulis, Dorion Sagan, Acquiring Genomes: A Theory of the Origin of Species, New York, Basic Books, 2002. Si veda il sito web del Global Invasive Species Database per informazioni sulle moleste acacie australiane in Sud America e Sudafrica. Per informazioni riguardanti l’Acacia mearnisii (canniccio nero) si consulti il sito Pacific Islands Ecosystems at Risk. Diverse specie di acacia, in particolare il canniccio costiero Acacia cyclops, preoccupano gli ambientalisti in California. Tutti questi controversi viaggiatori ci insegnano il confronto con il problema multispecie che motiva la maggior parte dell’attuale mio lavoro e della mia produzione. Cfr. Paola Bonfante, Iulia-Andra Anca, Plants, Mycorrhizal Fungi, and Bacteria: A Network of Interactions, in “Annual Review of Microbiology”, 63, 2009, 363–383. L’articolo richiama la nostra attenzione sulle molteplici pratiche di comunicazione tra i membri dei consorzi multispecie. Come riassunto nell’abstract: “Il rilascio di molecole attive, comprese quelle volatili, e il contatto fisico tra i vari membri, sembrano determinanti per la creazione della rete batteri/funghi micorrizici/ piante. Viene discusso il potenziale coinvolgimento del quorum sensing e dei sistemi di secrezione di tipo III, anche se l’esatta natura delle complesse interazioni interspecie/interphylum rimane poco chiara”. Cfr. voce “Acacia” in Wikipedia; Martin Heil et al., Evolutionary Change from Induced to Constitutive Expression of an Indirect Plant Resistance, in “Nature”, 430, 2004, 205–208. David Attenborough, Intimate Relations (episodio TV); Alison Ross, Devilish Ants Control the Garden, in “BBC News”, 21 settembre 2005. Il mio debito nei confronti di Deborah Bird Rose è evidente qui e nell’intero mio scritto. Si veda in particolare la sua elaborazione dell’idea di doppia morte in What If the Angel of History Were a Dog?, in “Cultural Studies Review”, 12(1), 2013, 67. “Doppia morte” significa l’uccisione della continuità e l’esplosione delle generazioni. Nel suo Reports from a Wild Country, Rose mi insegna i modi aborigeni di creare responsabilità, abitare il tempo e la necessità di recupero. Si veda anche l’importante rivista ad accesso libero “Environmental Humanities”, ora a cura della Duke University Press. Le Guin, L’autrice dei semi di acacia, cit., 30.
IT MISSES YOU Mel Y. Chen
Dear (lo sei/siete/lo è?), Mi manchi/mancate. Serve davvero dirlo? Gli anni – questi anni? – hanno fatto a brandelli la storia, scosso la possibilità dal cono del tempo, l’hanno riversata in altri mondi. (So bene che dovrei dire che è solo un’impressione). Come si fa a esigere guarigione, integrità, giustizia quando queste parole sembrano sfiorare la curva di un ottimismo non giustificato dalle condizioni attuali? E piuttosto che attribuire un nome a queste condizioni, che cosa significherebbe contattarle, toccarle? Perché i verbi, le configurazioni, le spazializzazioni della lingua marcano qualcosa di percepito come assente. Voglio intenzionalmente sentire la mancanza dell’ostinato calcolo che produrrebbe un risultato. Non tanto anarchica, quanto calcolata mancanza. Le perdite si accumulano e io le percepisco in assoluto di più. È una brutta abitudine, un attaccamento. Perché i sogni sconfinati saranno sempre in agguato all’ombra delle perdite. Quello sfioramento d’altra parte è troppo vicino, preserva l’attaccamento. Sono nauseato – nausea letteralmente? – da questi modelli di progresso, questi meccanismi di cambiamento, e perfino dai nomi che li designano – che forse mi si chiede di radunare, coltivare contro le depredazioni di ciò che è qui ora, ma che a essere sincero, My dear, vorrei mi fossero tolti di dosso. Anche se le loro posizioni tengono e i rapporti riprendono, non posso essere l’unico a sentire il bisogno – il disperato bisogno – di un diverso modello di spazio-tempo sul quale postulare questi sogni di alterità (è arduo per chi sogna sognare senza un qualche tipo di modello; voi sapete quali sogni, vero?). Anche lo spazio-tempo che voglio ha bisogno di piegarsi. Per rendere immediato il sogno, per non sospenderlo o fratturarlo o distanziarlo o irritarlo in continuazione, e anche per cedere il passo, permettendo il ripiegarsi su se stesso. Se al momento nei miei pensieri pazienza e indulgenza vanno dallo sporadico al costante, fuori tempo potrebbe essere un modo per annunciare la presenza della piega.
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Oh, ci sono così tanti tipi di piega. Voglio usarne in maggior numero per questa revisione dello spazio-tempo. A dire il vero, per me è giunto il momento di fare la muta, e allora saranno pieghe a volontà! L’ho fatta un po’ di volte, e benché io abbia avuto momenti incerti quando la muta si incastra sui miei fori per l’aria e devo afferrare qualcosa o grattarmi, è come un fresco tuffo nell’acqua, solo che si tratta del formicolio dell’aria su tutto il corpo. Per un po’ mi sono sentito nel corpo sbagliato, lì a spingere verso l’esterno contro un contenitore che mi stringe. È una sensazione stupenda quando la mia appuntita articolazione mediana di colpo salta fuori e io posso cominciare a raccoglierla a manciate e mangiarla. Chinati, allunga la mano, aggancia, strizza gli occhi, spingi, ingolla, batticiglio-ingoia. Chinati, allunga di nuovo la mano, aggancia, strizza gli occhi, spingi, ingolla, batti-ciglio-ingoia. Ci siamo passati tutti, forme di rinnovamento. I grandi incombenti simili ci fecero spazio quando eravamo piccoli e temevamo di prosciugarci perché il nostro stagno era diventato una misera pozzanghera, scolpirono un ruscello e noi ci accalcammo, ci incanalammo, respirammo di nuovo; quella gioia era lì, l’ondata dei nuovi simili, che si contorcevano tutti assieme. Anche quando i serpenti d’acqua si accontentavano, andando a prendere bocconcini per i loro giovani simili, molti di noi rimasero. E ora, inesperto e nuovo trabocco di sensazioni. Riesco quasi a udire canzoni remote in lontananza, miei simili e “altrosimili”. Anche ringhi, ringhi ritmici con tanto di odori ripugnanti. E mi spiace dirlo, ma c’è un formicolio diverso, “altrosimile” che secondo me ha atteso questo momento per infilarsi di colpo. Si sa, c’è un bel po’ di letame qui, nel fango, sul mio corpo, chiunque vive di chiunque, mangiamo, lecchiamo (manco una mosca finché non la catturo, così spesso colpisco simili e altrosimili), sicuramente tocchiamo, o manco-saltiamo, e alcuni altrosimili accettano passaggi. Sopra e attorno alle mie protuberanze – soprattutto la mia preferita che adoro massaggiare con il piede, ma anche all’interno di gomiti e ginocchia – ci sono morbide sacche scure in attesa di nuove creature. Mi è capitato di incontrare laggiù simili con uova, ma su di me sta già cominciando a nascere un piccolo fungo ragnateloso. È come il tocco di una schifezza, di una piccola cosa malvagia, e puzza. Si sta già facendo valere. Voglio vomitarlo o spruzzarlo con la mia ghiandola tossica, ma ovviamente non servirà a nulla. Ho i miei piani. Ho intenzione di raschiare quell’area contro i bordi di una qualche corteccia e vedere quanta ne viene via (insieme al mio bel nuovo strato di muco – bleah). E se alzo le braccia la pelle si tirerà, perciò se vado laggiù furtivo con tutti gli arti ben distesi, magari mi posso asciugare un po’ e spingerlo ad andarsene da un’altra parte. Continua a cercare di dire cose, a raccontare storie vittoriose di quelli alti dagli strani gracidii che cercano di strapparci per buttarci nei loro bidoni: lo hanno trascinato dalla gabbia alla guaina alla mano ai simili e altrosimili e poi di nuovo ai simili e altrosimili, ruscello, simili e altrosimili, stagno. Non sopporto quelle storie; non sopporto i ricordi di quel ferito mentre muta, quella muta che ha lasciato i simili senza pelle. Vorrei tanto sostituirlo con qualcos’altro, tipo quei graziosi esseri di fango
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che si prendono cura del mio muco e lo mantengono in salute. O anche solo andare a sedere accanto a una foglia, o a un mico-essere differente, quei floridi cappelli fungini sopra le fitte ragnatele che proteggono i miei preziosi occhi dalla pioggia battente – sì, quella combinazione è reale, facciamo ripetutamente amicizia. Questo è il nuovo me e mi merito il fango giusto. Quello che decisamente proprio non voglio è che quel fango fungino sbagliato si avvicini alle mie preziose gonadi. Ce le ho proprio belle in questa vita e lo so. E sono più di quanto la maggior parte di noi abbia dentro. Le formiche tagliafoglia, che a volte mangio, mi raccontano cose: come il ringhio lontano, una cosa che nessun simile o altrosimile aveva mai visto, che arrivò nello stesso momento in cui l’acqua aveva iniziato a cambiare e anche i simili e gli altrosimili avevano iniziato a cambiare. Quell’acqua di ruscello aveva un che di perfidia, una perfidia intrinseca. Desidero meno entrarci; preferisco le pozzanghere fresche nel passaggio di un peloso dopo la pioggia. Secondo le formiche tagliafoglia, i nuovi-simili avevano zampe extra, o nessuna zampa; protuberanze extra o nessuna protuberanza; pieghe extra, o neanche una. Di sicuro un salto diverso nel loro caso, e in alcuni sembrava disagevole (forse l’addome dovrebbe essere bene avvolto da quelle quattro zampe ma chi sono io per dirlo?), ma in quelli vicino a me stavamo ancora tutti mangiando e cacando bene, quindi questa vita potrebbe andare avanti ancora un po’. Un po’ quanto? Come dicono i simili, i simili vogliono crescere, restare, essere? In questi giorni, quando vedo i simili, provo davvero degli impulsi che non sono gli stessi di quando vedo un grande verme o una larva. Il richiamo che scaturisce dalla mia gola, specialmente quando esce fuori con l’aria, mi pare connesso al mio addome. Non so da dove venga questo impulso, ma voglio entrare in acqua, trovare simili, schiaffeggiare quell’addome sui simili e tenermi aggrappato per un po’, penetrando in profondità. Se piace a loro, piace anche a me. Qualunque flusso di uova venga prodotto e qualunque cosa finiscano per fare, va bene. Forse resteremo in contatto. Le mie gonadi saranno arrivate ai simili e mi sentirò gratificato. Per ora, la vita va bene. Tornando alla lettera, l’essere in comunione, la comunione a proposito del mancare e del mancante. Penso principalmente in questi giorni a una perdita profonda, reale, che tuttavia mi porta così tanti nuovi simili. Seguitemi bene; si tratta di una cosa confusa. La cosa confusa sono io, ma siamo anche noi e loro. Comincia con il genere? La storia che mi è stata raccontata è fondamentalmente una storia di sesso, genere: categorie, tipologie e il loro mantenimento. Non importa che molti di questi siano ereditati dalla ragnatelica diffusione della geofagia, quel modello di ingoiamento/autoriproduzione di strutture coloniali come gli Stati-nazione, da rifare negli stessi termini. Secondo la storia, tutto ciò che conta ricorre dalle persone e dai loro due tipi, il tipo donna e quello uomo. È semplicistico se non altro, lo ammetto. Eppure ogni spiegazione, se mi fermo a pensarci, sembra una parafrasi di questa cosa, quindi mi limito a lasciarla lì: è laica, è religiosa, è fondamentalmente la maggior parte dei sistemi se vuoi mappare la diffusione di quella cosa ragnatelosa e non ciò che sta cercando di coprire senza riuscirci. Quello che manca. E in quella mappa-ragnatela, questi due generi, distinti come due biscotti su una mensola, sono diventati in qualche modo il cuore di tutto, nel bene e nel male. Quindi rifiuto questa occupazione, anche se potrebbe non avere molta importanza; se il linguaggio è insieme nulla e tutto, la specificità pronominale – non solo riguardo al destinatario, che se la cava con “tu”, ma riguardo ad altri come la “terza persona” – in fin dei conti che cosa genera? La piega è quella del genere e della specie, dell’animato e dell’inanimato. Il problema mi sembra meno accogliere pronomi neutri e/o plurali, che una mancanza designata: quando
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mi scanso o mi tengo alla larga da quelle ragnatele, tutto ciò che trovo sono i simili. È la cosa confusa, è il ripiegarsi su se stesso, e qui, sento arrivare la piega. It misses you. A mo’ di poscritto: questo pezzo intende animare un destinatario vago e mutevole, che può essere umano, anfibio, fungino, planetario, collettivo, multiplo, ibrido, inanimato; ha lo scopo di eludere la determinazione precisa. Passeranno di qui rospi, che sono in assoluto il mio primo amore; un particolare fungo chitride che, a causa di una combinazione sconosciuta di presenza naturale, commercio di animali a scopo medico, sviluppo di test di gravidanza a uso domestico e cambiamenti climatici, ha attraversato una soglia dal normale al mortale per gli anfibi di tutto il mondo; interferenti endocrini come comuni inquinanti delle idrovie industriali che sono stati associati a molti effetti sugli animali, tra cui l’aumento di quelli che sono etichettati come rane e rospi “intersessuali”; e, come spero, un’amorevole virata sulla politica trans e la disabilità delle rivendicazioni per danni ambientali. Le suddette presenze non sono proclami ma suggerimenti. Ciò che inizia una lettera, diventa una storia, poi torna alla lettera che forse non potrebbe essere, data la voce/l’indirizzo. C’è quindi una sorta di piega, un ripiegarsi su se stesso o desiderio che sto cercando di eseguire, anche se in maniera accidentata, all’interno di risonanze tra l’apparente lamento umano-centrico, la “mancanza” dell’obiettivo idealizzato della gestione ambientale e la “mancanza” dell’ingiusta perdita che crea, e la voce del rospo dislocato la cui autenticità è inaccusabile e nel contempo profondamente strana, che registra la differenza chimica e sessuale pur rimanendo in qualche modo imperterrito e “locale”. Un tale fardello tiene il rospo, uno che sembra appunto indicibile nonostante conosca intimamente qualcosa della sua posizione fra le molteplici, stratificate forze. Infine, non desidero che l’irrefrenabile vivacità del rospo neghi la necessità di cure o preoccupazioni per l’ambiente. Il punto, piuttosto, è che le militanze intorno alla purezza possono essere particolarmente pericolose e possono trarre vantaggio da un’espressione iconoclasta. Che funzioni, che sia maldestro o scorrevole, caotico o appropriato, un tentativo fallito o che ci si senta come a casa, lascio a voi decidere.
Profonda gratitudine a Devi Peacock, Jack Aponte e Julia Bryan-Wilson per il loro coraggioso riscontro e sostegno critico. Mel Y. Chen (che usa i pronomi they/them/their) si forma come linguista femminista queer; ha conseguito un dottorato presso l’Università della California a Berkeley, e qui è Associate Professor di Gender & Women’s Studies e dirige il Center for the Study of Sexual Culture. Con il primo libro, Animacies: Biopolitics, Racial Mattering, and Queer Affect (Duke University Press, 2012) ha ricevuto il premio Alan Bray Memorial Book Prize della Modern Language Association – GL/Q Caucus per il contributo agli studi LGBT e/o Queer in letteratura e studi culturali. Il secondo libro, Chemical Intimacies, sta per essere completato. I loro interessi di ricerca e insegnamento includono teoria queer e di genere, Animal Studies, teoria critica della razza e studi asio-americani, sulla disabilità, sulla scienza e linguistica critica.
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Delcy Morelos, Inner Earth, 2018. Terra, tecnica mista, dimensioni variabili. Photo Hendrik Zeitler. Collezione dell’Artista. Roda Sten Konsthall, Göteborg, Sweden. Courtesy l’Artista
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Arsenale
DELCY MORELOS
1967, Tierralta, Colombia Vive a Bogotà, Colombia
Nel corso di trent’anni, Delcy Morelos ha sviluppato una pratica dinamica tramite mezzi come pittura, installazioni e scultura, in cui i materiali primari sono terra, argilla, tessuti, fibre e altri elementi naturali. Morelos inizia la sua carriera come pittrice e nei primi lavori, come ad esempio De lo que soy (1995), applica vernice acrilica rosso sangue su superfici cartacee, con pennellate geometriche ma al tempo stesso gestuali e naturali. Questi dipinti raffigurano recipienti e contenitori rossi con carne e sangue che si riversano, incontenibili, all’interno e all’esterno: il rosso e l’energia sprigionata testimoniano la storica violenza politica e il conflitto armato in Colombia. Nel corso del tempo, i suoi dipinti passano dai rossi ai toni della terra, per poi trasformarsi in grandi installazioni immersive fatte di terra. In queste sue opere più recenti, come ad esempio En tierra (2016), un sottile strato di terriccio copre il pavimento e le pareti dello spazio espositivo, mentre in altre, come Inner Earth (2018) e Earthly Paradise (2022), masse di terreno si innalzano al di sopra del piano di calpestio e circondano il corpo dello spettatore. Percorrendo Earthly Paradise, i visitatori possono avvertire l’odore della terra misto a fieno, farina di manioca, polvere di cacao e spezie come chiodi di garofano e cannella, e al tempo stesso percepire l’umidità, la temperatura, la consistenza e l’oscurità di questa materia. Benché questa installazione evochi l’estetica minimalista di opere quali New York Earth Room (1977) di Walter De Maria, l’utilizzo della terra da parte di Morelos è un gesto che si rifà alla sua educazione nel territorio indigeno del popolo EmberáCatío a Tierralta. Animate dalle cosmologie andine e amazzoniche, queste opere trasmettono l’idea che la natura non è qualcosa di inerte, che possiamo utilizzare e controllare a nostro piacimento da una posizione esterna e privilegiata, ma che noi stessi siamo esseri terreni. Nei paesaggi di terra di Morelos, il suolo è pregno di volontà, desiderio, magia e poteri creativi. A mano a mano che la terra penetra e influenza il nostro corpo e i nostri sensi, il nostro divenire umano assume una nuova forma: ci rendiamo conto di diventare sempre più humus, come la stessa etimologia latina della parola “umano” ci ricorda. Diventiamo, viviamo, moriamo e ci decomponiamo con e come la terra. – MH
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Delcy Morelos, Inner Earth, 2018. Terra, tecnica mista, dimensioni variabili. Photo Hendrik Zeitler. Collezione dell’Artista. Roda Sten Konsthall, Göteborg, Sweden. Courtesy l’Artista Pagine successive: Delcy Morelos, Inner Earth, 2018. Terra, tecnica mista, dimensioni variabili. Photo Hendrik Zeitler. Collezione dell’Artista. Roda Sten Konsthall, Göteborg, Sweden. Courtesy l’Artista
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Arsenale
JAIDER ESBELL
1979, Normandia, Brasile – 2021, São Sebastião, Brasile
Nel suo impegno di organizzatore, educatore e curatore, l’artista autodidatta di origini makuxi Jaider Esbell è stato un instancabile sostenitore dei diritti degli indigeni e portavoce dell’emergenza ecologica. Nato nel territorio ora conosciuto come Terra Indígena Raposa Serra do Sol, Esbell trascorre l’infanzia ascoltando il nonno raccontare storie su Makunaimî, il grande antenato dei popoli nativi della regione del Roraima. La sua ricerca artistica si sviluppa parallelamente alla personale indagine sul mondo occidentale negli anni in cui frequenta la scuola. Nel 1998, a diciannove anni, si trasferisce a Boa Vista, capitale dello Stato brasiliano del Roraima. Dopo aver lavorato come elettricista delle linee dell’alta tensione per un’impresa pubblica, si laurea in geografia per poi dedicarsi completamente all’arte a partire dal 2016. Esbell è stato un assiduo scrittore e attivista per i diritti del suo popolo, i Makuxi, il cui territorio è attualmente diviso tra Brasile, Guyana e Venezuela. È stato un sostenitore di ciò che chiamava “artivismo” (crasi tra arte e attivismo), ossia l’idea che l’arte può essere una forza poderosa nelle lotte per il riconoscimento della cultura e dei diritti sulle terre delle popolazioni indigene. La stessa opera artistica di Esbell – costituita da dipinti, disegni, video, poesie, scritti e performance – unisce cosmologia indigena e questioni socio-ambientali a un’aspra critica alla cultura dominante. Prima della morte nel 2021, la sua indagine si era concentrata sul concetto di txaísmo, un approccio alla creazione di forme di relazione tra il mondo indigeno e il mondo occidentale basate sulla reciprocità, e non più sull’estrattivismo coloniale. I dipinti della serie Transmakunaimî: o buraco é mais embaixo, che nel titolo richiamano il già citato Makunaimî, sono rappresentazioni astratte di scene che sembrano provenire dall’orizzonte dell’esistenza. Le energie spirituali che trascendono i confini temporali sono raffigurate mediante colori densi e vibranti, ed emergono dal caos per poi ricomporsi in forma di animali, piante e masse terrestri. Alcuni di questi dipinti descrivono il rapporto di Makunaimî con le forze vitali dell’Amazzonia caraibica, altre, come A vaca e A luta do boi com Makunaimî (entrambe del 2017), ritraggono l’invasione coloniale. Anche quando le immagini sono vicine all’astrazione totale, i dipinti di Esbell esprimono la continuità e la potenza della natura in risposta allo sfruttamento della società dominante. Come scrive l’artista: “Di un cespuglio, non importa quanto siano minuti i suoi rami, contiene tutto l’antidoto contro quel veleno che è la megalopoli”. – IW
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Jaider Esbell, Maikan e Tukui (Raposas e Beija-flores), 2020. Acrilico su tela, 100 × 75 cm. Photo Filipe Berndt. Collezione privata. Courtesy Galeria Jaider Esbell de Arte Indígena Contemporânea; Galeria Millan. © Jaider Esbell Estate
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In senso orario dall’alto a sinistra: Dalla serie Transmakunaimî: o buraco é mais embaixo Jaider Esbell, A vaca, 2017. Acrilico su tela, 89 x 90 cm. Photo Marcelo Camacho. Collezione privata. Courtesy Galeria Jaider Esbell de Arte Indígena Contemporânea. © Jaider Esbell Estate Jaider Esbell, Espírito dos Caxiris, 2017. Acrilico su tela, 89 × 90 cm Jaider Esbell, A origem das lagartas de fogo, 2017. Acrilico su tela, 89 × 90 cm Jaider Esbell, Latinoamérica, 2017. Acrilico su tela, 89 × 90 cm Photo Filipe Berndt. Collezione privata. Courtesy Galeria Jaider Esbell de Arte Indígena Contemporânea. © Jaider Esbell Estate
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In senso orario dall’alto a sinistra: Dalla serie Transmakunaimî: o buraco é mais embaixo: Jaider Esbell, Muiraquitãs, 2017. Acrilico su tela, 89 × 90 cm Jaider Esbell, A origem das lagartas de fogo, 2017. Acrilico su tela, 89 × 90 cm Jaider Esbell, A luta do boi com Makunaímî, 2017. Acrilico su tela, 89 × 90 cm Jaider Esbell, Pajés, 2017. Acrilico su tela, 89 × 89 cm Photo Marcelo Camacho. Collezione privata. Courtesy Galeria Jaider Esbell de Arte Indígena Contemporânea. © Jaider Esbell Estate
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S H E R O A N AW E H A K I H I I W E
1971, Sheroana, Venezuela Vive a Mahekototeri e Caracas, Venezuela
Cimentandosi nel disegno, nella pittura e nella stampa, Sheroanawe Hakihiiwe imprime sulla pagina la sapienza, la spiritualità, il lavoro e l’estetica della vita indigena sopravvissuta alla colonizzazione. Artista yanomami nato a Sheroana, una piccola comunità india sulle rive dell’Orinoco superiore nell’Amazzonia venezuelana, Hakihiiwe inizia a produrre carta negli anni Novanta, studiando con l’artista messicana Laura Anderson Barbata, che gli insegna diverse tecniche basate sull’uso di polpe derivate da fibre naturali. Su fogli fabbricati partendo da piante disponibili localmente, come shiki, àbaca, corteccia di gelso, canna da zucchero o banane, l’artista traccia delicate linee tratteggiate, cerchi, griglie, curve, intrecci e ghirigori che con modalità intime e personali rimandano a forme di conoscenza ancestrale. La simbologia di Hakihiiwe testimonia tradizioni culturali e pratiche sociali della propria comunità di origine, attingendo a un vasto repertorio di segni artistici, impiegati soprattutto nella fabbricazione di ceste e nella pittura sul corpo, associata ai riti cerimoniali. Nella cultura yanomami queste forme d’arte sono praticate soprattutto dalle donne e l’artista le ha apprese dalla madre. La tutela della conoscenza è un concetto essenziale nell’opera di Hakihiiwe e, come egli stesso ha affermato in diverse interviste, il rimando a motivi, forme e modelli antichi è parte di uno sforzo volto a conservarla. Allo stesso modo, per Hakihiiwe la superficie della carta porta con sé una risonanza tanto concettuale quanto pratica: non solo questo supporto può essere prodotto a partire da materiali locali, legando quindi qualsiasi segno tracciato su di esso a un luogo specifico, ma ha anche la capacità di attraversare il tempo e lo spazio. In una recente serie di delicati monotipi, Hakihiiwe compone astrazioni dell’ambiente attraverso attente ripetizioni ritmiche di motivi ricorrenti nella cultura yanomami e di nuovi simboli, creati osservando la giungla o la vita della comunità. Riferendosi a insetti, animali e piante, le linee e i triangoli tratteggiati in opere come Iri mamiki (2021) suggeriscono rami in boccio; in Yaro shinaki (2021), le foglie a forma di losanga di un albero di neem; o in Omawe (2021), la forma delicata di una libellula. Altri, come Hahoshi (2021) presentano analogie naturali meno concrete, tuttavia il riferimento fa pensare ai movimenti ascendenti e discendenti dei corpi celesti. Queste opere, insieme, formano un compendio grafico in costante espansione di simboli e segni yanomami. – MW
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Dall’alto in basso: Sheroanawe Hakihiiwe Hahoshi, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 144 cm Kepo, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 137 cm Mapuu thoki, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 144 cm Photo María Teresa Hamon. Courtesy ABRA Gallery. © Sheroanawe Hakihiiwe
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Dall’alto in basso: Sheroanawe Hakihiiwe Omayari misi, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 144 cm Pasho shina, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 144 cm Peripo, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 144 cm Photo María Teresa Hamon. Courtesy ABRA Gallery. © Sheroanawe Hakihiiwe
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Dall’alto in basso: Sheroanawe Hakihiiwe Puu nasipe wayurime, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 131.5 cm Shapono, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 144 cm Yoa, 2021. Monostampa su carta di gelso, 76 × 142 cm Photo María Teresa Hamon. Courtesy ABRA Gallery. © Sheroanawe Hakihiiwe
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E M M A TA L B O T
1969, Stourbridge, UK Vive a Londra, UK
Nei suoi incantati dipinti su seta che figurano su epiche guaine simili a tende, l’artista britannica Emma Talbot intende dimostrare che gli esperimenti formali possono essere liberatori a livello politico. Come spiega lei stessa, durante tutta la sua formazione artistica ha vissuto il predominio dei modi modernisti del fare pittura – il telaio rettangolare, i rigidi angoli della tela, la distanza critica fra artista e opera –, decidendo, tuttavia, che il fatto che ciò fosse quello che conosceva, non significava che fosse anche ciò di cui aveva bisogno. Citando l’influenza dalla teorica della letteratura e scrittrice femminista francese Hélène Cixous sull’écriture féminine, ovvero sulla scrittura femminile, cioè il tentativo di iscrivere il femminile nel linguaggio di un testo, nelle sue prime opere Talbot inizia a concepire il supporto tessile e le sue caratteristiche formali – il modo in cui scorre, si piega e come la sua superficie assorbe la pittura; la sua forza, il suo peso, l’irregolarità e l’immediatezza – come mezzo per esprimere un linguaggio artistico femminile. Anche i suoi disegni su sottili fogli di carta fatta a mano e le soffici sculture composte di tessuto cucito e cartapesta veicolano la strumentalizzazione femminista che Talbot fa dei materiali, come se fossero immaginati al di fuori dei confini dei “dati di fatto” da lei descritti. Segnati anche dall’influenza del pensiero postantropocentrico e postumano, i suoi enormi dipinti, disegni, animazioni e sculture tessili riuniscono forme figurative semplificate, motivi mitologici, schemi ritmici, colori vivaci e testi calligrafici che insieme esprimono aspetti della vita personale e delle esperienze interiori di Talbot, arrivando a toccare tematiche che spaziano dalla tecnologia alla natura, all’urbanistica e all’ecopolitica, fino alla pandemia e all’invecchiamento. Partendo dal titolo dello storico dipinto di Paul Gauguin D’où venonsnous? Que sommes-nous? Où allons-nous? (1897–1898), realizzato in un momento di profonda crisi e di una resa dei conti esistenziale nella carriera dell’artista, l’opera di Talbot Where Do We Come From, What Are We, Where Are We Going? (2021) affronta l’ansia esistenziale e il desiderio di fuga avvertiti dagli esseri umani nel comune presente di catastrofe climatica. Mettendo in scena una critica implicita all’autoesilio di Gauguin nella colonia francese di Tahiti, dove è ambientato il dipinto, Talbot ricopre la propria opera con testi che sollevano interrogativi su che cos’è la natura e su come – o se – vi si possa effettivamente “fare ritorno” in modo etico. – MW
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Emma Talbot, veduta dell’installazione, Emma Talbot. Sounders of the Depths, Kunstmuseum Den Haag, L’Aia, 2021. Photo Peter Cox. Courtesy l’Artista; K21 Kunstmuseum The Hague; Galerie Onrust Amsterdam; Petra Rinck Galerie Düsseldorf. © Emma Talbot Pagine successive: Emma Talbot, Ghost Calls, 2020. Acrilico su seta, 300 × 1500 cm. Photo Ruth Clark. Courtesy l’Artista; DCA Dundee Scotland; Galerie Onrust Amsterdam; Petra Rinck Galerie Düsseldorf. © Emma Talbot
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Arsenale
FIRELEI BÁEZ
1981, Santiago de los Caballeros, Repubblica Dominicana Vive a New York City, USA
Le opere di Firelei Báez, realizzate per mezzo di pittura, disegno e installazioni, mostrano riferimenti visivi che spaziano dalla mitologia alla fantascienza, fino alle narrazioni della diaspora africana. Riesaminando antichi racconti popolari tramandati nel corso del tempo, Báez riflette sul tema della resistenza nera, immaginando nuove interpretazioni e possibilità di divulgazione per le pagine di storia sulla tratta degli schiavi oltreoceano. Postulando il sé come mutevole e sconfinato, Báez indaga i diffusi racconti sull’identità e sulla soggettività nera, mentre i suoi protagonisti rivelano la fragilità di gerarchie costruite privilegiando alcune narrazioni rispetto ad altre. In una recente serie di dipinti, l’artista raffigura forme ibride che oscillano tra avatar femminili, piante, paesaggi e specchi d’acqua, disponendoli sopra alcune riproduzioni ingrandite di materiale storico rinvenuto, quali mappe di rotte commerciali e diari di viaggio. In questo modo arricchisce i racconti dimenticati della resistenza nera e valorizza il contributo, spesso ignorato, reso dalle donne e dalla mitologia femminile. Le immagini di opposizione sono un motivo ricorrente nell’opera di Báez. Il titolo della sua installazione immersiva A Drexcyen Chronocommons (To Win the War You Fought It Sideways) (2019) rappresenta una risposta alla mitologia acquatica afrofuturista elaborata dai Drexciya, duo di musica elettronica di Detroit, che descrive un mondo sottomarino popolato da una nuova generazione di umani-anfibi, i figli mai nati delle donne africane in stato di gravidanza gettate in mare dalle navi schiaviste. Insieme a una mappa raffigurante l’allineamento stellare all’inizio della rivoluzione haitiana, l’installazione presenta anche ritratti di donne nere che indossano il tignon, il copricapo imposto alle donne di colore libere nella Louisiana del XVIII secolo, durante la dominazione spagnola. In un gesto di ribellione, le donne si riappropriarono di questo strumento di repressione trasformandolo in un indumento alla moda. I nuovi dipinti di Báez per Il latte dei sogni, realizzati stratificando colate di vernice che si diramano verso l’esterno della tela, sono volti a dare forma alla memoria. Báez compie gesti calligrafici astratti, che si confondono suggerendo organismi acquatici o ciocche di capelli. Il segno grafico rappresenta il punto di partenza del suo coinvolgimento personale nei confronti della memoria culturale della diaspora africana, definito dall’artista come “una fusione tra l’illusorio corpo dipinto e la materialità della mia stessa presenza”. – LC
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Firelei Báez, On rest and resistance, Because we love you (to all those stolen from among us), 2020. Olio, acrilico su tela, 121,9 × 152,4 cm. Collezione privata. Photo Phoebe d’Heurle. Courtesy l’Artista; James Cohan, New York. © Firelei Báez
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Arsenale
Firelei Báez, Untitled (Drexciya), 2020. Olio, acrilico su tela, 228,6 × 291,5 cm. Collezione Suzanne McFayden. Photo Phoebe d’Heurle. Courtesy l’Artista; James Cohan, New York. © Firelei Báez Firelei Báez, To breathe full and free: a declaration, a re-visioning, a correction (19°36'16.9"N 72°13'07.0"W, 42°21'48.762" N 71°1'59.628" W), 2021. Installazione tecnica mista con suono, acrilico, polistirene espanso, compensato, alluminio, gomma, telo perforato, 6 × 22,86 × 8,15 m; 32 tracce audio, 48 min 22 sec (in loop). Veduta dell’installazione, ICA Watershed, Boston, 2021. Photo Chuck Choi. Courtesy l’Artista; James Cohan, New York. © Firelei Báez
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S A N D R A VÁ S Q U E Z D E L A H O R R A
1967, Viña del Mar, Cile Vive a Berlino, Germania
Sandra Vásquez de la Horra è cresciuta in Cile durante la dittatura militare di Pinochet (1973–1990) per poi lasciare il Paese negli anni Novanta e studiare in Germania. Dedita principalmente al disegno, l’artista talvolta realizza sculture pieghevoli a forma di casa, su cui raffigura creature ibride e fantastiche che appartengono al regno delle fiabe, dei sogni e dell’horror. Immerge i propri disegni in cera d’api fusa, conferendo agli sfondi un caratteristico color burro. Questo processo di conservazione sigilla la carta, evocando toni religiosi e aggiungendo uno strato di vulnerabilità alla natura del materiale. Influenzata dalla letteratura, nella sua opera Vásquez de la Horra combina testi in spagnolo, inglese e tedesco e manifesta una speciale attrazione per l’Antipoesia del cileno Nicanor Parra: l’uso di una lingua prosaica, che fonde ironia e tragedia, per rappresentare il comico e l’ordinario. Nei disegni di Vásquez de la Horra appaiono come emblemi molti simboli tratti da culture indigene e marginalizzate. Una figura ricorrente è lo scheletro agghindato Santa Muerte, come in Der Tod und das Mädchen (2015). In Lazarus (2017), un Lazzaro risorto dai lineamenti asiatici procede affiancato da due cani, in riferimento alla migrazione cinese verso l’America Latina alla fine del XX secolo. Los vientos (2016), ispirato alla canzone Angelitos negros della cantante spagnola Lola Flores, raffigura due donne yoruba, appartenenti a un gruppo etnico originario dell’Africa occidentale, che soffiano vento sulle vele di una barca tracciandone la rotta. La figura femminile è spesso centrale nei disegni di Vásquez de la Horra, che la raffigura come Madre Terra e creatrice, ma anche come creatura violata o remissiva. Disposte in una struttura lignea simile a una casa progettata dall’artista, le opere qui esposte mostrano corpi femminili che si fondono con paesaggi surreali (Erupciones [2019] e Flotante y su genealogía [2020]), che si dissolvono nella luce (Saludo a Olorun, 2021) o che diventano vettori o corollari di testi (América sin Fronteras [2017] e La Voz de un Pueblo que lucha [2019]). In una nuova serie di lavori a matita, acquerello e cera, Vásquez de la Horra piega la carta a fisarmonica per portare le sue figure in uno spazio scultoreo, enfatizzando la fisicità, la consistenza e la fattura dei segni grafici. Nel complesso, la sua pratica artistica esplora temi che spaziano tra mortalità, rinascita, sessualità, miti, riti, tradizioni e religioni, ed esamina la violenza e il soggiogamento subiti dalle popolazioni di discendenza africana nel corso della storia dell’America Latina. – LC
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Sandra Vásquez de la Horra, La verdad es demasiado grande, 2017. Disegno in 2 parti, grafite, sanguigna su carta, cera, 125 × 102 cm. Photo Eric Tschernow. Courtesy l’Artista. © Sandra Vásquez de la Horra
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Arsenale
Sandra Vásquez de la Horra, PACHAMAMA, 2019. Disegno (leporello), grafite, acquarello su carta, cera, 234 × 49 cm. Photo Eric Tschernow. Arthena Foundation, Düsseldorf. Courtesy l’Artista. © Sandra Vásquez de la Horra
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Sandra Vásquez de la Horra, Cosmic Matroshka, 2020. Disegno in 3 parti, grafite, acquarello, gouache su carta, cera, 200 × 101 cm. Photo Eric Tschernow. Courtesy Michael Haas Gallery, Berlin. © Sandra Vásquez de la Horra
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Arsenale
CANDICE LIN
1979, Concord, USA Vive a Los Angeles, USA
Candice Lin è nota per il suo inventivo uso dei materiali: che siano tè, tintura madre ricavata dai cactus o funghi e pipistrelli morti, sono tutti impiegati enfatizzandone le peculiarità, compresi gli odori e i sapori. Le diverse installazioni di Lin incorporano foglie di tabacco essiccate e pressate, Indigofera tinctoria, semi di papavero, lardo, fusioni in metallo, zucchero, fango proveniente dal letto del Tamigi e persino chiazze di cocciniglia, il rosso carminio ottenuto da insetti schiacciati che progressivamente macchiano il pavimento dello spazio espositivo. Tuttavia, l’obiettivo primario di Lin non è la semplice creazione di oggetti, quanto scavare in profondità nella memoria culturale che i mezzi artistici utilizzati racchiudono. Insieme, i suoi materiali evocano retroscena storici di pratiche artigianali, lavoro manuale, rituali, botanica, commercio globale, nonché la poderosa violenza della brama di possesso coloniale occidentale. Nella sua pratica artistica basata sulla ricerca, Lin adotta tattiche di esposizione spesso associate all’antropologia e alla storia naturale, che vengono reindirizzate e riformulate per accentuare, criticare e interrogare in modo complesso le storie coloniali radicate nei materiali e nelle suddette discipline. Xternetsa nasce da opere precedenti di Lin: l’installazione Seeping, Rotting, Resting, Weeping (2021), che comprende una tenda di stoffe indaco simile a un tempio, gatti in ceramica e un’animazione video che guida i visitatori nei movimenti del Qi gong, e gli oggetti esposti sui tavoli di The Mountain (2016), che includono, tra gli altri, dipinti, bachi da seta vivi, piante di gelso, frammenti di ceramiche e un’iguana impagliata. Riconfigurati in Xternetsa, questi tavoli ci accompagnano attraverso fasi trasformative, in cui i cambiamenti della materia fanno eco a momenti di transizione nelle storie dell’umanità: i fanghi provenienti dalle paludi di Saint Malo, primo insediamento asiatico negli USA, sono cotti per realizzare ceramiche; l’amido ricavato da piante di kudzu bollito è trasformato in bioplastica, mentre piante tradizionali cinesi come ginseng e Dong quai sono placcate in rame. Xternetsa riporta in vita il personaggio storico conosciuto come “George Psalmanazar”, un europeo che nel XVIII secolo diceva di provenire da Formosa, l’odierna Taiwan. L’uomo metteva in scena la sua falsa identità consumando pubblicamente oppio e carne cruda, dormendo in posizione verticale e scrivendo opere pseudoetnografiche in cui descriveva la lingua, i riti e i costumi del suo presunto luogo d’origine. Esaminando l’etnia come atto performativo che si intreccia a nozioni di animalità, ebbrezza e contaminazione, i toraci e i corpi delle figure in ceramica si aprono per rivelare armadi pieni di tinture, veleni e diorami di laboratori alchemici gestiti da demoni felini. – MW
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Questa pagina e successive: Candice Lin, Seeping, Rotting, Resting, Weeping, 2021. Pannelli indaco stampati a mano (katazome) e disegnati a mano (tsutsugaki), barra d’acciaio, tappeti colorati, ceramica smaltata, resina epossidica, piume, tessuto stampato a blocchi e stampato digitalmente (maschere), campanelli, nappe, piccoli oggetti vari, dimensioni adattabili. Veduta dell’installazione, Walker Art Center, Minneapolis, 2021–2022. Courtesy l’Artista; Galleria François Ghebaly
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Arsenale
AAG E GAU P
1943, Børselv, Sápmi/Norvegia Settentrionale – 2021, Karasjok, Sápmi/Norvegia Settentrionale
Lo scultore, scenografo e attivista politico Aage Gaup emerge come figura centrale dell’arte Sami e norvegese negli anni Settanta. Dopo gli studi presso la Trondheim Academy of Fine Art nel Sud della Norvegia, ottiene un incarico in una scuola elementare di Láhpoluoppal, nella Norvegia settentrionale, e si trasferisce nella vicina cittadina di Máze. Nel 1978, fonda insieme a otto artiste e artisti Sami il gruppo Máze, la cui sede serve da base all’attivismo organizzato per le proteste, in seguito note come “Alta Action”, contro la costruzione della diga lungo il vicino fiume Alta. Primo esempio di insurrezione di una popolazione indigena in Europa, tali proteste segnano un punto di svolta nel movimento per la rappresentanza politica e culturale dei Sami nella loro terra ancestrale, chiamata Sápmi, che si estende nel Nord di Norvegia, Svezia e Finlandia, fino alla Russia nordoccidentale. Gaup è noto soprattutto per le monumentali sculture lignee, sia figurative sia astratte. Nelle sue opere si innestano al contempo la conversazione modernista e le convenzioni pittoriche, le prospettive spirituali e i simboli cosmologici dei Sami. Gaup si è impegnato molto al servizio delle popolazioni indigene e profughe in ogni luogo del pianeta. L’opera in legno scolpito intitolata Forest Being (2016) è realizzata in onore delle popolazioni indigene del Sudamerica, allontanate a forza dalle loro case nella foresta pluviale. Gimme Shelter (2004) è ideata da Gaup per dare voce ai rifugiati di tutto il mondo e, nel 2014, viene esposta presso la sede della Tromsø Art Association per raccogliere fondi destinati all’acquisto di protesi per i bambini di Gaza. Per Il latte dei sogni espone l’opera Sculpture I & II (1979), una scultura che ricorda un’onda, sospesa a mezz’aria, che attraversa lo spazio espositivo. Le tre fasce di colore blu in basso, giallo nel mezzo e arancione in alto, evocano un fiume con le sue rive e, forse, un cielo o un’alba che lo sovrastano. L’onda è sostenuta da una struttura costituita da grossi rami, simile a un doppio trespolo per uccelli, a richiamare la presenza degli alberi lungo gli argini. L’artista descrive l’opera anche in termini musicali, facendo riferimento alla struttura dello joik, forma di canto tradizionale Sami. Purtroppo, Gaup è venuto a mancare improvvisamente nel dicembre 2021. – MK
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Aage Gaup, Sculpture I & II, 1979. Legno, vernice, viti, fili, 62 × 78 × 274 cm e 65 × 75 × 298 cm. Photo Nordnorsk Kunstmuseum / Kim G. Skytte. Collezione e Courtesy Nordnorsk Kunstmuseum, Tromsø, Norvegia
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Arsenale
ZHENG BO
1974, Pechino, Cina Vive sull’isola di Lantau, Hong Kong
L’attività di Zheng Bo è tutta incentrata su relazioni onnicomprensive e multispecie. Attraverso una pratica artistica volta all’impegno sociale ed ecologico, Zheng traccia un percorso alternativo che toglie enfasi alla visione antropocentrica del mondo adoperandosi, invece, per realizzare un’interconnessione tra tutti gli esseri viventi. Lavorando a Hong Kong ma viaggiando spesso, l’artista ha dedicato gli ultimi dieci anni allo studio delle piante, seguendo gli insegnamenti di esperti di biologia e botanica e creando al contempo rituali artistici e quotidiani che si concentrano sulla cura interspecie. Zheng è molto interessato alla politica e alle dinamiche di potere create da e per gli esseri umani. Realizza quotidianamente performance, video, laboratori comunitari e disegni, in cui forza le nozioni standard di coesistenza umanavegetale, consentendo al pensiero immaginativo di condurre verso quella che concepisce come una vitalità postumana. L’artista si prefigge di onorare la conoscenza e i legami che esistono naturalmente tra piante, animali e uomini. Zheng, inoltre, decide di operare deliberatamente su una differente scala temporale, decelerata e insensibile alle incessanti bizzarrie della produzione capitalista. Per il progetto del 2020 intitolato Drawing Life, si è dedicato a una pratica quotidiana di disegno, costituita da passeggiate e tempo trascorso a osservare e disegnare la flora circostante, in un’immersione lunga un anno, per la quale aveva a disposizione solo tre matite e un taccuino. Le opere di Zheng muovono e si sviluppano l’una dall’altra. In Pteridophilia, una serie di performance e video iniziata nel 2016 e tuttora in corso, l’artista esplora le possibilità erotiche esistenti tra piante – in particolare felci – e uomini queer. In questi lavori il sesso ha luogo in varie forme, superando provocatoriamente la mera sensualità in favore di atti di piacere estremo. Le curiosità eco-sessuali di Pteridophilia sono state sviluppate ulteriormente in un’opera che unisce film e danza intitolata Le Sacre du printemps (Tandvärkstallen) (2021), frutto della collaborazione con cinque danzatori scandinavi riunitisi in una foresta della contea di Dalarna, in Svezia. Qui la compagnia ha coltivato rapporti che si sono spinti oltre le felci, alimentando, attraverso tatto e movimento, i desideri sessuali collettivi con pini, muschi e l’interazione tra umani. I danzatori hanno trascorso un’intera settimana nella foresta di conifere agitando, venerando, facendo stormire e abbracciando gli alberi con lussuria. L’obiettivo ultimo di Zheng è far trionfare l’uguaglianza interspecie attraverso scambi sensibili e dimostrare che il pensiero e l’essere non sistemici possono condurre a una politica più sana tra molteplici forme di vita. – IA
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Zheng Bo, Le Sacre du printemps (Tandvärkstallen) (stills), 2021. Video in 4K, colore, suono, 20 min. Courtesy l’Artista; Edouard Malingue Gallery, Hong Kong. © Zheng Bo
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Arsenale
N O A H D AV I S
1983, Seattle, USA – 2015, Ojai, USA
L’opera dell’artista e curatore Noah Davis osserva la vita contemporanea afroamericana attraverso una lente peculiare, incisiva, intima e spesso melanconica. Dopo gli studi di pittura alla Cooper Union School of Art di New York, nel 2004 si trasferisce a Los Angeles. Nel 2012, con la scultrice Karon Davis, sua moglie, fonda un importante spazio gestito da artisti, l’Underground Museum, per portare l’arte d’avanguardia in un’area principalmente abitata da neri e ispanici, senza accesso a istituzioni culturali. Scomparso a soli trentadue anni, Davis ha realizzato circa quattrocento opere tra dipinti, collage e sculture. Le schiette rappresentazioni della vita afroamericana di Davis dialogano con una generazione precedente di artisti, come Fairfield Porter, Jacob Lawrence e Palmer Hayden, ma la sua opera è parimenti influenzata dalla figurazione di Marlene Dumas e Luc Tuymans. I dipinti di Davis sovrappongono ricordi e immaginazione, attingendo a fotografie, alla storia dell’arte occidentale e alle esperienze personali dell’artista. In alcuni dipinti, Davis innesta soggetti fantastici nella bellezza eccentrica della quotidianità. Isis (2009) ritrae Karon in un costume dorato, con due grandi ventagli dispiegati come ali, nelle vesti della dea egizia della magia; il dipinto ricorda come il sacro possa trovarsi nella vita di tutti i giorni. The Conductor (2014) è parte di una serie dedicata alle potenzialità dell’arte in un quartiere a basso reddito come Pueblo del Rio, città giardino edificata a Los Angeles nel 1941: il dipinto raffigura un uomo in smoking che dirige un’orchestra invisibile dal portico di casa, sconfinando nuovamente nel surreale. Lo sguardo acuto di Davis si rivolge anche alla storia in 40 Acres and a Unicorn (2007), in riferimento ai “quaranta acri e un mulo” che si diceva sarebbero stati assegnati alle famiglie dei neri, una volta liberati alla fine della Guerra civile americana; con amara ironia, il Realismo Magico del dipinto evoca la delusione di fronte agli sforzi del governo statunitense, volti non tanto a realizzare il diritto dei neri a possedere e lavorare la terra, quanto a fornire manodopera salariata alle piantagioni. Infine, l’uomo ritratto in The Future’s Future (2010) è connesso a una sorta di simulatore di realtà virtuale, circondato da piante verdeggianti che paiono proiezioni da un regno digitale. Seppure tragicamente breve, la carriera artistica di Davis lascia opere che testimoniano un approccio in cui la pittura è una porta che si affaccia sulla memoria, sulla storia e su mondi che trascendono quello in cui viviamo. – IW
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Noah Davis, Isis, 2009. Olio, acrilico su lino, 121,9 × 121,9 cm. Collezione privata. Courtesy The Estate of Noah Davis; David Zwirner. © The Estate of Noah Davis
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Arsenale
Noah Davis, 40 Acres and a Unicorn, 2007. Acrilico, gouache su tela, 76,2 × 66 cm. Collezione privata. Courtesy The Estate of Noah Davis; David Zwirner. © The Estate of Noah Davis Noah Davis, The Conductor, 2014. Olio su tela, 175,3 × 193 cm. The Estate of Noah Davis. Courtesy The Estate of Noah Davis; David Zwirner. © The Estate of Noah Davis
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Arsenale
I B RA H I M E L- S A L A H I
1930, Omdurman, Sudan Vive a Oxford, UK
L’artista, intellettuale e poeta sudanese Ibrahim El-Salahi è uno dei capostipiti del Modernismo africano. Apprezzato per il carattere lirico e onirico dei suoi disegni e dipinti, El-Salahi fonde elementi di calligrafia araba, tradizione ornamentale sudanese e spiritualismo islamico insieme a convenzioni formali di astrazione pittorica, apprese studiando alla Slade School of Fine Art di Londra negli anni Cinquanta. Con il pittore Ahmed Shibrain, El-Salahi è uno dei fondatori della Scuola di Khartum, movimento artistico modernista caratterizzato dall’interesse per la conservazione e l’esplorazione del patrimonio estetico sudanese, in seguito all’indipendenza nazionale proclamata nel 1956. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, El-Salahi assume il ruolo di funzionario pubblico con l’incarico di istituire il Dipartimento della cultura del Paese e conduce per diversi anni un programma televisivo, intitolato Bayt Al-Jak (La casa di Jack), dedicato all’arte, alla cultura e ai temi sociali. Nel 1975, tuttavia, El-Salahi, ingiustamente accusato di aver preso parte a un tentativo di colpo di Stato, viene detenuto per sei mesi senza processo nel famigerato carcere di Kober. L’artista ha raccontato che, durante la prigionia, disegnava di nascosto su frammenti di cemento che poi interrava affinché non venissero scoperti. Dopo il rilascio, realizza Prison Notebook (1976), opera fondamentale costituita da immagini e prosa. Le due serie di disegni intitolate Pain Relief (2016–2019) e Behind the Mask (2020–2021) testimoniano la capacità di El-Salahi di lavorare in condizioni di estremo disagio fisico. Afflitto da un dolore costante e limitato nei movimenti a causa di problemi di salute, l’artista crea queste opere da seduto, tracciando a penna decine di disegni su materiali a portata di mano, come buste postali usate o il retro delle confezioni dei farmaci. Nei disegni della serie Behind the Mask, le linee vigorose rispecchiano l’ansia e l’irrequietezza provate durante la pandemia da Covid-19. Ritraendo figure e volti esagerati, astrazioni lineari dissonanti e paesaggi intricati, delimitati da cornici rettangolari corrispondenti alle pieghe della scatola su cui disegna, i nuovi disegni di El-Salahi rispecchiano la claustrofobia vissuta durante la pandemia attraverso composizioni allo stesso tempo soffocanti e stravaganti. Nonostante tutto, come racconta lui stesso, quando è immerso nel disegno riesce momentaneamente ad alleviare l’esperienza del dolore e a ritrovare la dimensione meditativa dell’immaginazione. – MW
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Ibrahim El-Salahi, Behind the Mask, 2021. Penna, inchiostro sul verso di una scatola di medicinali, 11 × 19,2 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy l’Artista; Vigo Gallery
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Arsenale
Ibrahim El-Salahi, Behind the Mask, 2020. Penna, inchiostro sul verso di una scatola di medicinali, 17,9 × 10,3 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy l’Artista; Vigo Gallery
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Ibrahim El-Salahi, Behind the Mask, 2021. Penna, inchiostro sul verso di una scatola di medicinali, 14 × 13 cm. Photo Justin Piperger. Courtesy l’Artista; Vigo Gallery
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Arsenale
ALI CHERRI
1976, Beirut, Libano Vive a Parigi, Francia
L’opera di Ali Cherri spazia tra film, video, installazioni, disegni e performance. Nella sua pratica artistica, Cherri affianca le pressanti realtà politiche di un’infanzia trascorsa a Beirut durante la decennale Guerra civile libanese a momenti della storia. Posti lungo un continuum temporale, mondo antico e società contemporanea, paesaggio e memoria collettiva emergono come spazi di mitopoiesi, sia delle origini sia del progresso senza fine. Nelle multiformi opere dell’artista, l’archeologia e le relative pratiche di classificazione e museificazione degli oggetti assurgono spesso a emblema dei vari tipi di finzione, che si materializzano nella costruzione del passato. Nella sua nuova videoinstallazione multicanale intitolata Of Men and Gods and Mud (2022), Cherri rivolge l’attenzione alla diga di Merowe, una delle maggiori opere idroelettriche del continente africano, che si trova lungo il Nilo, nel nord del Sudan. La storia della diga si dispiega attraverso quella di un mattonaio, le cui attività quotidiane evocano una visione poetica e soprannaturale dello sviluppo, della catastrofe geologica e del lavoro manuale. Ultimo capitolo di una trilogia iniziata con The Disquiet (2013) e proseguita con The Digger (2015), in cui l’artista esplora le tematiche del disastro umano e ambientale, nonché la storia delle rovine e della cartografia in Medio Oriente, Of Men and Gods and Mud immagina l’ardua costruzione di una diga come la creazione di un portale verso un mondo fantastico. Nel film, un mattonaio stagionale trascorre i suoi giorni nella calura, impegnato nell’estenuante antico compito di plasmare il fango in mattoni; durante la notte, in segreto, costruisce una struttura di fango e scarti che si trasforma in una creatura mistica dalla presenza corporea. Immaginata come un mostro, questa creatura funge da metafora della devastazione provocata dalla costruzione della diga, la cui realizzazione, a partire dall’inizio del millennio, ha determinato il trasferimento forzato dall’area circostante di oltre cinquantamila persone e la riduzione dei lavoratori del fango a manovalanza esiliata e temporanea. Nel riflettere sull’immaginario che circonda il fango e il diluvio, come i miti egizi sulle esondazioni del Nilo, la leggenda ebraica del golem, l’arca di Noè, i mostri dei B-movie, Cherri coglie un’ulteriore associazione con questi eventi naturali, profondamente radicata tanto nel mito quanto nella storia: la creazione dell’Altro. Allontanato dalla propria casa, chi è vittima dell’esilio per ragioni ambientali diviene straniero, ed è reso mostruoso. Tuttavia, concepito come prodotto della feconda immaginazione del mattonaio, il mostro diventa un ricettacolo generativo della potenziale capacità radicale del regno della fantasia di creare un mondo nuovo e migliore. – MW
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Ali Cherri, Grafting (G), 2018. Testa di Eros in marmo, figura di protezione Lobi dal Burkina Faso, legno, ala di ghiandaia essiccata. 50 × 15 × 15 cm. Courtesy l’Artista; Galerie Imane Farès, Paris. © Ali Cherri
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Arsenale
Ali Cherri, Untitled, 2022. Installazione video multicanale, 20 min (in loop). Courtesy l’Artista; Galerie Imane Farès, Paris © Ali Cherri
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Arsenale
JESSIE HOMER FRENCH
1940, New York City, USA Vive a Mountain Center, USA
Autoproclamatasi “pittrice narrativa locale”, Jessie Homer French è conosciuta per la sua pittura paesaggistica e di genere, che attraverso combinazioni contraddittorie e immagini oniriche approda a misteriose e indimenticabili istantanee di vita, morte e natura. Dopo aver vissuto nelle zone rurali di British Columbia, Oregon, New York, e più di recente nei pressi delle San Jacinto Mountains nel deserto della California meridionale, l’artista parla del sentimento di interiorizzazione dei paesaggi in cui ha abitato; in molti dei suoi delicati dipinti di piccole dimensioni, la natura incontaminata della Costa occidentale, soprattutto della California meridionale, è mostrata con una tale ricchezza di dettaglio da farli risultare tanto eccentrici quanto meditazioni sull’ambiente americano e sul precario ruolo che la specie umana esercita al suo interno. Evocative della tradizione pittorica bucolica, territoriale e realista americana, le opere di Homer French sono intrise di un’atmosfera pacata e al contempo densa dal punto di vista esistenziale, e spesso suggeriscono immagini di immobilità, alienazione, morte, degrado e disastro. I suoi soggetti sono definiti da forme semplici, avvolte da campiture cromatiche intense e uniformi, spesso catturate da prospettive irregolari: coyote che si aggirano nel deserto tra gli alberi spinosi di Yucca, pesci che guizzano oltre i massi di ruscelli scoscesi mentre il bagliore di un lampo illumina le montagne sullo sfondo, un cervo che giace morto tra i ciuffi d’erba. I cimiteri compaiono assiduamente. In Winter Burial (2020) lastre di pietra costellano un desolato terreno innevato; Bitterbrush and Sagebrush, Bridgeport Cemetery, e Island Deer (tutti del 2020) mostrano corpi vestiti che riposano in pace nelle proprie bare deposte all’interno di tombe, sullo sfondo di paesaggi invernali. Tra gli inquietanti temi trattati da Homer French ritroviamo anche lo spettro delle catastrofi naturali, tra cui gli incendi che devastano la Costa occidentale americana come in Burning e ON FIRE (entrambi del 2020). Mojave Stealth Bombers (2013), in cui un velivolo sorvola un campo d’aviazione e un parco eolico sullo sfondo di un arido paesaggio desertico, ritrae una scena minacciosa, simbolo del duro scontro tra la natura e la violazione perpetrata dall’uomo. – MW
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Jessie Homer French, Oil Platform Fire, 2019. Olio su tela, 61 × 61 cm. Courtesy l’Artista; Various Small Fires Los Angeles/ Seoul; MASSIMODECARLO. © Jessie Homer French
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Arsenale
Jessie Homer French, Island Deer, 2020. Olio su tela, 61 × 76,2 cm. Courtesy l’Artista; Various Small Fires Los Angeles/Seoul; MASSIMODECARLO. © Jessie Homer French Jessie Homer French, Chernobyl, 2017. Olio su tela, 91,4 × 91,4 cm. Courtesy l’Artista; Various Small Fires Los Angeles/Seoul; MASSIMODECARLO. © Jessie Homer French
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Arsenale
S O LA N G E P E S S OA
1961, Ferros, Brasile Vive a Belo Horizonte, Brasile
Traendo ispirazione da una ricerca visiva che spazia in svariati ambiti, quali la pittura rupestre preistorica, la Tropicália (movimento tropicalista), la Land Art, l’architettura barocca, le sontuose vesti papali cerimoniali, l’Arte Povera, la livrea degli uccelli della foresta pluviale, la poesia e la tradizione artigianale degli interni brasiliani, l’artista Solange Pessoa crea installazioni, disegni, dipinti e sculture che pongono l’osservatore in uno spazio in cui vivere una sublime esperienza sensoriale. Influenzata dagli esperimenti di altre artiste brasiliane come Lygia Clark, Tarsila do Amaral e Maria Martins, Pessoa instaura una relazione profonda e immaginaria con il paesaggio del Brasile sudorientale e con i legami concettuali tra corpo e natura; Clark, della quale Pessoa nel 1993 ha co-curato una mostra al Museu de Arte di Belo Horizonte, rimane un soggetto di grande fascino e oggetto di studio. Dagli anni Ottanta, Pessoa fa confluire materiali organici, tra i quali pietra, piume, cuoio, capelli, olio, grasso, rami d’albero, sangue animale e muschio all’interno della sua opera enigmatica e fantastica, creando forme primordiali che pulsano di vita e, al contempo, appaiono ammutolite dallo spettro della morte. Nella sua maturità Pessoa continua a esplorare il legame tra corpo e natura, così come tra cultura e paesaggio. Gli intensi disegni in bianco e nero, che comprendono la serie Sonhíferas (2020–2021), raffigurano sinuose creature e insetti durante la metamorfosi. Nell’allestimento della mostra, questi disegni sono generalmente presentati come installazioni a tutta parete, così da avvolgere l’osservatore in un paesaggio popolato dalle sue creature astratte. Pessoa applica questo tipo di esperienza rituale anche al processo di creazione delle sue sculture ricorrendo alla steatite, una comune pietra tenera usata sin dall’antichità nella regione brasiliana di Minas Gerais per la produzione di ciotole, piani di cottura e pipe, e ampiamente impiegata nel corso del XVIII e XIX secolo per la realizzazione di statue e edifici civili, militari o religiosi. La serie di sculture scolpite in steatite (pedra-sabão) dimostra la duttilità dei materiali come risorse metaforiche che connotano la genesi del processo e della costruzione, della natura e della cultura. Presentate in un’installazione di quasi cinquanta sculture di volume, densità e morfologia variabili, le opere di Nihil Novi Sub Sole (2019–2021) formano gruppi botanici che danno vita a percorsi destinati ai visitatori. Da questa prospettiva, la loro natura tattile e sensuale crea un ambiente di sottile mistero, un’esperienza visiva che racchiude allo stesso tempo la sfera sensoriale e la capacità percettiva. – MW
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Solange Pessoa, Nihil Novi Sub Sole, 2019–2021. Pietra saponaria, dimensioni variabili. Photo João Vargas. Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM Sao Paulo, Bruxelles, New York Pagine successive: Solange Pessoa, Sonhíferas, 2020– 2021. Quattordici dipinti. Olio su tela, 158 × 150 cm ciascuno. Photo Daniel Mansur. Courtesy l’Artista; Mendes Wood DM Sao Paulo, Bruxelles, New York
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Arsenale
P R A B H A K A R PA C H P U T E
1986, Sasti, India Vive a Pune, India
L’artista indiano Prabhakar Pachpute è noto per la versatilità del suo lavoro, in cui la sfera politica e personale si fondono con quella surreale. Nato nel villaggio di Sasti, situato nel distretto di Chandrapur nello Stato del Maharashtra, Pachpute proviene da una famiglia di minatori che da generazioni lavorano nelle aspre condizioni di quella che è conosciuta come la “cintura del carbone” locale. Nell’affrontare i temi che hanno fortemente segnato le esperienze di vita della sua comunità, quali fatica, consunzione, sradicamento, migrazione e degrado ambientale, l’opera di Pachpute è spesso permeata da venature malinconiche o elementi fantastici, che ammantano i suoi messaggi di un magnetismo affascinante e allo stesso tempo inquietante. Conosciuto per gli immensi disegni a parete realizzati a carboncino, raffiguranti paesaggi distopici che l’industria ha prima sfruttato e poi abbandonato, Pachpute realizza anche piccole opere su carta e animazioni stop-motion a carboncino, spesso associate a sculture; il suo mezzo elettivo – il carboncino – è un riferimento poetico sia al passato famigliare sia al tema dominante della sua pratica. Nelle oniriche installazioni murali e negli ambienti immersivi, la presenza di motivi surreali – tra cui ibridi uomo-macchina, figure senza volto e paesaggi immaginari – si mescola a strategie ben note nelle storie dell’avanguardia, utilizzate come veicolo per creare una visione alternativa del mondo sullo sfondo del conflitto e della meccanizzazione. La scena surreale raffigurata in Unfolding of the Remains-II (2022) è in parte ispirata alla scoperta di una nave da guerra risalente all’età romana, rinvenuta in una miniera della Serbia orientale, dov’era rimasta sepolta per tredici secoli. Larga dieci metri e collocata su una parete caratterizzata da campiture a carboncino, la tela pone l’osservatore sull’orlo di una miniera, mentre gli animali tradizionalmente impiegati nelle operazioni di estrazione e quelli sradicati come conseguenza, attraversano un paesaggio desolato. In lontananza, forme vagamente meccaniche e biomorfe – incluso uno spaventapasseri scheletrico, con tubi di scarico al posto delle braccia – ricordano l’invasione dell’industria e delle infrastrutture umane nel paesaggio. Compattando molteplici temporalità in un’unica immagine evocativa, il dipinto di Pachpute non solo rende omaggio allo scorrere e alla perdita del tempo, ma ne testimonia anche le conseguenze. – MW
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Prabhakar Pachpute, Sea of Fists, 2019. Carboncino, acrilico a parete, compensato ritagliato, dimensioni variabili. Photo Dani Bapista. Courtesy Experimenter, Kolkata; Jameel Arts Centre, Dubai
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Prabhakar Pachpute, The close observer, 2020. Acrilico, carboncino su tela, 213 × 487 cm. Photo Amol K. Patil. Courtesy l’Artista; Experimenter, Kolkata; Artes Mundi 9; National Museum, Cardiff, Wales
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I G S H AA N A DA M S
1982, Città del Capo Vive a Città del Capo, Sudafrica
Combinando insieme tessitura, installazione, scultura e performance, Igshaan Adams sottolinea gli aspetti sociali, spirituali e politici del tessuto. Concepiti come un mezzo malleabile che può abbracciare molteplici direzioni concettuali, i suoi tessuti evocano la matericità concreta dell’abbigliamento, dei mobili imbottititi e di altri tipi di superfici come tappeti da preghiera, pavimenti e percorsi pedonali che racchiudono svariate storie personali. Cresciuto a Bonteheuwel, un sobborgo di Città del Capo dove un tempo vigeva la segregazione, Adams si è formato in un contesto estremamente difficile, nei confronti del quale ha conservato un’identità razziale, religiosa e sessuale complessa e sfaccettata. Il suo approccio ai materiali e all’iconografia deriva dal suo status di pluralità e di liminalità, che traccia con l’ausilio di elementi domestici che hanno plasmato le suddette identità ibride. Di struttura complessa e dalle grandi dimensioni, gli arazzi di Adams sono ispirati ai pattern dei pavimenti di linoleum a motivi geometrici presenti nelle case di amici e vicini di Città del Capo. Cuciti con frammenti di legno, plastica, perline, conchiglie, filo e corda di provenienza locale ed evocativi di quei motivi scandinavi, vittoriani e mediorientali che hanno influenzato i disegni originali dei pavimenti, i suoi manufatti sono profondamente legati tanto al commercio delle materie prime, quanto all’ambiente locale dell’Africa postcoloniale. Quando sono concepite come superfici usurate che portano le tracce del ripetuto passaggio delle persone, queste opere ispirate ai pavimenti di linoleum si caricano di un significato ulteriore: sono la testimonianza di storie e ricordi personali che successivamente si intrecciano al mito. In altri casi, Adams immortala altri tipi di movimento, attingendo alle “linee del desiderio”, ossia percorsi improvvisati nati come conseguenza dell’erosione dovuta al traffico pedonale e utilizzati nel corso dell’apartheid per collegare le comunità che il governo mirava a tenere forzatamente separate. Per Il latte dei sogni, Adams si concentra sulle linee del desiderio collocate tra la stazione ferroviaria di Bonteheuwel ed Epping, uno dei distretti industriali della città per i quali in molti transitano in cerca di lavoro. Per quanto Adams immagini l’esistenza di questo arido cammino come simbolo di una resistenza collettiva a favore di una comunità storicamente perseguitata, allo stesso tempo ricolloca l’eco simbolica della linea del desiderio nella sfera del trascendente. Presentati accanto a un’installazione in fil di ferro aggrovigliato ispirato alle eteree nuvole di polvere create dalla danza indigena riel della provincia del Capo Settentrionale – spesso descritta come “danza nella polvere” –, i percorsi di fortuna nati dalla necessità vengono trasposti in un segno edificante di gioia collettiva. – MW
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Igshaan Adams, Gesteelde Vuur vanaf die Altar (stolen fire from the altar), 2021. Corda in nylon e poliestere, catena bianca, catena d’argento, filo, spago di cotone, 268 × 189 cm. Photo Jason Wyche. Instituto Inhotim Collection, Minas Gerais, Brazil. Courtesy l’Artista; Casey Kaplan, New York. © Igshaan Adams Pagine successive: Igshaan Adams, Bonteheuwel / Epping, 2021. Legno, legno dipinto, plastica, osso, perline di pietra e vetro, conchiglie, corda di poliestere e nylon, corda di cotone, catena a maglie, filo (memory e acciaio zincato), spago di cotone, 495 × 1170 × 325 cm. Photo Mario Todeschini. Courtesy l’Artista; blank projects, Cape Town; Casey Kaplan, New York. © Igshaan Adams
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Arsenale
TA U L E W I S
1993, Toronto, Canada Vive a New York City, USA
Nell’ambito della sua pratica improntata alla matericità, Tau Lewis trasforma, grazie a certosini processi di cucitura e impuntitura, tessuti e artefatti di recupero in talismani immaginari ed esseri magici che popolano mondi fantascientifici. Evocando le opere delle trapuntatrici di Gee’s Bend, i tessuti di Faith Ringgold, gli assemblage di Betye Saar, e le oniriche “casette” di Beverly Buchanan, tramite il suo elaborato processo Lewis, alla stregua delle artiste che l’hanno preceduta, crea dei monumenti sovversivi, rendendo omaggio alle filosofie dell’ingegnosità materica come un gesto rappresentativo delle comunità diasporiche per mezzo di materiali designati al riutilizzo. Attivando la malleabilità ideologica dei tessuti e la loro storica associazione alla manodopera femminile, Lewis azzera lo spazio tra la sfera artistica e quella politica, soprattutto tra le pratiche tradizionalmente descritte come artigianato, ritualità o arte. Le morbide sculture e i viticci pendenti di fiori che occupano intere sale della serie Triumphant Alliance of the Ubiquitous Blossoms of Incarnate Souls (T.A.U.B.I.S) (2020) sono emblematiche dell’approccio sfaccettato dell’artista, che mette i tessuti e la realizzazione manuale al centro di una ricerca su identità, corpo e natura. L’opera Opus (The Ovule) (2020), una gigantesca scultura rosa e gialla di una testa con occhi sporgenti, la bocca spalancata e una lingua ancora più mastodontica, è realizzata con pezzi di tessuti tinti a mano, pellame di recupero, iuta, metallo, spille da balia, ganci metallici e fil di ferro, con alcuni “oggetti segreti”. In Symphony (2021), i materiali recuperati danno vita a una figura che indossa una crinolina, la cui struttura a gabbia ricorda una dimora, un rifugio e un ventre materno. Come ha sottolineato l’artista, questi corpi di fantasia sembrano nascere da un giardino artigianale, contenitori protettivi in opposizione al mito secondo cui non può esistere una relazione di cura e guarigione tra il corpo nero e il paesaggio. Con la sua nuova serie, Divine Giants Tribunal, Lewis presenta maschere gigantesche di tre metri di altezza: Sol Niger (With my fire, I may destroy everything, by my breath, souls are lifted from putrified earth); Angelus Mortem; e Vena Cava (tutte del 2021). Cucite a mano con ritagli di tessuto, di pelliccia e di pelle – molti dei quali recuperati da precedenti progetti –, questi volti monumentali stabiliscono una discendenza materiale non solo con il lavoro precedente di Lewis ma anche con la simbologia e gli oggetti mitici che sono analogamente radicati nella natura stessa dei loro componenti e della loro funzionalità. Ispirandosi alle maschere yoruba e agli scritti del drammaturgo nigeriano Wole Soyinka, i cui significativi testi sull’argomento rappresentano un importante contributo, Lewis mette in scena le mitologie mistiche radicate in queste maschere, che continuano a caricarsi di nuovi significati e di forme di vitalità nel presente. – MW
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Tau Lewis, Sol Niger (With my fire, I may destroy everything, by my breath, souls are lifted from putrified earth), 2021. Pelle riciclata, nylon rivestito, armatura in acciaio, 304,8 cm × 310 cm × 122 cm. Photo Pierre Le Hors. Courtesy l’Artista; Stephen Friedman Gallery. © Tau Lewis, 2021 Pagine successive: Sol Niger (dettaglio)
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LA SEDU DEL
MARIANNE BRANDT R E G I NA C A S S O L O B RAC C H I GIANNINA CENSI ANNA COLEMAN LADD ALEXANDRA EXTER E L S A V O N F R E Y TA G - L O R I N G H O V E N KA R LA G RO S C H FLORENCE HENRI HANNAH HÖCH REBECCA HORN K I K I KO G E L N I K LILIANE LIJN LOUISE NEVELSON ANU PÕDER L AV I N I A S C H U L Z E WA LT E R H O L D T S O P H I E TA E U B E R -A R P M A R I E VA S S I L I E F F
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ONE I Z
ORG B Y
Anche se il concetto esiste dagli albori dell’era meccanica, il termine “cyborg” – parola composta che combina “cibernetico” e “organismo” – è stato usato per la prima volta nel 1960 dagli scienziati Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline. A differenza del robot o dell’androide, il cyborg è un essere umano integrato con una tecnologia artificiale che gli conferisce funzioni o capacità potenziate. Nel 1985 Donna Haraway ha riproposto il termine per spiegare come i confini tra umano, animale e macchina fossero stati irreversibilmente violati. Identificando il corpo femminile come luogo in cui questi confini appaiono più vulnerabili, Haraway vede il cyborg come una personificazione dell’identità ibrida che segnala l’inizio di un nuovo futuro, postumano e postgender. Questa presentazione riprende la cornice teorica di Haraway per considerare le artiste incluse come cyborg: corpi ibridi il cui lavoro abbraccia concezioni dell’“io” estese, relazionali o prostetiche, che comprendono, ma al tempo stesso superano, l’idea di una protesi tecnologica. Lavorando all’interno e alla periferia delle celebri avanguardie novecentesche – in particolare, l’attrazione dadaista per l’ibridazione meccanica e gli esperimenti teatrali e fotografici della Bauhaus –, ognuna di queste artiste immagina il corpo cyborg come chiave di una soggettività moderna e genuinamente nuova. Le artiste in mostra si appropriano inoltre degli stereotipi sessisti, come la donna-macchina, la vamp, o l’“Eva futura” per reclamare una capacità di azione consapevole da parte degli oggetti delle fantasie maschili. Alcune di queste artiste creano immagini che incarnano la mediazione dell’io tramite apparati tecnologici o materiali, come negli autoritratti rifratti dallo specchio di Marianne Brandt, nei fotomontaggi semiastratti di Florence Henri, nell’immagine di una intimità affettiva forgiata con acciaio e ingranaggi da Rebecca Horn, o nelle maschere prostetiche per i veterani di guerra realizzate con grande cura da Anna Coleman Ladd – le uniche vere protesi presenti. L’intricata installazione scultorea di Louise Nevelson evoca il funzionamento interno delle prime macchine, mentre nei quadri di Kiki Kogelnik i corpi e le loro interrelazioni sono trattati come dispositivi formali e cromatici per costruire un’io esploso e robotico. In altri casi, le immagini o forme umanoidi vengono utilizzate per rappresentare l’io come costruito a partire da – o integrato con – materiali esterni, ad esempio nei fotomontaggi di Hannah Höch, in cui le forme corporee sono composte con immagini di recupero. In modo simile, le vivaci figurine in alluminio di Regina Cassolo Bracchi, le sculture e busti simili a manichini di Anu Põder e i totem di Liliane Lijn giocano nello spazio tra umano e oggetto antropomorfico. I decori corporei, invece, sono usati per creare identità esuberanti e sfacciatamente moderne nei costumi e nelle maschere teatrali di Karla Grosch e Lavinia Schulz. Sulla mostra vegliano quattro “sentinelle” – Giannina Censi, Alexandra Exter, Marie Vassilieff ed Elsa von Freytag-Loringhoven –, ognuna delle quali rappresenta un diverso paradigma del cyborg attraverso una radicale, relazionale e olistica espressione di sé. Marianne Brandt, Spiegelungen (Stilleben aus Metall und Glas). Bauhaus Dessau (dettaglio), 1928–1929. Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11953 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google
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L E P RO D U T T R I C I C Y B O RG Matthew Biro
Lavinia Schulz e Walter Holdt, Tanzmaske “Technik”, fotografia di Minya DiezDührkoop, 1924. Courtesy Museum für Kunst und Gewerbe Hamburg
Nel corso della storia, il rapporto dell’artista con la tecnologia – nel senso dei mezzi di rappresentazione adottati o degli strumenti e delle macchine disponibili nei mondi vitali contemporanei – è stato, a volte, il risultato di un interesse consapevole. Nel XX secolo, tuttavia, con il boom della produzione di massa e la crescita dell’industria culturale, questo tema – in sostanza il modo in cui la tecnologia diventa estensione del corpo e il modo in cui ci cambia – si è trasformato in un’indagine di enorme importanza. Durante le rivoluzioni delle avanguardie degli anni Dieci e Venti del Novecento, le artiste e gli artisti di sinistra abbracciarono la macchina e le strategie di automatizzazione/dequalificazione per minare tradizioni di pittura e scultura diventate sempre più astratte e autonome. Attraverso la meccanizzazione misero in discussione l’idea dell’artista come “genio”, o come isolato soggetto “espressivo” e operarono e si organizzarono per riportare l’arte a servizio della vita, esortando gli artisti a immaginare nuove forme di identità, comunità e giustizia sociale. Le artiste e gli artisti dell’avanguardia si impadronirono inoltre delle nuove tecnologie della fotografia e della cinematografia, in parte con l’intento di raggiungere un pubblico più ampio, ma anche perché desideravano influire sulle persone con mezzi a maggiore partecipazione collettiva: una cultura visiva prodotta in serie che attraversasse classi, nazionalità e persino lingue. Infine, impiegarono la tecnologia per rappresentare gli effetti della meccanizzazione sul corpo, sulla mente e sul mondo: immaginarono cyborg e ambienti in rete, scenari che anticipavano le odierne teorie del postumanesimo. Il termine “cyborg” fu coniato nel 1960 da Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline come neologismo per indicare un ibrido macchina-uomo (o animale)
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autoregolante, un corpo senziente alterato in modo da poter vivere in ambienti ostili1. Come da me sostenuto, tuttavia, la figura apparve in ambito visivo già negli anni Dieci e Venti del Novecento, dove veniva collegata dagli artisti e da altri produttori culturali ai “nuovi” uomini e donne che gli stessi vedevano emergere nelle moderne società industriali2. Il cyborg, in altre parole, esisteva visualmente – sia nell’arte dell’avanguardia sia in un’ampia gamma di cultura visiva – ben prima che ci fosse un termine che lo designasse. Benché apparisse regolarmente in forme ipermascolinizzate o iperfemminilizzate, fu anche ripetutamente sfruttato negli anni Dieci e Venti – e poi in seguito – come figura indicante l’identità ibrida, anticipando il cyborg postumano teorizzato da Donna Haraway negli anni Ottanta e Novanta. In Haraway, il cyborg era più di una mera fusione fra umano e macchina3. Indicava piuttosto una nuova interpretazione ibrida dell’identità umana, che destabilizzava le fondamentali distinzioni tradizionalmente usate per strutturare il sé occidentale e le sue società, demarcazioni che separavano generi, razze, etnie, nazionalità, classi, religioni, sessualità, gruppi anagrafici e persino specie. Il cyborg, inoltre, era una creatura dell’informazione: non solo le sue parti erano sostituibili e le sue capacità estendibili, ma poteva essere programmato, compilato, codificato con nuove conoscenze e comportamenti. Ciò significava la dipendenza da più ampi ambienti in rete, progettati per estenderne le capacità e i poteri, ma che nel contempo esercitavano grande sorveglianza e controllo. Amplificando gli avvertimenti di Norbert Wiener, il fondatore della cibernetica, Haraway sosteneva che la crescita della tecnologia stava rendendo le società umane più stratificate e bellicose. Da un lato c’erano i lavoratori cyborg, “le masse di donne e uomini di tutti i gruppi etnici, ma soprattutto di colore, […] confinate in un’economia del lavoro a domicilio, nell’analfabetismo di vario tipo, nell’impotenza e nel generale esubero, controllate da apparati repressivi alto-tecnologici che vanno dall’intrattenimento alla sorveglianza e alla sparizione”4. Dall’altro c’era la forza lavoro cibernetica altamente specializzata, l’élite tecnologico-industriale, presente principalmente nelle società capitaliste degli Stati Uniti e dell’Europa. Sorretta a livello internazionale da leggi, governi e industrie culturali, l’economia sempre più globale e digitale ha “femminilizzato” il lavoro. Ha introdotto nella forza lavoro un numero sempre maggiore di donne e reso tutti i suoi soggetti sempre più vulnerabili e precari, creando così disparità sempre maggiori di ricchezza e potere. Già dai primissimi esordi, le artiste furono determinanti nello sviluppo del cyborg come avatar dell’identità ibrida, oltre che più in generale nella complessa trasformazione tecnologica dell’arte messa in atto dall’avanguardia storica, probabilmente la sua eredità più importante. Per Walter Benjamin, il tragico teorico marxista dell’arte e della cultura, la tendenza politica di un’opera d’arte – il suo esplicito messaggio di sinistra – valeva ben poco se espressa attraverso una forma reazionaria. In L’autore come produttore sosteneva che “ci troviamo nel bel mezzo di un imponente processo di fusione e rinnovamento delle forme letterarie, processo di rifusione in cui molte delle antitesi per cui noi eravamo abituati a pensare potrebbero perdere la loro efficacia”5. Ciò che Benjamin chiedeva all’autrice e all’autore di sinistra, e implicitamente alle artiste e agli artisti visuali dell’avanguardia, era un’opera
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che trascendesse il “processo di razionalizzazione” e trasformasse gli spettatori in collaboratori, se non addirittura in produttori6. “È dunque determinante”, affermava, “il carattere paradigmatico della produzione, che può in primo luogo avviare alla produzione altri produttori, e in secondo luogo mettere a loro disposizione un apparato migliorato. E questo apparato è tanto migliore quanto più porta i consumatori alla produzione, e cioè quanto più è in grado di trasformare lettori o spettatori in collaboratori”7. Come una più attenta revisione della documentazione storica sta ora dimostrando, le donne dell’avanguardia storica hanno aperto la strada come produttrici artistiche in questo senso benjaminiano. Fautrici di una rivoluzione artistica e al tempo stesso politica, erano collaborative, orientate alla tecnologia e dedite all’espansione dei mezzi artistici e delle spettatrici o degli spettatori con cui venivano a contatto. Come gruppo, potrebbero essere definite “produttrici cyborg”, artiste che non solo hanno rappresentato la nuova identità ibrida di corpo e mente, ma che hanno anche progettato la trasformazione delle forme artistiche moderne accogliendo molteplici vie di rappresentazione tecnologica. Hanno immaginato i cyborg in numerosi media e cercato di trattare i propri “apparati” – le proprie modalità di produzione artistica – in modo tale da trasformare i consumatori in produttori. Sebbene le produttrici cyborg non siano scomparse con la conclusione dell’avanguardia storica degli anni Trenta (è anzi vero il contrario), esse appaiono negli anni Dieci e Venti con potente chiarezza e intensità. Per questo motivo, una breve disamina della figura che ne emerge può illuminare importanti percorsi che continuano a svilupparsi ai giorni nostri. Baroness Elsa von Freytag-Loringhoven, 1920–1925 ca. Photo Bain News Service, Publisher. Library of Congress, George Grantham Bain Collection
Alexandra Exter, Guardian of Energy (costume design for the film Aelita by Yakov Protazanov), 1924. The J. M. Kaplan Fund, Inc. Inv.: 341.1977, Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Florence
Come Irene Gammel, Amelia Jones e altre hanno dimostrato in modo convincente, la baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven, l’artista dadaista, poetessa e icona femminista a lungo marginalizzata, potrebbe in definitiva essere più importante per l’arte moderna e contemporanea del collega (e non corrisposto “amore”) Marcel Duchamp, se non altro in termini di potenziale critico delle sue scoperte formali e concettuali8. Le estemporanee performance di strada della baronessa – interventi nella vita quotidiana di New York, resi eccentrici dall’anticonformismo e persino dall’aggressività di abiti, trucco, linguaggio e azioni – costituirono probabilmente le opere d’arte più radicali prodotte dagli appartenenti al Dada newyorkese. Agghindata con oggetti comuni e prodotti in serie, raccolti o rubati per strada e nei grandi magazzini della città, la baronessa metteva in scena un rifiuto aggressivo dei modelli e delle convenzioni tradizionali, in particolare quelli incentrati sul genere, sulla sessualità e sul decoro in tutte le sue forme. Queste performance urbane erano fondamentalmente femministe in quanto esplicita opposizione alle richieste patriarcali primarie; ad esempio, che le donne dovessero rimanere sessualmente passive e sottomesse al desiderio e alla guida maschili. Ed erano anche primordialmente cyborg poiché fondevano l’umano con la macchina e sovvertivano in vari modi le distinzioni tra generi, specie ed etnie. La baronessa creò inoltre collage, readymade e assemblage e pare abbia avuto un ruolo importante nella scelta di Fountain (1917), uno dei readymade più iconici di Duchamp9. Ma i suoi contributi più cruciali rimangono le effimere performance cyborg, che tanto hanno scioccato e sconvolto i colleghi maschi, e che sono state tramandate fino ai giorni nostri attraverso una varietà di fonti, tecnologiche e non. Questi materiali includono fotografie, dipinti, oggetti
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e assemblage, oltre a linguaggio e scrittura: le sue poesie, nonché critiche e analisi da parte di diverse voci moderniste, da Ezra Pound a Djuna Barnes. E forse perché queste performance possono essere rappresentate solo come una serie di assenze, sembrano aver avuto un effetto sotterraneo ma potente sull’arte performativa dai suoi inizi fino ai giorni nostri.
Hannah Höch, Das schöne Mädchen, 1920. Photo Hermann Buresch. Photo Hermann Buresch. Collezione privata. Firenze/bpk, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin. © 2021 Foto Scala Firenze
Se la baronessa incarnava il lato performativo della produttrice cyborg, Hannah Höch, la dadaista berlinese, ne rappresentava le tendenze più fotografiche, cinematografiche e di design. Anche Höch, ovviamente, si esibiva in performance e come la dadaista zurighese Sophie Taeuber-Arp realizzava bambole geometrizzate, simili a marionette, con le quali occasionalmente recitava, forse a voler evocare una presa di coscienza dei modi in cui il genere veniva impresso durante il gioco dell’infanzia. Ma la sua importanza risiede maggiormente nello sviluppo di un’enigmatica iconografia “suturata” che esplorava molteplici tipologie di esistenza transumana in modo estremamente sensuale e investito di corporalità. Più di ogni altra artista negli anni Venti, Höch concepiva il corpo umano come sostanzialmente mutevole, interconnesso e trasformabile; e lo ha fatto in modo scioccante e nuovo, un modo che univa piacere e violenza e destabilizzava la separazione tra vivi e morti. Sviluppando la nuova strategia “anti-arte” del fotomontaggio – un mezzo d’avanguardia che, come i readymade o l’assemblage, voleva essere più collaborativo e collettivo rispetto ai tradizionali mezzi artistici quali la pittura e la scultura –, Höch immaginò ed elaborò i cyborg come figure che non solo fondevano esseri umani e macchine, ma anche razze, generi, specie e fasce di età. Come la baronessa, Höch aveva un progetto femminista; voleva minare i concetti patriarcali che esercitavano la differenza sessuale come mezzo di controllo sociale e di oppressione. Ma ancor più della baronessa, Höch immaginò un nuovo essere umano libero dai tradizionali vincoli categoriali: creando ripetutamente nei suoi fotomontaggi corpi compositi, nonché mescolando queste chimere a elementi aggiuntivi presi dalla natura o dalla cultura, rese visibili e comprensibili ai propri spettatori la mutazione, l’eterogeneità e la disgregazione della differenza. Per Benjamin, il paradigmatico “autore come produttore” era maschio: Sergej Tret’jakov, scrittore d’avanguardia, poeta, drammaturgo, giornalista e attivista comunista. E mentre un certo numero di artisti maschi dal secondo decennio del XX secolo aveva pure assunto il ruolo del produttore cyborg, le donne dell’avanguardia hanno svolto una parte diversa, e forse molto più importante, nello sviluppo di questa complessa rete formale e iconografica dell’immaginario postumano. L’artista cyborg non è quindi mai stato necessariamente solo donna. Ma occupandoci delle radici di questa figura nell’arte prodotta dalle donne negli anni Dieci e Venti, emerge un diverso insieme di questioni, che oggi appaiono di particolare urgenza. L’artista cyborg che viene alla luce quando tracciamo le genealogie femminili nell’arte a partire dall’avanguardia storica è una figura complessa e potente, una chimera che riconosce la propria posizione sia come soggetto sia come oggetto di rappresentazione, nonché una creatrice che si pone come obiettivo di accrescere la nostra consapevolezza dei vari mezzi di significazione che collegano artista e pubblico tra loro e con i loro mondi. Infine, la produttrice cyborg è antipatriarcale, anticoloniale e antirazzista, un avatar contrario a tutte le forme di fascismo e totalitarismo e dedito al sovvertimento delle tradizionali differenze e alla rappresentazione e costruzione di nuove forme di eterogeneità e affiliazione.
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Dalla sua comparsa più di un secolo fa, la figura dell’artista cyborg è rimasta un modello potente e affascinante per le produttrici culturali, un ideale che oggi non mostra alcun segno di affievolimento. Infatti, come viene suggerito dal lavoro di Marie Vassilieff, Alexandra Exter, Natal’ja Gončarova, Ljubov’ Popova, Ol’ga Rozanova, Varvara Stepanova e Nadežda Udal’cova – che non solo hanno immaginato con forza la fusione dell’essere umano con la macchina attraverso varie forme di pittura d’avanguardia (dal Cubismo al Raggismo), ma hanno anche ampliato i mezzi con cui lavoravano per includere, in un certo numero di casi, il design della moda, dei costumi, delle scenografie teatrali, dei libri, dei tessuti, della carta da parati, e persino la produzione di poesia sonora –, questo saggio ha a malapena tracciato gli esordi della produttrice cyborg. La vediamo riapparire prepotentemente anche nell’arte performativa femminista a partire dagli anni Sessanta (si pensi a Cut Piece di Yoko Ono, 1964), così come nella critica dei media postmoderna dagli anni Settanta in poi (ad esempio, Cindy Sherman e Carrie Mae Weems), ma ci vorrebbe troppo spazio per ricordare tutte le importanti iterazioni10. Se concludo con un solo esempio contemporaneo di cyborg come produttrice, non è perché oggi manchino casi convincenti da scoprire. In questo momento, tuttavia, possiamo ritenere Hito Steyerl una dei suoi avatar più importanti, per la forza e la complessità con cui la sua arte collega l’umano al non umano, attraverso la mediazione tecnologica. Combinando entrambi gli aspetti del cyborg femminista d’avanguardia – quelli performativi, linguistici e letterari della baronessa, così come la sensibilità sovversiva rispetto ai media di Hannah Höch –, dalla fine degli anni Novanta Steyerl ha prodotto una significativa raccolta di lavori, un eterogeneo corpus che adotta un atteggiamento produttivo nei confronti del suo pubblico, esplorando la condizione postumana verso cui sempre più tendono i nostri mondi.
Marie Vassilieff, Danseuse américaine (d’après les traits d’Isadora Duncan), 1920 ca. Collezione Claude Bernès. Photo P. Delbo. © Marie Vassilieff
Benché sia talvolta definita una regista, Steyerl opera con molteplici media ad alta e bassa tecnologia tra cui la scultura, il fotomontaggio, il video, l’installazione, la performance, il suono e il linguaggio; in effetti, i suoi testi teorici – in cui espone una teoria critica dei media che si occupa del teso rapporto tra arte, lavoro, capitale, guerra e tecnologia – non possono essere separati dai suoi film, forse i suoi lavori più noti. Oltre all’impegno con numerosi mezzi di significazione, ciò che rende Steyerl una produttrice emblematica è il modo in cui cerca di educare e responsabilizzare il pubblico. In generale, la sua arte esorta gli spettatori a riconoscere i modi in cui i mass media e le tecnologie visive come film e video (nonché i sistemi di sorveglianza) hanno influenzato la nostra vita. Ma più di questo, tracciando il movimento delle immagini mentre trasformano persone ed eventi reali in rappresentazioni che possono poi essere manipolate e controllate, Steyerl rivela la nostra condizione postumana, il fatto che siamo fondamentalmente mutevoli sia in termini di corpo che di anima. Come ha sostenuto Haraway, l’emergere del cyborg ha posto fondamentali questioni politiche. Creatura dell’immaginazione e al tempo stesso della realtà, riflette il mondo mediato dalla tecnologia e offre suggerimenti su come gli esseri umani potrebbero adattarsi per esistere, nel bene e nel male, al suo interno. Da un lato, il cyborg ha permesso alle produttrici culturali di immaginare nuove forme di esistenza sociale, vita famigliare, sessualità,
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spiritualità, relazioni economiche e identità. Dall’altro, ci ha ricordato che siamo solo ingranaggi in una macchina più grande. Oggi, ha suggerito Haraway, siamo tutti cyborg – indipendentemente dal fatto che si accetti o meno questa denominazione. E come suggerisce la tradizione della produttrice cyborg, dobbiamo tutti operare in modo vigile e intenso per decidere che cosa significhi in definitiva la nostra mediazione tecnologica – per noi stessi, le nostre società e la Terra su cui esistiamo. Matthew Biro è professore di Arte moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Storia dell’arte dell’Università del Michigan. È autore di Anselm Kiefer and the Philosophy of Martin Heidegger (Cambridge University Press, 1998), The Dada Cyborg: Visions of the New Human in Weimar Berlin (University of Minnesota Press, 2009), e Anselm Kiefer (Phaidon Press, 2013). Oltre alle numerose pubblicazioni in riviste accademiche, firma anche saggi e recensioni sull’arte, il cinema e la fotografia per varie riviste fra cui “Artforum”, “Art in America”, “The Brooklyn Rail”, “Contemporary”, “Art Papers” e “The New Art Examiner”.
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Manfred E. Clynes, Nathan S. Kline, Cyborgs and Space (1960), in The Cyborg Handbook, a cura di Chris Hables Gray, New York, Routledge, 1995, 29–33. 2 Matthew Biro, The Dada Cyborg: Visions of the New Human in Weimar Berlin, Minneapolis (MN), University of Minnesota Press, 2009. 3 Donna Haraway, A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist Feminism in the Twentieth Century (1985), in Haraway, Simians, Cyborgs, and Women: The Reinvention of Nature, New York, Routledge, 1991, 150 (tr. it. Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli, 1995). 4 Haraway, Manifesto cyborg, cit., 100. 5 Walter Benjamin, L’autore come produttore, in Benjamin, Opere complete, a cura di Rolf Tiedemann, Hermann Schweppenhauser ed Enrico Ganni, Torino, Einaudi, 2004, VI, 46. 6 Benjamin, L’autore come produttore, cit., 52. 7 Ibid., 54. 8 Si veda Irene Gammel, Baroness Elsa: Gender, Dada, and Everyday Modernity. A Cultural Biography, Cambridge (MA), The MIT Press, 2002; e Amelia Jones, Irrational Modernism: A Neurasthenic History of New York Dada, Cambridge (MA), The MIT Press, 2004. 9 Gammel, Baroness Elsa, cit., 220–228. 10 Si veda, ad esempio, la tagliente analisi di Cut Piece di Ono, in cui Julia Bryan-Wilson sostiene come l’opera sia un esempio di arte performativa femminista che va ben oltre la semplice critica dello sguardo maschile. Sebbene Ono inviti il pubblico a tagliare pezzi dei
suoi vestiti, esponendosi così alla minaccia di violenza da parte degli spettatori armati di forbici, mantiene il controllo del lavoro collaborativo, impostando attentamente i parametri della performance e dirigendo gli operatori di ripresa per catturare il pubblico mentre interagisce con lei. Sia interprete che regista dell’opera d’arte, Ono mescola più media (performance, fotografia, film e stampati prodotti in serie) per criticare la storia dominante dell’arte moderna in cui gli artisti maschi hanno spesso dimostrato il loro merito artistico attraverso la loro rappresentazione – o travisamento – dei corpi femminili. Inoltre, attraverso gli abiti rovinati e la nudità parziale – che evocano non solo lo sgancio della bomba atomica sul Giappone quando l’artista era bambina, ma anche i combattimenti in Vietnam – Ono condanna anche lo sviluppo della guerra nel XX secolo, che sempre più colpisce le popolazioni civili (e quindi molte più donne e bambini). Ciò che rende Ono un tipico esempio di produttrice cyborg è la sua distruzione creativa di molteplici contrapposizioni binarie – Sé/Altro, performer/pubblico, unicità/riproduzione di massa, passato/ futuro e (attraverso la sua stessa persona) Oriente e Occidente –, oltre che la sua politica radicalmente di sinistra. Usando mezzi tecnologici per inveire contro gli effetti deleteri del mondo in rete, Ono rivisita il passato, invitando gli spettatori della metà degli anni Sessanta a immaginare un futuro migliore. Si veda Julia Bryan-Wilson, Remembering Yoko Ono’s Cut Piece, in “Oxford Art Journal”, 26(1), 2003, 99–123.
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Marianne Brandt, Stilleben mit Bauhausstoff, Kugeln und Wellpappe (Selbstportrait). Bauhaus Dessau, 1928–1929. Fotografia in bianco e nero, 17,7 × 23,8 cm. Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11949 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / © (Gropius, Walter) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google 2 Marianne Brandt, Das Atelier in der Kugel II (Selbstportrait). Bauhaus Dessau, 1928–1929. Fotografia in bianco e nero, 17,7 × 23,7 cm. Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11951 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / © (Gropius, Walter) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google 3 Marianne Brandt, Selbstporträt mit Schmuck zum Metallischen Fest im Bauhaus Dessau, 1929. Fotografia in bianco e nero, 23,6 × 17,7 cm. Courtesy Stiftung Bauhaus Dessau (I 11952 F) / © (Brandt, Marianne [geb. Liebe]) VG Bild-Kunst, Bonn (Jahr) / Image by Google 4 Florence Henri, Autoportrait, 1928. Stampa fotografica ai sali d’argento. Courtesy Archives Florence Henri © Martini & Ronchetti 5 Alexandra Exter, Costume design for Aelita for the movie Aelita, the Queen of Mars and the play Aelita, staged by Yakov Protazanov. Mezhrabprom-Rus’ Film Company, USSR, Moscow, 1924. Carta, inchiostro, vernice bronzo, gouache, 69,3 × 46 cm. © St Petersburg State Museum of Theatre and Music. Gift of International Charitable Foundation “Constantine”. Collezione Nina e Nikita Lobanov-Rostovsky 6 Bambola parlante inventata da Thomas Edison e sviluppata dalla Edison Phonograph Toy Manufacturing Company, 1887–1890 ca. Stampa, bianco e nero, 25,4 × 20,32 cm, n.d. Fotografia originale, 1890–1899 ca. 7 Marie Vassilieff, Costume Arlequine pour le Bal banal, 1924. Stampa ai sali d’argento, 22 × 17 cm. Fotografia P. Delbo. Collezione Claude Bernès. © Marie Vassilieff 8 Marie Vassilieff, Mask and doll portrait, c. 1928. Stampa ai sali d’argento, 23.8 × 17.8 cm. Photo Nicolas Brasseur. Collezione privata. © Marie Vassilieff 9 Alexandra Exter, Costume design for a female character in Aelita, the Queen of Mars, 1924. Gouache, inchiostro e grafite su carta, 48,26 × 32,7 cm. Dono di The Tobin Endowment, TL2001.61. McNay Art Museum. © 2021 McNay Art Museum/Art Resource, NY/Scala, Firenze 10 Glastanz, by Oskar Schlemmer, 1929. Fotografia in bianco e nero, 17,4 × 11,4 cm. Photo Robert Binnemann. Courtesy Bauhaus-Archiv, Berlin 11 Marionette Guard after a design by Sophie Taeuber for the play “King Stag”, fotografia di Ernst Linck, 1918. Fotografia in bianco e nero, 15,6 × 11,5 cm. Courtesy Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth. © Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth
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Giannina Censi, Danza aerofuturista, 1931. Fotografia in bianco e nero, 24 × 18 cm. Foto Santacroce, Milano, 1931. Courtesy Mart, Archivio del ’900, Fondo Censi Regina Cassolo Bracchi, Danzatrice, 1930. Alluminio, 45 × 30 × 15 cm. Photo © Alessandro Saletta and Piercarlo Quecchia – DSL Studio. Collezione Archivio Gaetano e Zoe Fermani. Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo Regina Cassolo Bracchi, L’amante dell’aviatore, 1935. Alluminio, 60 × 48,8 × 9,5 cm. Photo © Alessandro Saletta and Piercarlo Quecchia – DSL Studio. Collezione Museo Regina Cassolo, Castello Sangiuliani – Comune di Mede. Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo Baroness von Freytag-Loringhoven Working as a Model, Dicembre 1915. Fotografia, stampa ai sali d’argento, 32,34 × 26. Photo Bettmann via Getty Images Elsa von Freytag-Loringhoven, Portrait of Marcel Duchamp, fotografia di Charles Sheeler, 1920. Stampa ai sali d’argento, 20,32 × 15,24 cm. Photo Ben Blackwell. The Bluff Collection Elsa von Freytag-Loringhoven e Morton Schamberg, God, fotografia di Morton Schamberg, 1917 ca. Stampa ai sali d’argento, 24,1 × 19,2 cm. Photo Sepia Times via Getty Images Lavinia Schulz e Walter Holdt, Maskenfigur “Toboggan Frau”, 1924 (replica 2005–2006). Lino, fili, 188 × 135 × 107 cm. Photo Maria Thrun. Collezione Museum für Kunst und Gewerbe Hamburg Lavinia Schulz e Walter Holdt, Maskenfigur “Bertchen” A (schwarz), 1924 (replica 2005–2006). Materiale tessile, trapunta, 163 × 115 × 110 cm. Photo Joachim Hiltmann. Collezione Museum für Kunst und Gewerbe Hamburg Anna Coleman Ladd, Painted Metal Facial Prosthesis, 1917–1920. Rame zincato, occhiali in vetro, 10 × 15,5 × 12 cm. Collezione The British Association of Plastic, Reconstructive and Aesthetic Surgeons. © BAPRAS Hannah Höch, Deutsches Mädchen, 1930. Collage su cartoncino, 21,6 × 11,6 cm. Photo Anja Elisabeth Witte. Collezione Berlinische Galerie, Landesmuseum für Moderne Kunst. © VG Bild-Junst, Bonn Fotografie che documentano la creazione di maschere cosmetiche di Anna Coleman Ladd per i soldati rimasti gravemente sfigurati durante la Prima guerra mondiale, 1920. 2 fotografie, 14 × 11 cm ciascuna. Anna Coleman Ladd papers, 1881–1950. Archives of American Art, Smithsonian Institution
23 Anu Põder, Before Performance, 1981. Oggetti preconfezionati, tessuto, metallo, 160 × 50 × 50 cm. Photo Stanislav Stepaško. Collezione Art Museum of Estonia, Tallinn / Eesti Kunstimuuseum. Courtesy Maarja Kask. © Anu Põder 24 Anu Põder, Composition with a Male Head, 1984. Tessuto, rete metallica, plastica, 20 × 28 × 58 cm. Photo Hedi Jaansoo. Collezione Art Museum of Estonia, Tallinn / Eesti Kunstimuuseum. Courtesy Maarja Kask. © Anu Põder 25 Rebecca Horn, Kiss of the Rhinoceros, 1989. Costruzione in acciaio, alluminio, motori, dispositivi elettrici, 250 × 540 × 28 cm. Photo Gunter Lepkowski, Berlin. Courtesy l’Artista; Sean Kelly Gallery, New York; Thomas Schulte Gallery, Berlin; Galleria Trisorio, Naples, Italy; Galeria Pelaires, Palma-Illes Balears, Spain. © Rebecca Horn / VG Bild Kunst 26 Liliane Lijn, Heshe, 1980. Figura femminile, acciaio cromato, fibre sintetiche, prisma ottico in vetro ottico, 196 × 72 × 63 cm. Photo Lewis Ronald. Courtesy l’Artista; Rodeo, London/ Piraeus. © Liliane Lijn 27 Louise Nevelson, Homage to the Universe, 1968. Legno dipinto di nero, 284,5 × 862,5 × 30,5 cm. Courtesy Gió Marconi, Milano. © SIAE 28 In alto a sinistra: Kiki Kogelnik, Artificial Man in Four Parts 1, 1967. Olio e acrilico su tela, 126,5 × 177 cm. Collezione e courtesy Kiki Kogelnik Foundation. © 1967 Kiki Kogelnik Foundation. All rights reserved 29 In basso a sinistra: Kiki Kogelnik, Artificial Man in Four Parts 2, 1967. Olio e acrilico su tela, 126,5 × 177 cm. Collezione e courtesy Kiki Kogelnik Foundation. © 1967 Kiki Kogelnik Foundation. All rights reserved 30 In alto a destra: Kiki Kogelnik, Artificial Man in Four Parts 3, 1967. Olio e acrilico su tela, 126,5 × 177 cm. Collezione e courtesy Kiki Kogelnik Foundation. © 1967 Kiki Kogelnik Foundation. All rights reserved 31 In basso a destra: Kiki Kogelnik, Artificial Man in Four Parts 4, 1967. Olio e acrilico su tela, 126,5 × 177 cm. Collezione e courtesy Kiki Kogelnik Foundation. © 1967 Kiki Kogelnik Foundation. All rights reserved 32 Kiki Kogelnik, Broken Robots, 1966. China, inchiostro e matita colorata su carta, 59 × 74 cm. Collezione e courtesy of Kiki Kogelnik Foundation. © 1966 Kiki Kogelnik Foundation. All rights reserved 33 Kiki Kogelnik, Liquid Injection Thrust, 1965, Olio e acrilico su tela, 139,5 × 93,5 cm. Collezione e courtesy of Kiki Kogelnik Foundation. © 1965 Kiki Kogelnik Foundation. All rights reserved
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BIO GRAFIE DELLE ARTISTE
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MARIANNE BRANDT 1893, Chemnitz, Germania – 1983, Kirchberg, Germania Nel 1924, anno in cui viene ammessa alla Bauhaus di Weimar e produce il primo di una serie di oggetti in ferro che inaugureranno la sua pionieristica carriera nel design industriale, l’artista tedesca Marianne Brandt realizza anche due collage astratti e le sue prime fotografie documentarie. Benché siano meno conosciute degli oggetti di design, queste opere coincidono con l’inizio di una produzione visiva che, pur accompagnando l’artista per almeno un decennio, rimarrà inedita per i successivi trent’anni. Collage e fotografie, tuttavia, sono un elemento preziosissimo per comprendere la sensibilità artistica di Brandt e – i primi sotto forma di visioni frammentate, le seconde come lucide cronache di vita personale – forniscono un punto di vista esemplare su diversi aspetti della modernità tedesca.
Impressiones (1926), o lo sguardo provocante della donna che fuma la pipa in Helfen sie mit! (Die Frauenbewegte) (1926) mostrano una figura femminile che sembra la vera protagonista delle grandi rivoluzioni moderne. In un gruppo di fotografie che la ritrae nel suo studio insieme agli oggetti di sua creazione, la stessa Brandt dimostra di aderire alla nuova sensibilità e appare al contempo femminile e mascolina, delicata nei lineamenti e resa androgina da un taglio di capelli bubikopf (alla maschietta). L’immagine che l’artista dà di sé in Selbstporträt mit Schmuck (1929) diventa il manifesto della nuova generazione di donne e il suo corpo, più armato che ingioiellato, rivendica il diritto di essere consapevolmente mostrato. – SM
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REGINA CASSOLO B RAC C H I 1894, Mede, Italia – 1974, Milano, Italia
Tra il 1924 e il 1932, Brandt realizza una cinquantina di montagen o photomontagen. Ognuno di questi è costituito da una tavola di colore neutro su cui l’artista assembla ritagli di giornali e riviste, creando una commistione di immagini in bianco, nero, seppia e colori. Sia che celebrino o critichino la società, sia che sottolineino alcune sfaccettature o semplicemente descrivano alcuni costumi sociali, questi lavori sono caratterizzati dalla ricorrente presenza di figure femminili che rivelano l’attitudine di Brandt rispetto al cambiamento del ruolo della donna, e al contempo rappresentano i tratti fondamentali del movimento femminista tedesco conosciuto come Neue Frau (Donna nuova). Le gambe incrociate, nude, al centro di Pariser
Abbandonato il Naturalismo della sua prima produzione in marmo e gesso, Regina Cassolo Bracchi – più semplicemente nota come Regina – inizia a realizzare gli iconici oggetti in metallo che la renderanno l’unica scultrice donna del Futurismo all’inizio degli anni Trenta. Come le colleghe e i colleghi dell’avanguardia, l’artista è mossa da una generale fascinazione per le tecniche e i materiali tipici della produzione industriale e, grazie alla sovrapposizione, intersezione e sfogliatura di sottili lamine in alluminio, realizza delle snelle silhouette a tutto tondo e dei pannelli simili ad altorilievi. Nonostante la freddezza e la spigolosità del materiale conferiscano un alone di avveniristica brutalità, queste sculture simili a robot
rimandano a un apparente movimento che, come dimostrano lo slancio della famosa Danzatrice (1930) o la posa sinuosa della ragazza in Aerosensibilità (1935), si esprime con vibrante lirismo. Specie quando femminili, i soggetti rappresentati da Regina assumono pose così plastiche e leggere da mostrare gli aspetti più astratti e sensibili dell’immaginario tecnologico cui tradizionalmente si riferisce il Futurismo. L’opera intitolata L’Amante dell’aviatore (1935), ad esempio, rappresenta una giovane donna che, con le braccia incrociate sulla testa e il volto leggermente reclinato, ha l’aria trasognata e sembra immersa nei più profondi pensieri. Il suo corpo è definito da Regina come una “scatola spaziale” e sebbene la sua immagine sia incisa su due taglienti lastre di alluminio sovrapposte, diventa la sede di un dinamismo delicato, decisamente spirituale e sicuramente più psicologico che fisico. Nel 1948, dopo circa un decennio di occasioni espositive al fianco di, tra gli altri, Filippo Tommaso Marinetti, Benedetta e Fillìa, Regina si avvicina ai codici visivi del Movimento Arte Concreta (MAC) e le sue sculture assumono una dimensione ancora più sensoriale. Le Strutture, così Regina battezza uniformemente le opere di questo periodo, sono realizzate per mezzo dell’assemblaggio di forme pure in Plexiglas, nylon, rhodoid, fil di ferro e sembrano modelli in scala di strani paesaggi astronomici. Mentre l’uso dei materiali industriali le permette di porsi in continuità con l’immaginario tecnologico del Futurismo, la trasparenza delle superfici produce effetti percettivi inediti e fortemente contemplativi. È soprattutto nei suoi ultimi anni che Regina dimostra come la sua tempra avanguardista richiami a una risolutezza mentale che, versatile e accomodante, si esprime secondo una sensibilità spirituale, a tratti cosmologica. – SM
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GIANNINA CENSI
ANNA COLEMAN LADD
1913, Milano, Italia – 1995, Voghera, Italia
1878, Bryn Mawr, USA – 1939, Santa Barbara, USA
LE BAMBOLE PA R L A N T I D I E D I S O N
Nel luglio del 1917, sulla prima pagina del noto giornale “L’Italia futurista”, Filippo Tommaso Marinetti firma un nuovo manifesto dell’avanguardia italiana dedicato alla danza, che sostiene l’urgenza di inaugurare un movimento del corpo disarmonico, asimmetrico, dinamico e sgraziato come quello delle macchine cui deve ispirarsi. Nonostante il testo sia il punto di partenza di una serie di sperimentazioni che porteranno, tra le altre, alla nascita della famosa Danza dell’elica (1924), il Futurismo otterrà i più completi e soddisfacenti risultati coreutici soltanto negli anni Trenta, grazie all’impeto sperimentale della diciassettenne Giannina Censi. La danzatrice non è solo la prima a eseguire un nuovo tipo di movimento cosiddetto “aero-estetico” ma, da ballerina classica, ha la possibilità di coreografarlo nel rispetto delle tante suggestioni che l’hanno preceduta. Come aveva già suggerito il manifesto di Marinetti, la danza di Censi vuole esprimere il lirismo che gli esponenti del Secondo Futurismo riconoscono nella moderna tecnologia aeronautica e, fin dalla prima tournée conosciuta come Simultanina (1931), utilizza gestualità geometriche, ritmiche e scattanti che coinvolgono tutto il corpo in un singolare plasticismo. Nelle famose Danze aerofuturiste (1931), ad esempio, Censi indossa una tuta e una calotta da aviatore disegnati da Enrico Prampolini in tessuto metallico, che, cromati come una vera e propria carrozzeria, la fanno apparire come un cyborg: una visione celestiale metà donna e metà macchina. Così vestita, la danzatrice si muove al ritmo di poche note musicali e alterna spasmodicamente braccia e gambe assecondando le declamazioni parolibere di Marinetti. Talvolta assume innaturali pose scultoree documentate da un’ampia serie di fotografie, che esprimono tutto il pathos necessario a trasmettere una sensazione di volo o, più semplicemente, forniscono un’immagine dell’atletismo proposto dal Futurismo. In altre e più radicali sperimentazioni, definite Tereodanze, Giannina Censi improvvisa le sue coreografie in assoluto silenzio mentre è circondata da alcuni dipinti futuristi e sembra immersa nella vertiginosa distesa celeste di cui ogni esperienza di volo ha bisogno. Grazie a questa scenografia, il corpo della danzatrice può definitivamente trasformarsi nella macchina aeronautica tanto celebrata dall’avanguardia o trasferire al suo pubblico le emozioni provate dall’aviatore, simulando quella che le futuriste i futuristi dell’aeropittura chiamano “sensazione extraterrestre”. – SM
Quando l’artista americana Anna Coleman Ladd torna a Parigi nel 1917, dopo esservi cresciuta alla fine del secolo precedente, la Francia è stravolta dalla Grande Guerra e, sebbene sia destinata a salire sul carro dei vincitori l’anno successivo, è impegnata ad arginare le drammatiche conseguenze economiche e sociali causate dal conflitto. La stessa Coleman Ladd, che al momento del trasferimento gode di una discreta fama come scultrice neoclassica negli ambienti dell’alta borghesia statunitense, si arruola come volontaria nella Croce rossa americana e, appena arrivata a Parigi, avverte immediatamente la necessità di gestire l’emergenza dei reduci di guerra – che oltre a tornare dal fronte feriti, mutilati o destinati a una disabilità permanente, sono spesso sfigurati in volto. Venuta a conoscenza di uno studio londinese che si sta occupando del medesimo problema creando delle protesi facciali per i soldati inglesi, Coleman Ladd persuade la Croce rossa a fondare un simile dipartimento per la Francia e, nell’unico anno che dedica al progetto, produce un centinaio di maschere facciali per reduci. I numeri raggiunti dall’artista sono sorprendenti se si considera che ogni maschera veniva realizzata artigianalmente con l’aiuto di soli quattro collaboratori e richiedeva circa un mese di preparazione. Dopo uno studio della mutilazione effettuato sulla ferita cicatrizzata, Coleman Ladd procedeva con un’analisi dei connotati fisici del paziente e, grazie al confronto con fotografie precedenti alla guerra, realizzava il primo calco in gesso. Questo veniva successivamente colato in argento e, dopo essere stato colorato a olio nel corso di diverse sedute, veniva completato da altri particolari, come occhiali, baffi o piccole imperfezioni in grado di restituire verosimiglianza al nuovo volto dei soldati. Raggiungendo risultati estetici e funzionali di gran lunga superiori a quelli prodotti dall’omologo dipartimento inglese, lo studio prevedeva anche un trattamento psicologico dei pazienti: questi uomini, d’altronde, erano ormai considerati mostruosità e, spesso in maniera opposta rispetto al loro status prebellico, si trovavano a gestire improvvisamente la loro inadeguatezza. Ben lontana dall’uso provocante e bizzarro che ne fanno le colleghe e i colleghi avanguardisti negli stessi anni, Anna Coleman Ladd propone le sue maschere come uno strumento prezioso e dimostra come scienza e arte possano collaborare per un obiettivo comune, riparando e potenziando il corpo dell’individuo moderno. – SM
(1887–1890 ca.) Nel 1877 l’inventore americano Thomas Alva Edison annuncia la nascita del fonografo: un semplice cilindro ricoperto di stagno che, azionato per mezzo di una manovella, registra e – per la prima volta – riproduce brevi tracce audio. Benché si tratti di un dispositivo ancora rudimentale e la qualità del suono sia decisamente modesta, in pochi anni la tecnologia di questa macchina parlante sembra prestarsi alle più varie finalità applicative e, oltre a diventare un prezioso strumento in ambito professionale, viene utilizzata anche per l’intrattenimento. Spinto da una fede smodata nel progresso e capace di prevedere le ricadute delle sue invenzioni sulla nascente società di massa, Edison dapprima distribuisce la sua invenzione in luoghi come fiere e luna park e poi immagina che una versione in miniatura del fonografo possa essere inserita dentro i giocattoli, in modo da renderli parlanti. A tal scopo, nel 1887 l’inventore fonda addirittura la Edison Phonograph Toy Manufacturing Company e, in vista del Natale 1890, commercializza il primo stock di bambole. Le cosiddette Talking Dolls (bambole parlanti) sono dei manichini alti circa sessanta centimetri i quali, ciascuno con la propria acconciatura e un viso in ceramica diversamente decorato, presentano arti in legno dipinto e un torace in lega metallica. Proprio quest’ultimo, opportunamente forato per la diffusione del suono, diventa l’alloggio di un fonografo estraibile. Ogni cilindro è un pezzo unico e, inciso con famose filastrocche della cultura popolare americana come Mary Had a Little Lamb o Hickory Dickory Dock, riproduce le voci di diciotto diverse operaie della Edison Company. Galvanizzata dalla novità, la stampa celebra l’invenzione di Edison portando alla compagnia un immediato, seppur effimero, successo. Nell’arco di un mese, infatti, molte delle bambole vengono restituite al fornitore perché considerate difettose o, secondo i più, decisamente poco gradevoli. Già registrate in precarie condizioni di isolamento, le loro voci vengono ulteriormente distorte dal rimbombo della cassa metallica fino a trasformarsi in urla stridule e quasi demoniache. Più che un giocattolo, dunque, la bambola è definitivamente diventata quell’automa perturbante per cui la modernità prova un misto di fascino e repulsione. Dopo i primi tentativi di perfezionare la merce e non poche reticenze nell’ammettere il fallimento, lo stesso Edison descrive le sue creazioni come “little monsters” (piccoli mostri) e le ritira dal mercato distruggendo gli esemplari invenduti. – SM
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ALEXANDRA EXTER
E L S A V O N F R E Y TA G L O R I N G H OV E N
KA R LA G RO S C H
1882, Białystok, Impero Russo (attuale Polonia) – 1949, Fontenay-aux-Roses, Francia Difficile stabilire se la sensibilità artistica di Alexandra Exter sia più vicina al Costruttivismo, al Cubismo o al Futurismo: le sue opere ricorrono alle tre estetiche in maniera interscambiabile e, nel segno della fascinazione tecnologica che le accomuna, ne propongono una perfetta sintesi. Dopo aver studiato a Kiev e aver viaggiato molto tra Mosca, Parigi e Roma, Exter inizia a dipingere figure geometriche che abbandonano la monumentale staticità della pittura accademica e sono attraversate da un radicale dinamismo futurista. Anche nei tanti progetti scenografici per il teatro che l’artista realizza a partire dagli anni Venti, ogni costume, oggetto o dettaglio è concepito come un elemento mobile ed è studiato in perfetta continuità formale con la scena, mentre la narrazione è proiettata in contesti fantastici, utopici e irreali, anche quando la drammaturgia è tra le più classiche – come Otello o Romeo e Giulietta. Non a caso, nel 1924, Exter ottiene l’unica grande commissione per il cinema e realizza i costumi e le scene del primo colossal sovietico di fantascienza: Aelita. Basato sull’omonimo romanzo di Aleksej Tolstoj del 1922 e diretto dal regista Yakov Protazanov, il film sembra anticipare la stessa fascinazione per la tecnologia che tre anni più tardi, nel 1927, avrebbe reso celebre anche la pellicola di Fritz Lang Metropolis. Il film muto racconta la storia di un ingegnere russo, che dopo aver intrapreso un viaggio distopico su Marte ed essersi innamorato della sua regina – Aelita appunto –, riconosce nella donna una tiranna e si rivolta contro di lei. Sia nei bozzetti che nella realizzazione cinematografica, Alexandra Exter costruisce un’ambientazione in linea con i contenuti fantascientifici del romanzo e immagina un legame estetico tra il mondo alieno e quello tecnologico-industriale. I marziani si distinguono dagli esseri umani per una serie di accessori eccentrici che, resi filmicamente grazie all’uso di celluloide, Plexiglas e materiali leggeri, nei bozzetti appaiono come strane protesi metalliche utili a potenziare il corpo per renderlo una macchina ibrida. Tra tutti, Aelita spicca per magnificenza: indossa una corona fatta di sottili aste disposte a raggera e un lungo vestito livido e verdastro si avvita vorticosamente sul suo corpo seminudo fino a trasformarsi in un busto imbullonato. È un’amazzone iconica e severa, che Exter rende potente e minacciosa grazie alla tecnologia o – forse – come la tecnologia. – SM
1874, Swinemünde (Świnoujście), Impero Tedesco (attuale Polonia) – 1927, Parigi, Francia Anche per gli abitanti del Greenwich Village abituati a considerare il quartiere newyorkese come il ritrovo delle personalità più libertine e bohémienne, Elsa Plötz, meglio nota come baronessa Elsa von FreytagLoringhoven, deve essere apparsa come l’incarnazione della follia più assoluta. Arrivata negli Stati Uniti agli inizi degli anni Dieci dopo una serie di peripezie sentimentali e continui spostamenti tra Berlino, l’Italia e il Canada, la baronessa guadagna il titolo nobiliare sposando l’erede di un casato tedesco decaduto ma, senza alcun sostegno economico, è costretta a posare come modella per giovani artisti, esibirsi come soubrette nei locali del Village e cedere alla più sfrenata cleptomania. Le fotografie che ritraggono questi momenti, e più in generale gli anni newyorkesi, mostrano una donna di mezza età, talvolta seminuda e impegnata in strane pose, che ha il corpo addobbato con oggetti per lo più rubati o trovati nella spazzatura. In una di queste immagini, ad esempio, la baronessa si trova in un caotico interno domestico e, con le braccia all’indietro come fosse pronta a saltare, indossa un elmetto con una lunga piuma e una tutina a righe che le fascia il ventre come un ingranaggio. Sembra un cyborg erotico, esempio di ciò che definisce femminilità “teutonica”, che scompagina tutti i canoni identitari e assume la stessa estetica ibrida e ammaliante dei lavori che produce negli stessi anni. Nonostante la sua personalità adombri la produzione artistica, Elsa von Freytag-Loringhoven scrive una serie di componimenti poetici pubblicati sulla rivista letteraria “The Little Review” e realizza alcuni oggetti scultorei simili ai readymade dell’adorato amico Marcel Duchamp, che le valgono il titolo di “Mother of Dada”. A partire dal 1917 – e forse fino al suo ritorno in Europa nel 1926 – la baronessa inizia a produrre degli strani assemblaggi con gli stessi materiali che è solitamente abituata a indossare e, in uno di questi, ritrae proprio l’artista francese come un calice di vino da cui sembra fiorire un meraviglioso bouquet di piume. Portrait of Marcel Duchamp (1920) – o anche l’intreccio di tubi che intitola irriverentemente God (1917 ca.) e realizza insieme all’artista dadaista Morton Livingston Schamberg –, intrappolano la stessa aria ironica, sensuale e solenne che la baronessa trasmette decorando il proprio corpo e, similmente, diventano il simulacro di una complessa, contraddittoria e trasformista identità moderna. – SM
1904, Weimar, Germania – 1933, Tel Aviv, Palestina Mandataria (attuale Israele) Per quanto siano lacunosi, gli studi sulla danzatrice e atleta tedesca Karla Grosch restituiscono il profilo di un’artista perfettamente in linea con la temperie culturale della Repubblica di Weimar e, più esattamente, con le ricerche creative promosse dalla Bauhaus. Formatasi secondo i principi della danza espressionista e allieva della nota ballerina Gret Palucca, Grosch adotta uno stile ritmico e dinamico che, nella scuola tedesca in cui sarà docente di ginnastica per qualche anno dal 1928, si esprime grazie a movimenti fortemente teatrali e gestualità geometriche. Le poche foto che documentano la pratica del suo approccio coreutico sono scattate dal pittore e fotografo T. Lux Feininger e si riferiscono a una collaborazione teatrale tra Grosch e Oskar Schlemmer. Quest’ultimo, infatti, direttore della scuola di teatro della Bauhaus, nel 1929 scrittura la danzatrice come interprete del suo lavoro Materialtänze e, al Volksbühne di Berlino, le affida l’esecuzione di due particolari coreografie dedicate al metallo (Metalltanz) e al vetro (Glastanz). Se la prima si caratterizza soprattutto per una scenografia fatta di lamiere tra cui l’artista compie incredibili gesti atletici, la seconda evidenzia una forte attenzione ai costumi, dove Grosch è estremamente limitata nei movimenti e, sopra una tuta nera aderente, indossa una gonna fatta di lunghe e sottili aste di cristallo. Una calotta trasparente le avvolge la testa mentre le sue mani brandiscono due clave di vetro e una luce accecante alle sue spalle si riflette sul materiale restituendo l’immagine di una strana divinità metà umana e metà robotica. In perfetto stile futurista e in linea con la fascinazione per la tecnologia che Schlemmer condivide con le avanguardie europee, le immagini documentali delle coreografie sembrano alludere a una nuova dinamica tra corpo e mente: al variare del primo, modificato dai costumi e dalle atmosfere avveniristiche, la mente diventa più potente e si dota di un’intelligenza espansa e artificiale come gli innesti della sua struttura fisica. Gli effetti di questa evoluzione postumana, tuttavia, non sembrano duraturi né efficaci, o almeno non lo sono per la danzatrice. Nel 1933, poco dopo aver lasciato la Bauhaus ed essersi trasferita a Tel Aviv, Karla Grosch viene colpita da un arresto cardiaco durante una nuotata in mare e muore a soli ventinove anni. – SM
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Arsenale
diverse tradizioni artistiche non europee, l’artista ottiene delle figure ibride che sembrano minare la supremazia culturale allora riconosciuta all’Occidente colonialista. Anche in Der heilige Berg (1927) – un collage della serie etnografica in cui i corpi di due scalatori hanno grandi sculture asiatiche al posto della testa –, ad esempio, Höch dimostra che le sue figure grottesche non sono solamente bizzarre, ma forniscono una singolare, e forse cinica, immagine del progresso. – SM
presentata alla mostra Magiciens de la Terre, tenutasi nel 1989 al Centre Pompidou e alla Grande Halle de La Villette di Parigi, considerata da molti come la prima esposizione globale di arte contemporanea. L’opera respira nelle aperture e chiusure ritmiche dei suoi bracci in acciaio. Horn riesce a rendere questo gesto del corpo umano in una figura cyborg che fonde animale, metallo e pezzi meccanici, mettendo così in discussione il primato o la purezza della forma umana. – MK
1889, Gotha, Germania – 1978, Berlino, Germania
(p. 516)
( p p . 5 1 8 –5 1 9 )
REBECCA HORN
K I K I KO G E L N I K
Uno dei primi e più famosi fotomontaggi realizzati da Hannah Höch si intitola Das schöne Mädchen (1920) e rappresenta l’immagine decostruita di una giovane donna: seduta al centro di una caotica composizione di ritagli di giornale, con una lampadina al posto della testa e una serie di oggetti meccanici intorno, la ragazza è sovrastata da una voluminosa chioma di capelli femminili evidentemente fuori scala. Reso disomogeneo dal montaggio di figure umane e tecnologiche, il suo corpo appare ibrido, robotico e a tratti bestiale come richiede il Dadaismo. Al momento della realizzazione del lavoro, infatti, Höch è l’unica artista donna ufficialmente riconosciuta all’interno dell’avanguardia berlinese e, benché sia sottovalutata dai colleghi uomini del movimento – primo fra tutti il compagno Raoul Hausmann –, ne approccia i codici visivi con una sensibilità innovativa e ambiguamente femminista. I fotomontaggi realizzati almeno fino agli anni Trenta, in effetti, prima che il nazionalsocialismo li consideri “degenerati”, sono popolati da figure grottesche e bizzarre che, anche quando sembrano forti e potenti come suggerisce il corpo tecnologico della ragazza in Das schöne Mädchen, sono vittime di una generale frammentazione. Nel lavoro intitolato Deutsches Mädchen (1930) – un montaggio in cui due occhi sproporzionati e una frangia scura vengono sovrapposti ai delicati lineamenti di una giovane donna –, l’artista dà forma a una figura femminile mostruosa e deforme, tutt’altro che fiera e seducente come vorrebbe il nascente movimento femminista. Höch considera la Neue Frau (Donna nuova) come una moda e, prelevando le immagini dei suoi montaggi dalle stesse riviste che ne celebrano il successo, propone un’identità instabile più affine alla complessità della donna moderna e più utile a combattere gli stereotipi di cui questa è vittima.
1944, Michelstadt, Germania. Vive a Odenwald, Germania
1935, Graz, Austria – 1997, Vienna, Austria
(p. 507)
FLORENCE HENRI 1893, New York City, USA – 1982, Compiègne, Francia Questa artista è presente anche in La culla della strega. Per leggere la biografia dell’artista, cfr. p. 116.
(p. 514)
HANNAH HÖCH
Lo stesso atteggiamento critico emerge anche dalla ventina di collage della serie Aus einem ethnographischen Museum (1924–1930). Unendo immagini di corpi alla moda con iconografie riconducibili alle più
“Per me l’arte è anarchia”, dice Rebecca Horn, un’artista che rifiuta ogni confinamento e sfida continuamente i limiti del corpo, degli oggetti, dell’architettura e dei supporti artistici. All’inizio degli anni Settanta Horn inizia le performance di estensione corporale, durante le quali applica al proprio corpo varie strutture in legno, metallo e tessuto, come ali di tela che toccano terra, guanti dalle lunghe dita seducenti, una maschera ricoperta di matite e un imponente corno di unicorno. Relegata in un sanatorio in giovane età a causa di una terribile malattia polmonare, Horn forza i confini tra il sé e ciò che lo circonda, mettendo in discussione la fine del corpo e l’inizio di ciò che lo contiene. Negli anni successivi l’opera dell’artista si amplia, alternando protesi per il corpo a sculture cinetiche e installazioni, oltre a film, in cui spesso figurano le sue sculture mobili, tra cui Der Eintänzer (1978), La Ferdinanda: Sonate für eine Medici-Villa (1981) e Buster’s Bedroom (1990), con l’attore canadese Donald Sutherland come protagonista. Tra le sculture cinetiche più degne di nota si ricordano The Feathered Prison Fan (1978), un ventaglio di piume che diventa un bozzolo-abitazione; Concert for Anarchy (1990), un pianoforte appeso al soffitto capovolto che espelle i propri tasti a intermittenza; e Tower of the Nameless (1994), un’installazione di violini che suonano meccanicamente. In tutti i suoi lavori si rileva una tensione che risiede nella forma del corpo e in quello spazio che precede immediatamente il momento del contatto. In Kiss of the Rhinoceros (1989) due enormi bracci metallici, ciascuno culminante con un corno di rinoceronte in metallo, formano un cerchio quasi completo. I bracci si allontanano lentamente l’uno dall’altro e quando i corni si toccano, all’apice del cerchio, vengono attraversati da una scarica di elettricità. Kiss of the Rhinoceros è stata
Persino dopo sessant’anni, nell’immaginario collettivo la Pop Art evoca all’istante immagini della cultura consumistica del dopoguerra: gigantesche rappresentazioni di prodotti preconfezionati, stelle del cinema, illustrazioni di fumetti. Pochi mesi dopo l’arrivo di Kiki Kogelnik a New York, nell’aprile del 1961, l’amico Claes Oldenburg avvia la propria galleria-negozio, The Store, dove vendeva versioni in gesso di articoli comuni presenti sugli scaffali dei negozietti di quartiere del Lower East Side. Nei sei mesi successivi all’apertura di The Store, Andy Warhol esordisce con i suoi leggendari dipinti di lattine di Campbell’s Soup. Kogelnik, tuttavia, seppure ispirata dall’implicita fantasia della varietà nell’emergente panorama mediatico della cultura di massa, è allo stesso tempo affascinata e in netto contrasto con l’utopia della Pop Art. “Non è la Coca-Cola ad attrarmi […] ciò che mi coinvolge è la bellezza tecnica dei razzi, delle persone che volano nello spazio e delle persone che diventano robot”, dichiara1. L’arte di Kogelnik contiene una sarcastica critica femminista alla tecno-politica dell’epoca della Guerra fredda e all’interno di questa visione concepisce il corpo come una forma di tecnologia che modella la femminilità e il desiderio. L’artista è conosciuta soprattutto per i dipinti di sagome umane appiattite, solitamente composte a partire da immagini ritagliate e realizzate con colori vivaci sovrapposti, creando un effetto a raggi X. Ispirata dalle speculazioni degli anni Sessanta sulla confluenza tra arte e tecnologia, Kogelnik vede le macchine come prodotti guidati da principi di controllo e di liberazione. Nelle sue colorate sagome cyborg, come quelle di Cold Passage o M (entrambe del 1964), le eleganti rappresentazioni dei corpi ai raggi X sono realizzate con parti ritagliate, necessariamente anonime e disumanizzate, quando traslate attraverso i meccanismi feticizzanti della macchina. In Female Robot (1964), tale approccio compie un passo avanti con l’inclusione di un paio di forbici,
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un altro strumento di frammentazione del soggetto. Eppure, queste immagini sono anche stranamente liberatorie. Nella suite di dipinti Artificial Man in Four Parts (1967), il corpo robotico è mostrato in bianco e nero, presentato come se fosse stato direttamente scansionato da una macchina a raggi X. Evidenziando le parti fondamentali di un essere umano ottimizzato – il cervello, il cuore, la mano, gli organi sessuali –, il corpo appare generativo, portatore di militanza femminista più che di regolamentazione di genere. – MW 1
Kiki Kogelnik, citata in The Fashions: Kiki is Kicks, in “Women’s Wear Daily”, 22 giugno 1966, 12.
(p. 517)
LILIANE LIJN
Negli anni Settanta e Ottanta, la seconda ondata del movimento femminista la spinge ad applicare l’approccio multimediale alla forma umana, focalizzandosi in particolare sull’idea della perdita del corpo femminile in una società sempre più meccanizzata. Nelle sculture umanoidi Feathered Lady (1979) e Heshe (1980), Lijn adotta un approccio antropomorfico con cui crea una sagoma femminile futuristica e ambigua – in parte macchina, in parte animale e vegetale – usando morbidi piumini per la polvere e fibre sintetiche a cui si contrappongono materiali industriali come corde di pianoforte, acciaio e prismi ottici di vetro, che riflettono e reindirizzano la luce. In Gemini (1984), Lijn ricorre nuovamente a elementi contrastanti, in questo caso utilizzando come dispositivo formale cinetico le funzioni di tensione e rilascio delle molle metalliche, ampliando così la propria ricerca di una nuova forma femminile. – MW
1939, New York City, USA. Vive a Londra, UK Da oltre sei decenni Liliane Lijn opera nei campi dell’arte, della poesia e della scienza, creando sculture, installazioni, dipinti e video che affrontano concetti legati al Surrealismo, alla mitologia, al pensiero femminista e al linguaggio. Quando Lijn compare sulla scena artistica di Parigi alla fine degli anni Cinquanta, la tecnologia, nell’immaginario occidentale del dopoguerra, è considerata un freddo strumento di calcolo, fatto di manopole e pulsanti lampeggianti, una fantasia di ordine e precisione, una creazione umana ma senza alcuna traccia di un corpo sensibile. Nonostante il perseverare di questa immagine, per molti giovani artisti come Lijn i nuovi dispositivi e apparecchi tecnologici – e la loro capacità di movimento, di comprendere i fenomeni cerebrali e corporei, di creare mondi utopici – costituiscono una fonte di ispirazione per nuovi percorsi formali e un rinnovato strumentario di mezzi e materiali. Nei primi anni di attività, Lijn sperimenta con luce, energia e movimento, in particolare creando le Poem Machines meccanizzate: cilindri mobili stampati con parole che girano ad alta velocità fino a creare un effetto di vibrazione. Attingendo all’idea di scrittura automatica dei surrealisti, alle tecniche di cut-up rese popolari dai poeti Beat e ai modelli di interferenza osservati al Palais de la Découverte di Parigi, queste macchine intaccano, come in un tempo cinematografico, il mito del rapporto unico e soggettivo del poeta con la parola. Mentre turbinano, le loro funzioni motorizzate tolgono il controllo dalle mani dell’artista, forgiando così un tipo di scultura cinetica che, in modo autoriflessivo, considera le implicazioni del proprio status di opera d’arte in movimento.
(p. 517)
LOUISE NEVELSON 1899, Perejaslav, Governatorato di Poltava dell’Impero Russo (attuale Ucraina) – 1988, New York City, USA Louise Nevelson (nata Leah Berliawsky) crea imponenti ed eleganti sculture durante l’intero dopoguerra, periodo in cui perfeziona la sua pratica artistica più nota, che la vede recuperare pezzi di legno – spesso oggetti domestici e ornamenti architettonici – dalle strade di New York per poi organizzarli in elementi modulari, sovrapposti in maniera irregolare, che infine dipinge con un unico colore. Se da un lato è attratta dagli scarti di legno per il significato che permea la loro memoria materiale e per il loro intrinseco potenziale di riutilizzo, la sua conoscenza del legno è anche personale. Prima che, all’inizio del XX secolo, la sua famiglia fuggisse a Rockland (Maine), dalla Russia – dove l’allora Governatorato zarista di Poltava imponeva alle famiglie ebraiche restrizioni violentemente repressive e insostenibili –, il padre lavorava come taglialegna e commerciante di legname, professione che avrebbe continuato anche negli Stati Uniti, dove in seguito aprirà un deposito di rottami. Per questo motivo, le sue composizioni di scarti raccolti per strada acquistano un significato più profondo: sono costruzioni formali, ma anche fabbricazioni personali di un passato complesso. Se osservata frontalmente, la scultura Homage to the Universe (1968) racchiude molti aspetti della pittura astratta degli anni Cinquanta, il decennio in cui Nevelson comincia a costruire i suoi peculiari muri-rilievo con strati di griglie di legno sovrapposte. Richiamando l’Espressionismo Astratto e l’attrazione del Colour Field
per le vaste campiture di colore, con un uso di materiali non tradizionali e la sperimentazione di gesti formali audaci, questa scultura innovativa crea un ambiente ricco e sensuale, che immerge gli spettatori in uno spazio sconfinato di ombra, mistero e profonda complessità. Ricoperta da uno strato uniforme di vernice nera opaca, che da lontano crea l’illusione di una superficie piena e compatta, la stratificazione di Homage to the Universe deriva, in parte, dal parsimonioso metodo di costruzione, e da un uso ponderato del colore. Nevelson parla spesso del nero, il colore che utilizza più di frequente nelle sue sculture, come colore della grazia, della dignità e della magnificenza. Nel corso degli anni Sessanta, Nevelson attribuisce a molte sue grandi opere il titolo di Homage (Omaggio), come rimando a questioni sociali, religiose e personali, fra cui la morte di sei milioni di ebrei nella Shoah, ricordata nelle famose sculture Homage to 6,000,000 I e II (1964). In alcuni di questi lavori, l’artista rende invece omaggio a concetti più ampi: la luna, il mondo. Con Homage to the Universe il tributo tende a un effetto celestiale, per esprimere la meraviglia e lo sgomento suscitati dalla profondità e dall’infinitezza dell’universo. – MW
(p. 515)
ANU PÕDER 1947, Kanepi, Estonia – 2013, Tallinn, Estonia Quando nel 1970 la scultrice Anu Põder inizia a frequentare la Scuola d’arte di Tartu nell’Estonia occupata dai sovietici, le banalizzazioni visive del Realismo Socialista dominano la produzione artistica del tempo, tra monumenti glorificanti Lenin, massicci busti bronzei di politici, dipinti esageratamente ottimisti che plaudono ai successi di progetti come le proprietà agricole collettive. Tuttavia, nella scultura radicalmente riconcettualizzata di Põder, la brutale permanenza del bronzo lascia il posto alla natura effimera di tessuto, legno, iuta, cera, sapone, colla e gesso; il potere propagandistico dei volti di leader severi lascia il posto a corpi frammentati e sensuali mentre l’ideologia imposta dallo Stato fa spazio a rapporti evocativi tra sfera personale e politica. La vita di Põder attraversa uno dei periodi più ricchi e complessi dell’Europa orientale del XX secolo: la nuova occupazione sovietica dell’Estonia negli anni Quaranta, la riconquista della sovranità nazionale nel 1988, l’indipendenza nel 1991. La sua opera si pone come risposta ai profondi cambiamenti culturali, soprattutto per quanto riguarda la vita delle donne con i loro desideri, le aspettative connesse alle loro responsabilità e al ruolo di madri, custodi e figure idealizzate in una società in rapido mutamento.
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Negli anni Ottanta e Novanta, Põder sviluppa un approccio che impiega manichini e bambole, elementi usati frequentemente nel Surrealismo, per rappresentare fantasie di cyborg o automi. Unendo immagini di parti del corpo frammentate – alternativamente tagliate, degradate, ferite e incomplete – a materiali spesso fragili o effimeri, Põder crea una serie di sculture dove la rappresentazione del corpo femminile emerge come un’inquietante controfigura, la cui profonda materialità è soggetta a processi di ibridazione, trasformazione, decadimento, o proiezione di desideri. Una delle prime sculture, Before Performance (1981), è un manichino acefalo a grandezza naturale realizzato in tessuto e plastica, ricoperto da misure riferite a proporzioni corporee idealizzate; il corpo stesso è diviso in zone, come la carcassa di un animale pronta per il macello. In contrasto con un corpo pronto per essere fatto a pezzi, in Figure Which Was Made to Walk (1984) le varie parti restano a malapena unite. Nelle sculture successive, come With a Trombone from the Gill of Lasnamäe (Pink Bird) (1988), il corpo viene spinto ulteriormente nel regno dell’uomo-macchina. Ancora una volta modellate con pezzi di plastica rosa carne per simulare la pelle, le forme astratte possono essere lette, in maniera intercambiabile, come parti di strumenti, arti umani, o tubi usati in edilizia: il doppio di un essere umano, che ne registra la vulnerabilità e la malleabilità corporea. – MW
(p. 513)
L AV I N I A S C H U L Z E WA LT E R H O L D T 1896, Lübben (Spreewald), Germania – 1924, Amburgo, Germania 1899 – 1924, Amburgo, Germania Durante la Repubblica di Weimar, la danza assume un nuovo ruolo nell’avanguardia e Lavinia Schulz incarna il modello di un nuovo tipo di danzatrice. Insieme al marito e collega Walter Holdt, tra il 1919 e il 1924 porta in scena ad Amburgo la danza espressionista con uno stile che si esprime attraverso l’atto di “strisciare, scalpitare, accovacciarsi, rannicchiarsi, inginocchiarsi, inarcarsi, camminare a grandi passi, balzare e saltare con effetti diagonali e spiraliformi nello spazio dedicato alla performance, con le braccia proiettate in avanti o nell’atto di afferrare… occasionalmente intervallati da pause”1. Schulz deve questa tecnica alla danzatrice e coreografa espressionista Mary Wigman, pioniera di uno stile corporeo estemporaneo e turbolento slegato dalla narrazione. Considerata un’espressione accessibile per le donne dell’epoca, la danza diviene presto parte del repertorio della vita moderna.
Schulz e Holdt creano una serie di costumi fantastici e futuristici che, portati sul palcoscenico di Amburgo, trasformano i danzatori in opere d’arte ibride che condensano danza, moda e musica. Evocativi dei costumi realizzati negli anni Venti da Oskar Schlemmer e Xanti Schawinsky per la Bauhaus, questi capi spesso culminano con bizzarre teste robotiche o di rettili dai nomi eccentrici. A differenza di quelli delle loro controparti della Bauhaus, i costumi della coppia sono ispirati alla natura e al regno animale. Realizzate con materiali quali legno, cuoio, corda, metallo e cartone, le opere ispirate agli insetti come Maskenfigur “Toboggan Mann” (1924) sono stravaganti capi realizzati per metà con stoffa rossa e per metà con tessuto a variopinte geometrie, completati da grandi maschere che ricordano la testa di un insetto; la fumettistica opera informe Tanzmaske “Technik” (1924) presenta un paio di occhi posticci che sporgono dalla faccia triangolare. Sebbene molti dei loro oggetti non siano sopravvissuti fino a oggi, nel 1924 una ventina di creazioni di Schulz e Holdt entrò a far parte della collezione del Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo, poco dopo l’omicidio-suicidio di Schulz e del marito, travolti da un devastante dissesto finanziario. Nel 1980, il museo ha rinvenuto nelle loro scatole originali i costumi e una serie di fotografie di danzatori abbigliati e mascherati scattata nel 1924 da Minya Diéz-Dührkoop; i capi e le fotografie documentano come l’opera di Schulz rappresenti una testimonianza significativa della straordinaria creatività e maestria della cultura della danza durante la Repubblica di Weimar. – MW 1
K.E. Toepfer, Empire of Ecstasy: Nudity and Movement in German Body Culture, 1910–1935, Berkeley, University of California Press, 1997, pp. 215–216.
Werkbund, un’associazione svizzera di artisti professionisti. Dal 1916 al 1929 Taeuber-Arp insegna design tessile presso la Scuola d’arti e mestieri di Zurigo, impiego che le consente di mantenere se stessa e il marito, l’artista Jean Arp. Dopo il trasferimento a Zurigo nel 1915, Taeuber-Arp inizia a realizzare opere tessili e dipinti geometrici non figurativi che definisce “concreti”. Le sue attente composizioni di cerchi, quadrati, linee diagonali e altre forme gettano un ponte tra il nascente movimento costruttivista e il design di tessuti. A Zurigo, si unisce a un circolo di artisti frequentato anche da Emmy Hennings, Tristan Tzara e Hugo Ball. Firmataria del Manifesto Dada, Taeuber-Arp si esibisce spesso al famoso Cabaret Voltaire, per il quale realizza anche scenografie, costumi e marionette. Nel 1926, Taeuber-Arp si trasferisce in Francia, dividendo il proprio tempo fra Strasburgo e Parigi. Qui entra a far parte dei gruppi di artisti non figurativi Cercle et Carré e Abstraction-Création, e fonda e dirige la rivista costruttivista “Plastique”. Nel 1940, poco prima dell’occupazione nazista, lascia la capitale francese per dare vita a una comune di artisti a Grasse, sempre in Francia, insieme a Sonia Delaunay, Susi Gerson e altri. Nel 1942 ritorna in Svizzera, dove muore a causa di un avvelenamento accidentale da monossido di carbonio all’età di cinquantatré anni. – MK Questa artista è presente anche in Una foglia una zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore, cfr. p. 375.
(p. 508)
M A R I E VA S S I L I E F F 1884, Smolensk, Russia – 1957, Nogent-sur-Marne, Francia
(p. 510)
S O P H I E TA E U B E R -A R P 1889, Davos, Svizzera – 1943, Zurigo, Svizzera Sophie Taeuber-Arp è una figura centrale del movimento dadaista e un’influente artista modernista, in grado di oltrepassare i confini tra belle arti e artigianato. Pur avendo vissuto due conflitti mondiali, produce opere in cui, su tutto, trionfano la gioia e il colore. Artista eclettica e universale, Taeuber-Arp spazia tra pittura, scultura, design di tessuti, danza, marionette, illustrazione, decorazione d’interni e architettura. Studia design tessile presso la Scuola d’arti e mestieri di San Gallo e danza nella scuola di Rudolf Laban a Zurigo, ed è inoltre membro della Schweizerischer
Tra le poche immagini che ritraggono l’artista Marie Vassilieff, una in particolare sembra riassumere l’originalità della sua attività artistica: vestita con un eccentrico costume da Arlecchino disegnato per il “Bal Banal” – una festa per gli immigrati russi tenutasi a Parigi nel 1924 – l’artista appare seduta su uno sgabello e, con gambe e braccia aperte e piegate sui fianchi, guarda lo spettatore attraverso una maschera di metallo. Mentre le geometrie dell’abito ricordano l’estetica cubista della sua prima formazione, la postura descrive Vassilieff come una sorta di macchina robotica e, con grande teatralità, richiama i modellati delle centinaia di bambole che l’artista realizza nel corso della sua lunga, seppur misconosciuta, carriera artistica.
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Qualche tempo dopo il suo arrivo nella comunità artistica di Montparnasse e l’apertura di un atelier frequentato dai più illustri membri dell’avanguardia parigina presto conosciuto come “Académie Vassilieff”, a partire dagli anni Dieci, l’artista si dedica alla creazione di una serie di marionette artigianali. A differenza di quelle dadaiste prodotte negli stessi anni dalle colleghe Sophie Taeuber-Arp, Emmy Hennings o Hannah Höch, le sue bambole non hanno alcuna funzione teatrale, piuttosto sono il frutto di una più generale fascinazione avanguardista per il fantoccio: un oggetto scultoreo o un bizzarro ritratto che è in grado di riprodurre le sembianze del corpo umano. Vassilieff ne realizza poco più di un centinaio e, a eccezione della comune fattura, solitamente in materiali semplici come tessuto riciclato, segatura, cartapesta, fili di ferro, si lascia ispirare da due immaginari differenti. Alcune di loro hanno solo la testa e sembrano riferirsi a un’estetica “primitiva”, certamente derivata dalla dilagante fascinazione per l’esotico diffusa nei circoli intellettuali della Francia colonialista; altre invece, sicuramente più numerose e definite portraits de poupées, sono dei fantocci anatomicamente completi che, con pochi ma azzeccati dettagli, forniscono un’immagine caricaturale dei tanti personaggi che gravitano intorno all’Académie. Sebbene oggi siano conservati solo pochi esemplari di entrambe le tipologie di bambole, un numero consistente di scatti di Pierre Delbo permette ancora oggi di apprezzarne la qualità formale. Il suo stile fotografico le immortala come fossero le vere celebrità di cui rappresentano fattezze e, oltre a permettere un facile riconoscimento dei vari Le Corbusier, Josephine Baker o Jean Cocteau, offre una preziosa e curiosa testimonianza della vivacità sociale e intellettuale della comunità parigina. – SM
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K A P WA N I K I WA N G A
1978, Hamilton, Canada Vive a Parigi, Francia
Kapwani Kiwanga, artista canadese che vive a Parigi, attinge alla sua formazione in antropologia per esplorare molteplici temi, come ad esempio storie di emarginazione e l’impatto dell’imperialismo sul mondo. La sua pratica artistica basata sulla ricerca, nella quale rientrano cinematografia, scultura, performance e installazioni, richiama sia la lotta al colonialismo sia l’attenzione ai sistemi di potere attraverso una commistione di strategie concettuali, architettoniche e formali. Descritto come una combinazione tra passato, presente e futuro, il lavoro dell’artista si pone come veicolo per generare una visione di possibilità all’interno di un mondo spaccato. In progetti recenti come Plot (2020), un’installazione site-specific realizzata per la Haus der Kunst di Monaco, Kiwanga unisce la ricerca d’archivio e la botanica a interventi spaziali. La sala centrale del museo fa da sfondo a tre dipinti semitrasparenti di grandi dimensioni che giocano sui toni del verde, dell’arancione, del blu e del viola, con l’intento di evocare i colori che caratterizzano il vicino Englischer Garten. Oltre a scomporre le monumentali barriere dell’ambiente costruito e richiamare i pittoreschi spazi locali, queste tende svolgono anche la funzione di contenitori di sculture ibride in metallo, materiali gonfiabili e piante. Ispirati alle teche di Ward del XIX secolo – contenitori in vetro utilizzati per importare piante straniere in Europa da luoghi remoti –, le sculture aggiungono complessità all’installazione, suggerendo come l’architettura e la natura siano state manipolate nel corso della storia per servire i desideri e le ideologie dell’umanità. In opere come Dune (2021), l’arte di Kiwanga si ispira a un altro elemento organico soggetto allo sfruttamento umano: la sabbia utilizzata nel fracking. Composta da sabbia proveniente dal sud del Texas, un prodotto usato per l’estrazione di petrolio e gas dalle rocce di scisto, l’installazione Dune suggerisce le modalità con cui i materiali organici possono essere utilizzati a scapito della stessa natura e dell’umanità. Per Il latte dei sogni, l’artista si cimenta in una nuova installazione che fonde gli aspetti spaziali, materiali e concettuali trattati nei suoi ultimi progetti. In quest’opera Kiwanga crea un ambiente ispirato ai colori del deserto al tramonto, che include grandi dipinti semitrasparenti su tela abbinati a una serie di sculture in vetro contenenti sabbia. Ancora una volta, attingendo alle teche di Ward e al fracking, Kiwanga definisce la sabbia come materiale politico – che simboleggia contemporaneamente il danno provocato dall’industria petrolifera, la materia prima del vetro e un richiamo alla sempre crescente aridità del pianeta. – MW
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Kapwani Kiwanga, Vivarium: Apomissis, 2020. PVC, acciaio, vernice, 295 × 238 × 300 cm. Veduta della mostra, Plot, Haus der Kunst, Monaco di Baviera, 2020. Photo Dominik Gigler. Courtesy l’Artista; galerie Tanja Wagner, Berlin. © Kapwani Kiwanga Pagine successive: Kapwani Kiwanga, Landscape: Foreground, Middle ground, Background, 2020. Tessuto Trevira, vernice colorata per tessuto, dimensioni variabili. Veduta della mostra, Plot, Haus der Kunst, Monaco di Baviera, 2020. Photo Dominik Gigler. Courtesy l’Artista; galerie Tanja Wagner, Berlin. © Kapwani Kiwanga
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Arsenale
NO OR ABUARAFEH
1986, Gerusalemme Vive a Gerusalemme e Maastricht, Paesi Bassi
Tra video, performance, pubblicazioni e scritti, l’artista palestinese Noor Abuarafeh crea un corpus complesso che testimonia le modalità di fabbricazione, documentazione e interpretazione della storia, con particolare riferimento allo sfaccettato contesto culturale e politico proprio della Palestina. L’arte di Abuarafeh coglie un mondo che emerge da narrazioni, ricordi e archivi; attraverso le loro riproduzioni, ripetizioni e lacune, l’artista immagina materie e mitologie poetiche alternative per il futuro. In anni recenti, Abuarafeh esamina il fenomeno della produzione della storia attraverso i processi di conservazione di oggetti, opere d’arte e immagini che si verificano nei musei e nelle mostre, talvolta concentrandosi su esempi in divenire, come il caso del primo Palestinian Museum. Riflettendo su ciò che gli individui, le autorità e gli interessi privati scelgono di salvaguardare o di rivestire di un eccezionale valore, Abuarafeh articola la tensione tra ciò che viene incluso nel progetto di costruzione di una nazione e ciò che viene escluso, o nemmeno preso in considerazione. Il cortometraggio intitolato Am I the Ageless Object at the Museum? (2018) si inserisce in un progetto pluriennale che traccia parallelismi tra diversi spazi destinati alla conservazione e all’esposizione: il museo, lo zoo e il cimitero. Una voce fuori campo accompagna gli spettatori attraverso alcuni parchi zoologici in Palestina, Svizzera ed Egitto. Proprio come i musei, questi luoghi si conformano a uno standard in cui gli animali sono raccolti, ingabbiati, esibiti per il consumo del pubblico e assoggettati a dinamiche di potere impari tra chi osserva e chi è osservato. Alternati a immagini provenienti da musei di storia naturale, con i loro mammiferi impagliati e gli insetti spillati in teche di vetro, anche gli animali vivi finiscono con l’apparire come oggetti. Insieme a una critica implicita alle pratiche di collezionismo e al loro rapporto con nazionalismo e colonialismo, Abuarafeh presenta anche delle associazioni fantastiche, con zoo che si estendono oltre quanto è esplicitamente reso disponibile al pubblico. Nel raccontare ricordi d’infanzia sui segni zodiacali, sull’evoluzione degli ippopotami e sulla simbologia mitica della balena, la voce narrante immagina di essere essa stessa un grande cetaceo, esposto alla luce del sole e alla natura, come se quel corpo fosse anche il suo. – MW
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Noor Abuarafeh, Am I the Ageless Object at the Museum? (stills), 2018. Installazione video, tecnica mista, 15 min. Veduta della mostra, The Moon is a Sun Returning as a Ghost, Al-Ma’mal Foundation for Contemporary Art, Gerusalemme, 2019. Courtesy l’Artista; Fondazione Al-Ma’mal
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Arsenale
TAT S U O I K E D A
1928, Saga, Giappone – 2020, Tokyo, Giappone
Operando nelle immediate vicinanze di complessi militari e basi navali statunitensi in Giappone durante e dopo la Seconda guerra mondiale, Tatsuo Ikeda compone un vocabolario visivo che rifugge l’ordine e il realismo. Disegnando e dipingendo, soprattutto su carta, con l’utilizzo di materiali economici come cera, inchiostro, penna, matita e acquerello, Ikeda crea scene surreali in cui corpi mutanti si fondono con architetture quasi irriconoscibili su sfondi di disegni vorticosi, celestiali, fatti di linee astratte o senza gradiente. Quello ritratto da Ikeda è un corpo che entra ed esce da un buco nero, o che magari semplicemente esiste in un paesaggio postnucleare. Ci sono occhi che fissano, protrusi al di fuori dei corpi, vacui e smarriti, e orifizi increspati che creano l’illusione di passaggi a un altro stato dell’essere. Ikeda vive per quasi un secolo e plasma la propria carriera artistica intorno ai tumulti sperimentati in prima persona in seguito alle vicende politiche occorse fra Stati Uniti e Giappone, quali l’essere selezionato come pilota kamikaze a quindici anni (la guerra termina prima che possa essere mandato in una missione suicida), il periodo post-guerra atomica segnato dai continui test statunitensi nel Pacifico, e la rapida e tossica ripresa industriale del Giappone. Dopo la guerra, Ikeda si trasferisce a Tokyo e si iscrive alla Tama Art and Design School, dove si lega a gruppi d’avanguardia. Si unisce alle fila di una generazione di artisti giapponesi che realizzano opere fortemente espressive, cariche della volontà di rivendicare identità e cultura personali e contraddistinte da ideali politici marcatamente antimperialisti, antinazionalisti e pacifisti. La produzione artistica di Ikeda è costituita di molti capitoli, contraddistinti dalla realizzazione di serie sviluppate nell’arco di diversi anni e sempre in reazione o in relazione all’attualità. Uno di questi corpus di opere è intitolato Elliptical Space e viene creato tra il 1963 e il 1965 dopo il Trattato di mutua cooperazione e sicurezza firmato tra Stati Uniti e Giappone, che impegnava le due nazioni e difendersi reciprocamente se attaccate e che permetteva il perdurare della presenza militare statunitense in Giappone. Questo fatto demoralizza Ikeda, che sposta il proprio ambito di interesse dal più ampio paesaggio sociale all’esplorazione dell’anatomia e della coscienza umana a livello microbiotico. In questi dipinti la suggestione di pianeti orbitanti diventa un tutt’uno con forme corporee surreali, composte da centinaia di figure contornate che si incastrano come pezzi di un puzzle. Nella vasta produzione di Ikeda, le sue opere esprimono l’unicità dell’artista, la sua sensibilità e percezione dell’ordine naturale delle cose.– IA
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Tatsuo Ikeda, BRAHMAN: Chapter 3: Floating Sphere-2, 1977. Acrilico su carta, 39,5 × 39,5 cm. Courtesy Fergus McCaffrey, New York, Tokyo. © The Estate of Tatsuo Ikeda Tatsuo Ikeda, BRAHMAN: Chapter 4: Helix Granular Movement-4, 1979. Acrilico su carta, 39,5 × 39,5 cm. Courtesy Fergus McCaffrey, New York, Tokyo. © The Estate of Tatsuo Ikeda
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Tatsuo Ikeda, Elliptical Space 2, 1964. Inchiostro, pittura a olio, acquarello su carta, 33 × 41,9 cm. Collezione privata. Courtesy Fergus McCaffrey, New York, Tokyo. © The Estate of Tatsuo Ikeda Tatsuo Ikeda, BRAHMAN: Chapter 2: Space Egg-2, 1976. Acrilico su carta, 39,5 × 39,5 cm. Courtesy Fergus McCaffrey, New York, Tokyo. © The Estate of Tatsuo Ikeda Tatsuo Ikeda, Untitled, 1963. Conté, penna su carta, 39 × 30,5 cm. Courtesy Fergus McCaffrey, New York, Tokyo. © The Estate of Tatsuo Ikeda
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Arsenale
LIV BUGGE
1974, Oslo Vive a Oslo, Norvegia
Sin dall’infanzia l’artista norvegese Liv Bugge si trova in perfetta sintonia con la magia del vivere accanto agli animali. Cresciuta in una famiglia che praticava la corsa con i cani da slitta, Bugge ha trascorso molto tempo in un campo per l’addestramento cinofilo, trovando tra le decine e decine di husky i propri amici e compagni di giochi. Come racconta l’artista, grazie a loro ha imparato un modo di vivere basato sulla collaborazione e sulla comunicazione non verbale, maturando interesse verso la complessità di cicli vitali sovrapposti, temi i cui confini Bugge sperimenta nella propria arte, spesso nella forma di immagini in movimento combinate a elementi scultorei. In tutta l’opera di Bugge, la collaborazione è rappresentata accanto a strutture di potere e sistemi di controllo; la conversazione e il dialogo sono immaginati attraverso i sensi, come il tatto; i meccanismi che separano la vita umana da quella non umana e la società strutturata dallo stato selvaggio sono mostrati nella loro complessità. Alle volte, si scopre che situazioni a prima vista caratterizzate da vulnerabilità o conflitto non presuppongono necessariamente violenza: l’esperienza sensoriale tattile suggerisce piuttosto un rifiuto diretto dell’essere umano quale oggetto e soggetto primo di conoscenza e sentimento. La videoinstallazione intitolata PLAY (2019) presenta filmati 16mm che ritraggono un branco di husky siberiani. Le immagini sono mostrate in casse di legno dotate di proiettori. Queste strutture, che ricordano cucce per cani, sono disseminate sul pavimento senza determinare la logica narrativa dei filmati che contengono. Al contrario, restano indipendenti dai movimenti dei cani che, a loro volta, oppongono resistenza al confinamento predeterminato dagli schermi. Le riprese sono state effettuate in un campo scandinavo innevato con l’aiuto dei famigliari dell’artista. Tuttavia sono gli husky, e non gli umani, a essere al centro dell’opera. Siedono fermi, saltano, giocano e annusano. Si mordono a vicenda e puntano lo sguardo fisso dall’interno dei recinti. Vagano liberi dentro e fuori l’inquadratura. Rappresentata nella sua quotidianità e senza alcuna enfasi, la vita di questi husky suggerisce un modello di sopravvivenza diverso da quello dell’aggressione e della forza. Al contrario, ciò che determina il contenuto e della composizione dell’opera è un tacito rapporto di collaborazione tra umani e animali. – MW
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Liv Bugge, PLAY, 2019. Film 16mm trasferito su video HD, cucce per cani, europallet. Photo Jean Baptiste Beranger. Courtesy l’Artista
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Arsenale
ELIAS SIME
1968, Addis Abeba Vive ad Addis Abeba, Etiopia
Le astrazioni su larga scala di Elias Sime sono composte da migliaia di cavi elettrici, tasti di digitazione, microchip e componenti hardware per computer. L’artista inizia a concentrarsi sui materiali elettronici circa dieci anni fa, dopo una lunga carriera nell’assemblage e nelle installazioni architettoniche in Etiopia, suo Paese natale. Nella pratica artistica di Sime è costante la sperimentazione con i materiali di recupero. Solito operare con materiali da costruzione organici, come il fango o la paglia, e con filo sintetico da cucito applicato su tela per creare collage con tappi di bottiglia, plastica, pelle di animali e altri oggetti raccolti in diversi contesti nel corso del tempo, l’artista incorpora strumentazioni tecnologiche obsolete come naturale prolungamento di una pratica materica, utilizzando comuni oggetti di scarto. Sime è interessato all’intreccio di storie e vite umane che accidentalmente toccano e plasmano le sue opere. Le tre nuove composizioni realizzate per Il latte dei sogni (Red Leaves; due Veiled Whispers; tutte del 2021) sembrano derivare dalla pittura astratta a campiture di colore, ma inglobano anche materiali tecnofili, con le tonalità rosa, verde e viola che si potrebbero trovare in una cassetta di vecchi cavi di entrata e uscita. Da alcuni dei pannelli fuoriescono forme tridimensionali di piccolo formato. L’uso che Sime fa del colore, dei motivi e delle griglie è spesso una citazione di paesaggi aerei: definite distese di campi, strade e architetture come osservate da un velivolo o da un satellite. Le vedute naturali segnate dal lavoro e dall’avanzamento umano entrano a far parte del ciclo di cui parla tutta l’opera di Sime: le risorse della terra che, passando da una mano all’altra, cambiano forma. Coerente con l’incursione nella serie di materiali elettronici è anche la ricerca di Sime sugli antichi rituali etiopi dell’intaglio, della tessitura e della costruzione: l’artista è desideroso di porre in relazione una lunga tradizione di storia orale e tecniche vernacolari con oggetti contemporanei prodotti in serie che, allo stesso modo, presentano una densa stratificazione di informazioni, da come vengono manipolati fisicamente ai loro metadati. Gli assemblaggi multimediali di Sime si focalizzano sulla produzione di rifiuti da parte dall’essere umano, e lo fanno servendosi di tecniche artigianali specializzate che richiedono tempi estremamente lunghi. L’artista non forza ad affrontare temi ambientalisti, ma condivide la propria sincera fascinazione per l’intreccio tra la produzione naturale e sintetica dei materiali. Nel fare ciò, mostra la sua decennale preparazione tecnica e l’attenzione per motivi e colori, unitamente a sottili suggestioni figurative o realistiche, in grado di riunire i cicli vitali di centinaia di persone, spettatori compresi. – IA
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Elias Sime, Tightrope: Narcissism, 2017. Componenti elettronici di recupero, filo su pannello, 162,6 × 241,3 cm. Courtesy l’Artista; James Cohan, New York. © Elias Sime
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Arsenale
Questa pagina e pagina 544: TIGHTROPE: ECHO!?, 2020 (dettagli) Pagina a fianco: Elias Sime, TIGHTROPE: ECHO!?, 2020. Cavo elettrico e componenti di recupero, 365,8 × 320 × 3,2 cm. Photo Phoebe d’Heurle. Courtesy l’Artista; James Cohan, New York. © Elias Sime
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M E D I TA Z I O N E S U L L A S E C O N D A C R E A Z I O N E Achille Mbembe
In che cosa consiste la natura umana e, al di là di questo, che cos’è la vita? Che cosa ci rende esseri morali? Qual è il nostro destino sulla Terra? Per molto tempo soltanto teologi, metafisici e filosofi dell’esistenza sembrarono porsi simili domande. Questioni che, per quanto strano possa sembrare, oggi si ripresentano anche e soprattutto fra gli scienziati. La riflessione su come finisce la vita si è fatta più intensa nel contesto dei lockdown imposti dal Coronavirus e del numero di morti in costante crescita. Ma mentre in passato si trattava di stabilire se l’essere umano fosse soprattutto corpo o mente, oggi il dibattito verte sul fatto se sia materia e solo materia, o se, alla fine, sia solo una somma di processi fisici e chimici. La discussione verte anche su quello che può essere il futuro della vita in un’epoca di estremismi, e sulle condizioni in cui termina la vita. Corpo, materia e vita sono tre concetti ben distinti. Non è necessario aderire al Cristianesimo per comprendere che in ciascun corpo umano, nella sua unità organica, risiede qualcosa che non è soltanto materia. A questo qualcosa sono stati attribuiti svariati nomi da diverse culture e in diverse epoche. Qualunque siano le diversità culturali, la verità del corpo umano sarà stata quella di resistere a qualsiasi riduzionismo. Lo stesso vale per quello che potremmo definire il corpo, e persino la carne, della Terra. Il corpo della Terra è riconoscibile nella sua abbondanza. Ne è esempio
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tipico l’esplosione virale che stiamo attualmente sperimentando su scala globale. Agli occhi di molti, questo virus è la dimostrazione del potere pressoché infinito della natura, nel quale vedono un evento di portata cosmica, una premonizione di disastri a venire. Per altri, rappresenta la conseguenza logica di un mondo senza Dio, che accusano la modernità di avere iniziato. Per loro, questo mondo, apparentemente libero ma in realtà lasciato a se stesso e senza alcun ricorso, non ha fatto altro che soggiogare gli esseri umani alle costrizioni di una natura che si è ora trasformata in potere arbitrario. In realtà, l’assenza di Dio non è certo ciò che caratterizza il mondo di oggi. Né la presenza aggressiva e vendicativa di Dio, nella forma della violenza di un virus o di altre calamità naturali, costituisce il tratto distintivo dei nostri tempi. Il segno distintivo del XXI secolo è il ritorno all’animismo. Insieme all’escalation tecnologica, le trasformazioni del capitalismo hanno portato a un duplice eccesso: un eccesso di pneuma (respiro) e un eccesso di manufatti, la trasformazione di manufatti in pneuma (nel senso teologico del termine). Niente traduce questo eccesso meglio dell’universo tecno-digitale che è diventato il doppio del nostro mondo, l’incarnazione oggettuale del pneuma. La caratteristica distintiva dell’umanità contemporanea è quella di attraversare costantemente schermi per essere immersi in macchine dell’immagine, che nel contempo sono macchine del sogno. La maggior parte di queste immagini sono animate. Producono ogni sorta di illusioni e fantasie, a partire dalla fantasia dell’autogenerazione. Soprattutto, consentono nuove forme di presenza e circolazione, incarnazione, reincarnazione e persino resurrezione. Non solo la tecnologia è diventata teologia, è diventata escatologia. In questo universo, non solo è possibile dividersi in due o esistere in più di un luogo alla volta, e in più di un corpo o in più di una carne. In realtà, è anche possibile avere doppi, ovvero altri sé, un incrocio tra il proprio corpo e l’immagine del proprio corpo sullo schermo. Inoltre, attraversare gli schermi è diventata l’attività primaria dell’umanità contemporanea. Ci autorizza a uscire dai confini del corpo e a lanciarci in ogni sorta di mondo parallelo, compreso l’aldilà, senza rete di sicurezza. Nell’essere trasportata dall’altra parte dello schermo, l’umanità può essere presente a se stessa mantenendo contemporaneamente una distanza da sé. L’animismo contemporaneo è, inoltre, il risultato di una vasta riconfigurazione dell’umano e del suo rapporto con il vivente. Ha così inizio l’era della seconda creazione. Si tratta ora di catturare tecnologicamente l’energia del vivente e scaricarla nell’umano, in un processo che richiama alla mente la prima creazione. Questa volta, però, il progetto è quello di trasferire tutti gli attributi del vivente in componenti organico-artificiali dotati essenzialmente delle caratteristiche della persona umana. Questi componenti sono chiamati a operare come doppi umani. Mentre in passato l’animismo era ritenuto una reliquia dell’oscurantismo delle cosiddette “società primitive”, ora è compatibile con l’intelligenza artificiale, i supercomputer, i nanorobot, i neuroni artificiali, i chip RFID e i cervelli telepatici. Questa seconda creazione, tuttavia, è fondamentalmente profana. Procede attraverso un triplice processo di decorporazione, ricorporazione e transcorporazione che strumentalizza il corpo umano nel tentativo di trasformarlo in un veicolo di ibridazione e simbiosi. Questo triplice processo è sacramentale. È la pietra angolare delle nuove religioni tecnologiche. Si appropria delle categorie fondamentali del mistero cristiano, per meglio destabilizzarle, a cominciare dalla creazione
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stessa, dall’incarnazione, dalla trasfigurazione, dalla resurrezione, dall’ascensione, e anche dall’Eucaristia (questo è il mio corpo). Con la cibernetizzazione del mondo, sia l’umano che il divino vengono scaricati in una moltitudine di oggetti tecnologici, schermi interattivi e macchine fisiche. Questi oggetti sono diventati veri e propri crogioli in cui si forgiano visioni e credenze, le metamorfosi contemporanee della fede. Da questo punto di vista, le religioni tecnologiche contemporanee sono espressioni di animismo. Ma ne differiscono anche in quanto sono governate dal principio dell’artificio, mentre l’animismo ancestrale era governato da quello della forza vitale. Nell’animismo ancestrale, infatti, né il corpo né la vita esistevano senza aria, senza acqua e senza un terreno comune. Nei sistemi di pensiero precoloniali africani, ad esempio, la vita e il corpo, e di conseguenza l’essere umano, erano fondamentalmente aperti all’aria e al respiro, all’acqua e al fuoco, alla polvere e al vento, agli alberi e alla loro vegetazione, agli animali e al mondo notturno. Tutto era vivo, all’intersezione dei linguaggi. Questa porosità essenziale era ciò che determinava la sua essenziale fragilità. Si pensava che l’avventura umana sulla Terra si svolgesse nella realtà dell’aria e del respiro e poteva durare solo se si fosse creato un luogo per la rigenerazione dei cicli vitali. La vita consisteva nel mettere insieme assolutamente tutto. Era una questione di composizione e non di eccesso. Come luogo di nascita dell’umanità, l’Africa ha forse sperimentato più forze catastrofiche di altre parti del globo. Da ciò ha imparato che la catastrofe non è un evento che accade una volta per tutte, e poi se ne va dopo aver compiuto la sua macabra opera, lasciandosi dietro un mondo di rovine. Per molti popoli è un processo senza fine, che si accumula e si sedimenta. In queste condizioni, aprire canali per un mondo più respirabile potrebbe essere il fondamento di una nuova etica nell’era virale. Poiché l’era virale è il corollario dell’Antropocene, la trasformazione irreversibile degli ambienti e l’espansione di una nuova forma di colonialismo: il colonialismo tecno-molecolare. L’era del brutalismo, ovvero dell’ingresso forzato, è un’era in cui le macchine del sogno e le forze catastrofiche diventeranno attori sempre più visibili della storia. L’aria che respiriamo sarà sempre più carica di polvere, gas tossici, sostanze e rifiuti, particelle e granulazioni, insomma di emanazioni di ogni sorta. Invece di uscire dal corpo grazie a tecnologie di visualizzazione immersiva, si tratterà poi di ritornarvi, soprattutto attraverso gli organi più esposti all’asfissia e al soffocamento. Tornare al corpo significa anche tornare alla terra, intesa non come suolo, ma come evento che, alla fine, sfida fondamentalmente i confini degli stati. Intesa in questo modo, la Terra appartiene a tutti i suoi abitanti, senza distinzione di razza, origine, etnia, religione o anche specie. Non presta attenzione all’individuo cieco o alla singolarità nuda. Ci ricorda quanto ogni corpo, umano e non, per quanto singolare, porti su di sé e in sé, nella sua essenziale porosità, i segni non del diafano universale, ma della comunanza e dell’incalcolabilità.
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Achille Mbembe è docente di Storia e Politica presso la University of the Witwatersrand di Johannesburg e membro del Wi