Kritika n. 3

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KRITIKA Vol. 3 UN PO’ DI SANA ICONOCLASTIA (?)


2010 Litosette s.n.c. - Pedrazzi Editore ISBN


UN PO’ DI SANA ICONOCLASTIA (?) di Emanuele Beluffi

«Qualcuno dirà che non esiste più, con l'attuale inflazione, spazio culturale per un giornale d'arte. Eppure, malgrado l'imperversare (spesso inverecondo) di fogli e riviste, noi crediamo che un giornale come Kritika debba colmare un vuoto sempre esistito nel terreno artistico italiano.» Sostituite il nome Kritika con Flash. Sono le prime righe dell'editoriale vergato da Giancarlo Politi sul numero 1 di Flash Art, Giugno 1967, lire duecento. Anzi, Flash e basta, 'chè all'epoca si chiamava così. Lungi da noi l'attitudine velleitaria a scimmiottare epigoni culturali che non hanno ancora fatto il proprio tempo (per quanto mi riguarda, Flash Art è l'unica pubblicazione degna del settore, almeno sul territorio nazionale. E io, Giancarlo Politi, manco lo conosco). Non vi sarebbe ragione di competere con modelli già esistenti, dal momento che il brodo di coltura in cui fluttua Kritika è essenzialmente diverso. Ma lo dicevamo anche l'altra volta: si vuol colmare la lacuna del pensiero critico, in quest'epoca contrassegnata dalla penuria di pecunia e dalla crisi della critica. Benedetta sia la crisi, allora. Un momento storico, anche se con la “s” minuscola, in cui i prodromi del cambiamento sono in via di apparizione: è

in atto il salto generazionale della critica e della cura (m’autocito in modo impenitente e me ne compiaccio, anche Enzo Biagi si ripeteva sempre). Non vogliamo turlupinar nessuno, la giovane età di codesta ventura editoriale poteva giustificare gli scaracchi degl’inizi. Né coprir di contumelie vecchi tromboni in fin del conto inventati da noi stessi. Siamo nani cresciuti sulle spalle dei giganti (questa è l’ultima, giurin giuretta) e non vorremmo stare anche su altre parti invereconde del loro corpo. Insomma, non rompeteci la spalle e fateci passare. È il nostro momento dialettico, come per la Filosofia rispetto alla morte dell’Arte in Hegel. Anche se può sembrare fuori moda, le condizioni della cultura lo permettono. E, per restare in tema di considerazioni inattuali, quale argomento più inattuale dell’iconoclastia? Un rovesciamento concettuale dell’improba fatica consegnata ai posteri dal Ripa, quel Cesare misterioso e schivo vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento a Siena e redattore del mastodontico Iconologia (Iconologia overo Descrittione Dell’imagini Universali cavate dall’Antichità et da altri luoghi, per amor di filologia). Nonché ispiratore del sommo Erwin Panofsky, “inventore” dell’iconologia moderna col suo celeberrimo Il significato


nelle arti visive. Perché dedicare questo numero monografico di Kritika all’iconoclastia? Ma perché ci pare che le condizioni attuali della cultura visuale siano rette da una sovrastruttura ideologica, non necessariamente da intendersi nel senso deteriore del termine ossia marxiano, ma certamente caratterizzata da una cappa d’ineffabilità che tradisce la verità dell’attuale stato di cose.

- minacciano con ciò stesso una non piccola parte della civiltà). Immagini non dure ma «stupide», come le definisce Aldo Runfola nel bel testo redatto per Kritika, che «parlano lo stesso banale omicida linguaggio su cui altri hanno puntato il dito a proposito della ferocia nazista, prima, o dell’idiozia nei comunicati delle Brigate Rosse, poi, da Hannah Arendt a Leonardo Sciascia».

Mi spiego meglio. Anzi, lo spiega meglio il Flavio Arensi nel testo che leggerete più avanti (Iconoclastia alla rovescia) dove, tramite un accostamento fra parola e immagine, vengono rovesciati i termini di questioni filosoficamente rilevanti come il fallibilismo popperiano (cartina di tornasole dell’intrapresa scientifica all’accostamento alla verità) e l'estetica come forma del sapere sensibile: immagini nude e falsificabili da un lato e immagini orientate alla persuasione e all'opinione dall'altro. Immagini puramente estetiche che sono quanto di più "nudo" e lontano dalla verità si possa concepire (e anche il termine "nudo", solitamente associato alla verità, viene qui utilizzato piuttosto per riferirsi alla sua negazione).

Un’affabilità iconologica con cui l’attuale condizione della cultura visuale ha raggiunto lo Zenith: nessuna parola (la parola ora è diventata ineffabile), solo un’immagine, l’aereo che entra nelle Twin Towers, l’uomo che si getta nel vuoto immortalato da Richard Drew. Ciò che il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen ebbe l’ardire di definire «la più grande opera d’arte del mondo». E che la nostra Silvia Bottani, più sobriamente, trasforma nell’oggetto delle riflessioni sulla «cupidigia del visibile», nella congerie delle «iconoclastie» che caratterizzano l’epoca attuale.

Terminus ad quem per mezzo del quale realizzare un'iconoclastia alla rovescia, in cui è l'immagine a liberarsi del suo usurpatore, ponendo il ruolo della critica, una volta liberata dalle sovrastrutture ideologiche, in una condizione estremamente feconda.

Ma i termini della questione non sono univoci: se è vero che occorre liberar l’immagine dal suo usurpatore per lasciare spazio a una critica rinnovata in una cultura visuale rinnovata, non è men vero che occorre nutrirsi del dubbio scettico se non si vuol passare come dogmatici: per questo motivo ci si chiede se in fin del conto vi sia davvero l’urgenza di un po’ di sana iconoclastia.

Pensate all’immagine degli aerei che sventrano le Twin Towers, la cui affabilità è la loro stessa potenza iconografica, tale da aver segnato, nel senso non figurato dell’espressione, lo spartiacque fra due ere politico/culturali (culturali, perché quando i mozzorecchi antiatlantici minacciano il satana americano - e noi con lui

Ecco cosa significa esser «fedeli al presente», come diceva il compianto Luciano Inga Pin.

Forse l’attuale condizione della cultura visuale è il naturale sviluppo dello Spirito: sai mai che alla sua negazione possa subentrare una sintesi che la superi conservando quanto di buono ha prodotto.


In ogni caso, noi ci siamo. E abbiamo realizzato questo terzo numero di Kritika dedicandolo all’iconoclastia con dovizia paradossale d’immagine. Constatando amaramente che, non essendo ancora bravi come Flash Art, a noi Damien Hirst i crediti fotografici li fa pagare (e sono d’accordo con lui: pecunia non olet). Al quale, anziché con le parole («We don’t give a fuck», mi sarebbe

piaciuto rispondergli), abbiamo replicato col silenzio. Perché, come mi disse il nostro Editor in Chief, «pubblicare un articolo su Damien Hirst senza immagini è un’operazione iconoclasta che condivido, e non solo per ragioni economiche».


LA COLATA DELL’IMMAGINE. IL TRANSITO ICONOCLASTA VERSO L’ASTRAZIONE NELLA REPLICA “SIMULACRALE” DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA di Chiara Tinnirello

La negazione dell’immagine accade oggi nella sovraesposizione di conglomerati iterativi. Le immagini dimorano nei nostri spazi, soffocandoci con i vapori dell’apparenza diffusa. Si tratta di una proiezione infinita di fantasmi. Questa forma sfrenata dell’immaginale “ovunque” è stata descritta da più parti come stato iconoclasta dell’arte, ossia, come deposizione dell’arte a favore della rappresentazione completamente vuota, la réclame, il palcoscenico televisivo, la moda. Yves Michaud definisce “arte allo stato Gassoso” questo processo, pensandolo come arte diffusa nel dominio incontrastato dell’estetizzante - finanche anestetizzante sull’estetico. Guy Debord, prima, ne scorgeva i tratti effusivamente spettacolari, capaci però di convertire la sfrenatezza estetizzante in dominio situazionista dell’immagine. Jean Baudrillard constatava efficacemente il nesso tra iperrealtà ed estetizzazione come frutto dell’iterazione riproduttiva dell’immagine rispetto all’univocità della produzione artistica. Ma il tema dell’immagine senza forma, il debordamento pericoloso del sensibile sul non-sensibile (sull’Invisibile), si declina adesso in maniera totalmente difforme rispetto alla versione antica dell’iconoclastia che aveva caratterizzato il rapporto tra la cultura occidentale e la rappresentazione, non solo artistica.

L’iconoclastia originaria faceva divieto di “rappresentare” il divino, ciò che stava dietro e oltre il reale con i suoi fatti. L’arte rappresentava il pericoloso tramite dell’Invisibile rappreso in figura, il volto del sensibile che superava l’inapparenza dello sfondo rispetto alla figura. L’iconoclastia considerava dunque la potenza dell’immagine, e poteva combatterla con il potere di negazione della sua autorità incorporea. Nel tratto della nostra epoca questo impulso iconoclasta ha straripato i confini certi della tradizione, abbandonando il tema dell’Invisibilità divina a favore della riproduzione calcolata di “Astrazioni” visibili; giacché l’Invisibile è in-sensibile, mentre l’Astratto è visibile ma inconsistente, esso sfugge ai sensi e li circonda con le sue spire conglobanti, sussistendo propriamente “ovunque”. L’Astratto è oggi la controparte immateriale dell’immagine, come prima l’Invisibile divino. Ciò significa che il nostro “Astratto” è lo sfondo (senza fondo) dell’Invisibile e che dunque a esso dobbiamo rivolgere i nostri sguardi ciechi alla vischiosità dell’inapparente, la cui presenza però si manifesta nell’immagine diffusa. Tale Astrazione - pensiamo al Capitale che seppure non-visibile dispone dei margini di tutta la realtà possiede una controscena efficace nella risposta


contemporanea all’Invisibilità; essa ha superato e ammazzato Dio. Il tema dell’iconoclastia, infatti, supera i confini dell’arte per diventare il vero e proprio termine di paragone dell’idea stessa di realtà e, di conseguenza, di “rappresentazione”. La filosofia contemporanea, in particolare grazie a Gilles Deleuze e Pierre Klossowski, ha trovato la strada per valicare l’Astrazione irrappresentabile eppure tutta rappresentata, l’Iper-immagine nel cinema del mondo, attraverso un pensiero simulacrale, ossia, ateologicamente impermanente senza essere astratto e resistente alla pietra dura dell’Invisibile metafisico. Liberarsi di Dio, dell’Invisibile, infatti può significare ammazzare l’immagine - e ciò è, almeno in parte, avvenuto. L'arte richiama l'iconoclasta per natura, perché, da sempre, si costituisce attraverso un impulso anti-teologico che consiste nel creare immagini a dispetto e in vece di Dio. Ma se Dio è già morto, l’impulso creativo dell’arte che emerge dal fondo (invisibile) e lo s/fonda per ammazzare sempre e ogni volta Dio stesso, viene meno. Ciò che resta, lo si è visto, è l’immagine in colata, effusione senza Tipo, non “trattenuta” dai freni (eminentemente “teologici”) della forma. Si perde così la sfida del divieto che l’arte sempre superava attraverso la conformazione ben assestata dell’immagine, accade lo stato permanente dello “Spettacolo”, l’inceppo della creazione - o produzione - a favore della riproduzione indefinita di immagini nello schermo di una realtà propriamente “senza forma”. Con le parole di Jean Baudrillard: «Da molto tempo l’arte ha prefigurato la svolta che oggi è quella della vita quotidiana […]. Allora l’arte entra nella sua riproduzione indefinita: tutto ciò che si duplica in se stesso,

fosse pure la realtà quotidiana e banale, cade allo stesso tempo sotto il segno dell’arte, e diviene estetico. Lo stesso vale per la produzione, di cui si può dire che entra oggi nella sua duplicazione estetica, in quella fase in cui, espellendo qualsiasi contenuto e qualsiasi finalità essa diventa in qualche modo astratta e non figurativa»1.

L’arte cade, rappresentandolo essa stessa per prima, nel vortice della ripetizione che riproduce alcunché di astratto, una sequenza astratta di riproduzioni sul modello dell’industria. L’arte però, laddove smaschera ogni Origine, si manifesta altresì nella pura esistenza che dà origine effetti e prodotti, generando il piacere quasi cultuale della forma che è creazione senza coito e senza corpo, bensì invenzione e contagio della copia che genera un’immagine sensibile. Il simulacro post-teologico è, allora - lungo l’asse Deleuze-Klossowski - non già la mera ripetizione o copia di un’immagine, ma una natura non-individuabile, incapace di confondersi con altro, eppure capace di farsi altro e fare perdere le sue tracce; esso può essere afferrato soltanto nelle sue dispersioni e rintracciato nelle sue fughe: il simulacro è l’opera d’arte. La copia simulacrale, a dispetto dell’Iper-realtà, è calcata sul fondo dell’invenzione senza matrici attraverso una permanenza mobile di forma. L’ente in mostra, dopo aver lasciato dietro di sé la teologia e le sue manie ontounificanti, potrebbe adesso trovare la via della ripetizione più stringente inaugurando finalmente il processo della replicabilità delle immagini come “forme” estetiche. Abbandonati i lidi rassicuranti dell’Invisibile, gli artisti del simulacro potrebbero fungere da modelli per una nuova ontologia, e valicare la dispersione sfrenata dell’immagine


tipica dell’iconoclastia contemporanea attraverso una ripetizione “produttiva”, assimilata cioè al freno di una forma artificiale ma sensibile, effettuale ma permanente. Dello stato sfrenato dell’arte nella serie industriale resterebbe solo lo sfondo continuo della produzione, non più inceppata nella negazione della riproduzione, bensì calcata sul processo anomico della “creazione”.

Chiara Tinnirello è dottoranda in Scienze politiche, storiche e filosofico-simboliche presso l’Università degli Studi di Messina. Si occupa di estetica, filosofia politica e filosofia contemporanea. (Footnotes) J., Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it. G. Mancuso, Feltrinelli, Milano 2007, p. 89, secondo corsivo mio


ICONOCLASTIA di Aldo Runfola

L'immagine degli aerei che entrano nelle Twin Towers non è la più bella opera d'arte del mondo, come asseriscono Karlheinz Stockhausen e Damien Hirst, anche se quest’ultimo ha ritrattato mostrando umilmente i segni della contrizione. Se fosse la più bella opera d’arte del mondo, gli artisti dovrebbero cambiare mestiere e diventare terroristi a loro volta. Oppure: gli artisti considerano queste immagini come arte perché è nella natura dell’arte e di ogni artista essere terrorista? Seminare terrore nelle quiete stanze sarebbe una loro prerogativa solo in una visione desolatamente borghese dell’arte e del suo rapporto con la società. Una volta, nelle società così dette primitive, questo compito toccava allo sciamano, ed era connesso al passaggio dalla giovane età a quella adulta, prova del quale si dava attraverso la capacità di affrontare l’orrore, misurarne il peso sotto forma di dolore, nel corpo e nello spirito. Una eco di queste prove arcaiche estreme è rintracciabile anche nell’arte contemporanea: è la durezza, di cui parla Susan Sontag in un saggio sulla fotografia. L’immagine dell’aereo che penetra nel grattacielo avvolto in una palla di fuoco è un’immagine dura? A me non sembra, altrimenti dovrebbe ispirarci un sacro terrore, cosa che non è. Negli innumerevoli articoli di giornale, nei notiziari televisivi che variamente hanno commentato quei

fatti e le immagini relative, una delle parole che con maggiore frequenza ricorreva era la parola “burro”. «Gli aerei entrano negli edifici come se questi fossero di burro», «Affondano nelle possenti strutture d’acciaio come un coltello affonda nel burro». Ora, se c’è una parola in grado di definire le immagini dell’attentato è esattamente la parola “burro”: sono immagini di burro,


fatte di burro, immagini senza nessuna consistenza oppure con una consistenza facile a sciogliersi. Come definire questa mancanza di consistenza? Che cosa produce l’inconsistenza di dette immagini? Nel fatto, io credo, che esse si trovano in rapporto di abissale distanza rispetto alla vita di qualunque essere umano sulla terra. Che cosa ho io a che fare con quelle immagini, lei, tu, oppure loro, noi tutti? Niente di niente.

comparire del feretro sul sagrato; ma non vuol dire tacere sugli orrori.

Il processo di progressiva disumanizzazione dell’uomo vedi L’uomo è antiquato di Günther Anders - che aspira a trasformare se stesso in un macchina pari a quelle che produce, di cui si crede erroneamente padrone ma dalle quali in realtà viene dominato, la volontà più o meno inconsapevole di trasformarsi in un aggregato di dati tecnologici e di equazioni numericamente computabili (è la disincarnazione di cui ho letto anche in Ivan Illich, complici la perversione del messaggio evangelico a opera della Chiesa e più in generale l’istituzione medica nel suo complesso), questo processo non è ancora concluso. Sacche di resistenza sono perciò tuttora possibili e praticabili. Di fronte all’orrore contrapporre il silenzio, suggeriva lo stesso Illich: vuol dire dare al silenzio valenza e forza comunicativa, l’esatto contrario degli applausi al

L’immagine delle Twin Towers colpite dagli aerei, tutta la serie fotogramma per fotogramma che documenta le fasi dell’attacco fino al crollo definitivo, fatta eccezione per le minuscole figure che precipitano nel vuoto come proiettili o quelle dove compaiono sagome di esseri umani che invocano aiuto, sono immagini tutte tragicamente stupide, parlano lo stesso banale omicida linguaggio su cui altri hanno puntato il dito a proposito della ferocia nazista, prima, o dell’idiozia nei comunicati delle Brigate Rosse, poi, da Hannah Arendt a Leonardo Sciascia.

Non considerare come opera d’arte l’immagine delle Twin Towers in fiamme è una forma di resistenza contro lo strapotere delle immagini, anzitutto, per opporre e sostituire all’interpretazione consolidata, banale, una diversa, intelligente lettura delle stesse.

Aldo Runfola nasce a Palermo nel 1950. E’ un artista e vive a Berlino. Ha studiato filosofia all'Università Statale di Milano e si definisce un umanista in prestito alle arti visive. Lavora con media diversi, video fotografia testi ricami, esposti in varie personali e collettive a partire dal 1984. Affascinato e in eguale misura sospettoso tanto delle parole che delle immagini, ha girato un video dove avanza l'ipotesi che l'arte sia una costruzione teoretica. Gli piace leggere, scrivere e sciare quando nevica.


L’UOMO CHE CADE E ALTRE STORIE DI CECITA’. CONSIDERAZIONI SU UN’ICONOCLASTIA NECESSARIA di Silvia Bottani

Oh! Quanto giova la cecità degli occhi al veder chiaro! Gabriele D'Annunzio

Da dieci anni a questa parte, la mia vista ha subito un peggioramento allarmante. Non è chiaro se sia in atto un processo degenerativo inarrestabile, che colpisce in particolare l'occhio sinistro, o una perniciosa elasticità del cristallino destinata, si spera, a stabilizzarsi. La mia perdita della vista è direttamente proporzionale all’invasione delle immagini nel mio quotidiano, che proliferano come batteri in uno specchio d'acqua stagnante. Questo handicap fa sì che ogni sguardo sia per me un atto conseguente a una scelta. Se non indosso un correttivo artificiale, i miei occhi sono destinati a mancare la visione, a recepirla in maniera fallace. Ciò che all'apparenza è una menomazione, è invero un memento costante all'operazione critica di scegliere l’oggetto del proprio sguardo, una forma di resistenza alla passività del voyeur, alla tentazione smaniosa dell'iconofilo. Una cecità di diversa natura, invece, bianca, lattiginosa, mi sembra che si diffonda silenziosamente, velando gli occhi degli spettatori, come nell'omonimo romanzo di Josè Saramago . Una cecità ambigua, che anestetizza ma che al contempo racchiude un anticorpo salvifico.

Bulimia e anoressia, cupidigia del visibile e ripudio di esso. Iconoclastie, quindi: sostantivo plurale, molte e non una singola accezione, perché il nome è diventato cose, aprendosi a nuovi significati, sfaccettandosi. Rifiuto e volontà di distruzione delle immagini, non solo di quelle sacre, ma anche di quelle desacralizzate, iconoclastie dagli esiti diversi che sono la prova testimoniale di una ferita aperta. La storia dell'arte visiva degli ultimi venti anni è una storia di ipervisione. Il cinema, nella sua natura di spettro filmico e luogo per eccellenza della simulazione, ha intuito e portato alle estreme conseguenze questa maledizione dell'immagine che ci assedia. È stato al tempo stesso sguardo analitico e oggetto problematico; ha colto i segni di ciò che accadeva in tempo reale, come un sismografo, e si è fatto portatore di un virus, tramutandosi in elemento contaminante, andando ad abitare cellulari, computer, palmari, schermi metropolitani, supporti di ogni forma e natura. E gli spettatori, - ché l'Occidente e buona parte del resto del mondo possono definirsi ormai umanità spettatrice - felici di sottoporsi a una cura Ludovico, sono stati travolti da uno Tsunami visivo di cui si poteva solo presagire la portata. Uno pseudo-sapere che si dipana come radice vegetale, in maniera antigerarchica, fluido e rapido, e che trova espressione ideale nei link del web che aprono infinite porte e inducono a cercare informazioni compulsivamente, in una fame di conoscenza effimera e di vedere senza requie. Momenti in


cui il rumore è così forte che bisogna chiudere gli occhi, un rumore visivo che sovrasta tutto, immagini che si cannibalizzano in un flusso incontenibile di frame in continua germinazione. Partendo dal prodromico Videodrome del 1983, passando per Gummo, Minority Report, Gerry, Dolls, Inland Empire, Imago Mortis, Redacted, mentre decine di pellicole hanno dissezionato il corpo stesso del cinema e del contemporaneo, analizzando con spietata lucidità il valore dell'immagine, l'arte visiva dell’ultimo ventennio tracciava percorsi rizomatici, aggrappandosi al baluardo

del corpo come ultima ancora al reale, indagando i confini e le geografie umane, ibridandosi con la scienza; un’arte non sempre pronta a cogliere il dramma in atto, sovente ripiegata su se stessa, sovente autistica. L'atto del guardare implica il costituirsi di una relazione (con una cosa, un luogo, un oggetto), così come innesca un processo di conoscenza, seppure sommario. Se l'immagine rappresentata è vuota, priva di senso, se tutto diviene fantasmagoria, il processo di conoscenza si incrina, lo spazio tra il soggetto e l'oggetto dello sguardo si dilata innaturalmente e si verifica una scollatura di senso.

Regina José Galindo, Libertad condicional, 2009. Associazione Phaedora, Livorno, Fortezza vecchia. Courtesy prometeogallery di Ida Pisani, Milano/Lucca.


Cecità scelte o subite, abbagli e oscuramenti, iconoclastie rabbiose o ingordigia dello sguardo, l'arte beccheggia tra dicotomie violente. In tale annebbiamento si sono scorte però traiettorie, percorsi che portano il marchio a fuoco di una nuova iconoclastia, incarnata dalle poetiche di autori come Félix González-Torres, Christian Boltanski, Olafur Eliasson, Regina José Galindo, Wolfgang Laib, Janieta Eyre, Doris Salcedo, autori che scelgono percorsi ardui, problematici, testimoni di un rifiuto dell'immagine progenerata e conseguente scelta di decostruire radicalmente le strutture visive dell'arte. Dai padri Piero Manzoni e Vincenzo Agnetti, Franz Klein, Ad Reinhardt, Joseph Beuys, Mark Rothko, Rudolf Schwarzkogler, Emilio Vedova, Alberto Burri, Gerhard Richter, risalendo su su fino alla frattura di Duchamp, di Malevič, e del furore dadaista, ciò che sembra designare attualmente la differenza tra il flusso neopop, ipertrofico, gassoso d’immagini svuotate e la produzione d’immagini di senso è una forma di recuperata iconoclastia, un rifiuto primario dell’artista che non si concede allo spettacolo, alla messa in scena, per ricercare invece le categorie radicali del politico e del poetico. ore 03:40 – 9 giugno 2010 Ripensavo a The Falling man, un'immagine potente alla cui malìa non è possibile sottrarsi. Lo scatto di Richard Drew, celeberrimo, coglie un istante del volo suicida di un uomo che, durante attacco terroristico del Undici Settembre 2001, si butta dalla North Tower del World Trade Center. Apparentemente galleggiante nel vuoto, colto in una posa plastica da tuffatore, si staglia contro le geometrie minimaliste delle facciate di una delle Torri Gemelle . La fotografia in questione non è un'opera d'arte ma uno scatto accidentale, e questo toglie ogni scampo a chi guarda. L'immagine mi accompagnava da giorni e questa notte, improvvisamente, ho sognato Yves

Un homme dans l'espace! Le pientre del'espace se jette dans le vide!, Photo: Shunk-Kender (C) Roy Lichtenstein Foundation

Klein, impegnato nella performance Salto nel vuoto . Nella fotografia che documenta l’azione, Klein – che rifiutava la produzione di opere che rappresentassero il mondo secondo categorie predeterminate – appare sospeso, impegnato in un salto verso uno spazio satori, cercando l’immaterialità di matrice taoista che è senso e verità, perseguendo l’idea di assoluto attraverso un percorso di armonia scaturito dalla sua appassionata pratica dell’arte marziale. The Falling man è lo spietato opposto di quella fotografia, il doppio maledetto del volo kleiniano. Una caduta verso il nulla che rade al suolo ogni semantica, ogni dialettica, un'immagine che cancella tutte le immagini. Di fronte a tale potenza iconoclasta, solo


un'operazione etica ed estetica altrettanto poderosa può salvare il visibile dall'annichilimento. Un'iconoclastia concorde nell’assioma di base ma profondamente divergente negli esiti, che neutralizzi l'immagine superflua e cancerosa, e che ricostruisca un sistema di valori attraverso l'attività critica. Forse la via è chiudere gli occhi, perdersi in una nube di non conoscenza. Dal grado zero, ricominciare a vedere. Josè Saramago, “Ensaio sobre a Cegueira”, Caminho, Lisbona, 1995. Per l'edizione italiana si veda ”Cecità”, trad. Rita Desti, Einaudi, Torino, 1996 Lo scrittore statunitense Don Delillo ha scelto la fotografia in questione come ispirazione per il suo

romanzo Falling Man, pubblicato nel 2008, ma scritto all’alba dell’attentato e che, non a caso, racchiude tra i vari percorsi narrativi il personaggio di un performer che ripropone la caduta dell’uomo della Torre, buttandosi dai grattacieli di New York.

« Le Saut dans le vide », 5, rue Gentil-Bernard, Fontenay-aux-Roses, ottobre 1960. Azione di Ives Klein, foto di Harry Shunk.

Silvia Bottani vive e lavora a Milano. Critica, si occupa di arte contemporanea e cinema. Collabora con diverse riviste di settore e, come curatore indipendente, con gallerie e spazi pubblici.


ICONOCLASTIA ALLA ROVESCIA PER LIBERARE L’IMMAGINE DAL CRITICO D’ARTE di Flavio Arensi

Dopo duemilacinquecento anni in cui la parola è al centro della cultura euroasitica, esposta come l'ostia nelle antiche processioni, col seguito blando dei suoi profeti e sacerdoti, si dice l'Occidente1, viva una nuova epoca dell'immagine; tempo nuovo che segue il millenario studio del verbo e delle scritture non soltanto religiose ma sociali, scientifiche, culturali, dove ancora le fonti e le auctoritas primeggiano sullo scrupolo di veridicità. Nel conclave della parola scritta non conta l'onestà della ricerca ma la giustezza degli obiettivi, la loro adesione al sentire dominante e al suo ordine, poiché la scrittura lascia una scia eterna e rende solido il potere. Per converso l'immagine non può essere falsata, o almeno non lo poteva. Omero e Socrate scelsero di parlare per immagini, di salvaguardare la forza della visione dalla traduzione scritta, e così anche i Vangeli trascrissero a posteriori il pensiero icastico di Gesù - che non differì dai profeti biblici nella parola ma nell'azione, quindi nell'immagine della sua azione; a ben vedere tutte le grandi religioni si dotarono di libri a cominciare dai primi secoli dopo Cristo: libro e scrittura acquistarono così una dignità senza precedenti. Inni vedici e testi sacri degli zarathustriani si erano conservati per secoli nella trasmissione orale2, la loro

ordinazione scritta servì a regimentare i precetti e omologarli: tutti i bibla risposero all'esigenza di convalidare con la scrittura le immagini donate alla fede dai profeti, l'assoluto affanno di organizzare un canone unico per la comunità dei fedeli/discepoli. Platone, e mi pare lo abbia rilevato ottimamente il lavoro di Eric Alfred Havelock, accelerò la sostituzione fra immagine e scrittura; non a caso nell'opera dei Dialoghi rimane il sapore di una sapienza residua offerta per lampi iconici, ma priva della forza che dovevano avere i racconti di Omero, ossia una vera e propria schola vitae per le giovani generazioni chiamate a confrontarsi con gli eroi e gli dei, e con un preciso schema etico da mantenere nella vita quotidiana all'interno della comunità cittadina, introiettando immagini esemplari, simboli e segni. Anche Krishna dovette essere un insegnante di immagini e parabole, ma non di scrittura, tanto che i sadhu ancora oggi si ritirano nel piacere della meditazione e della visione, non nello studio delle scritture praticato invece dai monaci. Visione che è alla base della cultura precolombiana ancorché celata, come di quella africana, ugualmente resiste nelle sacche di antiche civiltà del nord, incorrotte nonostante le fatiche dell'Occidente per cambiarle. In Kamchatka, per esempio, benché nascosto resta inalterato l'impiego del fungo muchamor all'interno della


medicina magica popolare e gli ampi studi nella seconda metà del Novecento di etnbotanica insegnano senza possibilità di smentita che tutta la cultura precristianizzata visse il rapporto con l'invisibile attraverso il rituale sciamanico basato sulla ricerca della visione3. Quando dico che le immagini sono la verità mi riferisco a questo contesto, non certo al nostro tempo o alla nostra società, in cui la falsificazione è un elemento tanto reale da essere in alcuni momenti più forte della realtà stessa. Che senso ha dunque, nel ritorno dell'immagine, parlare di iconoclastia? Nessuno, tanto più che il problema mi pare risolto nelle istanze della postmodernità, che volenti o nolenti sono la vera grande innovazione del secondo Novecento rispetto alle avanguardie storiche. Da lì mi pare che non se ne esca, ed è tanto difficile spaludare da questi fanghi quanto più il secolo delle immagini trascina con sé la rigidità delle parole, usate a nota non affatto marginale per spiegare quello che dovrebbe avere di per se stesso la capacità dialogica di raggiungere l'utente finale (nessuno sciamano si piccherebbe di spiegare con l'alfabeto della realtà quello che ha visto nel viaggio ultraterreno, appunto nella visione, l'immagine vera). Nella filiera dell'arte l'utente è il visitatore che si pone in apertura davanti all'opera d'arte, al suo senso. Nel corso del Novecento sempre più spesso l'osservatore è stato chiamato a partecipare dell'opera, anzi, è stato chiamato a partecipare dell'immagine dell'opera d'arte, traslando quello che è il Principio di indeterminazione di Heisemberg, per cui l'osservatore cambia l'oggetto della sua osservazione, qualunque osservatore e qualunque oggetto siano.

L'iconoclastia non è più una soluzione praticabile filosoficamente, oggi; lo fu nel VIII secolo o nella ripresa protestante, ma adesso mancherebbe non di una riflessione teologica quanto di una funzionalità filosofica e pragmatica, forse resiste uno stimolo politico. Noi siamo sommersi dalle immagini, e sono per lo più immagini nude perché falsificabili, perché non vere, in opposizione a quelle degli sciamani, quelle dei canti eroici o delle tradizioni orali. E lo aveva fin troppo capito Joseph Beuys. Da noi l'immagine serve per convincere, non per rivelare, sono estetiche/esterne, non etiche/intime. Le immagini vere non sono mai puramente estetiche, ed è su questa base che leggo l'ampio lavoro di Ananda Coomaraswamy, uno studioso poco conosciuto a confronto dei soliti nomi triti e ritriti citati nei soliti testi dei soliti critici: se l'arte, come la società, coniuga le immagini soltanto all'estetica risulta difficile poter individuare – nel loro flusso continuo – quella che effettivamente rappresenta qualcosa. Un punto non secondario sarebbe poi rilevare chi deve promuovere e concludere la lotta iconoclasta: restringendo il campo al solo settore delle arti visive non competerà sicuramente agli artisti che le immagini contribuiscono a produrle, non i poeti, non i santi. Il popolo è disinteressato al problema almeno fintanto non gli impedirà di mangiare, dormire e cacare in pace. Restano i critici. Ecco appunto, i critici, quale il loro ruolo nella iconoclastia contemporanea? Sicuramente quello di inutile sovrastruttura che non praticherà mai alcuna cesura con l'immagine: non si troveranno mai iconoclasti fra costoro, vorrebbe dire smettere di succhiare il sangue dall'abbondante collo dell'arte. Se l'immagine porta in sé la verità è comunicata e comunicabile al pubblico, se invece è deteriorata o puramente estetica ha necessità di


un appoggio critico per raggiungere i suoi destinatari meno colti. Non credo di dover qui entrare nel merito di cosa sia un'opera d'arte oggi, perché questo lavoro immane lo ha già condotto il filosofo americano Arthur Danto partendo dalle Brillo box di Andy Warhol. Resto al più banale livello della critica: criticare significa scegliere, è un passaggio su cui insisto spesso perché mi pare che tutto si faccia fra i critici tranne che scegliere, e le mostre collettive lo dimostrano. Se iconoclasmo dev'essere, che sia delle sovrastrutture dell'immagine e non dell'immagine tout court. Togliere le sovrastrutture significa eliminare tutto quello che ne soffoca la verità, dunque il suo commento. Il lavoro del critico o del curatore, per esempio, dovrebbe essere quello di mettere in evidenza l'oggetto d'arte e non se stesso, perché l'immagine d'arte si presti meglio alla lettura, perché l'opera sia posta in condizione di comunicare con tutta la sua verità, con la sua forza come con tutta la sua debolezza. Aggiungere alla personalità dell'opera quella del critico o dell'allestitore-architetto spesso altera la verità dell'immagine, ne costruisce un riflesso falsato. L'unica vera iconoclastia dovrebbe portare alla riduzione dei termini eterologi dell'opera d'arte: devono sparire gli autori dell'immagine, devono sparire gli elementi allestitivi che espongono l'immagine d'arte, deve sparire il critico che non può sopraffare ma accompagnare

l'azione dialogica dell'immagine, rendendola più chiara e limpida possibile, come facevano gli aedi antichi ripetendo le gesta degli eroi affinché ciascuno potesse diventare eroe, cogliere il senso delle storie epiche. Il critico sceglie le immagini, ha questo ruolo fondamentale. Come curatore di mostre le espone, e quindi deve essere più discreto possibile. Gli anni Ottanta sono stati l'acme di una iconobulia egopatica del critico che è diventato protagonista almeno come - se non di più - dell'artista. Negli anni Novanta questo sistema ha virato verso una variante pop e più casalinga, andando in crisi col nuovo secolo. L'iconoclastia del 2000 sarà forse alla rovescia, servirà a liberare le immagine dalle loro sovrastrutture, sarà l'immagine a liberarsi del suo usurpatore. E se dovessimo scoprire che si può vivere senza opere scritte, come prima di Platone, tanto meglio, risparmieremo finalmente in cataloghi, in tanti cataloghi inutili. 1 Per Occidente qui intendo non il comprensorio geografico ma ideologico in cui la tecnocrazia domina incontrovertibilmente. 2 In tal senso basta citare gli studi di Franz Altheim, Mircea Eliade, Ioan Petru Culianu, tre eminenti studiosi di storia delle religioni. 3 Qui è utile richiamare gli studi di Gordon Watson, Richard Evans Schultez, e per certi versi il grande e laborioso saggio di John Allegro sul fungo sacro e la croce, benché certe forzature siano state negli anni ridimensionate.

Flavio Arensi collabora con enti pubblici e musei per mostre monografiche e collettive. Dal 2003 dirige gli spazi di Legnano (SALe) e attualmente lavora per ridefinire il programma espositivo della Mole vanvitelliana ad Ancona. Giornalista dal 1997, scrive su Libero e ha pubblicato con diverse case editrici, fra cui Skira e Allemandi.


UN PO’ DI SANA ICONOCLASTIA (?) BREVIARIO PER “INDICAZIONI” INTORNO A UN FENOMENO AMLIATO di Matteo Bergamini

Iconoclasta: Chi esercita una critica demolitrice e sovversiva nei confronti dei principi, delle idee, delle convenzioni che regolano la società. «…Le culture “iconofobe” distruggono le immagini, a volte sacre, a volte tutte le immagini, perché non le amano. Le temono»1. Piuttosto che iniziare questa dissertazione dall’iconoclasta Platone, per cui l’immagine non rappresentava altro che la copia di una copia, ovvero il terzo passaggio, illusorio, di quello che aveva ideato la mente umana, mi butterò a bomba nel Novecento, anzi, nel Duemila, nella manifestazione più evidente del fatto che l’iconoclastia, in senso assoluto, non può esistere. I due aerei che si infilano nelle torri del World Trade Center ormai quasi dieci anni fa ne sono la prova lampante: strategia del terrore di frange estremiste, quello che si colpisce è il simbolo dell’intero mondo occidentale ma, invece di distruggerne la potenza, l’effetto è contrario: dall’implosione del cuore pulsante di Manhattan viene generata un’icona di dimensioni colossali, l’ultima possibilità di un atto performativo, l’opera d’arte “finale” come la descrive Jean Baudrillard al domani del disastro nel saggio Tower Inferno. Un’immagine destinata a vagare nell’aria per una moltitudine (infinita?) di anni ancora, la cui potenza è stata moltiplicata esponenzialmente dalla riproduzione in

loop attraverso i canali televisivi, la rete web, gli scatti fotografici. La reiterazione del disastro, dell’atto più infame, soverchiatore e iconoclasta per eccellenza ha generato le bolle magiche che hanno messo a fuoco, da un lato, la potenza infinita della potenza ferita, dall’altro, la fisicizzazione di un concetto come il “terrore”, scatenando una guerra astratta contro un lemma. La società delle immagini contro l’iconoclastia. Peccato che spesso, in entrambe le direzioni, si siano perse le tracce dell’una e dell’altra frangia, sepolte sotto la coltre incessante dei notiziari. Tra le due torri aveva danzato clandestinamente, nel 1974, sospeso su un cavo metallico a più di quattrocento metri d’altezza l’equilibrista Philippe Petit, probabilmente un attendibile e possibile iconoclasta, destinato a fuggire le regole e a regalare immagini incredibili, quelle immagini che non appartengono al crollo delle Twin Towers, spettacolo dell’orrore mediato in diretta televisiva mondiale, ovvero filtrato dunque percepito come simulazione e intuito da Baudrillard come “definitivo” processo dell’arte. Happening perfetto. Passando oltre, Paul Virilio nel saggio Città Panico riporta: “Victor Hugo scriveva, vent’anni prima del barone Haussmann: ‘Un giorno o l’altro si distruggerà


Notre-Dame per ingrandire il sagrato o si spianerà Parigi per ingrandire la pianura dei Sablons’2. Non solo si distruggono icone perché le si temono; non solo si distruggono immagini per sabotarne il pensiero, ma si distruggono soprattutto le percezioni per sostituirne la portata. Accade in tutti gli stati dove vige un regime o dove si impone una politica dell’immagine. Si spazza via la storia per la propaganda; si elimina la cultura per ingaggiare una battaglia ad armi impari con una massa popolare che è sempre destinata a perdere. Viviamo in continuazione con lo spettro di un’iconoclastia che non solo rasenta la sostituzione (perché in Occidente non si parla mai di odio) delle immagini, ma che è reale volontà di sovvertimento delle forme della conoscenza, della cultura, delle idee a favore di uno spettacolo diffuso. Il concetto di “spettacolo diffuso” probabilmente esce dalle orecchie degli addetti ai lavori, di chi si interessa di alcune questioni, di chi osserva l’andamento di questo contemporaneo che è stato definito fluido, liquido ma che forse, in realtà, è più solido che mai nella pratica della surrogazione e nell’annientamento delle coscienze. L’iconoclastia di regime punta, ovviamente, alla proliferazione di immagini facenti capo a una classicità morale e famigliare: madri impegnate, uomini sportivi e bambini al Kinderheim. L’iconoclastia delle frange dissidenti, diverse o impegnate si circonda di altri valori che passano per mani bianche che stringono mani di colore, per bambini raggruppati in base al criterio “uno per ogni etnia” o attraverso affettuosità gay. Un po’ di sana iconoclastia, ma quale? Non vi è speranza di incontrare l’iconoclasta. Non esiste più o forse, addirittura, non è possibile la sua esistenza: in senso lato

Rottame di Pontiac - Jim Ballard: Crashed Cars. Atrocity Exhibition - 4-28 Aprile 1970 - Londra

questo fenomeno viene ben espresso da Georges Didi-Huberman che nel saggio Immagini malgrado tutto, a partire dall’indagine di quattro brandelli di pellicola fotografica scattati dall’interno di una baracca di Auschwitz, sviluppa un’affascinante teoria sul potere dell’immagine, unica arma e unico modo per le vittime di “contrastare” in presa diretta, con l’ausilio di un documento di conoscenza, il più grande e odioso piano iconoclasta-etnico che l’umanità ricordi. Nulla di artistico nelle quattro immagini superstiti, nulla


di spirituale ma il documentario mostruoso, tagliente, senza speranza, esautorato di ogni estetica e di ogni parola che racconta silenziosamente il massacro, la macelleria quotidiana dell’identità. La spersonalizzazione. Poco importa se l’immagine non sia sufficiente a documentare interamente la realtà dell’orrore, ma spesso basta davvero un brandello; il resto è solamente ripetizione, reiterazione pornografica: ecco il destino “visivo” delle Twin Towers quasi sessant’anni dopo l’olocausto. Come dire: la realtà basta a sé stessa, e i campi di sterminio nazisti custodiranno per sempre, nonostante tutto, il loro segreto, la loro immagine “interna” che malgrado le parole scritte, le immagini documentate e rubate potranno restare impresse solo tra chi ha vissuto in prima persona l’atrocità del ghetto (o dell’implosione del simbolo dell’Occidente). È invece ancora Baudrillard, in America ad occuparsi dell’osceno e degli ologrammi a esso correlati, alla tensione di immagini che identificano l’atteggiamento di interi gruppi sociali persi nell’allucinazione della società dei consumi, nel respiro corto di un sabato sera di provincia passato a far caroselli in auto la cui antecedente azione è stata passare la mattinata, nel sole e nel silenzio estivo, a lucidare la carrozzeria per poterla mettere in mostra. Il sociologo francese tratta con estrema acutezza l’ignavia dell’uomo contemporaneo in preda all’apparizione di un orgasmo post-post moderno, sopraffatto dai Miti d’Oggi, per citare il vecchio e quanto mai attuale saggio di Roland Barthes.

J.G. Ballard, che notoriamente scrivendo riusciva a giocare con il fuoco, già nel 1973 con Crash, preconizzò un appagamento sessuale derivato dalla violenza fisica delle immagini, per poi indagarne le conseguenze in altri caustici scritti superato il decennio della filosofia edonistica. La carica di assoggettamento alle immagini dello spettacolo appare ancora più virulenta di fronte alla definizione della pratica del body building come attività erotica: «Masturbazione asessuata, nella quale l’intera muscolatura del corpo simula una porzione di tessuto erettile. Ma l’orgasmo sembra rimandato all’infinito»3. Probabilmente, essere iconoclasti appare oggi come l’adeguamento a una serie di codici. Dopo l’abbuffata stagnano una serie di rappresentazioni di nulla, concettualmente vuote ma pur sempre immagini. Probabilmente l’iconoclastia è il nuovo reverse della società dello spettacolo. Dopo l’orgia, come ipotizzava Jean Baudrillard ne La trasparenza del male, resterà ben poco di visibile: primo perché ci si trova in una fase di esposizione completa, come guardare il pieno sole in un pomeriggio estivo (anche in questo caso però si formano macchie, immagini nebulose sulla retina che perseguitano la percezione visiva per qualche minuto per poi dissolversi), per cui ci si trova a dover ricostruire a partire da un accumulo e non da una tabula rasa che quantomeno determinava un’assenza, la disintegrazione di codici naturalizzati. Inoltre non si può tralasciare un’iconoclastia sociale, doppiamente subdola, in grado di essere ancora più potente delle immagini “macchiate” che si propone di occultare: «Il Negro, l’handicappato, il cieco e la prostituta diventano colour people, disabled, non vedente e sex-worker: essi devono essere riciclati come denaro sporco. Ogni destino negativo dev’essere ripulito da un


trucco ancora più osceno di quel che vuole nascondere»4. In un certo qual modo Thomas Ruff con i suoi scatti sfuocati su scene pornografiche mima un po’ questa situazione: l’osceno viene rivestito di una pellicola opaca, il pornografico è occultato ma la risultante potrebbe essere l’ingresso di un sintomo voyeuristico doppiamente potente nell’immagine: tutto è perfettamente riconoscibile macroscopicamente, ma la percezione si fa scopofilia: in entrambi i casi, dichiaratamente o subdolamente l’immagine ricomposta o distrutta resta sul limite, protrae il suo essere perturbante. Passando sull’ennesimo versante, la lezione più brillante intorno all’iconoclastia contemporanea come rifiuto a una condizione determinata e come epifania di una svolta, di un nuovo corso degli avvenimenti, nel suo spargersi capillarmente tra società e socialità, viene descritta da Pier Paolo Pasolini in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 7 Gennaio 1973, intitolato Contro i capelli lunghi. Vi si narra l’incontro, anzi, la “visione”, a metà degli anni Sessanta, di due giovani “capelloni” nella hall di un albergo di Praga: una scena descritta con occhio di attento regista, all’interno della quale i due protagonisti attraversano l’atrio della struttura, siedono per qualche minuto al centro della sala circondati dagli sguardi degli astanti ed escono da questa “inquadratura” senza mai proferire parola, usando semplicemente il linguaggio del corpo e dei loro capelli lunghi: «Noi siamo per voi un’Apparizione. (…) Esercitiamo il nostro apostolato, già pieni di un sapere che ci colma e ci esaurisce totalmente. Non abbiamo nulla da aggiungere oralmente e razionalmente a ciò che fisicamente e ontologicamente dicono i nostri capelli. (…) Per ora è una Novità, una grande Novità, che crea nel mondo, con lo scandalo, un’attesa: la quale non verrà tradita»5.

Un linguaggio dunque senza verbo e senza lessico che si apprestava a rivoluzionare un passo, un andamento politico nell’Europa del Sessantotto. Tralasciando l’interesse di Pasolini per la natura interscambiabile di questo movimento nel rivolgersi alternativamente a “destra” e a “sinistra”, in questo caso è quanto meno fondamentale sottolineare la grandiosità di un’iconoclastia creata attraverso l’interposizione di un’immagine del corpo, un corpo che diviene sociale: non dimentichiamo che sono gli anni in cui l’avanguardia viennese si ribella alla sonnolenza dello stato con l’Azionismo, gli anni in cui Gunter Brus dopo la sua “”passeggiata” nelle strade di Vienna, dipinto per metà di bianco e per metà di nero, viene accompagnato al commissariato. Come specificato poco sopra, però, si tratta di pratiche che, seppur mai sopite, sono state sepolte da quintali di bulimia, magma difficilmente controllabile che, nonostante attualmente si provi ad arginare, resta ben presente nelle zone invase. L’arte che mima un’iconoclastia con il vuoto pneumatico di forme e con la “noncuranza” (perché curare presagisce un’attenzione verso le “immagini” che l’iconoclasta “curatore contemporaneo” deve, a torto, dimenticare) non può nulla contro lo spettacolo diffuso perché figlia della stessa allucinazione che riempie; un finto svuotamento destinato a non togliere nulla ma, nel migliore dei casi, ad illudere. L’iconoclastia annulla se stessa con il suo stesso spirito: nemmeno il De Immundo di Jean Clair riesce a convincere nella sua polemica contro le immagini “aberranti” che mimano thanatos nella sua veste più volgare, perché per essere davvero iconoclasti non solo probabilmente bisogna distruggere le immagini, ma è necessario anche dimenticarle. Abbiamo aperto con il disastro più trasmesso della storia imputato al regime islamico


talebano: poco più di trent’anni fa, dagli stessi territori in seguito occupati dell’Afganistan e più precisamente della valle di Bamiyan (ovvero quella zona a circa trecento chilometri da Kabul dove nel marzo del 2001 sono stati fatti saltare i due immensi Buddha scavati nella roccia) Alighiero Boetti confessava: «In tutti i tempi e i luoghi, l’essenziale dell’arte è un’immagine frontale: foto, ex voto, calendario o bassorilievo gigantesco, opera eterna e fragile, comunque un’icona eletta»6. Per approfondire il tema, oltre ai volumi citati nelle note si consiglia: Jean Baudrillard, America, SE, Milano 1998 Zygmunt Bauman, Modernità Liquida, Laterza, Roma-Bari 2002 Georges Didi Hubermann, Immagini malgrado tutto, Cortina, Milano 2004 Tiqqun, Elementi per una Teoria della Jeune Fille, Bollati Boringhieri, Torino 2003 Tiqqun, Teoria del Bloom, Bollati Boringhieri, Torino 2004 Paul Virilio, L’arte dell’accecamento, Cortina, Milano 2007

Matteo Bergamini, critico d’arte e curatore, vive e lavora a Milano. È collaboratore per le riviste Juliet, Con-fine, Ddn Free e Kritika.

Maria Bettetini, Contro le Immagini, Le Radici dell’Iconoclastia, Laterza, Roma-Bari 2006, p. V 2 Victor Hugo, Cose Viste, tr. It. Editori Riuniti, Roma 1985 in Paul Virilio, Città Panico, Cortina, Milano 2004 3 Progetto per un glossarietto del XX secolo, Zone, Nov. 1992 in J.G. Ballard, Shake, Milano 1994 4 Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina, Milano 1996 5 Pier Paolo Pasolini, Contro i Capelli lunghi, in Scritti Corsari, Garzanti, Milano 1975 6 Annemarie Sauzeau, Shaman Showman Alighiero e Boetti, Sossella, Roma 2006 1


INDAGINE SUL SENSO DI UNA NUOVA ICONOCLASTIA di Laura Fantini

Quale differenza intercorre tra icona e immagine? Quando un’immagine raggiunge lo status di opera d’arte e quando rimane a livello di icona? Viviamo davvero nella “civiltà dell’immagine”? Non sono una filosofa ma una critica d’arte che ha quelle conoscenze di filosofia, semiotica, linguistica e di Gestaltpsychologie, che le consentono di tracciare un discorso più intrinseco all’arte e non solamente all’estetica. Voglio iniziare da ciò che in apparenza è il dato più banale perché ne parliamo in continuazione: l’immagine. L’immagine è essenzialmente una rappresentazione di un’idea. Questa rappresentazione può essere mentale o “reale”: nel primo caso diamo vita all’immaginazione, nell’altro a realtà grafiche o segniche, che chiamo così per non definirle con leggerezza opere d’arte. Utilizzo il termine “segno” per indicare la traccia dell’immagine, consapevole della netta distinzione che la separa dal segno, formulata da Cesare Brandi in un bellissimo saggio 1 nel 1960 . L’uomo ha iniziato a disegnare fin dall’epoca preistorica sviluppando, insieme alla rappresentazione grafica, una proto-coscienza artistica. Ma cosa differenzia un segno che vuole rappresentare un bisonte da un bisonte disegnato? Cosa dà lo statuto di opera d’arte a un’immagine? Nel primo caso ci troviamo davanti a un’icona, nell’altro a un’opera d’arte; nel primo caso il segno è qualcosa “che sta per qualcos’altro” in una data

circostanza e quindi ha senso solo se riconosciuto all’interno di un codice dal quale è nato (per questo motivo lo utilizzerei come sinonimo di icona). Nel secondo caso l’immagine oltrepassa la cortina del fenomeno, va oltre le regole dei codici linguistici e forma un mondo a sé riconosciuto dalla coscienza dello spettatore o, per dirla in altri termini, dall’empatia indotta. Un’icona non è necessariamente un’opera d’arte, così come un disegno o un dipinto non sono sempre in senso stretto “opere d’arte”. Qui entra in gioco un’altra riflessione: come spiegare il passaggio dalla traccia, dall’immagine all’opera d’arte intesa come realtà altra? Da sempre l’uomo si dedica alle raffigurazioni visive, ma non sempre queste sono state percepite consapevolmente come opere d’arte. È ben noto che per arrivare a ciò si è dovuto aspettare il Rinascimento. La storia è lunga e la rappresentazione è arrivata in pochi secoli fino all’astrattismo, che non è altro che un grido dal duplice aspetto: cerco di arrivare all’arte più pura in assoluto, che non abbia alcun legame con la realtà (immagine?), che sia pura epifania, che sia e basta. E che dall’altra parte è la manifestazione estrema di un pronunciato nichilismo individualistico. Voglio tenere a latere tutto ciò che ha a che fare con la nascita del mito dell’artista (vedi Nati sotto Saturno e La


leggenda dell’artista 2), perché entreremmo in un campo sconfinato, e tenermi più strettamente nell’ambito dello statuto dell’opera d’arte come creazione umana che genera a sua volta una realtà altra, quella del mondo sovrasensibile dell’arte. L’immagine, per diventare opera d’arte, non deve essere antinaturalistica, bensì sublimare la realtà fenomenica. In questo senso, Brandi ci aiuta molto: la costituzione d’oggetto e la formulazione d’immagine rimangono, a mio avviso, i capisaldi della nascita di un’opera d’arte. Ed è proprio in questa direzione che mi servo del termine “immagine” contrapponendolo a icona, sebbene in semiotica siano spesso intercambiabili. Trovo molto pertinenti le parole della studiosa Ave Appiano a riguardo: «L’arte figurativa è anzitutto immagine composta di “percetti” (cioè di prodotti della percezione visiva) e di strutture che ricostituiscono “modelli” (cioè di forme della rappresentazione della realtà) presenti nel pensiero»3 . L’icona, invece, veicola sempre un messaggio, è strettamente legata a un significato, e non hai mai senso all’infuori di un sistema di comunicazione. Viviamo allora nell’epoca dell’immagine? Non credo. Ci sono state epoche che vivevano nel continuo artificio. Penso a certi aspetti del Barocco, dove gli apparati effimeri erano all’ordine del giorno, oppure alla vita di corte in Francia nel Sei-Settecento, o all’epoca vittoriana, o, persino, alla mitizzazione del corpo nelle dittature. Cosa è cambiato oggi? Intendo negli ultimi venti anni. Non posso non citare la globalizzazione, ma non tanto una globalizzazione dei contenuti quanto una globalizzazione del pensiero, la cosiddetta omologazione, parola quasi caduta in disuso. Un’omologazione che tutto irrigidisce e che paralizza il pensiero.

Siamo una civiltà che sta perdendo il contatto con le immagini. Viviamo nell’iconolatria, nell’appiattimento semantico tra immagine e significato che può essere solo di una banale icona (naturalmente da questa terminologia escludo le icone sacre). E nella società dei simulacri, della prolificazione di segni lontani dalla realtà, se vogliamo scomodare anche Jean Baudrillard. Dunque, un ritorno all’iconoclastia ha senso in questa direzione. La nostra non è una civiltà delle immagini ma una civiltà che tende a iconizzare tutto e tutti, a indicare ogni cosa. In realtà ci stiamo allontanando dalla cultura dell’immagine. Nell’iperattività dell’occhio, continuamente sollecitato e vittima di un’overdose di fotogrammi senza sosta, l’immagine, paradossalmente scompare. La percezione dell’immagine svanisce e al suo posto persiste una gelida icona: solo superficialmente nella nostra retina assorbiamo immagini. A venire meno è invece l’empatia, quella conoscenza fatta di emozioni, testa, corpo e memoria che ci aiuta ad innalzare un’immagine a opera d’arte. Il punto: immagine come icona e immagine come opera d’arte. Abbiamo bisogno delle icone, di quell’autoreferenzialità che esse incarnano, e molta “produzione artistica” recente è sovraccarica di questa autoreferenzialità. Mi occupo di arte da un po’ di tempo e sento di interessarmi di un campo difficilissimo, in cui gli artisti sono milioni, in cui l’artista si mescola con il grafico, l’architetto, il fotografo, il regista. Conosco artisti che non rientrano in nessuna categoria, non perché siano talmente bravi da oltrepassare lo steccato, ma perché si sono ritrovati “per caso” a fare gli artisti. A volte hanno studiato, altre no: costoro “fanno” qualcosa, hanno idee, ma non hanno nulla di quelle caratteristiche che permettono a un’idea di diventare un’opera d’arte. Non posso augurarmi una vera iconoclastia perché senza


immagine non c’è arte; è vero, però, che se per “iconoclastia” scegliamo il significato non tanto di “distruzione delle immagini” ma di “distruzione delle icone”, dei modelli statici, dell’assenza di empatia e di scambio culturale tra noi ed esse, mi trovo perfettamente d’accordo. E in queste righe non ho voluto sconfinare in settori ultra noti della pubblicità, del cinema, della televisione o di internet, perché era mio interesse entrare nello specificità dell’arte. Perché, a forza di parlare di immagine e di “età dell’immagine”, dimentichiamo completamente che chi si occupa di arte e di artisti si sta occupando di un’altra cosa.

Laura Fanti è storica e critica d’arte, cultrice della materia in Storia dell’arte moderna all’Università di Roma La Sapienza. Scrive sulle riviste Espoarte, Juliet, Histara e Nuova Museologia. Studia in particolare il Post-Impressionismo, il Simbolismo, la fotografia artistica, tutte le forme di scultura, da quella più minimal alla più global, dove si intrecciano arte, ambiente, politica e ricerca di una nuova ecologia.

1 Cesare Brandi, Segno e immagine, Il Saggiatore, Milano, 1960 - Aesthetica, Palermo

1986. 2 Rudolf Wittkower and Margot Wittkower, Born under Saturn: the character and conduct of artists: a documented history from antiquity to the French Revolution, Random House, New York 1963 [trad.it Nati sotto Saturno, Einaudi, Torino 1996]; Ernst Kris e Otto Kurz, Die Legende vom Künstler. Ein historischer Versuch, Krystall Verlag, Wien 1934 [trad. it. La leggenda dell’artista, Bollati Boringhieri, Torino 1980]. 3 Ave Appiano, Come si legge un quadro, in Stefano Gensini (a cura di), Manuale di Semiotica, Carocci editore, Roma 2004, p. 196. «Se pertanto consideriamo il punto di vista della rappresentazione, lo studio del linguaggio dell’arte va ad accostarsi ai principi dello strutturalismo e della semiotica, per il fatto che l’opera d’arte è un oggetto comunicativo costituito di segni visivi organizzati in un sistema, che “stanno per qualcos’altro” e funzionano in un contesto figurativo e in un ambiente culturale. In quanto oggetto della percezione e dell’elaborazione mentale, leggere un quadro comporta altresì l’affiancarsi agli studi di psicologia della forma (Gestalt) e al cognitivismo, poiché l’arte figurativa è anzitutto immagine composta di “percetti” (cioè di prodotti della percezione visiva) e di strutture che ricostituiscono “modelli” (cioè di forme della rappresentazione della realtà) presenti nel pensiero».


L’ICONOCLASTIA E’ UN UTOPIA ONANISTA di Jacqueoline Ceresoni

L’iconoclastia non esiste. Da quando l’uomo ha aperto gli occhi, li ha subito richiusi per immaginare altro o trasfigurare persone, cose, animali, poi ha alzato lo sguardo verso il cielo per iconizzare il sole e la luna. Da sempre l’uomo sogna l’evasione dalla realtà, rappresentando altri mondi plasmati da segni, forme, immagini, tracce, evocazioni come ready made del reale. Con il rivoluzionario pezzo 4.33,mero “contenitore temporale” in cui l’esecutore non suona nulla e la “musica” è costituita dai rumori prodotti intorno, John Cage ha dimostrato che il silenzio non esiste. Guy Debord, autore del saggio La società dello spettacolo (1967) e del film omonimo (1973), evidenzia il valore simbolico del linguaggio visuale delle icone-metafora della nostra cultura. Tralasciando l’arte monocroma e quella aniconica, parliamo di un tipico caso di film iconoclasta: Blue di Derek Jarman (1993), noto perché per tutta la durata del film viene proiettato sullo schermo il colore blu, mentre il sonoro è una specie di diario poetico con accompagnamento musicale in cui Jarman, malato terminale di Aids, registra la progressiva perdita della vista e della salute. In questo caso si iconizza non l’immagine della morte, ma la sofferenza e il dolore come valori assoluti. Una lunga tradizione ci ha educato a stabilire una stretta

relazione tra aniconismo e religiosità monoteistica patriarcale, ma tale atteggiamento non funziona con la religione cattolica, che si racconta per icone che hanno trasformato santi e sante in rock star del Basso e Alto Medioevo. Nel nuovo millennio, con internet e i cinema in 3D, viviamo in un modo mediatico che ci fa meditare su un fatto: vietare le icone è come azzerare la nostra memoria storica. Le avanguardie da Duchamp in poi hanno iconizzato la realtà, il dinamismo, l’immateriale, l’idea e infranto l’immobilità dell’immagine pittorica e fotografica; con l’avvento del cinema e della video arte - e in seguito di internet - abbiamo disintegrato qualsiasi speranza di iconoclastia e prodotto un certo tipo di accelerazione e centrifugazione dell’evento in un universo mediatico, uccidendo anche la nostra memoria storica. L’immagine si iconinizza con la morte del soggetto vivente. Con il passare del tempo questa scomparsa dell’ oggetto reale produrrà l’immaginazione su ciò che rappresenta nella cultura di massa. L’iconoclastia è un fenomeno postmoderno e la critica della arti visive ha una storia lunga e complessa, strettamente legata alla politica, alla società e alla cultura. Dipende dal raziocinio dominante sul mito, sulla religione. E il percorso ebbe inizio nell’epoca dei Lumi


del diciottesimo secolo. In seguito alla rivoluzione tecnologica la tecnica si è sostituita alla natura e a Dio. Nel racconto della caverna di Platone si rintracciano già i contenuti di ogni suggestiva critica illuminata sul culto delle immagini, poiché le rappresentazioni degli uomini non sono altro che una performance delle ombre, o meglio un balletto delle apparenze che ingannano il nostro sguardo e producono una falsa realtà. Questi sono i temi di antropologia visuale su cui hanno scritto fiumi di parole Popper e poi Baudrillard e altri intellettuali del nostro tempo. L’immagine è oppio contro la banalità del quotidiano, quando si fa icona assume un’aura misteriosa che ci seduce per la sua ambigua e illusoria natura doppia, mostrandoci un oggetto in bilico tra materiale e immateriale. Ci affascina non la realtà, ma le immaginari extra-ordinarie che l’uomo produce, anche per indottrinare le masse e i cultori di questa arte della retorica e della forza di persuasione delle immagini, praticata da ciarlatani di ogni tempo e dai sacerdoti fedeli al dogma più che alla pietas cristiana, dai politici manipolatori del diritto, dei doveri, della res pubblica e dell’etica. Dagli anni Cinquanta del XX secolo con l’avvento della televisione la quotidianità e la banalità del reale è assurta a icona dell’arte, si è patinata dietro lo schermo, la pubblicità e la Pop Art, diventando un referente estetico. E da allora siamo precipitati vertiginosamente verso il basso, deviando il percorso: dall’alto, verso l’assoluto e l’infinito, al basso, nel bel mezzo della strada. Abbandonata la tensione o l’elevazione spirituale, la meditazione, l’astrazione possibile attraverso l’arte, la musica, la filosofia e la letteratura, da Picasso, agli Espressionisti e dai Cubisti in poi abbiamo riconosciuto il

brutto, l’elemento antinaturalista come forme di una nuova bellezza. Dagli anni Ottanta l’osceno, la volgarità, il kitsch, il trash sono diventate le ancelle della provocazione, madrina per eccellenza delle avanguardie. Nel nuovo millennio in seguito alla rivoluzione informatica viviamo la vita come in un reality show in un clima di happy party perenne, in cui il momento e l’istante si estendono in un eterno presente mediatico. L’iconoclastia è un’utopia perché i media hanno trasformato le realtà in un complesso sistema di segni che rimandano solo alla banalità del reale, negando altre relazioni di scambio con la realtà vera. Decontestualizzandola al punto di trasformarla in un simulacro di se stessa tramite un processo elaborato del segno e dell’immagine che assurge a icona. I media alterano, mascherano, traslano ed estendono oltre il limite della realtà codici del quotidiano, creando un complesso sistema di segni che rappresentano la realtà o la simulano attraverso le immagini. Negare il culto dell’immagine è come negare la religione cristiana che caratterizza l’Europa. Soprattutto in questo clima di frammentazioni politiche, sociali, culturali e nel pieno di rivendicazioni nazionalistiche in cui viviamo, non abbiamo altro Dio delle icone prodotte dai media e dalla massa, che, nolenti o volenti, sono alla base del nostro immaginario collettivo entro cui tutti ci riconosciamo. Nelle immagini ci proiettiamo, ci eleviamo e ci immortaliamo, estendendo noi stessi in un universo mediatico più rassicurante della realtà, raggiungibile in pochi secondi connettendoci a Internet. Abbiamo iconizzato il pensiero, l’idea, il concetto, le emozioni, le


sensazioni, l’odio, l’amore, la violenza, la vita, la morte che stanno intorno alle immagini diventate visibili, estendibili all’infinito in uno spazio mediatico reale e immaginario. Le icone che ci rappresentano evocano l’illusione di una realtà ideale. L’unica iconoclastia possibile è distruggere l’illusione di una realtà vera, o assassinare la realtà virtuale e ripartire, a video spento o con internet scollegato, da un paradossale neo- suprematismo in cui si riconosca solo la supremazia del colore puro e della semplice forma. Ma tutto ciò è un utopia dopo Second Life e Avatar. Dagli anni Novanta siamo in grado di vivere una vita reale e artificiale in parallelo a seconda delle occasioni. Di concreto c’è il fatto che la virtualità è plasmata sul modello della realtà vera. L’iconoclastia sarà possibile quando scomparirà l’uomo fabbrica d’icone e di paradisi artificiali, dove si possono mangiare anche le mele colte dall’albero del male senza subire nessuna punizione. L’iconoclastia comprende necessariamente l’immagine, la rappresentazione, l’illusione, la seduzione, il sensazionalismo sensoriale, ambiti che ruotano intorno all’immaginario collettivo, come frutto elaborato di segni, di associazioni di forme, di luoghi comuni e di una omologazione mediatica difficilmente “cancellabile”. L’iconoclastia nel ventunesimo secolo è impossibile perché viviamo dentro una simulazione perenne della realtà, ci serviamo di memorie artificiali, di computer e sempre meno della memoria vivente. Lavoriamo, pensiamo, giochiamo, ci relazioniamo attraverso la tecnologia come unica compagna fedele della nostra vita. Siamo attratti dai video ambienti e abbiamo sostituito gli affreschi con le installazioni multimediali, You Tube ci immortala nell’etere mediatico. Tramite Faceboock e altri social network comunichiamo con tutti, raccontando di

tutto senza pudore. Le nostre foto su Faceboock sono già icone, banalizzate da un Super Io che s’illude così d’inscriversi in un Olimpo virtuale, scardinando il confine tra reale e fisico, tra immagine e immaginario. Nel ventunesimo secolo molte utopie si sono realizzate, l’utopia della democrazia, della liberazione, del progresso, della produzione di massa per finire con l’utopia della comunicazione, che produce mondi e modi reali, iperrealisti soprattutto con l’avvento del 3D che rende visibile una realtà di un cosmo virtuale affascinante; esiste solo ciò che si comunica attraverso le immagini, in cui le icone sono diventate una garanzia di appartenenza a una comunità mediatica. Attualmente nell’epoca della riproducibilità 3D, l’iconoclastia è assolutamente una proposta fuori tempo, la considero una nostalgia retorica e romantica, perché non c’è mai stata. Inoltre è faziosa, insomma è un onanismo ideologico bollato 1968-78. Il tema forse può appagare pochi idealisti di tutte le età - ammesso che ci siano - e potrebbe essere anche una consolazione! Insomma, è come parlare di Dio agli extraterrestri, per convertirli a credere in un Ordinatore Sommo che comprende la Babele delle immagini che determinano linguaggi e l’immaginario. Questo Dio è parola e immagine, verbo e video in simultanea, e vede in diretta il suo stesso pensiero, pensa e crea mondi in un iper-spazio perennemente collegato con gli umani ma senza essere visto. Noi siamo argonauti intorno al vuoto, naufraghi dentro un universo virtuale, liquido, che ha scardinato anche le categorie dello spazio, del tempo e del luogo, e in questa Odissea intorno all’ovunque, l’icona è la nostra Itaca.


Da Internet in poi l’ovunque produce una vertigine ipnotica che non ha precedenti. Ha scardinato la cognizione di un tempo lineare, plasmando uno spazio –tempo dell’immagine che tenta paradossalmente di trovare un senso attraverso il riconoscimento di icone, ponendoci un percorso a ritroso verso un origine introvabile. L’iconoclastia non è possibile neppure come utopia perché il nuovo secolo ha perduto il senso dell’illusione, delle grandi utopie, delle verità, della ricerca di un origine, del sogno. Non vuole evadere la realtà ma al contrario vuole viverla più intensamente, come doppia possibilità virtuale. Siamo presi da un preoccupante senso di revisionismo storico, nostalgico e spesso retorico e nell’attesa di prossime definizioni. Il presente crea, plasma un’iper-realtà attraverso le nuove tecnologie come ambiente polisensoriale dinamico, affidandoci solo alle memorie artificiali, al computer, Wikipedia e Facebook, e all’immaginario collettivo costituito da icone mediatiche sempre più obsolete. L’iconoclastia non interessa perché è anonima e non è evento, perché perderebbe il suo senso se comunicasse la scomparsa delle icone. Tale azzeramento e mancanza di icone e di cloni di icone del passato contestualizzate al presente è un buco nero, è la fine, la catastrofe della nostra civiltà dello spettacolo , oltre il quale è impossibile teorizzare qualsiasi evoluzione o trasformazione. C’è un pessimismo cinico, radicato nel mio pensiero che da Nietzsche, Baudrillard a Virilio fino ad Agamben e Perniola mi inducono a riflettere, sulla scia di Benjamin, sulla possibilità di un’organizzazione del pessimismo. Il problema non è l’iconoclastia in sé, ma la scomparsa delle illusioni. È già una forma di iconoclastia la nostra incapacità di creare un’alternativa alle icone.

Forse sarebbe opportuno proporre l’iconoclastia come un occasione di sperare di vedere un nuovo mondo senza immagini e icone? Dubito. Nello stato in cui siamo, la morte o il divieto delle icone è prima un attentato alla democrazia e poi un “ genocidio culturale”, come direbbe Pasolini. Non c’è iconoclastia senza icone abbacinanti. Lo sappiamo da Guy Debord, Derrida e Zizek, profeti del presente che viviamo. L’arte contemporanea non crea più rotture, non è più opera , né lavoro o avanguardia, ma è progetto. Non è più l’espressione della resistenza o della contestazione verso la società dei consumi e il mercato. Ma lo determina nell’organizzazione industriale di eventi mostre. “Mostrificio” nutrito da icone. Concludo il mio scritto con una riflessione, chiedere a me che vivo d’immagini, storico dell’arte e professore di parlare di iconoclastia sarebbe come chiedere a un anacoreta induista di andare a mangiare carpaccio di cervo da Marchesi. Guardare, immaginare, produrre immaginari corrisponde anche a un umanissimo desiderio: lasciare una traccia in questo cosmo infinito di un umanità dannatamente contraddittoria in bilico tra Apollo e Dionisio, dall’immaginazione complessa, pornografa e pervertita come garanzia di esserci stato in un mondo reale? È meglio proiettarci come apparenza che non rappresentarci affatto poiché negheremmo la creatività e la libertà. Jacqueline Ceresoli è storica e critica d’arte. Insegna allo IED, al Poltecnico e all’Accademia di Belle Arti a Milano. Collabora con Kritika, L’Arca, Bd-Bagno-Design, Luce, Flash Art, Il Giornale, Made. Tiene mostre in spazi pubblici e privati.


L’ARTE E’ CONVETTUALE SE VALE L’ICONOCLASTIA DELL’ASSENSO? di Paolo Meneghetti

Il filosofo Jean Luc Nancy ricorda che nella storia occidentale il divieto di rappresentare non richiama solamente l’iconoclastia. La Bibbia parla più precisamente di «astensione dalle immagini». Nel Decalogo ebraico si vietano quelle «di ciò che è lassù nel cielo [e] di ciò che è quaggiù sulla terra, [e] di ciò che è nelle acque sotto la terra»1. Dunque la proibizione cade sull’intera realtà. Il divieto riguarda soprattutto le immagini scolpite2. Come se dovessimo evitare di rappresentare Dio con forme d’una consistenza intera e autonoma, dotate di una vena più stabilizzante che ne favorisce la percezione idolatrante. L’iconoclastia religiosa, infatti, concerne non tanto l’immagine in quanto tale, bensì l’idolatria che alimenta. L’importante è allontanare il rischio che Dio venga per così dire “fabbricato”, dipendendo dall’uomo soltanto. L’idolo sembra valere molto più per se stesso, anziché nel rinvio ad altro, tanto più, come ricorda Nancy, che viene fabbricato di frequente con materiali preziosi e durevoli, col legno che non si tarla, nella lucentezza dell’oro.

quanto “piene” di se stesse. Dio non è mai da qualche parte, stabilmente. E tuttavia l’idolo difetta del movimento. Il Dio ebraico si dà sempre nel dinamismo della sua rivelazione: come “parola” (tramite il Decalogo), “desiderio” (con le pratiche ascetiche), “visione” (intervenendo nella storia). I commentatori talmudici sostengono che si può dipingere un viso, ma non scolpirlo. E tuttavia la pittura si manterrà nell’incompletezza di se stessa. Nuovamente va respinta la pienezza in seno alla rappresentazione, dovuta alla “finitezza” dei parametri socioculturali, cari all’uomo. La completezza è sempre stabilizzante. Per gli ebrei manca una definizione di Dio, che sembra piuttosto “parola in se stessa”, così da farsi impronunciabile.

Per gli ebrei Dio manca d’una forma, di conseguenza è impensabile dargli un’immagine. Né lo troviamo in un luogo preciso, per cui confinarlo entro la statua pare insensato. L’uomo «è fatto ad immagine di ciò che non ha immagine»3: una somiglianza che deriva comunque dal nulla. Il Decalogo evita di condannare tutte le immagini. Vanno respinte quelle che si danno nella “pesantezza” (o fissità) della loro presenza, come se esistessero solo in

Nell'epoca moderna, solo il filosofo Levinas ha trovato un certo “interesse” per l’iconoclastia, senza respingerla. Secondo lui, il comportamento etico si dà amando la nostra alterità ancor prima di conoscerla. Basta la percezione del suo volto, che pure nell’esperienza comune racchiude in se stesso l’immediatezza d’una persona. L’alterità si vede nel nascondimento di sé, amorevolmente: è una forma di iconoclastia “positiva”.

Nancy ci ricorda la condanna platonica all’immagine artistica, che si limitava a copiare doppiamente il piano universale delle Idee (nel medium della loro partecipazione al mondo, alle cose sensibili, care a pittori e scultori).


Essenzialmente, il Dio ebraico si dà solo ritraendosi da se stesso. Ciò comporta per l’uomo la testimonianza della fede. Nancy aggiunge che Dio è una presenza che si dà nel senso di se stessa, senza un significato concettuale. Diventerà basilare allacciare la sua assenza alla fede che esista. Maurice Blanchot pensava che Dio fosse un ab-senso. Così la mancanza d’un suo concetto intellettuale si integra alla fede dell’uomo, nella distinzione con l’immanenza del mondo. Il platonismo fa in modo che le Idee abbiano la supremazia razionale sulle cose sensibili. Nonostante l’intellettualismo, è chiaro che l’Iperuranio si astiene dal mondo, quanto il Dio ebraico. Ma potremmo intendere ambedue le relazioni in chiave più dialettica. Come le Idee platoniche partecipano delle cose sensibili, così la fede verso Dio ha senso perché c’è qualcuno ad averla: l’uomo. Peraltro, Nancy si convince che storicamente l’arte occidentale allontani l’idolatria. Dal Rinascimento in poi esiste l’estetica del naturalismo, mentre nel Novecento si scopre quella dell’astrazione. In ambedue i casi, si tratta di un’arte che non chiede al fruitore di “prostrarsi”. Sia l’estetica del naturalismo sia quella dell’astrazione rappresentano qualcosa di dinamico (e tutt’altro che stabilizzante), dove l'ab-senso percettivo riguarda pure il livello immanente del reale. L’impressionismo esibisce la mutevolezza della sensibilità. All’astrattismo preme la reazione soggettiva innanzi ai colori e alle forme che troviamo nel mondo, nell’assenza geometrica da questo. Ricordiamo che per la fisica vale la “legge dell’entropia”. S’intende così la tendenza del mondo a raggiungere lo “stato del disordine”. Nella natura troviamo con difficoltà cose la cui forma è perfettamente di tipo geometrico: ovvero

Centre Pompidou / Musée national d'art moderne/CCI, Service de la documentation des Collections

rettangoli, quadrati, triangoli, cerchi, trapezi ecc… Tali astrazioni ci paiono assenti dal mondo. La geometria di fatto annulla tutte le forme immanenti (che tendono al disordine), riducendole a sé. Nancy dice che la rappresentazione non è la sostituzione d’un primo originale. Essa evita di riferirsi a certi modelli. La rappresentazione sembra invero la presentazione di un qualcosa che non è mai “pieno” (stabilizzato) a livello percettivo, o la presentazione d’una precisa idea nel “filtro” di questa con la materia sensibile. Per Nancy, pensare alla mera copia d’un modello iniziale risulta troppo banale. Seguita l’etimologia del caso, per i latini la re-praesentatio ha un prefisso di tipo essenzialmente intensivo, e non solo ripetitivo. Ne deriva che il termine si dà in via “rafforzata”. La rappresentazione diventa una presentazione nella sottolineatura di se stessa. Il “rafforzamento” è dovuto al fatto che così noi percepiamo una certa cosa in modo più determinato, con maggior precisione. Anticamente, la “re-praesentatio” nasceva per mezzo del teatro, dove con


la recitazione si sottolineavano gli accadimenti di qualcuno. Nel primo linguaggio giuridico, essa spiegava la produzione d’un documento, e dunque la prova (che rafforzava le posizioni dell’accusa o dell’imputato). Per Nancy, la rappresentazione è dunque un assenso alla cosa entro la sua assenza. Nella mancanza del modello iniziale (solo ingenuamente da copiare), resta il “rafforzamento” di questa, molto più a livello percettivo che tramite la riflessione concettuale. La rappresentazione porta con sé una fiducia verso il senso. Resta da chiedersi se l’arte contemporanea ci esprima esteticamente questo, in modo più o meno consapevole. Forse bisogna partire dalla rivoluzione del ready-made, iniziata da Marcel Duchamp.

l’opera d’arte sia tale avendo una precisa morfologia strutturale. Basterà una tavola squadrata con la profondità di più colori entro il rigore delle forme, un blocco di pietra rimodellato dandovi la tridimensionalità della figura vivente. Ma a Duchamp col ready-made non interessa più il linguaggio dell’arte, bensì il singolo linguaggio dell’arte. Il fenomeno estetico non è tale per la morfologia (la struttura), bensì per la funzionalità (la contestualità). Duchamp trasferisce il problema della giustificazione artistica dal piano dell’apparenza a quello della concettualità.

Joseph Kosuth ci ricorda che l’artista al giorno d’oggi deve mettere in questione il senso stesso dell’arte. Qualcosa che proprio Duchamp sembra intuisca per primo. Storicamente, accade che secondo la concezione estetica del formalismo (cara alla tradizione classica)

Exterior: Étant donnés: 1 la chute d'eau, 2 le gaz d'eclairage (Given: 1. The Waterfall, 2. The Illuminating Gas), 1946-66. Marcel Duchamp, American (born France), 1887 – 1968. Mixed-media assemblage: wooden door, bricks, velvet, wood, leather stretched over an armature of metal, twigs, aluminum, iron, glass, Plexiglas, linoleum, cotton, electric lights, gas lamp (Bec Auer type), motor, etc. 7 feet 11 1/2 inches x 70 inches. Philadelphia Museum of Art, Gift of the Cassandra Foundation, 1969. © 2009 Artists Rights Society (ARS), New York/ADAGP, Paris/Estate of Marcel Duchamp.

Interior: Étant donnés: 1 la chute d'eau, 2 le gaz d'eclairage (Given: 1. The Waterfall, 2. The Illuminating Gas), 1946-66. Marcel Duchamp, American (born France), 1887 – 1968. Mixed-media assemblage: wooden door, bricks, velvet, wood, leather stretched over an armature of metal, twigs, aluminum, iron, glass, Plexiglas, linoleum, cotton, electric lights, gas lamp (Bec Auer type), motor, etc. 7 feet 11 1/2 inches x 70 inches. Philadelphia Museum of Art, Gift of the Cassandra Foundation, 1969. © 2009 Artists Rights Society (ARS), New York/ADAGP, Paris/Estate of Marcel Duchamp


Kosuth ci ricorda che una proposizione è sintetica quando la sua validità dipende dai dati dell’esperienza. Quella analitica, di contro, si regola unicamente a partire dalle premesse concettuali che contiene. Per Kosuth tutta l’arte è esclusivamente fine a se stessa, senza che rinvii ad altro. Mancandole un’esteriorità, sembra logico respingerne la validità di tipo empirico (dall’esperienza). L’opera d’arte ha un linguaggio sempre analitico, e dipende solo dalle sue premesse concettuali. Kosuth conclude che il fenomeno estetico è necessariamente tautologico, come accade per la logica o la matematica. La pittura o la scultura naturalistica si pongono paradossalmente nell’irrealtà, perché vedendole siamo pur sempre spinti a paragonarle col modello che rappresentano, a cui ovviamente diamo un valore maggiore. Il ready-made di Duchamp, cercando l’arte che metta in questione l’arte, ha un’essenza di tipo tautologico. Così possiamo dire che essa si dà nell’assenso verso l’assenza di se stessa. Una tautologia è condivisibile se la prendiamo con “fiducia” mentre manca ciò che va rappresentando. Nel libro Sentieri interrotti, il filosofo Martin Heidegger studia l’estetica d’un quadro dipinto da Van Gogh. Là vediamo anche le scarpe d’una contadina. Per Heidegger, lei le calza con la cosiddetta “fidatezza” (verlassigkeit, in lingua tedesca). Modernamente l’uomo cerca la capacità tecnica per il suo vantaggio, ossia in via funzionalistica. Ma la contadina dipinta da Van Gogh non usa le scarpe. Non c’è alcun parametro concettuale in queste. La contadina calza una sorta di “mera cosa”, anziché uno strumento. Certamente le scarpe servono a lavorare nei campi. Una funzione che però lì non si giustifica in via concettuale. Heidegger dice che la contadina “si fida spontaneamente delle sue scarpe”. Un atteggiamento che gli pare anche etico, nella salvaguardia della loro “alterità”, rispetto a chi le porta. In tutti i casi, la “fidatezza” non chiama mai il “fideismo” (che

naturalmente ha un’origine religiosa). La volontà della contadina nel suo calzare è spontanea, anziché “cieca”. Heidegger giudica che l’atteggiamento della “fidatezza” riguardi generalmente la ricezione dell’opera d’arte, che non si dà né in via strumentale (funzionalistica) né come “mera cosa”. Per concludere, possiamo recuperare la tesi del filosofo Nancy. Una tautologia non rappresenta qualcosa, bensì rappresenta di rappresentare. Sia il ready-made di Duchamp che l’arte concettuale di Kosuth si esprimono esteticamente mediante una vera e propria “iconoclastia dell’assenso”.

Bibliografia: J. L. NANCY, Tre saggi sull’immagine, tr. A. Moscati, Napoli, Edizioni Cronopio, 2007 J. KOSUTH, L’arte dopo la filosofia, tr. G. Guercio, Milano, Costa & Nolan, 2000 M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, tr. P. Chiodi, Firenze, La Nuova Italia, 1999

1 Esodo, 20:4-6. «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi». 2 Deuteronomio, 27:15. «Maledetto l'uomo che fa un'immagine scolpita o di metallo fuso, abominio per il Signore, lavoro di mano d'artefice, e la pone in luogo occulto».

Paolo Meneghetti è nato nel 1979 a Bassano del Grappa (VI). Laureato in filosofia con una tesi sulla fenomenologia francese di Deleuze, Derrida, Bataille, Bachelard e l'ermeneutica di Gadamer, Vattimo, collabora con diverse testate specializzate, fra cui Kritika, tenendo conferenze in tutta Italia.


PAINTING, SOUND AND LIGHT THRESHOLD di Emanuele Beluffi

Il caso e la necessità mi fecero conoscere Alan Rankle e Kirsten Reynolds.

nel mezzo della sala, con audacia insospettata e inglese scolastico.

Fu durante un luminoso pomeriggio milanese che preconizzava l’incipiente primavera. Mi trovavo in compagnia di un’amica da poco in Italia e affamata di arte contemporanea (cosa non si fa per realizzare un appuntamento galante) negli spazi espositivi del Palazzo delle Stelline a Milano, dove il giorno prima era stata inaugurata la loro bipersonale.

Così volle il caso. Ho conosciuto Alan e Kirsten in una circostanza fortuita e perfetta per un approccio estraneo ai clangori dell’inaugurazione. E così volle la necessità.

Ancora non li conoscevo, ma quel poco che sapevo era bastato per incuriosirmi: forse anche per questa mia misteriosa inclinazione per l’arte d’Oltremanica volevo guardare dal vivo quelle opere e approfondirne il retroterra intellettuale. Non contavo di incontrarli: la loro mostra era stata inaugurata il giorno prima e, per quanto ne sapessi, potevano esser già tornati a Londra. Eravamo solo io e la mia amica, anche se lei aveva già preso il largo esplorando la mostra per i fatti suoi, quando un lieve tramestio distolse la mia attenzione dalle opere che avevo appena iniziato a gardare: un uomo e una donna, carichi di borse, stavano guadagnando l’uscita e si dirigevano verso di me. «Excuse me, are you the artists?». Li avevo bloccati così,

A partire da quell’incontro avremmo approfondito la conoscenza reciproca realizzando una sorta di sinergia professionale e umana. Ci saremmo rivisti in più occasioni nei giorni a venire, durante i quali iniziò un confronto reciproco sul loro lavoro e le esperienze collaterali (Kirsten Reynolds sperimenta anche con la sound art ed è la fondatrice di Project Dark, una sorta di “macchina organizzativa” di performeance e installazioni site specific, nonchè dell’etichetta Phono Erotic). E ci ritrovammo anche in seguito, all’inaugurazione della mostra a Roma presso la First Gallery, da cui, in una lotta contro i tempi logistici per la preparazione del relativo catalogo, fu partorito il breve testo di presentazione richiesto per l’occasione. Alan Rankle, che fin dalla sua prima mostra a Londra nel 1973 (The Pardonner’s Tale, Institute of Contemporary Arts) ha sviluppato un percorso di ricerca orientato verso la determinazione dei riscontri concettuali e sociali della landscape art, ci riconsegna un apparato iconografico della pittura di paesaggio per dir così “multistrato”, una sorta di pastiche dove gli stilemi attaverso i quali ciascuna


opera d’arte parla del proprio tempo si armonizzano nella realizzazione di un’iconografia rinnovata, fuori dal tempo e dal luogo. O forse in qualche luogo nel tempo. Sviluppando aspetti della pittura paesaggistica finora inesplorati. La sua è una pittura che dunque sposa e tradisce la tradizione: se è vero che “tradurre” è un po’ “tradire”, allora la produzione di Rankle, tributaria di mentori quali Michael Andrews, Francis Bacon, Bruce Kurland e influenzata fin dagli esordi dall'arte paesaggistica cinese, se ne allontana con un viraggio deciso nella direzione di una lettura personalissima della pittua di paesaggio, molto “moderna” se mi si concede il facile vezzo, con suggestioni riconducibili a un immaginifico “lisergico” e reminiscenze visionarie. E non aliena ma anzi saldamente basata su un retroterra per dir così intellettuale, nel senso del forte accostamento a tematiche stricto sensu ambientali: è del 1991 la collettiva internazionale Earthscape, da lui stesso curata su commissione dell'Hastings Trust e della Public Art Society, volta a sensibilizzare la pubblica opinione sull'urgenza di nuovi approcci alle problematiche ambientali. Se da un lato Alan Rankle rinnova la pittura di paesaggio dei van Ruisdael, Constable e Turner con personalissimi accenti all’interno di ampie campiture di colore che azzerano i dettagli di vedute naturali informi e rarefatte, dall’altro Kirsten Reynolds esplora il mezzo espressivo della luce per creare sorte di disegni di luce, immagini fotografiche in cui ambientazioni silvane immerse nel buio della notte sono attraversate da perturbanti tracciati luminosi che ammantano questi scenari boschivi di un climax fiabesco e allucinato. Reynolds proviene dalla sound art (anche se tale termine sconta sempre una certa nebulosità concettuale) e dalla musica noise e la sua formazione passa attaverso interventi

Following Darkness X, Kirsten Reynolds 2010, Photographic print, 76 x 50cm

sulla luce e sul suono. Power Plant, ad esempio, è il progetto di installazioni sonore e luminose realizzato in collaborazione col producer Simon Chatterton e gli artisti Mark Anderson, Anne Bean, Jony Easterby in diversi giardini e parchi pubblici del Regno Unito (Botanic Garden a Durham, Royal Botanic Garden a Edimburgo, Calderstones Park a Liverpool, Botanic Garden a Oxford), mostre itineranti in notturna basate sulla condivisione di esperienze di luce e suono.


Entrambi i percorsi di ricerca prendono la forma di un’antropologia filosofica che parla il linguaggio dell’arte visiva, in cui sono potentemente espresse suggestioni del mondo magico e un modello esplicativo della Natura d’impostazione spirituale. Si tratta di un vero e proprio sodalizio artistico, in cui le rispettive cifre stilistiche si armonizzano in una sorta di continuum, contaminandosi nella creazione di rappresentazioni di paesaggio votate all’annessione e al contagio reciproci, in cui le vedute stranianti di Rankle ricevono l’influsso magico delle tavole luminose di Reynolds.

Mechanism of the World, Alan Rankle and Kirsten Reynolds 2010, oil & acrylic on canvas, 100 x 80 cm

Dando forma e sostanza a una cifra estetica, quella di Rankle, che è già di per sè un attraversamento di stili e culture diversi («Il mio lavoro esprime il concetto di una tradizione in continua evoluzione che porta dei cambiamenti nel nostro modo di guardare a noi stessi e all’ambiente»1) e a una ricerca artistica, quella di Reynolds, anch’essa votata alla contaminazione: una sinestesia estetica occasionata dalla stimolazione sensoriale.

E del resto Project Dark è il power duo (cofondato da Ashley Davies) depositario di un catalogo discografico unico almondo, con dischi in vinile e dischi di vetro inciso, seghe circolari e peli umani, mostrati in tutto il mondo in un fantastico spettacolo dal vivo, creando il suono per mezzo della luce e realizzando performance e installazioni che espandono il concetto di DJ set.

Il risultato è, appunto, una moltitudine di approcci, intellettuali e di ordine sensibile, che fanno compiere al pensiero incredibili scorribande nella storia dell’arte, dal vedutismo imperfetto d’un Turner a vaghi accenni informali à la Mathieu, soprattutto per quelle linee di luce derivanti dalle tavole luminose di Reynolds pittoricamente annesse alle tele di Rankle, come se ivi nascessero per partenogenesi.

Ma la collaborazione con Alan Rankle ha permesso di espandere altresì il concetto stesso di creazione nell’ambito dell’arte in generale, creando una sinergia profesionale che attraversa la varietà dei mezzi espressivi.

Dicevamo dell’antropologia filosofica che informa di sé il retroterra concettuale di questo sodalizio artistico. La produzione artistica di Alan Rankle e Kirsten Reynolds è proclive a un influsso romantico, in modo particolare a


quella fascinazione per la Natura che ha alimentato la temperie spirituale del Romanticismo inglese e tedesco. È la riconsiderazione della Natura nel suo concetto originario di Physis, come totalità organizzata e sussitente, dinamica e vitale, intrinsecamente spirituale e posta in intima connessione con l’essere umano. Una malia che ispirò il poeta Friedrich Hölderlin, permettendogli di consegnare alle pagine dell’Iperione uno dei passi più celebri della letteratura romantica: «O felice natura santa! Non mi so render conto di ciò che avviene in me quando levo lo sguardo alla tua bellezza, come l’amante per la sua amata. Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto. Perduto nell’ampio azzurro del cielo, levo lo sguardo su verso l’etra e giù verso il mare sacro e mi sembra che uno spirito fraterno mi apra le braccia e che il dolore della solitudine si sciolga nella vita della divinità. Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei, questo è il cielo per l’uomo»2.

Ma la poetica di Alan Rankle a Kirsten Reynolds rinnova la luce di queste recondite armonie, potenziando il sentimento romantico della Natura di un’intensità che è diretta espessione dei media della contemporaneità, realizzando una cavalcata nei secoli della tradizione paesaggistica e favorendone al contempo una reinvenzione attraverso rappresentazioni proteiformi e metamorfiche. 1.

2.

Brian Sherwin, Art Space (http://www.myartspace.com/blog/2008/03/art-space-talk-alan-rankle.h tml) Johann Christian Friedrich Hölderlin, Iperione, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 29

Alan Rankle è un artista inglese che lavora con la pittura, la fotografia, i video e le installazioni. Sin dalla sua prima mostra a Londra nel 1973 ha sviluppato un percorso di ricerca che lo ha portato a diventare uno dei pochi artisti della sua generazione che si siano prefissati di indagare intorno ai riscontri concettuali dell’arte di paesaggio. Le sue opere sono presenti in diverse collezioni in tutto il mondo. Il sodalizio artistico con Kirsten Reynolds si esplica in una varietà di mezzi espressivi e progetti curatoriali. Kirsten Reynolds, scultrice, ha iniziato a lavorare con i Bow Gamelan, un gruppo di artisti di avanguardia che crea eventi su larga scala usando strumenti scultorei ricavati da materiali di scarto in luoghi di rilevanza architettonica e culturale. Nel 1995 ha cofondato il Project Dark e, a partire dal 2005, produce installazioni sonore e luminose site specific, come parte dell’esperienza di suoni e luci Power Plant, esposta al Festival di Edimburgo del 2009.


CANCELLARE E POESIA VISIVA. EMILIO ISGRO’ E LA POETICA DELLA NEGAZIONE di Mariangela Mariato

La sua poetica è la cancellatura. Riducendo a essenza un luogo, un'icona o un testo, ci pone di fronte all'emergenza di dare un nuovo significato a ciò che è storicamente sedimentato nella memoria collettiva. In

Emilio Isgrò, Sicilia, 1972, china su carta geografica

procinto di partire per Istanbul per un nuovo progetto espositivo da realizzare con il centro Pecci, Emilio Isgrò, in occasione dei 150 anni dello sbarco di Garibaldi a Marsala, fino al 19 settembre è protagonista con le sue


realizzato per la sua città d'origine, Barcellona Pozzo di Gotto, dalla reinvenzione in lingua siciliana della Orestea di Eschilo andata in scena con un allestimento epocale sui ruderi di Gibellina alla Rotta dei catalani, dove i tragitti delle formiche restituivano le contaminazioni e gli incroci dello spazio del Mediterraneo, Isgrò ha interpretato sin dagli anni Sessanta un gioco di specchi e di rimandi alla storia e alla cultura mediterranea e occidentale.

Emilio Isgrò, Agamennone, 2005, 57x72, tecnica mista su libro

opere di una grande mostra personale il cui titolo, Disobbedisco, capovolge non solo il senso della storica affermazione con cui l'eroe dei due mondi si rivolse a re Vittorio Emanuele, ma tutta la concezione di un evento e di un personaggio ponendoci di fronte alla consapevolezza della relatività della verità storica. «Quel Disobbedisco!, che per assonanza richiama l’affermazione opposta che Garibaldi pronunciò nel 1866», spiega l'artista, «non vuol essere una dichiarazione antirisorgimentale, semmai un rifiuto verso chi lo spirito di quel grande momento ha fuorviato o tradito. Quello che propongo al Convento del Carmine è un itinerario concepito per deviazioni, scarti e ritorni, in cui ogni sala manifesta una voce e una declinazione differenti. A chiuderlo è Sbarco a Marsala, un’installazione site specific in cui la ricorrenza storica diventa occasione per il racconto, sorprendente e sospeso, della sfaccettata identità della mia isola natale». Dalle cancellature operate sulle carte geografiche dalla fine degli anni Sessanta al monumentale Seme d’arancia

«Le mie estrapolazioni alfabetiche, come le cancellature, i particolari ingranditi, il rosso, lo spessore bianco e tante altre invenzioni per alcuni versi iconoclastiche, fanno parte di un bagaglio personale che uso quando e come voglio» racconta. «L'urgenza di dire prevale spesso su tutto. Le mie invenzioni sono diventate una lingua, la mia lingua, capace di raccontare in modo nuovo, fluido e fluente, gli eventi del passato ed i suoi protagonisti». Ma cos'è la cancellatura? «Una macchia che copre una parola, la separa dal mondo, la libera. Sono trent'anni che pratico la cancellatura e la frequento con la passione di un monaco perché sono un poeta visivo. Nella Dichiarazione 1 pronunciata nel giugno del 1966 al congresso internazionale di Abbazia, dichiarai apertamente le mie propensioni per una poesia capace di allargare le proprie competenze fino al punto di offrirsi con assoluta naturalezza come un'arte generale del segno. Nel lontano 1967 precisavo il discorso proponendo delle strutture estetiche in cui coesistessero segni tratti da codici diversi». Un tentativo di rifiutare non solo ogni possibilità di poesia esclusivamente verbale o di arte esclusivamente visiva, ma anche il punto più avanzato del concretismo internazionale, portato avanti con entusiasmo e


autorevolezza fino a oggi. Ma qual è il rapporto tra Isgrò e l'avanguardia? «Dell'avanguardia ho voluto adottare semplicemente i modi e la maniera» risponde. «Vivendola dall'interno, tuttavia, ho svuotato l'avanguardia sia del suo estremismo formale sia del suo apparato. È stato questo il mio piccolo, appassionato contributo alla fine dell'avanguardia. Sentivo, quando ero più giovane, che anche l'avanguardia era diventata un genere come un altro. Si era fatta frigida, inutile, disumana».

Se oggi l'artista è disposto a tutto pur di garantirsi un minimo di sopravvivenza o di immagine, Isgrò esprime solo una speranza: «Che l'artista torni a fare corpo con la propria opera, vivendo in essa e per essa. Oggi ne è praticamente escluso».

Mariangela Maritato, nata a Sibari (Cs) nel 1980, è giornalista e critica d'arte. Scrive di arte e cultura per l'Informatore di Vigevano, il Sole 24 ore e altre testate. Cura mostre d'arte contemporanea in spazi pubblici e privati.


DISTRUTTORI DI IMMAGINI di Stefano Mazzoni

Il più urgente esercizio di libertà è la distruzione degli idoli. Guy Debord Nel 1994 Mark Bridger non riuscì a resistere all’impulso di “correggere” un’opera di Damien Hirst esposta alla Serpentine Gallery (Away from the Flock) e iniettò dell’inchiostro nella teca che conteneva un agnello in formaldeide, virando in nero il colore del suo candido manto e ribattezzando l’opera Black Sheep. Seguì un processo, nel quale Bridger rivendicò la componente artistica del proprio gesto: «stavo conferendo un interessante addendum al suo lavoro. In termini di arte concettuale, la pecora aveva già fatto il suo corso. L’arte esiste per la creazione di consapevolezza ed è questo che ho aggiunta a qualsiasi essa avesse da dire»1. Il giudice sembrò non prendere sul serio queste dichiarazioni e lo condannò a due anni con la condizionale. Parallela alla storia dell’arte scorre quella della sua profanazione. Nel corso dei secoli quadri e sculture sono stati aggrediti da fiamme, acidi, spray, lame, martelli, con una frequenza che rende arduo parlare di casi isolati. L'esempio citato offre la possibilità di considerare alcuni motivi di fondo di questi gesti. Il primo è l'affermazione di sé, come se l'aggressione permettesse di acquisire la fama o, addirittura, la temporalità dell'opera. Un modo di ambire all'immortalità, come Erostrato che incendiò il tempio di Diana a Efeso per assicurarsi che il suo nome

non fosse dimenticato2. Ma è il secondo aspetto che appare più interessante: l'idea di completare l'opera con il proprio gesto, partecipando della sua realizzazione, tanto da poterla ribattezzare e considerare propria. Nella sua mostra Art Vandals, Felix Gmelin ha riesplorato alcuni celebri assalti iconoclasti subiti da alcune opere d'arte contemporanea, da Van Gogh all’agnello di Damien Hirst. Nei titoli che accompagnavano ciascuna delle opere esposte, Gmelin riconosceva una doppia paternità, quella dell’artista ma anche quella del suo aggressore, confermando ex post le dichiarazioni di Bridger. Nello stesso periodo, nel suo libro The Destruction of Art3, lo storico svizzero Dario Gamboni osservò come spesso, nelle intenzioni dei loro attori, i gesti vandalici corrispondano a una “valorizzazione” dell'opera. Dichiarazioni analoghe a quelle con cui Jake e Dinos Chapman hanno presentato la loro rivisitazione dei Disastri della guerra di Francisco Goya. Dopo aver acquistato una serie di stampe tirate nel 1937, i due artisti inglesi vi misero mano, sovrapponendovi maschere sulle teste dei personaggi e simboli, ripresentandole con un nuovo titolo, Insult to Injury, che per i due fratelli rappresentava una correzione e un miglioramento degli originali. Ogni ricerca in ambito artistico e non solo, ha sempre messo in questione i modelli di riferimento del passato. La novità introdotta dalle avanguardie del Novecento è stata


l’aver attribuito una statura programmatica autonoma a questa contrapposizione, imponendosi come esigenza di una tabula rasa necessaria, che anticipasse qualunque affermazione successiva, esaltando l’atto distruttivo in quanto tale. La condanna futurista del passato, della «fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari» esortava alla distruzione di musei e biblioteche, fin dal suo primo manifesto. E la stessa glorificazione della guerra testimonia il fascino per la sua

potenzialità e attualità distruttiva, visto come modello da trasportare nella letteratura e nelle arti plastiche. Una stessa radicalità si riscontra anche nel Dadaismo, seppur senza la stessa vena interventista, nelle dichiarazioni di Tristan Tzara, nella corrosiva teorizzazione di un radicale sovvertimento dei valori della tradizione e delle istituzioni che li tramandano, arrivando alla negazione dello statuto dell'opera d'arte. Ed è proprio in questo ambito che nascono le prime opere d'arte distruttiva. Unhappy Readymade, realizzato da Marcel Duchamp nel 1919, un manuale di geometria esposto alle intemperie fino alla sua completa disgregazione. Oppure Object To Be Destroyed di Man Ray, pezzo seriale costituito secondo precise indicazioni, attraverso un metronomo cui viene applicato il ritaglio fotografico di un occhio e il cui ticchettio attende di essere fatto letteralmente fatto a pezzi dal colpo di un martello4.

Felix Gmelin, Painting Modernism Black, 1996, After Damien Hirst (1994) and Mark Bridger (1994),Iron, glass, water and ink in wooden frame. 175 x 164 x 65 cm, Courtesy: Milliken Gallery & The Artist

Negli anni Sessanta l'atto distruttivo viene proposto come autonoma forma d'arte. Dipinti di acido su lastre di nylon, performance in cui pianoforti venivano sfasciati, vestiti fatti a pezzi dal pubblico, quadri presi a fucilate. A Londra e New York tra il 1966 e il 1968, Destruction In Art Symposium, una serie di incontri, seminari, happening, mise a confronto artisti tra cui importanti personalità vicine a Fluxus e all'Azionismo viennese, insieme ad alcuni psicologi per analizzare i vari aspetti che venivano messi in gioco da queste performance distruttive. Da un lato, l'aspetto inconscio di una pulsione liberata, che era già stato esplorato nelle mostre del gruppo giapponese Gutai, ispirandosi all'Action Painting e soprattutto alla pittura di Jackson Pollock. Dall'altro, una preponderante componente politica proseguendo idealmente la poetica delle avanguardie. Secondo Gustav Metzger, inventore e teorico della Auto-destructive Art, gli artisti dada e


futuristi, infatti, «non venivano soltanto considerati in grado di distruggere, deformare e trasformare gli stili precedenti, ma volevano distruggere e piegare al proprio volere l'intero sistema sociale». Gli stessi obiettivi politici di critica e rifiuto di una società repressiva e contemporaneamente violenta, esplodevano nelle loro performance distruttive, rispondendo alle ansie e al modo in cui venivano soffocate nella società in cui venivano generate. Ma, d'altra parte, Fluxus, Gutai e Azionismo viennese dovettero affrontare, accanto all'imposizione di un'estetica distruttiva, anche i problemi della sua conservazione. Avvertirono l'esigenza di una storicizzazione delle loro pratiche artistiche, facendo nascere differenti raccolte documentarie, con fotografie, filmati, o istruzioni in grado di rendere ripetibile una determinata azione. Proprio sulla scorta del rapporto tra atto distruttivo e sua documentazione agiscono alcuni percorsi, secondo i quali la traccia fotografica di un oggetto scomparso - perché distrutto dal suo artefice acquista una valenza autonoma. Sparisce il gesto distruttivo, mentre l'oggetto distrutto si riafferma nella sua assenza, sotto forma di documento, frammento, traccia di quello che è stato. Gino De Dominicis è probabilmente tra gli iniziatori di questo percorso, anche se è noto il suo radicale rifiuto di ogni documentazione fotografica relativa alle sue opere. La sua Madonna che ride, statua realizzata, distrutta e poi fatta circolare solamente nella forma di una fotografia, va inserita all'interno della sua critica allo strumento di riproduzione. L'operazione di De Dominicis sembra, infatti, tesa a dimostrare l'impossibilità di considerare la fotografia un atto di rappresentazione neutro, quanto piuttosto una sua creazione formale autonoma, che mette in atto un diverso tipo di meccanica linguistica, offrendo

una reinterpretazione del tutto autonoma dell'opera. La statua-feticcio diventa semplice immagine dalla prospettiva sbagliata, in grado di dare soltanto una vaga impressione del suo sorriso blasfemo, mutandone forza, impatto, sostanza. Un percorso analogo è seguito da Giuseppe Gabellone. Le sue opere, però, non riflettono sul rapporto tra la riproduzione-rappresentazione e il suo soggetto, quanto piuttosto esplorano lo statuto interno al linguaggio fotografico, forzando l'apparire delle sue sculture in una

Courtesy Italo Tomassoni - Associazione Gino De Dominicis, Foligno


Porto . 1998, ancora ,catena vetro, cm 300x320x400 circa, Foto Claudio Abate, courtesy Galleria De' Foscherariri

bidimensionalità necessaria. L'immagine appare scientificamente costruita per dare l'unica prospettiva possibile, che diverrà definitiva dopo la distruzione dell'oggetto. Non si testimonia più l'oggetto, ma se ne sottrae sostanza e volume, rendendolo pura immagine, idea e archetipo di un'unica possibilità di manifestazione. Ed è significativo che l'inquadratura sull'oggetto non sia esclusiva, ma accolga anche il suo contesto ambientale, testimoniandone il passaggio nel mondo, il suo esserci stato in un momento preciso, in determinate e specifiche condizioni di spazio e di tempo. Questa poetica dell'oggetto assente è testimoniata più “materialmente” da parte di Claudio Parmiggiani. Le sue pitture d'ombra suggeriscono con forza il passaggio inesorabile del tempo. Si tratta di Delocazioni, secondo il linguaggio dell'artista, rimozioni di oggetti collocati in uno spazio poi lasciato in balia del fumo, a tracciare i loro profili sulle pareti della propria distruzione. Si mostrano pertanto le tracce di una presenza passata e assente, che ha dato forma allo spazio, come l'ombra che rimane un muro dopo aver tolto un quadro. Pur non trattandosi

necessariamente di distruzioni, il loro scomparire alla vista e la ombra che ne testimonia lo scomparire, mostra la Follia dell'Occidente, quando il non essere presenti alla vista, suggerisce il loro diventare nulla. In Apocalypsis cum figuris l'oggetto diviene esso stesso frammento, residuo, traccia. Si offre allo spettatore uno spettacolo di una distesa di vetri rotti, sulla quale rimane un'ancora sospesa. La distruzione, proprio per il suo ribadire la perdita dell'oggetto, diventa così un forte esercizio di memoria, di riattivazione di senso attraverso i frammenti e i residui di ciò che rimane. Lo stesso olocausto dell'oggetto ne è una celebrazione, nella quale il massimo sacrificio, diventa affermazione della sua identità, sottratta a qualsiasi ulteriore cambiamento. Cancellandone la presenza, se ne ribadisce l'esistenza al passato, attraverso ciò che di esso rimane, sia un video, una fotografia, un'ombra, un frammento. Monica Bonvicini ha saputo scardinare l'estetica distruttiva e quella del residuato, riflettendo più profondamente sulle possibilità di decostruzione dello spazio architettonico, visto come l'ultimo Idolo cui la modernità soggiace. Dall'atto performativo della distruzione alla celebrazione dei suoi resti si arriva infine alla reazione violenta contro lo spazio. In Plastered, è lo stesso movimento dello spettatore ad agire su di esso, lasciando che il pavimento in cartongesso e polistirolo si deteriori a ogni passo dei visitatori. Gli spettatori sono ancora protagonisti del video No Head Man. Si aggirano pensosi in un white cube, immacolato, contemplandone le pareti spoglie, per poi aggredirle. All'improvviso le sfondando con la testa, senza sembrar liberare alcuna pulsione con i loro gesti. «Non sono interessata al concetto di distruzione/rovina da parco dei divertimenti. L atto di distruzione è spesso visto come violento, ma a volte è necessario. Non distruggo per sentirmi meglio: non faccio arte al posto di yoga o terapia»5. Lo scontro con


l'architettura è un atto necessario, risponde a un'esigenza fisica prima che psicologica. Contro la sua logica bivalente di contenitore e contenuto, che impone alle opere - e più in generale - alle vite che ospita e ingabbia. «Non esiste costruzione senza distruzione, non esiste creazione senza il fare e il disfare»6. Si tratta del controcanto di ogni costruzione, architettonica, artistica, filosofica, contro la quale si richiede un costante processo di violenta ridefinizione. In questo senso, il martellìo infinito di Hammering Out (an Old Argument) si rivela indicazione di un processo di affermazione della propria identità, in un esercizio urgente e interminabile di liberazione.

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Anthony Everitt, “Painting modernism black”, The Guardian, 16 maggio 1994. Tra gli altri, Alessandro Verri ha dato voce a Erostrato: «Io fra poco scendo sotterra; ma non rimarrà con me sepolto il nome, né potrà oscurarlo il tempo, né la vostra sentenza, né quella del volgo. Con questa audace mano io mi vanto d'aver fatta più illustre Efeso, e me stesso immortale». Alessandro Verri, Vita di Erostrato, p. 33, http://librarsi.comune.palermo.it/librarsi/export/bibliobrancaccio/pdf/la_vita_d i_erostrato.pdf. Dario Gamboni, The Destruction in Art. Iconoclasm and Vandalism since the French Revolution, Yale University Press, London 1997. Le istruzioni di Man Ray recitavano: «Tagliare l'occhio dalla fotografia di una persona amata, ma che non si vede più. Collegare l'occhio al pendolo di un metronomo e regolare il peso a seconda del tempo desiderato. Prosegue sino al limite della sopportazione. Con un martello, tentare di distruggere il tutto in un colpo solo, ben assestato». Massimiliano Gioni (a cura di), “Distruggere, dice Lei”, intervista a Monica Bonvicini, Flash Art 263 (2006), http://www.flashartonline.it/interno.php?pagina=articolo_det&id_art=277&det= ok&titolo=MONICA-BONVICINI. Ibidem.


DENTRO A MILIONI DI ALTRE IMMAGINI di Gianni Cuomo

Non c’è più tempo per le parole ma solo per le immagini. Wikipedia attribuisce alla Pop Art la seguente definizione: «Nuova forma d'arte popolare che è in netta contrapposizione con l'eccessivo intellettualismo dell'Espressionismo Astratto, rivolge la propria attenzione agli oggetti, ai miti e ai linguaggi della società dei consumi»1. La Pop Art americana si rivolgeva al pubblico con il linguaggio globale dell’icona popolare per celebrare il “mito” del qualunquismo assoggettato al consumo tout-court. Il consumo massificato è democratico perché i suoi prodotti sono alla portata di tutti e hanno lo stesso costo per tutti. Chiunque può identificarsi come fruitore di una banana, una scatola di zuppa, una coca cola o di una americanissima sedia elettrica. Ho citato la Pop Art come emblema di una corrente che ha fatto dell’icona popolare un veicolo di comunicazione artistica di massa, attraverso la quale trattare temi come quelli della serialità produttiva, dello star system – se non ci sei non esisti2 della cultura globalizzata e della società dei consumi. Il consumo appunto, condizionato da bisogni indotti, diventa un circolo vizioso di dipendenza psicologica a cui diventa impossibile sottrarsi. Lo strumento utilizzato per

indurre a tale atteggiamento in maniera user-friendly, è la forza di persuasione della macchina mass-mediatica e della sua iconografia consumistica. L’essere ciò che consumiamo, è lo status, che impone una società con fragili valori morali e sociali, che porta l’individuo verso una crisi identificativa nel suo contesto. Come anticipato straordinariamente da Herbert Marcuse con L’uomo a una dimensione3, l’individuo è divenuto incapace di resistere al bisogno indotto di produrre e consumare, trasfigurandosi nel consumo stesso. L’immagine, attraverso la sua forza evocativa, non è solo strumento d’induzione comportamentale, ma anche simbolo di fatti realmente accaduti della nostra storia più recente. Se prima dell’era “tecnologica” la scrittura rappresentava una sorta di “registratore storico” di eventi, ora la rappresentazione visiva, pare aver soppiantato tale pratica. Si pensi alla forza rappresentativa dell’immagine della prima bandiera americana innestata sul suolo lunare, del muro di Berlino, della pecora Dolly, dell’omino di fronte al carro armato in piazza Tienanmen, questi sono dati “retinici” che arrivano a tutti, in maniera diretta ed immediata. Non c’è più tempo per le parole, ma solo per le immagini. Anche la storia passata consapevole della dilagante forza


“iconoclastia”: «Dottrina ereticale che contestava l’uso delle immagini sacre». E anche: «[...]critica intransigente e distruttiva nei confronti di principi, ideologie, dottrine su cui si regge la società»4. Definizione quest’ultima assolutamente stimolante, se alla frase aggiungiamo «…del sistema dell’arte».

Fotografia di Gianni Cuomo

Nel mondo dell’arte, si sa, la critica è parte di un “ecosistema” che attribuisce credibilità non solo al singolo evento, ma all’intera storia dell’arte. Troppo spesso tale attività utilizzata al servizio del sistema, ha disatteso aspettative di imparzialità, creando perplessità dubbie e sospette. Per fortuna abbiamo anche esempi (pochi per la verità) di critica super partes.

persuasiva dell’immagine, l’ha impiegata in ogni modo. La svastica, la falce e il martello, lo zio Sam come personificazione nazionale degli Stati Uniti d’America, sono esempi di utilizzo politico.

Tale sistema, dentro il quale si muovono ingenti capitali, usa vari strumenti come biennali, fondazioni, premi, riviste, fiere, ecc. per ufficializzare e collocare il business dell’arte stellare.

Come i murales messicani, irlandesi, baschi, attraverso la loro iconizzazione collocata sui muri delle strade del “popolo”, sensibilizzavano coscienze e inneggiavano alla lotta.

In questi contesti si muovono potentissime gallerie internazionali, le quali attraverso la loro riconosciuta posizione elitaria, portano ai vertici dell’attenzione mondiale, artisti che collocano nelle più prestigiose collezioni, sparse in tutto il pianeta.

La chiesa cattolica in passato, per proteggere l’egemonia della dottrina cristiana e per evitare l’insorgere di dubbi, ha attuato violente censure nei confronti di immagini che mettevano pericolosamente in discussione la sua posizione. Alle iconografie, quindi, va riconosciuto un ruolo di fondamentale potere comunicativo e all’iconoclastia il compito di analisi, critica e spesso di censura nei confronti di quest’ultima. Il dizionario Sabatini Colletti così definisce la parola

A loro vanno riconosciute una capacità manageriale e una conoscenza delle dinamiche del mercato dell’arte davvero straordinarie. Queste caratteristiche permettono loro di collocarsi in una sorta di paradiso Dantesco, lasciando Purgatorio e Inferno a realtà galleristiche di secondo piano, che nonostante gli sforzi e la notevole qualità della proposta, subiscono il sistema, costringendosi spesso a funamboliche sopravvivenze. L’artista “prodotto” dal sistema è un ingranaggio della complessa macchina dell’arte. Egli è parte di un circuito, dipendente dalle sorti della propria galleria, che ne


globo, comincia a “piazzare” i suoi artisti nelle “gold locations” del mercato mondiale dell’arte. Tale meccanismo in una sorte di “legge del più forte” lascia inevitabilmente “vittime” sul terreno dell’arte, diventato sempre più terra di conquista.

Fotografia di Gianni Cuomo

celebra la gloria o ne decreta il fallimento (casi a parte le superstar internazionali e in particolar modo Damien Hirst che iscritto ufficialmente nella storia dell’arte contemporanea, “by-passa” il sistema e vende per conto suo a cifre strabilianti, tutta la sua produzione, attraverso Sotheby’s). Facendo riferimento alla nostra realtà nazionale, non è un caso che gli artisti italiani in questa epoca, sono pressoché assenti nelle più importanti kermesse internazionali, perché le gallerie italiane “accettate nel giro che conta”, si possono contare sulle dita di una mano. Inoltre se ciò non bastasse, l’artista “nostrano” fatica a essere rappresentato dalle stesse gallerie nazionali. Ci si chiede se tale panorama, sia la realtà imposta da lobby di “poteri artistici consolidati” o che la fortuna di artisti di “nuova” generazione, sia legata all’aumentato potere politico-economico del proprio paese. Parrebbe di sì, se pensiamo ad esempio al “modello anglo-americano” imposto attraverso il dilagare dei suoi artisti, o alla Cina che, diventata la prima potenza del

Nel 1964 Angelo Guglielmi con L’arte è morta evidenziava lo stato di deterioramento del significato artistico5. È morta l’arte come scibile intuitivo, poiché l’artista non per sua insufficienza o incapacità di analisi, ma per l’essersi trovato improvvisamente di fronte un’altra realtà, ne è rimasto muto e vittima inconsapevole. Oggi i ritmi contemporanei impongono continui up-date psicologici, velocità, standardizzazione, allineamento, sono prerogative del mondo nuovo. In Brave New World6 Aldous Huxley fantasticava di una società che si è avvicinata paurosamente alla realtà odierna. Anticipava la riproduzione artificiale, la politica globalizzata e il controllo mentale e fisico dell’individuo. Temi che oggi sembrano far parte del nostro quotidiano, con preoccupante e impassibile accettazione. L’arte pare aver perso la consapevolezza di essere tale di fronte all’immagine che “produce”, perché offuscata e inglobata dentro a milioni di altre immagini, che il sistema di comunicazione di massa rigurgita ovunque e senza sosta. A noi resta la consapevolezza di un dibattito aperto, alle nostre opinioni e alle nostre scelte, in grado di arricchire la comunicazione culturale, per non rinunciare a riconoscersi nell’esperienza dell’arte, come quella più vicina all’enigma dell’esistenza umana.

Pop Art, in Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Pop_art How to Lose Friends & Alienate People, film, regia di Robert B. Weide 2008 3 Herbert Marcuse, One dimensional man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, London, Routledge & Kegan, 1964. Ed. it. L’uomo a una dimensione. 1 2


L'ideologia della societa industriale avanzata, Torino, Einaudi,1967. Rist. 1999 4 Iconoclastia, in Sabatini Colletti. Dizionario della Lingua Italiana: http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/I/iconoclastia.shtml 5 Angelo Guglielmi, Avanguardia e sperimentalismo, Milano, Feltrinelli, 1964 6 Aldous Huxley, Brave New World, London, Chatto & Windus, 1932. Ed. it. Il mondo nuovo, Milano, Mondadori, 1946. Rist. Il mondo nuovo; Ritorno al mondo nuovo, Milano, Mondadori, 2000

Gianni Cuomo (1962 Battipaglia, Salerno; vive e lavora a Milano) si forma artisticamente a Milano, presso un atelier-scuola di tecniche pittoriche. I suoi primi anni di produzione sono dedicati a una ricerca pop, sviluppando all’epoca interventi clandestini sui manifesti della città. Elimina successivamente dalle opere ogni traccia di colore, per caratterizzarle con l’uso esclusivo del bianco e nero. Realizza in questo periodo una serie di tavole, in cui si sovrappongono volti e scorci metropolitani. Dalla lezione dell’Arte Povera l’artista realizza dagli inizi del Duemila una serie di “ominidi” dalla pelle tatuata con codici impazziti dell’era iper-informatizzata. Ha esposto in numerose mostre personali e collettive.


LA VERITA’ E’ UN PENSIERO DI REALTA’ CHE SI FINGE di Luca Beolchi

L’arte contemporanea è l’espressione del presente. Non una categoria rigida. Ma un fluido vedere e muoversi: fondamento di questa sfida. Nel senso che non ci si aspetterebbe leggendo un testo. Nel senso che ci si potrebbe trovare di fronte a qualcosa di differente. Perversamente distante dalla serenità dell’abitudine. Come se in una scala non ci fosse il gradino che segue il precedente. Come se in un orologio le lancette seguissero un tempo senza logica di continuità. Un tempo vero, e non reale. Un tempo sincero e non naturale. Diversamente da come lo immagineresti, immagina.

coscienza della cecità. E nella cecità affermarsi, accettarsi, ritornare eternamente. Così la speranza che un’icona possa essere detta vera, è come la notte in cui tutte le vacche sono nere. Dire e vedere, come volare e navigare. Il cielo e la terra. Il giorno e la notte. La luce, il buio. L’oblio. Circolare buità sulla possibilità di comprendere veramente. La persuasione come la linea dell’orizzonte, irraggiungibile. Ogni volta che la avvicini, un nuovo orizzonte spunta all’orizzonte. E infinita e senza punto di arrivo, sarà la ricerca della linea.

Il pensiero materializza mondi impossibili e senza fisionomia ne coordinate spazio temporali li fa vivere e morire nell’arco di un istante. Un significato alla ricerca del suo significante che mai si tradurrà in segno; Iconoclastia. Nuove lenti per non vedere. Nuove lenti per avere

Così un passo segue l’altro, ma solo se vogliamo rassegnarci all’abitudine. Perché il passo potrebbe incepparsi. Il piede girare. La gamba tendersi. E con “le catapulte nelle ginocchia” iniziare una danza. Un libero movimento che approfitta di tutte le articolazioni che la natura ha donato allo strumento corpo. Una danza senza ritmo e senza didattica. Per liberarsi. Conquistare oppure

Luca Beolchi - propaganda 3 - China su carta, A4 - 300 gr. 2010 - courtesy dell'artista

Luca Beolchi - propaganda 3 - China su carta, A4 - 300 gr. 2010 - courtesy dell'artista


essere conquistati da un dio inafferrabile, inimmaginabile. Una voce invisibile che, da dentro, ti parla con toni solenni. Dio senza persona, dentro alla tua testa. L’eternità tutta. Concentrata nella frazione di secondo in cui si ferma il presente, prima che sia passato, prima che sia futuro. L’attimo eterno e inviolabile, dove la storia dello spirito e dei fenomeni coincide. Dove la scala non ha gradini e l’orologio non misura il tempo lineare. La spinta verso una nuova persuasione. Un nuovo orizzonte mobile. Fluido, come l’oblio, che aggredisce l’ermeneutica che cerca una via apollinea di comprensione. Un orizzonte iconoclasta che sfida il comune senso, con il privato afflato. E di persuasione giocando nella poesia e di retorica giocando con il cuore. Perché l’arte contemporanea è nome più che concetto. Ed il concetto, senza cuore, rimane il fondamento e la struttura portante dell’oblio, della menzogna, di una vita inautentica. Così

Luca Beolchi - propaganda 3 - China su carta, A4 - 300 gr. 2010 - courtesy dell'artista

evapora un pensiero. Una scheggia di verità in mezzo ad un albero di falsità. Perché vero è l’uomo e la sua capacità di fare associazioni, mettere in relazione, al di là di qualsiasi falsa idolatria. Luca Beolchi è nato a Milano nel 1978. Laureato in filosofia con specializzazione in Ermeneutica filosofica, è direttore di Lobodilattice.com magazine e factory, che ha fondato nel 2006. Dal 2009 è illustratore ufficiale dell’etichetta discografica Apparel Music. Espone i suoi lavori anche nel circuito dell’arte contemporanea, partecipando a mostre e manifestazioni. Del 2009 la sua prima personale, a cura di Ivan Quaroni.


RISCHI. PICCOLO VADEMECUM PER ASPIRANTI ARTISTI A MILANO di MCR

Se io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, e le attuali conclusioni... F. Guccini Nascere e vivere a Milano. Volendo fare l'artista. Comporta parecchi rischi. Milano è città cui si volge lo sguardo appena si parla d'arte: è qui che si incontrano e si annidano i primi problemi durante il proprio darsi forma per dar forma. Se si guarda all'epoca in cui viviamo, l'accumulo in sé non rappresenta necessariamente qualcosa di pericoloso o negativo: attingere dal proprio bagaglio di sedimentazione quotidiana dovrebbe servirci al contrario per raccontare l'anima di questo secolo dai tenori elevati. L’uso del condizionale è d’obbligo e vediamo perché. Nella sua purezza e fascinazione continua, il novizio viene travolto dall’inutilità del fin troppo colmo ammasso di vuoti che spinge a un futile accumulo: pare la Soho targata anni Ottanta. Inebriato dal romanticismo di miti passati, in quella che crede essere e ha scelto come una missione, gira per esposizioni e incontri. Tutt'attorno gli fioriscono le icone del momento, confezionate al pari di alcune specie di farfalle che vivono e sopravvivono un po' più d'un giorno senza sole: un’accumularsi iconografico che affonda dritto nel cervello a turbare-torturare il nostro

aspirante professionista. Come carta riciclata, questa simbologia trasmutata da altre culture si sovrappone in un turbinio contiguo di opere. Una mollezza spettrale che si aggira in stanze allestite da standisti dell'ultima ora per aggradare quel collezionismo spossato che puzza di morale ottocentesca. È risaputo che più si ricicla un materiale, più esso perde la sua purezza iniziale. Pertanto, nella sua ubris curiosa verso tendenze da cui muoversi, il nostro novizio entra in contatto con queste immagini spurie e spurgate: un’entusiastica fagocitazione sensoriale di immagini pixelianamente sgranate, esperita senza essere in possesso di quelle basi per comprendere che spesso sono modi già sfruttati dieci o vent'anni prima. Questo mondo refrattario alle scintille si para di fronte all’ingenuo apprendista per lavorare dentro-dietro di lui. Lo anestetizza di credenze e feticci. Infine, avendogli mostrato la via più giusta per esprimersi nel ventunesimo secolo, con un leggero e paterno tocco sul ciglio, gli sussurra dolcemente: «Vai (di là), dacci (quello che ti chiediamo) e ti sarà dato (concessa un’esposizione e poi vediamo)». Amen. Fenomenologia degli eccedenti figli dell’inutile. Tra questi riconosciamo primi fra tutti gli intellettuali, poco spesso tali e più che altro pseudo. Descrizione alfine di riconoscimento per serena lontananza e pacifiche


fughe: decisamente fashion, possiedono una lucida, quanto ibrida idea di ciò che dovrebbe essere l'arte. Mista all'impatto del personaggio miasmatico che interpretano e associato alle idee strampalate e fin troppo teoreticamente astratte che professano, arricchite e potenziate da consigli amicali e proficue esperienze vacanziere, in genere mischiano a caso e a guazzabuglio spiritualità e metodo. Normalmente sfornano lavori banali e scarichi, frutto di concetti stinti e opachi che riescono a piazzare grazie alla loro retorica da aperitivo. Tali personaggi infestano vernissage ed esposizioni variabili; vi arrivano in una profusione turbinante di strette di mani e saluti accorati; riconoscibili in quanto amici di tutti e molto spesso amici di amici per intercessione amicale di antico sapore democristiano: una rigida e strutturata gerarchia di public relationer incalliti che di fatto non porta nulla all'ambiente di cui sono i fieri parassiti. Un'osmosi unidirezionale lega questi esponenti del nulla all'ambiente artistico milanese, il quale sembra ormai impegnato esclusivamente nell’organizzazione di banchetti alcolici ove snocciolare e rallegrarsi di gossip spicciolo. Il nostro piccolo neofita scende in questa arena di vernissage perché pensa di avere l’occasione privilegiata, sia di scoprire elementi affini al suo lavoro, sia d’incontrare persone con cui intrattenere dialoghi proficui. Una volta entrato verrà sicuramente avvicinato: è qui il caso di consigliare attenzione. La struttura dei discorsi è sovente ripetitiva, la parte interpretata provata e riprovata fino a raggiungere una sorta di perversa perfezione. Dapprima lo si affascinerà facendogli credere di avere finalmente trovato un giusto metro di confronto e di conforto alle sue aspirazioni: quell’oasi a lungo agognata di discorsi che egli brama trattare, ma sempre con il dovuto contegno e senza eccessi di vaniloqui dell’inviolabile absurde. Amara si rivelerà ben presto

essere l’inequivocabile verità, frutto ed epilogo dei successivi incontri o, se Gesù è in buona, da subito: un qualche scivolone ideologico, che il fashion-intellettualoide con infarinatura da Wikipedia commetterà a seguito di discorsi che si basano su conoscenze non acquisite, aprirà fortunatamente gli occhi del nostro disgustato novizio: a quel punto è buona cosa essere in possesso di scuse infondate e annichilenti con cui abbandonare la scena e lasciarsi alle spalle una gelida superiorità. Un altro strano e assai pernicioso essere che popola l’ambiente e rischia di deviare il germe del neofita è il


cosiddetto e auto-referenziale “esperto del settore”. È qui necessaria un’immediata precisazione per evitare di cadere in un insidioso tranello. È infatti credenza comune e consolidata che molti artisti di tendenza facciano successo grazie a un'innata bravura nell'interpretare i segni dell'epoca in cui vivono. Ahimè questo non corrisponde al vero: il successo è decretato più che altro dalla ripetizione di ripetizione di un modulo copiato all'infinito in modo da rendersi riconoscibile ed inflazionabile agli occhi del compratore. Tra modo e modulo scorre una ben nota e riconoscibile differenza di cui anche il nostro neofita è certamente a conoscenza; nonostante questo e nel senso d’incomprensione che spesso regna sovrana, a volte risulterà difficile non abbandonarsi a quella vocina infida bastarda che suggerisce malignamente che quella è probabilmente la via più giusta e utile (due termini che mal si associano alla voce Arte) per acquisire una piccola notorietà; che quello è solo il primo step da cui partire per esprimere successivamente e veramente quello che si ha intenzione di creare. È questo il momento in cui probabilmente suoneranno alla porta del nostro giovane eroe; aprendola vi si scorgerà la faustiana figura dell’ “esperto del settore” sorridente e munita alla cintola degli eterni trenta denari. Se il nostro cadrà nell’errore di fargli oltrepassare la soglia, il mefistofelico essere inizierà a incalzarlo con dolci e ammalianti consigli forgiati dall'esperienza: «Se fai così non sei collocabile… Da quando porto avanti il mio stile (“modulo”- N.d.T) ho fatto mostre con Tizio e con Caio e pure una con Sempronio. Non piacerebbe anche a te?». L'esperienza sfoggiata accenderà subito nel nostro la brama di quei riconoscimenti di cui vede coronati solo gli altri; lo spingerà a rivedere il suo giudizio, fino a quel momento incrollabile, su ciò che cerca di imporre nel suo piccolo e con sacrificio.

L'ego di un artista è la più grande arma di convinzione verso se stesso, ma può rappresentare anche la sua più grande rovina. Siamo così giunti a quello che a mio avviso incarna la vera nemesi di questo settore: il critico rampante. Uomo dalle idee incredibilmente coerenti verso l'accumulo inutile, seduce ed esorta a seguire la tendenza milanese con infingarde promesse di pantagrueliche mostre dai titoli troppo inglesi per essere italiane. Egli impone all'artista una produzione su larga scala. Lo incoraggia a una sperimentazione selvaggia lontana dal concetto di ricerca: uno sperimentando revival anni Settanta/Ottanta in cui l’artista è costretto necessariamente a muoversi per inarrestabili tentativi di tentativi senza la possibilità di conservare una linea retta. Ma non si può nemmeno definire ricerca una linea stilistica stitica e ripetitiva laddove questa è emanazione di un gusto sterile e vintage, ricalco di un'appropriazione simbolica extraculturale e non del sentimento che, se presente, collima e si armonizza con tutto. Così facendo, pioveranno sicuramente critiche compiacenti, affettuosi complimenti e paragoni illustri, ma ciò non toglie che quanto prodotto si trasformerà inevitabilmente in sedimento inutile e tossico che nulla aggiunge in campo artistico. Coinvolto in giochi più grandi di lui ed elevato al grado di maestro fin dalla più tenera età, il nostro promettente artista degrada rapidamente a quelle mansioni di operaio specializzato e sfruttato in cui comincia ad avvertire un certo senso di disagio ed insoddisfazione. Cosa manca, vi chiederete voi, a una situazione che a questo punto si profila proficua? Cosa c’è di male in tutto questo? Non era forse il riconoscimento della propria arte quello


che si andava cercando quando si era cominciato a farla? E allora perché non ringrazi ora che ti abbiamo tirato su il tendone per il tuo spettacolino? Difficile da spiegare. Difficile e pericoloso sciorinare i motivi per cui, nell’anno di tante mostre, lo opprimeva la presenza di quella masnada di persone mai viste che ora accorreva innamorata ad ammirare i suoi sforzi. Gravosa la percezione di quel lavoro che assomigliava tela dopo tela sempre più a se stesso, vuoto di interrogativi causali e colto da subitaneo e fulmineo alzhaimer di significante. Non c’è che dire, la fascinazione del business cura i disagi del nostro che inesorabilmente trasforma le vendite in una motivazione più che plausibile; una sorta di giustificazione accreditata dal “mondo dell'arte” e dal pubblico che lo obbliga esteriormente a non chiedersi più cosa stia facendo. Ora che tutti lo conoscono come quello che fa quei tali soggetti; ora che questi gli hanno reso così tanta fama e fortuna; ora che è riuscito ad entrare nel ristretto interno delle mura di un giro; ora che ha tutto questo, si accorge che una città come Milano ne incamera parecchi e il suo è semplicemente uno dei tanti circolini. E poi ci sono le interviste, magari una fotina su di una rivista specializzata ed infine alcune grosse personali in cui già si profila la spossatezza creativa: il troppo fare, certo lo tiene attivo ed in corsa, ma gli impedisce di ragionare su ciò che sta facendo. Ma ormai è lì, sulla cresta dell’onda che già scende a valanga a sommergere la sua traballante tavola. Prima di cadere si sforza di produrre in experimentum, si inventa e prova di tutto, cerca di convincersi che gli elementi trovati siano sufficienti. Poi un giorno accade: quella materializzazione di senso che si profilava sulle sue tele inizia inesorabilmente a trasformarsi in mera tecnica. Il nostro, partito da

presupposti ampiamente diversi, non può non accorgersi che qualcosa stona in mezzo a tanti complimenti e vendite; ma il nutrito gruppo di colleghi-conoscenti, nel loro imperterrito rincuorare, riesce di fatto a consolidare la sua appartenenza a questo nuovo approccio. Anche il suo linguaggio si modifica progressivamente avvicinandosi al gergo raffinato ricco dei tipici accenti stereotipati del professionista. Cominciano a fioccare con cadenze sempre più ravvicinate termini come: «l'opera funziona», «si sente il sapore di…» e altre ricercatezze simili. Quel linguaggio semplice e diretto cui era abituato viene


deposto in proporzione alla crescita del personaggio impeccabile che velocemente si staglia sul palcoscenico dell’effimera notorietà. Le sue esposizioni cangiano dal salotto ottocentesco al luna park: il giro a cui appartiene è ora convenzionato con gallerie che aspirano a cavalcare la tendenza; una fomentazione generale viene mossa dagli insindacabili pareri dello scribacchino, ribattezzato ormai dal Battista «collante di movimenti e di criteri propri solo a se stesso». Oscar Wilde, nella sua sottile conoscenza dell'uomo, soleva dire: «A questo mondo vi sono solo due tragedie: una è non ottenere ciò che si vuole, l'altra è ottenerlo. Questa seconda è la peggiore, la vera tragedia». Questa citazione ci serve per introdurre quella fase che tutti temono segretamente. Il nostro, ormai scafato artista, si ritrova con i suoi riconoscimenti e le sue mostre nel curriculum; il suo lavoro si è pulito nella composizione e nel colore a prezzo però della poetica e di quel senso profondo un tempo preponderante ed ora intangibile. Tutti lo conoscono, i suoi collezionisti e le sue gallerie gli consentono di vivacchiare. Si concede qualche parentesi di gossip con i suoi bersagli noti. I più fortunati hanno pure dei nemici! Tuttavia e a ben vedere non si possono definire nemmeno tali perché in genere sono affiliati al suo stesso circolino o sedicenti critici che non approvano la corrente a cui si è legato. La perdita del sacrificio ha favorito la tomba.

Cionondimeno un giorno si sveglia e gli balena negli occhi la percezione di un brutto sogno; decide che è giunto il momento di cambiare qualcosa all'interno del suo modulo: le critiche negative e il crescente disinteresse per il suo lavoro incominciano a preoccuparlo. Si sente arenato, i propositi di grandezza pesano nella loro lontananza temporale: come Pinocchio che vede trasformarsi Lucignolo in un somaro, così l'ultima consapevolezza guizza nel suo cranio. In segreto sforna nuovi lavori, i primi dopo tanta apatia che sembrano contenere qualcosa di spontaneo. Trova un'esclusiva con una galleria dal nome discreto, riassapora la possibilità di avere uno studio come quello che sognava all'inizio. Si fa coraggio e forte della sicurezza con cui ha affrontato la sua scalata, si para dinnanzi ai suoi referenti. Questi lo ascoltano nella loro fissità vitrea, dopo con placida tranquillità gli rispondono: «Carissimo, ci dispiace immensamente ma c'è una sfilza di collezionisti che vogliono i suoi soliti soggetti. Mi sembra pertanto superfluo ricordarle che la sua esclusiva con noi dura ancora due anni. Alla scadenza sarà naturalmente libero di rinnovare le sue legittime intenzioni, sempre che a quel punto ne avrà ancora voglia. Mi dia retta però, abbandoni questi propositi di frivolezza che non la porterebbero da nessuna parte e vada a lavorare!». MCR è nato a Milano nel 1979; lavora con la pittura e con la testa.


DAEMON HIRST di Stefano Leoni

“I do what other people only dream. I make art until someone dies. (giggles) I am the world’s first fully-functioning homicidal artist.” The Joker, Batman (1989, Film)

Chiedersi da dove arriva Damien Hirst è come interrogarsi sulla provenienza interpolata di Bill Gates, Pablo Picasso, William Blake, Ingvar Kamprad e Leo Burnett. Il più sconvolgente, innovatore e bastardo dell’arte contemporanea è un mix letale di questi cinque personaggi, una creazione del mondo contemporaneo datata Bristol 1965. Penso che ripeterò troppe volte la parola contemporaneo, quindi tralasciate le consuetudini sintattiche per passare immediatamente al concetto, potrebbe essere un buon metodo per capire il modus operandi del signore di cui stiamo parlando. Dopo non esser stato ammesso al St.Martins College e aver passato due anni della sua vita a «guardarsi in giro, fare dei lavoretti», decide di iscriversi al Goldsmith College, unico luogo a suo dire trasversale rispetto alla scultura e alla pittura.

Resta indubbiamente bislacco all’alba degli anni Novanta ipotizzare una imperitura divisione tra questi due “rami” delle facoltà artistiche, probabilmente per qualcuno Duchamp non è mai esistito. Se grazie a Duchamp il “già fatto” (ready made per gli stolti n.d.a.) diventa arte, con Daemon diventa arte anche la quotazione, la vendita e l’economia legata all’arte...una sorta di performance totale dell’era del denaro, un upgrade ad Arte 2.0. «Ho sempre pensato che essere un artista, fare qualcosa nel tuo studio e aspettare che qualcuno venga a vedere e se lo porti via non abbia senso... Ad esempio agli inizi, trovavo uno spazio, facevo una mostra e poi... già allora pensavo che l’aspetto economico facesse parte del lavoro. Se l’arte riguarda la vita, ed è inevitabile che sia così, e riesce a rimanere tale anche se la gente la compra e ci investe dei soldi fino a farla diventare un bene di consumo, beh, per me è emozionante.»1 Basta con le inibizioni e con il ben pensiero sulla figura dell’artista che lavora per la gloria, oggi tutti lavoriamo per guadagnare, e tanto. L’artista fa lo stesso, non è in cima all’Olimpo. Ciò che stupisce è come rendendosi conto della versatilità e della trasversalità della figura umana utilizzi il genio creativo sviluppato nella sua formazione artistica come modus operandi di qualsiasi esperienza di vita. Lui sì che è realmente un creativo, non si limita a creare immagini,


crea arte esperienziale da tutti i punti di vista, soverchia il tradizionale metodo di vendita delle opere, inventa un asta pubblica, taglia fuori di netto le gallerie e permette di comprare direttamente dalle mani dell’artista già affermato, decuplica il suo guadagno facendo scannare direttamente la platea in suo onore. Si ritrova, quindi, a essere un personaggio capace contemporaneamente di pensare e costruire a far costruire opere d’arte valutate milioni di euro, essere il curatore di una mostra, sedere al tavolo delle contrattazioni con i grandi del mercato dell’arte, superando il sistema consolidato dell’arte contemporanea inventandosi un’asta senza intermediari (con un profitto quindi maggiorato del cento per cento), organizzare contemporaneamente un’esposizione tradizionale alla Tate Modern a Londra e aprire un ristorante che sembra essere la copia dell’esposizione, “brandizzare” una Mini e un paio di scarpe Manolo con i suoi puntini colorati, collaborare con la Levi’s, con Harley Davidson e creare un sito web dove si vendono coperte e t-shirt. Dimenticavo il video dei Blur, Country House. E la produzione dell’album dei The Hours. Tra il 1986 e il 1989 mentre studia al Goldsmith College organizza Freeze, allestita in un magazzino in disuso di Canary Wharf, comprendente molti suoi lavori e quelli di alcuni studenti del College, tra cui Angela Bulloch, Gary Hume e Sarah Lucas. La mostra si rivela un grande evento e suscita l’attenzione di personaggi del calibro di Norman Rosenthal della Royal Academy e Charles Saatchi. E sarà proprio il potente magnate della pubblicità a dare il più importante contributo a questi giovani artisti emergenti. Nel 1990 Saatchi compra A Thousand Years, una vetrina contenente uno sciame di mosche e una testa in decomposizione di una mucca. Quest’opera viene

presentata nell’ambito della mostra Gambler, organizzata da Hirst insieme al giovane mercante Karsten Schubert e a Jay Jopling, che più tardi avrebbe aperto la galleria White Cube. In quel periodo Saatchi inizia a collezionare la giovane arte britannica su larga scala e a esibire le opere di Hirst e dei suoi compagni in una serie di mostre itineranti dal titolo Young British Artists alla Saatchi Gallery. «Voglio che la gente pensi in anticipo, pensi più di quanto possa fare. Voglio che arrivi al limite, ma non voglio andare oltre. O meglio, non voglio utilizzare un linguaggio che non si capisce. Voglio parlare una lingua che possano capire, comunicare cose che non pensano di essere in grado di ricevere, a meno che non facciano un piccolo sforzo. Cose che a loro non interessano, ma che interessano a me. Cose che per me sono importanti, ma che magari per loro non lo sono.»2 «Non penso che gli artisti siano persone speciali. Secondo me sono delle persone normali che riescono a mettere a fuoco delle cose importanti per tutti»3. Parla una lingua internazionale DH, non solo perchè è inglese, ma sopratutto perché è completamente immerso nel suo tempo come i suoi animali sono immersi nelle vasche di formalina. Probabilmente The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living avrebbe potuto chiamarlo Charles Saatchi 18 november 1991 oppure Damien Hirst want to fu*k you in the ass, ma essendo un artista e avendo un sottovalutato (dalla critica/gente comune ma non da lui stesso) senso della vita e dell’arte, l’ha voluto chiamare con un nome che evocasse la morte, argomento che


indaga in quasi tutti i suoi lavori. Un fotogramma di vita, una fotografia tridimensionale di un essere vivente. Oserei dire uno stereotipo, un archetipo della paura, uno squalo immobile, congelato in una soluzione verdastra. Un continuo rimando alla vita e forse anche al volersi tenere in vita per l’eterno, una specie di patto con il diavolo. Sicuramente un'idea forte, maledettamente affascinante. La fantascienza degli anni Settanta e Ottanta in cui è vissuto è stata trasformata in arte, le macchine del tempo e un futuristico collegamento alle scene di Matrix, la possibilità di immobilizzare una porzione di spazio. Il fatto tecnico del solo rallentamento del processo di scomposizione della formalina passa in secondo piano, in primis c’è un’idea che passa violentemente. E’ impossibilie non rilevare un inversione di tendenza rispetto alle esperienze degli anni Sessanta: il tema della performance, Shark is watching you, viene ribaltato: You’re watching the Shark [poor beast], Damien congela, ti mette davanti a una realtà già decisa, conclusa, paradossalmente nulla di così violento come si poteva trovare nella Body Art, nessuna sua opere chiede un proiettile nel cuore, estrazioni vaginali, masturbazioni o morsi infiniti, piuttosto immobilizza in una teca da museo un procedimento naturale, un delitto già compiuto. A Thuosand Years è a suo dire una delle sue migliori, Damien afferma addirittura di aver “iniziato dalla fine”. La testa (ripiena di pancetta e ketchup commestibili) rimane in un dado di vetro sovrastata da una resistenza, comunemente utilizzata per uccidere gli insetti. Nell’altro dado c’è un cubo bianco da dove escono delle mosche, i due cubi sono collegati con dei fori nel vetro. Si potrebbe parlare per giorni solo di questa opera: è il ciclo della vita, è un continuum, un equilibrio perenne anche dopo una

morte violenta, una decapitazione, un continuo bivio, una continua scelta tra la sopravvivenza e il trapasso. Prendi la via sbagliata e zakk! sei fottuto. È divertente come Hirst combatta con la sua voglia di realtà: lui vorrebbe una testa vera, in decomposizione, vorrebbe addobbare Pharmacy con delle medicine vere invece che con pillole fatte ad hoc in gesso. Non può, se ne rende conto: la testa puzza da morire, ci aveva provato in precedenza, ma nessuno osava entrare nella mostra; dopo due settimane le pillole si sfaldano. Preferisce il compromesso: far finta che, far sembrare che, rappresentare qualcosa in maniera talmente reale che nessuno ne dubiti. Quello che gli interessa è far passare il messaggio, non essere l’inutile eroe di una storia criptica. Non è visionario come David Lynch, non scombussola le battute dei Rabbits per far assistere la gente a uno spettacolo delirante. È «un provocatore, un buffone uno che ti fa morir dal ridere»4, non me lo vedrei mai a costruire un’opera come quelle di Kittiwat Unarrom, il “panificatore umano” thailandese. Ha avuto un’infanzia difficile (a proposito, quanti artisti non hanno avuto un infanzia difficile?). Il padre, quando aveva dodici anni, era stato buttato fuori di casa da sua madre per le sue relazioni extraconiugali con la baby-sitter. Ha utilizzato e probabilmente utilizza ancora, droghe e alcool senza ritegno, ma probabilmente le sue esperienze di vita l’hanno portato a ragionare sempre sulla morte, non come estremo fine ma piuttosto come parte integrante del ciclo di vita. Morte come inizio di milioni di


nuove vite, una sorta gioco, una rulette che non si conclude mai. Internal Affairs all’istituto delle Arti Contemporanee a Londra propone I Want to Spend the Rest of My Life Everywhere, with Everyone, One to One, Always, Forever, Now del 1991 come masterpiece della mostra. Due lastre di vetro incollate con un soffiatore applicato nell’incastro tra le due lame. Una pallina che fluttua sopra questa aria soffiata e gli angoli delle lastre sbeccati. Caducità della vita. Idem per un’opera più tarda, del 1999, The History of Pain, un landscape di lame di coltello posizionati su una base minimal con un pallone gonfiato sorretto dal solito getto d’aria. Ciò che è maledettamente geniale è la calma con cui vengono presentati i lavori, niente splatter, niente scene alla Quentin Tarantino, ma solo una base o una gabbia strutturale minimal-chic. Anche nel periodo in cui più osa con il sangue, con opere come An Unresonable Fear of Death and Dyng del 2000, quello che riesce a creare è tensione e non rigetto per il truce. Non inserisce uomini nei suoi lavori, mai. Dell’uomo tutt’al più utilizza lo scheletro e la primordiale paura che fin da bambini ci incute. Un’opera di questo genere è Death is Irrelevant del 2000, dove crocifigge uno scheletro trapassandolo con una croce fatta da due lame di vetro perpendicolari. Lo scheletro rimane sospeso e incollato tra i vetri, fluttua sdraiato quasi fosse un fantasma. Lo stacca da terra come alcuni suoi animali in formalina, li solleva da questa esistenza.

Il contenitore patinato di molte sue opere, che talvolta si trasforma pure in acquario, prepara la vista dell’opera, ruba uno spazio alla realtà. Talvolta non si rimane neanche così tanto sbigottiti, fino a quando non ci si accorge del particolare. Il particolare! Hirst costruisce il suo universo perfetto, armonico e fantastico e poi ci inserisce l’uomo. In altre parole ci inserisce l’errore, quello che rompe tutto, il piccolo insignificante gesto che sbigottisce. Ciò che ricongiunge l’arte al reale. In Adam and Eve Together at Last, opera del 2004 ciò che sconvolge non sono tanto i due lettini ospedalieri con tanto di scheletro quasi completamente coperto da un telo bianco, né tanto meno gli aggeggi per le operazioni chirurgiche. Ciò che sconvolge veramente è il panino al formaggio. La morte è un elemento che dobbiamo considerare secondo Hirst come un processo obbligato, un divenire imprescindibile, un traguardo. «Le cose al posto sbagliato sono incredibilmente stimolanti. Un posacenere pieno di cicche nel frigorifero. Non c’entra un cazzo! Ma il difficile non è metterlo nel frigorifero, una volta che ce l’hai messo, la gente inizia a guardarlo in maniera diversa. Forse è troppo scioccante metterlo nel frigorifero. Forse lo puoi mettere nel lavandino. Ma mentre lo fai ti capitano una serie di cose molto divertenti che non c’entrano niente con quello che vuoi dire. L’umorismo è quasi una conseguenza. Ci pensi? Il cetriolo e il barattolo di vaselina, sai già che centinaia di migliaia di persone, guardandolo, penseranno la stessa cosa. Se ti abbandoni a questa logica, non puoi andare alla cassa del supermarket solo con un barattolo di vaselina e un cetriolo. “Ti fai una serata in casa? E dai, ti fai una serata in casa?”. Basta pensare a come funziona il linguaggio visivo e il risultato sono migliaia di buffe combinazioni.»5


«Si riduce tutto alla morte. Voglio dire, stiamo morendo. È una carneficina, una carneficina, cazzo. Che stiamo facendo, moriamo? È delizioso, è bellissimo, è favoloso. Non devi comprare un microscopio per renderti conto di quanto sia meraviglioso. La forza motrice, la roba in cui viviamo, si decompone. E le cose in decomposizione sono coloratissime, è incredibile, a qualsiasi livello. E stiamo morendo. Non ha senso. Si riduce tutto a celebrare la vita… Non puoi farci niente. Però, ascolta gli uccellini, esci e strappa l’erba, comprati un microscopio e guardala. Prendi il microscopio più potente che c’è e guardala... è vera. Esiste. Davanti a te hai tutto quello che hai sempre desiderato.»6 Morte e vita sono collegati. Una esiste perché c’è l’altra, il lungo viaggio della vita culmina nella morte, lo ricorda bene l’opera Waiting di Robert Gligorov del 1997, una rivisitazione in chiave umana del signifi cato di A Thuosand Years di DH. Tra i due artisti c’è però una notevole differenza, se Gligorov mette in gioco sempre l’uomo come stimolatore di un processo empatico, DH lo fa sempre con simboli, in maniera meno schietta, molto più poetica e legata alla memoria collettiva. L’utilizzo dell’agnello in Away from the Flock e del vitello in The Golden Calf hanno una potentissima impronta biblica. Qualcuno li definisce come una specie di autoritratto, l’agnello lontano dal gregge rappresenta uno dei suoi modi di interpretare il viaggio dell’arte, un non uniformarsi alle regole consolidate e ai voleri dei galleristi, ciò che gli ha permesso di fare un arte poco gradevole o compiacente, non provinciale e poco inglese. Il vitello sacro è la nuova legge, la nuova religione, il nuovo modo di pensare la vita come un opera d’arte totale e l’arte come una sinergia di economia, significati, marketing, design, personalità e società. Questo MerzBau Schwittersiano nel momento della nascita della

sua arte globalmente riconosciuta è coinciso non con il lavoro d’artista, ma con quello del curatore. Genio. Ha esperito le tecniche della luce lavorando da semplice “aiutante-muratore-fac-totum” in galleria e le ha messe a frutto in Freeze. Ha miscelato come un perfetto farmacista le opere d’arte altrui, ha creato una composizione armonica e perfetta che è riuscita a smuovere gli animi (ed i portafogli) di Saatchi e Gagosian. «Quando ero da Jacob Kramer a Leeds facevo dei quadri astratti, ed erano come delle masse di colore, tipo i Visual Candy. Facevo dei quadri così incollandoci dei pezzi di stoffa. Pensavo di essere come, che cazzo ne so, de Kooning. E c’era un tizio che si chiamava John, che era il mio insegnante, che li guardò e davanti a tutti disse: “Stai facendo delle tendine?”. Ero distrutto, ma non lo feci vedere. “Belli questi motivi per tende”. E io: “Credi davvero? Sai cosa, forse hai ragione. Sì, proverò a stamparli”. E andò a vedere il lavoro di qualcun’altro. Mia madre aveva un negozio di fiori. E mi ricordo di un altro insegnante che appena mi vide il mio lavoro al Goldsmiths disse “Ehi Damien, quante cose a fiori”. Erano cose dall’impatto negativo, capisci cosa voglio dire? Le tende, i fiori. E quindi: “Cosa succederebbe se? Cosa succederebbe se? Cosa?”. All’improvviso iniziai a... sai, se vuoi essere un pittore famoso devi fare come de Kooning. Devi fare dei quadri importanti, che cambino la vita della gente. E finchè ti dicono che sembrano motivi delle tende o i fiori ti incazzi. Mi chiesi: “Perché?”. E capii che non c’era un perché. Cosa c’è di sbagliato in un bel paio di tende del cazzo? Cosa c’è che non va con i fiori? … e pensi: “Posso fare tutto. Cazzo, posso fare tutto”. Tutte le cose che ho scoperto in arte erano già accadute prima, in grande scala, da qualche altra parte. … È già stato fatto tutto prima. È tutto lì.»7 È tutto lì, pronto per essere utilizzato, reinterpretato,


assemblato. Proprio il lavoro da curatore. Ma a un certo punto succede qualcosa, manca qualcosa. L’arte di Hirst si evolve.

Vedo ogni puntino in ogni quadro come una presenza solitaria anche se è insieme agli altri. Riesco a trovare i pezzi tristi, quelli felici e anche quelli stupidi.»9

«Credevo in ciò che facevo quando ero al college. Ma era difficile conservare quell’idea e portarla avanti. Tutte le volte che ci provavo finivo con delle scatole di cartone del cazzo sul muro. Facevano cagare. Tony Cragg le aveva fatte anni prima. La situazione era questa. Poi ho fatto i puntini, solo allora le cose si sono stabilizzate. Ma quell’idea non so da dove cazzo sia venuta.»8

«La grande arte è quella che ti fa fermare quando giri l’angolo e dire: “Cazzo! Cos’è?”. È quando ti trovi davanti a un oggetto con cui hai un rapporto personale, fondamentale, stretto, e capisci qualcosa sull’essere vivi che non avevi capito prima.»10

DH disegna su due pareti i primi suoi due quadri puntinati. L’approccio che ha poi dato il nome al suo studio, Science Ltd., comincia a materializzarsi. I quadri puntinati sono come la composizione della materia, l’alchimia della vita e, quindi anche della morte fisica intesa come decomposizione e trasformazione. Ma in fondo sono belli e affascinanti, li ha utilizzati anche la BMW per la versione Damien Hirst della Mini e Manolo per dei Boots. La composizione chimica di DH si chiama anche Pharmacy ed è contemporaneamente esposizione alla Tate e ristorante vicino a Notthing Hill. I suoi puntini colorati si trasformano in pillole. Infinity sono 1600 pillole messe in ordine su uno scaffale cromato e riflettente. Evolvono dalla bidimensionalità, mutano e catturano la terza dimensione, diventano reali. Ti permettono di specchiarti in questa nuova realtà fatta di uomini e medicine. Una ricerca di una infinita immortalità. Se le pillole sono finte, perché quelle vere sono tossiche e si disgregano, non importa. Quello che importa è l’idea. «Se guardi il mondo reale con un microscopio scopri che è fatto di cellule. A volte mi immagino che i quadri puntinati siano il mio lavoro visto sotto le lenti del microscopio. […]

La vita di Damien è un teatro. Conosce i ragionamenti delle persone, il divenire delle cose e la psicologia della massa. Finge pazzia e successivamente razionalità, capisce che ciò che è fondamentale per una celebrità è far parlare di sé, sia in positivo che in negativo. È un P.R. Prima della popolarità si inventa un agenzia di stampa fasulla per accedere a tutti gli eventi della Londra-Bene artistica. Basta rispondere a qualsiasi ora della mattina con una voce convincente, anche se la notte prima ci si è scassati di droga e alcool. Ciò che resta subito impresso di tutte le sue opere sono i titoli. Fanno sempre parte di quel processo di produzione-promozione pubblicitaria che contraddistingue quello che molti hanno definito il brand Damien Hirst. Don Thompson, nel suo libro il cui titolo prende spunto da un'opera di DH, Lo squalo da dodici milioni di dollari, Mondadori 2004, afferma che il concetto di branding è di solito associato a prodotti di consumo e consente di acquisire affidabilità. «Una Mercedes offre la rassicurazione del prestigio, Prada quella dell’eleganza. Anche l’arte brandizzata funziona così. Può capitare che gli amici sgranino gli occhi se dite loro: “Ho pagato quella statua di ceramica 5,6 milioni di dollari”. Ma nessuno obietterà nulla se dite “L’ho presa da


Sotheby’s”, oppure “E’ il mio nuovo Jeff Koons”. Il branding di successo ha avuto una influenza notevole nel far salire le quotazioni delle opere e continuerà a esercitarla ancora a lungo.»11 A giudizio di Thompson tra i galleristi il mago del “brand” è Larry Gagosian, che riesce a collocare gran parte delle opere ancor prima dell’apertura di una mostra e ai prezzi che lui stesso decide. Scrive Thompson: «Le mostre di Gagosian vanno esaurite perché un paio di giorni prima dell’inaugurazione un impiegato della galleria chiama i clienti abituali e dice loro: “Larry dice che hai bisogno di questo per la tua collezione”. Un collaboratore sostiene che circa in un quarto dei casi i clienti rispondono “Lo prendo” senza neppure chiedersi di che opera si tratta o quanto costa. Vendere in questo modo è una delle più importanti caratteristiche di un gallerista superstar. E Gagosian lo è.»12 Secondo Thompson i prezzi dell’arte sono alimentati da quello che in termini economici si definisce “effetto di irreversibilità”: funziona come una ruota dentata che gira solo in un senso e si blocca nella posizione raggiunta. I

“prezzi irreversibili” non scendono ma progrediscono verso l’alto. Peccato che è notizia dei primi giorni del 2010 che le quotazioni di due degli artisti contemporanei più quotati, Jeff Koons e il nostro Damien Hirst si sono dimezzate del 50% quest’anno... Il povero Damien che tutti dipingono come un mangiasoldi forse aveva ragione, l’arte non è l’economia, all’alba del 2010 deve servirsi di essa ma ha un fine sostanzialmente diverso.

1 Damien Hirst; Gordon Burn, Manuale per giovani artisti. L'arte raccontata da Damien Hirst, Postmedia Books, p.152 2 Ibid, p.92 3 Ibid, p.168 4 Goldon Burn su D.H. 5 Damien Hirst; Gordon Burn, Manuale per giovani artisti. L'arte raccontata da Damien Hirst, Postmedia Books, p.32 6 Ibid, p.230 7 Ibid, p.75 8 Ibid, p.82 9 Ibid, p.125 10 Ibid, p.174 11 Ibid, p.45 12 Ibid, p.156

Stefano Leoni è architetto, light designer, musicista. Nato nel 1984 e laureato al Politecnico di Milano, è progettista architettonico e illuminotecnico, attento alla dimensione sensoriale dello spazio: la musicalità del luogo, la dimensione eterea della luce e la fisicità del contenitore architetturale. Musicista appassionato dello studio delle percussioni suona in diverse situazioni, dalla musica originale, alla crezione di colonne sonore a cover di altri artisti.


LA QUARTA DIMENSIONE DELL’IMMAGINE. INTERVISTA A CARLOS CASAS di Emanuele Beluffi

Carlos Casas è il giovane filmmaker e artista visivo con cui, insieme alla poderosa installazione Personnes di Christian Boltanski, l’Hangar Bicocca di Milano ha riaperto i battenti dopo lunghi lavori di ristrutturazione, con in permanenza le famose sette torri di Anselm Kiefer, la solenne scultura La sequenza di Fausto Melotti e la struttura architettonica Melting Pot 3.0 di Stefano Boccalini. Carlos Casas è l’autore di End, una trilogia di film che ha per oggetto l’esplorazione degli ambienti estremi e desolati della Terra (Aral, Patagonia e Siberia) e caratterizzata da una lettura che, basata sulla registrazione audio e visiva direttamente sul campo e pur priva d’interventi a posteriori, prescinde dal valore strettamente documentaristico o resocontativo, andando piuttosto a precisarsi come una vera e propria forma di video arte che, come nel caso della serie di video Fieldworks, non disdegna ma anzi accentua gli aspetti intimamente connessi alla ricerca sul suono, collocandosi così tangibilmente alle soglie di quella che generalmente possiamo identificare come sound art. Il primo episodio della trilogia END (Aral. Fishing in an invisible sea) è incentrato sulla vita di tre generazioni di pescatori sul lago d’Aral e ha vinto il premio come miglior documentario al Torino Film Festival del 2004. Ad esso segue nel 2005 Solitude at the END of the world, ambientato in Patagonia e premiato al Buenos Aires

International Film Festival, dove i protagonisti sono persone che, per ragioni le più varie, conducono la propria vita in condizioni di estremo isolamento in una delle periferie più distanti dalla civilizzazione. E’ infine del 2008 la chiusura della serie in Siberia, con Hunters since the beginnng of time, premiato come miglior documentario al Mexico International Film Festival e dedicato a una comunità di cacciatori di balene che, impegnati essi stessi a sopravvivere in una terra estrema, si sforzano di far sopravvivere questa millenaria tradizione. Una caratteristica precipua di queste immagini è la loro intrinseca affabilità nonostante il silenzio di cui sono pervase.

Emanuele Beluffi: Caro Carlos, c’è una straordinaria coincidenza fra il tema monografico di questo numero di Kritika e il “visibilismo” delle tue immagini. Quanto conta per te la verità dell’immagine? Carlos Casas: Quando scelgo di catturare certi momenti mi sembra di fare una sorta di magia. A volte sento che in quel momento sta succedendo qualcosa di magico, sento che qualcosa sta entrando in questa piccola scatola nera


COURTESY Fondazione Hangar Bicocca, COPYRIGHT Agostino Osio

COURTESY Fondazione Hangar Bicocca, COPYRIGHT Agostino Osio

che è la mia telecamera. In un certo senso io catturo fantasmi, cioè immagini. Quando mi trovo a filmare in alcuni luoghi sacri, dove l’immagne non deve essere filmata, privo questi luoghi della loro sacralità. Ma è una sorta di benedizione il fatto che queste immagini possano essere catturate e condivise: ogni istante e ogni pesona ha in sè un valore enorme e l’immagine è come un messaggio in una botttiglia che attraversa il tempo e lo spazio, ha un che di spirituale e sciamanico. Mi piace pensare a me stesso come a una sorta di canale. Per me l’immagine ha questo valore di viaggio magico nel tempo e nello spazio.

permettono di fare un salto indietro per mantenere una relazione con il costro passato.

Emanuele Beluffi: A proposito della tua trilogia, hai detto di aver trovato in quei posti lo spirito umano nella sua forma più pura, lontano dalla civiltà occidentale: qual è la tua idea della civiltà occidentale? Carlos Casas: Per me la civiltà occidentale è l’apice del genere umano. Ma quelle che io chiamo le periferie della civilizzazione mantengono intatta l’essenza dell’essere umano e la “connessione” con noi stessi. Credo che la nostra civilizzazione sia la celebrazione di questa plaga che siamo noi stessi, una plaga da purificare. Per questo mi interessano le periferie della civilizzazione, perchè ci

Emanuele Beluffi: Hai detto che vorresti che queste tue “testimonianze” illuminassero noi occidentali. La fine del mondo può essere l’inizio di un nuovo mondo? Carlos Casas: Una delle esperienze più forti di questa trilogia è stato vivere con i pescatori che vivevano nel Lago d’Aral. Là si è realizzata veramente la fine del mare, la fine di una tipologia di sussistenza economica basata sul mare. Però, nonostante questa situazione, gli abitanti del posto sono convinti che tutto ciò sia solo un processo, una serie di cambiamenti momentanei. Quindi non si tratta proprio di una perdita, ma di una sorta di continuo ricominciare. Il concetto di “fine” allora consiste nel dare valore al nostro vissuto e alle nostre esperienze. E’ una capacità di vedere il mondo molto interessante, che bisogna catturare e trasmettere alle altre persone. Per me è una sfida trovare il codice giusto, capire come questa esperienza possa essere adattata a un pubblico che visita le mostre, che si trova in questo hangar trasformatosi da spazio industriale a luogo di esperienza e di pensiero, dove posso toccare l’anima delle persone.


Carlos Casas - END (Solitude at the END of the world) - 2005 - Courtesy dell'artista

Carlos Casas - END (Hunters since the beginnng of time) - 2008 - Courtesy dell'artista

Emanuele Beluffi: Nel 2008 hai lavorato anche con la galleria e-static di Torino, dove hai fatto una mostra in collaborazione con Thomas Koner. Il tuo modo di lavorare ha certe affinità con la sound art: utilizzi tracce sonore, alte frequenze e basse frequenze, e le “impasti” con l’ambiente in cui ti trovi a operare...

un’immagine. Ma se senti anche i suoni che popolano quella zona, allora hai un’informazione diversa. Sono differenti livelli, e quando faccio un film cerco di catturarli tutti, realizzando un mix indiretto. Mi piace pensare a un parrallelismo con il medium che dialoga con gli spiriti. Ho tutte queste registrazioni, dove ogni tanto si percepisce l’arrivo di “voci”, suoni, melodie, che portano a questa quarta dimensione dell’immagine

Carlos Casas: Sì, ho sempre avuto una forte fascinazione per la musica, la sperimentazione e la ricerca sul suono, però non parlerei esattamente di sound art, non mi sento molto legato a questa forma artistica, però d’altra parte mi affascinano gli “esploratori del suono” che hanno toccato la mia sensibilità, soprattutto il mio modo di ascoltare e studiare questi luoghi in cui sono stato. E’ molto importante per me lavorare con il suono, dico spesso che il suono è la quarta dimensione del mio lavoro. Quello che vedremo stasera è l’esempio più chiaro: è un film che ho girato nella Tundra a stretto contatto con gli allevatori di renne, dove ho catturato il suono prodotto dall’aurora boreale, quello che potremmo chiamare il suo canto. Io credo che nell’etere, nell’atmosfera, ci siano miliardi di informazioni, fantasmi che fanno parte di quel luogo specifico e che ti indicano cos’è quel luogo e cosa stai guardando. Se tu guardi l’immagine, guardi appunto solo

Emanuele Beluffi: Ultima domanda (ma forse mi hai già risposto). Fra tutte le straordinarie esperienze cha hai vissuto, ve n’è una che ti ha particolarmente toccato? Carlos Casas: Nella mia storia personale ci sono stati dei momenti, dei segnali come piccole pietre che mi hanno indicato la direzione da seguire. Quando stavo a Barcellona ero affascinato da tantissime cose e sapevo che tutte queste cose, alla fine, dovevano “incrociarsi” da qualche parte, capisci? E a un certo momento è arrivata la decisione: io DOVEVO lavorare con l’immagine. E lì tutte le mie passioni hanno incominciato a convergere in un unico punto. Ricordo il primo viaggio in Patagonia - il primo viaggio in cui ero veramente “cosciente” di me stesso -, quando ho portato la mia mente al di là delle mie


possibilità fisiche. All’inizio sentivo che il mio mondo non era ancorato a quel mondo, avvertivo paura perchè non sapevo dove aggrapparmi, non sapevo come costruire una relazione con le persone che erano lì. Ma a un certo punto è avvenuta in me una sorta di piccola rinascita, ho capito che c’è una purezza, un’essenzialità da riscoprire dietro a tutti quei livelli intermedi e posticci che noi ci costruiamo

da noi stessi e che non ci servono a niente. E col mio lavoro ho voluto fare arrivare questa verità anche ad altri. Carlos Casas è nato a Barcellona nel 1974 e vive un po’ ovunque nel mondo. Il suo lavoro è una congerie di elementi in cui cinema, film documentario e musica si armonizzano in un unico amalgama. Casas esplora con fotografie, instalazioni, film e progetti audio le terre estreme del pianeta, concentrandosi sul valore transculturale di queste esperienze sul campo. Attualmente è impegnato nella realizzazione di un documentario sul cimitero degli elefanti al confine fra India e Nepal.


INDICE 3

UN PO’ DI SANA ICONOCLASTIA (?) di Emanuele Beluffi

6

LA COLLATA DELL’IMMAGINE. IL TRANSITO ICONOCLASTA VERSO L’ASTRAZIONE NELLA REPLICA “SIMULACRALE” DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA di Chiara Tinnirello

9

ICONOCLASTIA di Aldo Runfola

11

L’UOMO CHE CADE E ALTRE STORIE DI CECITA’. CONSIDERAZIONI SU UN’ICONOCLASTIA NECESSARIA di Silvia Bottani

15

ICONOCLASTIA ALLA ROVESCIA PER LIBERARE L’IMMAGINE DAL CRITICO D’ARTE di Flavio Arensi

18

UN PO DI SANA ICONOCLASTIA (?) BREVIARIO PER “INDICAZIONI” INTORNO A UN FENOMENO AMPLIATO di Matteo Bergamini

23

INDAGINE SUL SENSO DI UNA NUOVA ICONOCLASTIA di Laura Fanti

26

L’ICONOCLASTIA E’ UN’UTOPIA ONANISTA di Jacqueline Ceresoli

30

L’ARTE E’ CONCETTUALE SE VALE L’ICONOCLASTIA DELL’ASSENSO? di Paolo Meneghetti

34

PAINTING, SOUND AND LIGHT TRESHOLD di Emanuele Beluffi

38

CANCELLARE E POESIA VISIVA. EMILIO ISGRO E LA POETICA DELLA NEGAZIONE di Mariangela Maritato

41

DISTRUTTORI DI IMMAGINI di Stefano Mazzoni

46

DENTRO A MILIONI DI ALTRE IMMAGINI di Gianni Cuomo

50

LA VERITA’ E’ UN PENSIERO DI REALTA’ CHE CI SI FINGE di Luca Beolchi

52

RISCHI. PICCOLO VEDEMECUM PER ASPIRANTI ARTISTI IN MILANO di MCR

57

DAEMON HIRST di Stefano Leoni

64

LA QUARTA DIMENSIONE DELL’IMMAGINE. INTERVISTA A CARLOS CASAS di Emanuele Beluffi


Kritika contemoporary art book via dei Crollalanza 10 20143 Milano

DIRECTOR Emanuele Beluffi emanuele.beluffi@kritikaonline.net ART DIRECTOR Mihailo Karanovic karanovic_arte@hotmail.com EDITOR IN CHIEF Stefano Mazzoni kritika.redazione@gmail.com PUBLISHER Fabio Pedrazzi fabio.pedrazzi@pedrazzieditori.com

Stampa: Litosette s.n.c. - Pedrazzi Editore via Meda 29, Milano tel. 02 57512817 e-mail: fabio.pedrazzi@pedrazzieditori.com www.pedrazzieditori.com

Kritika ringrazia tutti i suoi collaboratori



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