L'IRCOCERVO - N.1 marzo 2019

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che si finisca per parlare di quello: i doveri suoi, i doveri miei… le solite cose. «Quanto ti danno?» «Abbastanza bene.» «La cifra?» Gliela dico. Lui fa una smorfia. «Lasceresti un lavoro part time a due passi da casa per quel compenso lì? Cazzo, sei fuori di testa.» «Sarebbe solo all’inizio. Tra sei mesi si rivaluta il tutto.» «Sei mesi? C’è un periodo di prova?» «Non è una prova.» «Se si rivaluta è una prova.» «Mi hanno fatto una buona impressione. È una bella agenzia. Lui ormai è grande. E non si può farne sempre una questione di soldi.» «Fra sei mesi ti danno il benservito, vedrai.» «Gli piace come lavoro.» «Figurati.» «Vuoi che lasci perdere?» «Io non dico niente. Solo pensaci bene, prima di fare cazzate.» Il giorno seguente la situazione non era mutata. Ofelia, il ratto, stava ancora lì: il corpo sempre più sciupato tuttavia, il pelo non più lucido, la coda - questo mi parve - più sottile. Mi accosciai sul greto del fosso: avevo bisogno di guardare il corpo. L’osservai con attenzione, poi lo sovrapposi al ricordo che avevo di Ofelia. Anche lei, nell’Ofelia di Millais, era un corpo: dipinto con olio e pigmenti, eppure la rappresentazione di un corpo fatto di carne e succhi. Come il ratto sul letto del fosso. Sapevo che Millais aveva utilizzato una modella: Elizabeth, di diciannove anni. Certo non l’aveva fatta immergere nelle acque gelide e brumose dello Hogsmill - nessuna modella, per quanto devota, per quanto lautamente ricompensata, avrebbe acconsentito a tanto -, ma si era limitato a farla posare vestita dentro una vasca da bagno. Elizabeth, Ofelia, il ratto, indossava quel giorno un vestito di mussola bianca, lungo fino ai piedi - il seno strizzato nel corpetto e le braccia nude. Entrò nella stanza e Millais le indicò la vasca: ovale, in metallo smaltato, i quattro piedi d’argento a forma di con-

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