RIVIERA Nº 19 DEL 09/05/2021

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R Aspromonte, amore mio! GEOPARCHI UNESCO www.larivieraonline.com

SERVIZIO DI NADIA PANETTA

Quando mi fu commissionato il lavoro di realizzazione dell’archivio fotografico del Parco d’Aspromonte per i geositi internazionali, non potei ammettere a nessuno che quella grande gioia era smorzata da una mia antica paura per il bosco, quell’unica e grande paura che mi aveva costretta a incubi frequenti da bambina. Temetti di non riuscire ad esprimermi appieno e che le immagini avrebbero riflesso quella paralisi interiore. D’altronde, mi ero abituata a farmi leggere tramite le fotografie, è il mio modo di esprimermi, il mio modo di comunicare. Ma fui ambiziosa, volli sfidarmi e feci la cosa giusta perché quel progetto risultò essere il più appagante per me. Il progetto cominciò con una serie di sopralluoghi, una prima perlustrazione in posti che io stessa vedevo per la prima volta, alla veneranda età

di 30 anni e fanatica amante della mia regione, quasi mi vergognavo di non conoscere parti spettacolari della mia montagna. In quei primi momenti di “Studio”, ho trovato lungo la strada persone eccezionali di Calabria Verde, che hanno messo a mia disposizione tempo e mezzi per accompagnarmi nei luoghi più impervi da cui, secondo loro, avrei potuto scattare le fotografie più rappresentative. Ci furono più ritorni, molti dei quali senza mai scattare, per capire quale fosse la luce migliore, per aspettare che l’Aspromonte fosse pronto a mostrarsi in tutta la sua indimenticabile, affascinante bellezza. Da luglio aspettai l’autunno, ancora soleggiato ma con colori così variopinti da sembrare un quadro. Questa prima fase è stata la fase del “Pellegrinaggio”. Mi svegliavo presto al mattino, emozionata, ma impaziente di inoltrarmi in quei luoghi silenti, caldi, magici, immutati ma anche mutevoli, passavo in pochissimo tempo da pae-

saggi desertici a terreni pietrosi, profonde gole e boschi profumati. Definirei il percorso dentro la montagna come un percorso interiore, avevo intuito subito che le mie paure erano state solo mie e che fino ad allora mi ero persa una magnifica bellezza. E così, mentre scoprivo l’Aspromonte, l’Aspromonte mi costrinse a guardare dentro me stessa e ad affrontarmi. Un equo scambio, un compromesso tra me e la mia montagna. Seduta alle Caldaie del Latte, queste bizzarre rocce calcaree, levigate dall’acqua e dal vento, che ricordano le antiche pentole con fondo rotondo, di fronte al borgo di Ghorio, iniziai a pensare che avrei voluto imparare anche io la resilienza, farmi attraversare dal tempo e dalle sue intemperie, ma continuare orgogliosa ad emergere. Poco più in là la Rocca del Drago, un’altra formazione geologica naturale che ricorda un drago a tre occhi e che sembra ergersi di guardia sull’intera vallata che

va a finire lì, a Roghudi Vecchio, la città fantasma che sorge su uno sperone e che sembra tuffarsi nella fiumara Amendolea. Nonostante le inquietanti leggende che ruotano attorno al borgo abbandonato, la prima sensazione che si prova davanti a Roghudi è di stupore, di meraviglia, un’immersione totale nel tempo, un tempo fiabesco. Girando attorno al borgo, per coglierlo nelle sue varie prospettive, continuavo a chiedermi come facessero quelle case a rimanere in equilibrio, da qualunque parte lo fotografassi pensavo di stare per immortalare un fragoroso crollo nella fiumara Amendolea, che riuscii a fotografare nella sua quasi interezza da Roccaforte del Greco. Da ogni prospettiva, la fiumara si snodava in una vera e propria serpentina, dandomi l’impressione di un labirinto che penetrava e divideva in due l’Aspromonte, per mostrarne i suoi contrasti morfologici e cromatici. Durante il mio peregrinare, ebbi voglia di attraversarla a


Scatti suggestivi dell’Aspromonte, la montagna che ti conquista al primo sguardo, perché si mostra in tutta la sua indimenticabile e affascinante bellezza. L’Aspromonte ti insegna che tutto arriva per chi crede in sé stesso e che basta guardare col cuore per trovare la bellezza, liberi dai pregiudizi che questa incredibile montagna si porta dietro da troppo tempo. Oggi, che ha ottenuto il riconoscimento di entrare a far parte del’Unesco Global Geoparks, la rete mondiale dei Geoparchi UNESCO, finalmente anche il mondo è consapevole del valore di questa montagna piedi e quel letto di ghiaia e pietre e quelle pareti rosse si aprirono improvvisamente alla cascata Colella, dove iniziai a scattare immediatamente perché non volevo perdermi quell’acqua limpidissima e quelle pareti liscissime, levigate dal continuo scorrere dell’acqua. Nei tempi lunghi dello scatto, si creò un’immagine effetto seta e a qualcuno parve di vedere il viso di un’anziana o una forma di animale. Dopo la sessione, io e Rocco, il forestale che mi aveva accompagnata in escursione, rimanemmo in rispettoso silenzio a ringraziare per quello che la montagna ci stava regalando. Guardavo quest’uomo, nato e cresciuto tra quelle vallate, che ammirava quella natura selvaggia come se la vedesse per la prima volta e capii che ci si può abituare a tutto nelle vita, ma mai alla bellezza dell’autenticità. Rocco e Felice furono coloro che mi accompagnarono con la loro Jeep a scorgere la Frana Colella e, sebbene si veda praticamente da ogni angolo d’Aspromonte, arrivare alla sua cima fu come attraversare piste ad ostacoli fatte di una vegetazione fittissima in cui si alternano castagni e pini, passando per una vista spettacolare che dà sullo Stretto e sull’Etna. L’effetto sismico ha regalato alla frana picchi e forme di rocce bianco giallastre molto suggestive e il contrasto di luce tra la vividezza della foresta circostante e la profondità della gola hanno reso il lavoro fotografico molto impegnativo e stimolante. Quando invece mi spostai nella Valle delle Grandi Pietre era già autunno inoltrato ed i colori, accesi e variopinti della foresta mediterranea, furono un colpo d’occhio immediato. Fra tutti i monoliti, Pietra Cappa domina la scena come un maestoso monumento naturale la cui bellezza lascia senza fiato. Il tragitto per arrivarci, impervio e lungo, mostra angolazioni particolari in cui sono evidenti forme antropomorfe, come una madre che aspetta, ed infatti il luogo è intriso di sacralità. Il pellegrinaggio mio e dei miei accompagnatori sembrava quasi un rito di venerazione e perfino le capre

selvatiche che trovavamo lungo la via sembravano muoversi ordinate e aggraziate in quel percorso ad anello. Effettivamente, è ciò che appare: arrivata ai suoi piedi, mi sentii piccolissima e mi chiesi se fossi davvero in grado di fotografare cotanta solennità. La scalai e quando fui in cima mi sembrò di essere su un suolo lunare, ma alzai gli occhi e si aprì davanti a me un paesaggio indimenticabile che arrivava fino al Mar Jonio, in un tripudio di colori, odori, suoni. Pensai che di nuovo l’Aspromonte mi stava insegnando che tutto arriva per chi crede in sè stesso e che basta guardare col cuore per trovare la bellezza, liberi dai pregiudizi che questa mia incredibile montagna si porta dietro da troppo tempo. Fotografai da lassù le Rocche degli Smaledetti e terminai scendendo con le Rocche di San Pietro, dopodiché andammo a festeggiare insieme la fine del progetto con un pranzo calabro al casello, dove i miei compagni d’avventura furono così gentili, con me, che mi mandarono addirittura al bar del paese a ritirare un kg di pasticcini da portare a casa. Cuori aspromontani! Come ogni fine, sentivo un vuoto profondo perché il pellegrinaggio era arrivato al suo punto di arrivo, ma come ogni cammino si era concluso nella parte probabilmente più emblematica del luogo. Ne uscii diversa, cresciuta, avevo vissuto quel percorso come un percorso interiore, mi ero liberata di quell’antica paura e fui immensamente grata per le emozioni che avevo provato. Cosa che tradussi con tutte le mie forze in immagini. A distanza di un paio di anni, quell’archivio fotografico ha contribuito a far ottenere all’Aspromonte il riconoscimento di Geoparco Unesco e la mia soddisfazione è impagabile, perché finalmente anche il mondo è consapevole del valore della mia montagna e perché per me significa un po’ ripagarla per tutto ciò che mi ha dato. Fu così che tra me e l’Aspromonte nacque una lunga storia d’amore.


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Peppino Valarioti: intellettuale idealista scomodo anche per il PCI?

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Giovedì, 29 aprile, si è tenuto un forum sulla nostra web TV, moderato dal direttore Pietro Melia con la partecipazione di Franco Arcidiaco, editore di Città del Sole; di Antonino Sprizzi, ex dirigente del Partito Comunista e di Rocco Lentini, autore del libro “L'utopia di un intellettuale", sulla storia politica e sull’omicidio di Peppino Valarioti, dirigente e militante del PCI di Rosarno, avvenuto oltre quarant’anni fa. Un’ora e un quarto di discussione, aperta e chiusa dal direttore Pietro Melia, che ha chiesto chiarezza su un omicidio ancora irrisolto e scandito da Franco Arcidiaco, che ogni tanto citava frasi dal libro, ribadendo l’importanza di salvaguardare la storia non del PCI, che è morto, ma di chi l'ha composto e onorato GIUSEPPE CLEMENTE Rocco Lentini: Il libro è dovuto, sia perché il caso è irrisolto e ha riflessi sulla cronaca contemporanea, sia perché Valarioti era un politico anomalo, un intellettuale. Le indagini sono state inquinate a tutti i livelli, con chiusure a riccio da parte del PCI, che fece entrare vari soggetti in consiglio regionale e nella cooperativa che controllava. Antonino Sprizzi: Non è vero che c’è stato silenzio sull’omicidio, non è mai stato scomodo per il PCI, era un suo figlio legittimo, ne conoscevamo il valore. Sulla selezione della classe dirigente non è vero che il PCI imbarcava tutti per le elezioni, anzi assumevamo iniziative rigide contro il malaffare. Il 7 novembre 1978 Edoardo Macero testimoniò al processo contro i Piromalli, io stesso testimoniai su una speculazione edilizia sulla costa di Palmi, ordita da cosca mafiosa dei Mammoliti. Organizzammo una grande manifestazione per l’anniversario della morte di Rocco Gatto nell’aprile del ‘78. Sulla cooperativa Rinascita, è vero che il CdA era controllato dai comunisti, ma all’interno c’erano solo produttori e non dirigenti contigui alla mafia. A testimoniare ciò, ci fu un incontro con Mimmo Giovinazzo contro cui il PCI si costituì parte civile e io e Peppino Lavorata glielo comunicammo. Franco Arcidiaco interrompe l’aspro confronto tra Lentini e Sprizzi, citando Peppino Lavorata e la sua opinione, espressa nel libro, sulla cooperativa Rinascita, che rappresentava avversione e appetiti per la mafia, poiché composta da 3000 soci con 6 miliardi l’anno di fatturato, una prova di sviluppo che destava interesse per la natura parassitaria e criminale della ‘ndrangheta. Rocco Lentini: L’infiltrazione della coo-

perativa è stata permessa dal PCI, chi lo aveva permesso? Nel libro, Giovinazzo dice che dirà tutto chiamando in causa tutti gli autori del depistaggio. Parla di indecente incontro dove avrebbe dovuto dire che una famiglia mafiosa li minacciava, chiede un chiarimento con discussione aperta alla stampa e dice di avere molto da dire. Cosa aveva da dire? Il PCI era esasperato e si trincerò nella sua autodifesa dei dirigenti che fecero tesseramenti aperti a tutti. Molte manifestazioni, scioperi, cortei venivano preceduti dal passaggio dei rampolli della ‘ndrangheta che al passaggio chiedevano di chiudere i negozi. Sarebbe bene fare chiarezza nel centenario del PCI sull’omicidio di questo ragazzo intellettuale ucciso a trent’anni, perché nel suo circolo denunciava le infiltrazioni della ndrangheta nel suo stesso partito e in una cooperativa gestita. Antonino Sprizzi: le indagini furono parziali, il tribunale cercò di scavare ma molti dei Pesce furono assolti, noi chiedemmo di indagare anche sulla cooperativa Rinascita, ma non fu fatto. Giovinazzo si era convinto che il depistaggio fosse quello di attribuire alla Rinascita il motivo dell’omicidio di Valarioti. L’unico nostro cruccio era fare chiarezza. Chiedemmo a Fausto Tarsitano di costituirsi parte civile per il PCI, che mi chiese se il PCI avesse preso tangenti dalla cooperativa e io ovviamente risposi di no. Il clima di sospetto c’era, ma noi non fummo mai reticenti, le indagini non furono fatte in maniera adeguata. Ci opponemmo all’ingresso dell’avvocatessa Alecci in consiglio regionale, ad esempio e anche all’interno del Partito. L’assassinio venne utilizzato per determinare un clima di sospetto sui dirigenti del PCI, che condussero la lotta contro la mafia, in manifestazioni di massa. C’erano sicuramente persone contigue, che sono state immediatamente cacciate.

Interpretare...Amleto!

“Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire di atroce fortuna o prender armi contro un mare d’affanni e, opponendosi, por loro la fine? Sparire… dormire...nient’altro, e con il sonno far cessare il dolore del cuore e i mille tumulti naturali, per quel che resta delle cinque stelle”. Pare che qualcuno abbia sentito l’avvocato professor Conte ripetere continuamente questo lamento e a nulla sono valse le rassicurazioni che il Segretario del Pd gli ha rivolto. “Stai tranquillo (non sereno!) Giuseppe. Io ti starò accanto, magari non al primo turno ma al secondo sicuro”. Perchè per adesso bisogna pensare ai Sindaci. Il Pd rilancia le primarie, strumento che tanti frutti amari ha dato. Ma alla Sinistra se le cose non sono amare non piacciono. Letta dice che è cambiato e che ha imparato tanto in Francia. Non ci vuole dire

però in cosa è cambiato e cosa ha imparato a parte che “Giovane e donna è bello”. È vero che è tutto preso da Salvini, al quale bisogna rispondere un giorno si e l’altro pure, è pur vero che è sempre della vecchia scuola dei passi felpati, ma qualche sussulto di novità ce lo poteva regalare. Debora ci fa sapere che la passione política le è costato un divorzio familiare (qualcuno si chiede se non fosse stato meglio consumarlo dalla política). Zingaretti sorride (come sempre, beato lui) dopo aver incoronato Conte come punto di riferimento, Cuperlo si interroga e si risponde da solo (poco ci manca che si dia pure il voto) e tutti gli ex comunisti partecipano ad un mesto amarcord farneticando che i veri riformisti erano loro. I Sinistrati

PILLOLE scelte da effemme

Il viaggiatore , che parte da Reggio di Calabria per andare in ferrovia a Metaponto, se percorre un paese quasi del tutto nuovo, perché dopo l’apertura di questa linea è rinato a novella e rigogliosa vita, percorre, senza dubbio, il paese più antico d’Italia. La ferrovia, serpeggiando lungo il litorale jonico, appoggiandosi alla variata costiera, che si rispecchia nelle limpide ed azzurre acque del mare, ed attraversando nuove borgate e cittadine, percorre tutta quella regione, ove un tempo fiorirono le potenti e rinomate repubbliche della Magna Grecia. Prima di questa ferrovia , mancando una via di comunicazione, solo l’ingordigia di dominio poteva attirare qui lo straniero (…). Qui, ad ogni piè sospinto, non vedonsi che ruderi di monumenti ed avanzi di laterizi, che ermi torri e tombe dissemi-nate, che vasi e monete; e quindi nulla di strano se, sotto ogni zolla calpe-stata, si nasconda un tesoro delle nostre patrie galere glorie. Fortunato Lupis Crisafi Franco Pancallo Editore - Locri Poiché la vita non andrà secondo il nostro volere, il nostro pensiero e l’impegno quando mai gioveranno ? Senza sosta indugiamo nell’amaro pensiero che ieri venimmo e andare un giorno dovremo. Omar Khayyam Le persone viaggiano verso posti lontani per osservare, affascinati, persone che normalmente ignorano a casa. Dagobert D. Runes Dopo le mie vicissitudini oggi ho ripreso con il mio bar. Dopo un periodo di solitudine, ecco il mio Mocambo tutto in fior. La ricostruzione del Mocambo – Paolo Conte

QUISQUILIE Anni di Piombo ed Estradizioni: C’eravamo tanto armati. A Davigo: novità, sulla presunzione di colpevolezza ? No Vax in Sicilia: come sono Carini ! Vincenzo Amidei



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Made in Locride CALCIO

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Sammy Accursi, locrese autentico, con una passato da calciatore, da qualche anno anche allenatore dei giovanissimi, oggi si gode la vittoria del Perugia in serie cadetta, come vice di un altro calabrese, il melitese Fabio Caserta

Sammy Accursi e la sua passione per il calcio

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Fabio Caserta e la promozione in B Fabio Caserta, allenatore di Melito Porto Salvo ha raggiunto un importante traguardo: la sua squadra, il Perugia, è stato promosso in serie B. Una vittoria che dedica in primis alla sua splendida famiglia

BARBARA PANETTA

MARIATERESA ORLANDO

Una carriera da calciatore sempre in crescendo, dalla Serie D con il Locri alla B con il Messina, passando per la C1 col il Brescello, il Martina, il Napoli ed il Perugia. Cinque stagioni, novantacinque presenze ed un gol nei grifoni biancorossi prima di tornare, esattamente dieci anni dopo la sua partenza, come vice di un altro calabrese passato dal Locri, il melitese Fabio Caserta. In questa stagione calcistica, insieme hanno riportato il Perugia nella serie cadetta. Sammy Accursi, locrese autentico, difensore temutissimo e da qualche anno anche allenatore dei giovanissimi, di tecnica del calcio e di valori sportivi soprattutto, ritornando nel capoluogo umbro da vice allenatore ci racconta di aver ritrovato la familiarità di una città e di un ambiente sportivo di cui ha sempre conservato un forte e piacevole ricordo. «Nei dieci anni prima del ritorno, a Perugia ci ero stato solo una volta, da avversario, vestendo la maglia del Catanzaro. Oggi, ho ritrovato nella società poche persone tra quelle che avevo lasciato, ma lo stesso clima coeso e competitivo». La sua visione del calcio è molto improntata all'intrinseco valore del gioco di squadra, distaccata dalle esigenze economiche che ormai lo sovrastano. «Il calcio non morirà mai, ci dice, perché a prescindere dalle gambe e dalla fantasia dei calciatori, è un'attività commerciale, un movimento non solo sportivo, ma anche economico, attorno alle partite di calcio gira l'economia di intere città. Certo è che va necessariamente riorganizzato. Soprattutto alla voce “Uscite” per noi addetti ai lavori, bisognerebbe scegliere di non alimentare più l'attuale sistema, riequilibrare gli stipendi dei calciatori e tutelare i valori della meritocrazia a cui lo sport europeo è da sempre abituato, diversamente dal sistema americano dove non esistono, per esempio, le retrocessioni». Inutile dire che, anche per quest'ultimo aspetto, non ha visto di buon occhio il tentativo di alcuni club europei tra quelli che più contano, a livello di immagine e di vittorie sportive, di creare una Super League a discapi-

Animo nobile ed una grinta fuori dal comune. L’umiltà di chi parte da zero e la determinazione di chi sa che ogni piccolo passo, percorso con sudore e fatica, rappresenta già una grande vittoria. Ma se un rettangolo di gioco, lo ha aiutato a scalare la hit del successo calcistico, la famiglia, solida e numerosa, ha rappresentato per Fabio Caserta, 43 anni il prossimo 24 settembre, il vero carburante. “Il successo della promozione del Perugia in serie B, lo dedico in primis alla mia splendida famiglia, a mia moglie, alle mie tre figlie e a mia madre, pilas-

to delle piccole realtà, comunque in grado, con la loro presenza, di regalare alle competizioni continentali uno spettacolo avvincente e stimolante per tutto il settore calcistico, a partire da quello giovanile. «I bambini sognano di diventare grandi calciatori, ed è giusto che sia cosi, ma nella mia scuola calcio (la Accursi Football Academy, ndr) la filosofia è quella di formare ragazzi e ragazze, prima che calciatori. Uno studio sul tema ci dice che, dei giovani attualmente tesserati alle società dilettantistiche, solo lo 0,03% arriverà a giocare nella massima serie, motivo per cui, ci spiega Accursi, ho l'obbligo di dedicarmi, oltre che alla formazione calcistica, motivo per cui i bambini si iscrivono, anche e soprattutto a quella educativa all'interno di un gruppo, di una partita, di una sconfitta, è questo che deve essere abbinato a quello che è il gioco del calcio. Trasmettere i principi dello sport ai ragazzi permette loro di crescere con questi valori e le generazioni future ne beneficeranno, insieme a tutta la società». In conclusione, non ho potuto fare a meno, da fervente locrese, di chiedergli, insieme ai suoi obiettivi futuri, se un giorno lo vedremo sulla panchina amaranto. «Come i bambini, anche io sogno di arrivare il più in alto possibile. In questa stagione sono passato dalla Serie C alla B e vorrei continuare in queste categorie. Locri è una cittadina che segue molto il calcio e lo vive con molta passione, qualche anno fa sono stato vicino a collaborare con la squadra. Si, spero di allenare il Locri un giorno, conclude Accursi, in categorie importanti, come merita». Lo auguriamo alla squadra e lo auguriamo a lui, anche se ora è tempo di godersi la promozione del Perugia in Serie B. Rigorosamente targata Calabria.

tro poderoso della mia vita”. L’allenatore di Melito Porto Salvo, trattiene a malapena le lacrime per la felicità di un’impresa memorabile. “La società ha creduto in me dal primo momento, nonostante la squadra fosse in piena crisi di risultati. Di comune accordo con la dirigenza, ci siamo prefissati l’obiettivo di conquistare la promozione nell’arco di due anni, ma con grande spirito di sacrificio e tanta determinazione, abbiamo festeggiato la serie B con un anno di anticipo. La città di Perugia, incalza l’ex goleador di Catania e Lecce, merita di tornare alla ribalta, avendo alle spalle una storia calcistica gloriosa”. Da grande sognatore, dotato di un eccezionale spirito combattivo, non pone alcun limite alle proprie ambizioni. E se godere del presente rimane un imperativo categorico, continuare ad osare resta una sfida allettante. Il Patrón del Perugia Calcio, Massimiliano Santopadre, ha infatti blindato il “Grifo” : sarà Caserta a guidare la compagine biancorossa fino al 2023. La permanenza nel campionato cadetto, è d’obbligo precisarlo, è per l’allenatore melitese il primo obiettivo da perseguire. “Voglio rimanere con i piedi per terra, ma di sicuro mi impegnerò al massimo affinché questo Club possa centrare ancora altri importanti traguardi”. Ma se la città umbra lo osanna, Castellammare di Stabia di certo non lo dimentica. O forse oggi lo rimpiange. Una parentesi quella tra Fabio Caserta e la società campana, che si è chiusa come lo stesso tiene a precisare “Di bonario accordo”. Nel suo diario calcistico non esiste la parola “Rancore”; è un sentimento che l’ex giocatore disconosce in campo così come nella vita. Razionale, a tratti sentimentale, sempre posato, ma anche pungente e deciso. “Tutte le esperienze, in un modo o nell’altro, mi hanno aiutato a migliorare e migliorarmi. Nelle vesti di giocatore- dribbla, magari c’è stato qualcuno che ha creduto poco in me. Anche il quel caso, ho tratto qualcosa di positivo”. Il fischio di inizio della sua carriera calcistica in serie C2 è datato ‘97 con l’esordio nell’A.C. Locri. Nell’arco di 10 anni, il centrocampista dal piede d’oro, varca la porta di spogliatoi prestigiosi, vestendo nella massima serie le maglie del Catania, Lecce, Cesena, Atalanta ed infine Juve Stabia. Dopo ragguardevoli successi e la scissione del contratto con i partenopei, appende le scarpe al chiodo per poi indossare le vesti di tecnico proprio nella panchina gialloblù. Ed è, infatti, nella città di Castellammare che Fabio Caserta inizia a collezionare elogi, in campo e fuori. Ed é subito un tripudio di cori. Di ovazioni. Pian piano di successi. I colpi, fisici e verbali, non lo hanno mai atterrato e anche qualche piccola critica ha fatto da assist: fare sempre più e sempre meglio.


Sandro Stivala e il suo animo da pittore

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COPERTINA www.larivieraonline.com

“Si usano gli specchi per guardarsi il viso e si usa l’arte per guardarsi l’anima.” Questo aforisma rispecchia le sensazioni scaturite dopo l’intervista a Sandro Stivala ex calciatore, ex allenatore; con una predilezione, coltivata nel corso degli anni, per la pittura la quale ha il compito di trasmettere i sentimenti, quelli un po’ nascosti, ma che sbocciano alla visione di un quadro ROSALBA TOPINI Sandro Stivala è nato il 16 gennaio 1947 a Melicuccà (provincia di Reggio Calabria), in questo paesino ha vissuto i suoi primi anni di gioventù, frequentando le scuole elementari, mentre a Palmi le medie. Dopodiché decide di iscriversi al liceo artistico, perché sente di avere una predilezione per le materie artistiche e per farlo si trasferisce a Reggio Calabria, in quanto viaggiare risulta complicato in quei tempi. In seguito, si iscrive all’Accademia delle Belle Arti a Catanzaro, dove consegue la laurea. In questa intervista racconta lo sviluppo delle sue due grandi passioni: l’arte e il calcio e di come il destino l’abbia portato a Locri, da dove non ne è più anda-

to via. Quando è nata la sua passione per il calcio? Ancora studente ho coltivato la mia passione per il calcio. Ho iniziato a giocare nella squadra della Reggina, nel 1975-1976 nel ruolo di attaccante, ero tenuto molto in considerazione. Dopodiché ho avuto un problema fisico e sono stato ceduto per qualche tempo al Locri, per tentare di riprendermi, ma poi da Locri non me ne sono più andato. Sono stato calciatore per una decina di anni, fino all’età di 29 anni, poi sono diventato allenatore. La prima squadra che ho allenato è stato il Gioiosa Marina, mi porto ancora il cruccio di non essere riuscito a vincere il campionato; in seguito ho allenato il Locri fino a fine carriera. Quali sono stati i ricordi più belli di questi anni? Sono stati tutti degli anni bellissimi, ogni vittoria è un ricordo di gioia. Sicuramente gli anni a Locri hanno rappresentato una fase importante della mia vita calcistica, ho vinto tanti campionati, con grandi soddisfazioni. E le delusioni? Le delusioni ci sono state ogni volta che perdevo una partita. Ricordo un anno che abbiamo sfiorato la serie C, invece poi il sogno è sfumato. Invece, la sua passione per l’arte è stata messa da parte per il calcio o si è sviluppata in contemporanea? Sono due passioni che sono cresciute insieme, ho sempre dipinto quadri nelle varie fasi della mia età, ma al termine della mia carriera calcistica mi sono dedicato completamente all’arte, anche perché ho insegnato 37 anni al liceo artistico di Siderno. Nella sua arte cosa vuole raccontare? Non faccio un racconto specifico, sono un pittore che dipinge secondo alcuni periodi della vita. Ho fatto una mostra a Colonia in Germania, due anni fa, invitato dal console nativo di Caulonia, in cui ho presentato l’antichità classica di Locri, trasmessa dai Greci. Di conseguenza, voglio raccontare la nostra cultura. Invece, cosa vuole trasmettere?

La pittura è come leggere un libro, dove se al lettore produce emozioni continua a leggerlo con grande sentimento e passione; la stessa cosa succede nella pittura, un quadro deve trasmettere i sentimenti che stanno dentro di noi, quelli un pò nascosti, ma che al momento opportuno sbocciano alla visione di un quadro, che ha come composizione la bellezza dei colori e tutto quello che nasconde. Non è semplice andare in profondità, perché ci sono dei sentimenti che talvolta è difficile spiegare. Ognuno di noi ha un modo di guardare, di osservare e se alla fine l’osservatore si dichiara soddisfatto, allora il pittore è felice, perché è riuscito a comunicare. Ma lei si è ispirato a qualche pittore o movimento artistico nella sua arte? No, ho studiato e ho osservato tutti con interesse prima da giovane e poi da adulto, perché bisogna avere una conoscenze della pittura. Ho ammirato tanti pittori, ma non mi sono ispirato a nessuno, altrimenti non avrei fatto altro che stupidaggini, perché io sono io e dipingo nel mio modo. In questo periodo, relativo alla pandemia, ha dipinto qualche quadro? Qualche cosa ho fatto, ma non mi sono soffermato tanto. Ho fatto due o tre lavori quando ancora non si conosceva neanche la forma del virus. L’avvenimento non mi ha fatto scatenare chissà cosa, mi ha solo permesso di frequentare di più lo studio, perché non potendo uscire ho dipinto con più intensità. Ma non mi ha fatto aprire nuovi orizzonti per fare quadri. Quali saranno i suoi prossimi progetti? Non ho progetti particolari se non quelli di dipingere. Non mi va di pensare che devo fare le mostre chissà dove, anche perché non mi piacciono tanto. La pittura, oggi, credo non abbia più l’eco di un temo, una volta c’era più attenzione verso l’arte. Questo, a me, non riguarda più di tanto, perché continuerò a dipingere lo stesso. Il mio animo è quello di un pittore, perciò dipingo anche con il rischio che i miei quadri rimangano, a casa mia, poggiati a terra.


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Carolina Girasole: “Sono stata pietrificata”

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Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Capo Rizzuto è stata assolta dall’accusa di essere collusa con la ‘ndrangheta, dopo sette lunghi anni. In questa intervista ha parlato di Procura sorda, che non ha voluto ascoltarla, costringendola a difendersi con le unghie e con i denti; riuscendo a conquistare, alla fine, la piena assoluzione potrebbe interessarmi, qualche bella prospettiva per il futuro, vedremo… Adesso devo riprendere la mia vita e respirare bene, a pieni polmoni come non è stato possibile per tanti anni…Sono stata pietrificata e penso, che questo termine, renda bene l’idea di quanto mi è capitato. Ti faccio una domanda finale Carolina, ma ti prego di rispondermi con estrema sincerità: dirigo da ottobre 2020 questo settimanale e mi è stato riferito che, in occasione di un incontro a Roma con l’allora Presidente della Camera Laura Boldrini insieme alla sindaca Tripodi e a Maria Carmela Lanzetta, avreste chiesto la chiusura per mafia di questo giornale? Assolutamente no, non è assolutamente vero. E poi io non ho mai incontrato a Roma Laura Boldrini. Ci siamo viste e c’era anche la Laganà, quando è stata fatta un’ iniziativa da Vassallo per il sindaco pescatore e poi anche a Rosarno…E del resto, se conoscendo io il tuo giornale così poco come avrei potuto avanzare una proposta del genere? Mi confondono probabilmente con qualche altro sindaco…

PIETRO MELIA Come stai? Carolina Girasole, già sindaco di Isola Capo Rizzuto (Kr), mi risponde della macchina, contenta della mia chiamata. Non le ho fatto mancare mai la mia solidarietà e la mia vicinanza, chi la stima, io tra questi, non sparisce, come fanno in tanti, nel momento del bisogno. “Ancora non perfettamente bene”, mi risponde. E aggiunge: “Fisicamente, e lo dicevo poco fa a mio marito, risento molto di questo stress. Sette anni e mezzo non si cancellano in un attimo…”. Ma riprendersi ora non sarà difficile, dai, anche se provata tu sei donna molto forte… Speriamo, speriamo… In realtà troppe domande sono rimaste sospese… Perché? Come mai? Per quale motivo? Ecco, come mai? Diciamo che durante il mio mandato amministrativo uno dei metodi con cui mi hanno ostacolato è stato il fango, la diffamazione. Avevano buttato addosso a noi come amministratori calunnie a non finire, contribuendo in parte a rimpinguare una serie di distrazioni e disattenzioni a causa di evidenti errori di trascrizione delle intercettazioni. Secondo me, una serie di cose si sono unite une alle altre creando una enorme confusione, e per dipanare questo caso abbiamo dovuto confrontare gli atti prodotti dalla nostra amministrazione. Atti molto concreti e in evidente disaccordo con quelle che erano le accuse. E poi riascoltare e trascrivere tutte le 870 intercettazioni, recuperare atti andati persi, insomma è stato un lavoraccio, molto pesante e ciò per dimostrare che quanto era stato “Costruito” su di noi non era assolutamente vero, era un modo per mandarci a casa, l’amministrazione non era gradita e andava tolta dai piedi. Sono state interpretate nel modo sbagliato le nostre attività e infatti nelle udienze del processo sono venuti fuori una serie di atti amministrativi, che abbiamo dovuto spiegare e rispiegare per farli capire. In effetti, i processi sono stati lunghi anche perché quasi tutto il materiale del mandato amministrativo è stato riportato nel dibattimento come prova della nostra innocenza e in contrasto con quanto sostenuto dalla procura. Hai definito, in una nota ufficiale, la DDA sorda e ostinata…Affermazione grave… È chiaro che nel momento in cui mi lascio trasci-

nare le affermazioni diventano pesanti, perché ancora non capisco perché non mi abbiano voluto ascoltare. Loro probabilmente erano convinti di ciò che facevano, in contrasto nettamente con le posizioni da me espresse. Come si fa a credere che si facesse un accordo con una cosca di ‘ndrangheta? La mia difesa del bene comune, la buona amministrazione, che non andava non solo contro la cosca ma anche contro alcuni dipendenti, dimostrava la mia limpidezza e, tuttora, non mi capacito come sia potuto accadere quanto poi è successo. Perché ci sia potuto essere un errore così enorme. Anche perché questo non lo dico solo io, anche le sentenze: sono state molto dure, molto severe. Il Tribunale di Crotone proprio riferendosi ad alcune prove portate dalla Procura le dice che quanto emerso rappresentava invece il contrario. Anche la Corte d’Appello di Catanzaro che sostiene chiaramente il mio impegno amministrativo, a differenza di chi mi aveva preceduto che era stato dormiente. Non sono dunque solo io a dire che c’erano delle incongruenze gigantesche ma anche le sentenze mi hanno dato ragione. Per questo ho parlato di Procura sorda, che non ha voluto ascoltarmi costringendomi per sette anni e mezzo a difendermi con gli strumenti a mia

disposizione, con le unghie e con i denti. Ma tutto questo ha avuto un costo, da ogni punto di vista. Non sono stati sette anni e mezzo facili, per arrivare a questo risultato di piena assoluzione e nei tre gradi di giudizio è servito tanto lavoro e tanta fatica, anche ostinazione da parte nostra, un impegno economico non indifferente, ma anche una fermezza, una lucidità e una forza d’animo enorme… Se ci fosse stato un iniziale e sereno confronto, non saremmo certo arrivati a questo punto… Si chiude, per fortuna bene, una pagina e se ne riaprirà necessariamente un’altra. Da dove si ripromette di ripartire Carolina Girasole? Ma non si chiude facilmente questa pagina. Io sono una biologa, con un laboratorio di analisi e una vita abbastanza tranquilla. Mi è stato chiesto di mettermi al servizio della Comunità, ed io l’ho fatto buttandomi dentro a capofitto e non ho pensato molto a quella che poteva essere una ritorsione nei miei confronti. Sapevo che, in qualche modo, la mia azione avrebbe provocato delle reazioni, ma certamente adesso dopo tutto quello che è accaduto io non posso buttarmi di nuovo così. So che le conseguenze potrebbero essere molto dure e quindi prima di decidere devo riflettere. Se poi emerge qualcosa che


Assoluzione di Carolina Girasole

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ATTUALITÀ www.larivieraonline.com

Carolina Girasole, già stimata sindaca di Isola Capo Rizzuto in provincia di Crotone è stata assolta dopo quasi otto anni di calvario giudiziario, sopportando il tutto con estrema dignità. È stata arrestata sulla base di intercettazioni che i giudici hanno ritenuto manomesse pur di incastrarla. Con quale stato d'animo, una persona perbene, può pensare di candidarsi in una terra in cui gli amministratori hanno conosciuto l'onta delle misure preventive, per poi essere completamente scagionati da ogni accusa? ILARIO AMMENDOLIA Ieri è stata definitivamente assolta Carolina Girasole, già stimata sindaca di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone. Carolina è una donna delicata, dai tratti raffinati e dalla voce gentile che potrebbero però trarre in inganno perché, in verità, è una persona determinata, che ha fatto il sindaco con grinta e passione e sopportato gli arresti e quasi otto anni di calvario giudiziario con estrema dignità. Una sindaca che Goffredo Buccini nel suo libro "L'Italia quaggiù" ha indicato come una "Eroina" dell'antimafia e una protagonista d'un "Nuovo corso" che vedeva le donne protagoniste del riscatto del Sud. Infatti l'amministrazione Girasole aveva acquisito al Comune i terreni confiscati alla mafia e messa in campo quattro cooperative di giovani per la loro gestione. La sindaca aveva creduto di poter rappresentare dignitosamente lo Stato in una terra sicuramente difficile e piena di insidie, ma non solo e non tanto per la presenza della ‘ndrangheta. Oggi Buccini qualche riflessione dovrebbe pur farla (la farà?) per capire com’ è stato possibile che Carolina Girasole sia stata arrestata (insieme al marito) senza

che ve ne fosse il benché minimo motivo e, cosa gravissima, sulla base di intercettazioni che i giudici hanno ritenuto manomesse pur di incastrare la sindaca di Isola. Resta da capire perché o per conto di chi, qualche investigatore abbia sentito il bisogno di inquinare le prove quasi che le procure si siano attribuite il compito di arrivare ad una condanna a prescindere dalla verità. Eppure nel caso della Girasole non ci sono mazzette, né fondi occulti, né estorsioni o minacce. L' unica accusa concreta mossa alla sindaca ed al marito,( oggi smontata definitivamente dai giudici della Cassazione), consiste nel fatto che avrebbero contatto gli Arena per ottenere un appoggio elettorale. Ed in cambio di che cosa? Di nulla. Infatti l'unico fatto certo è che la madre e la suocera della sindaca avrebbero ricevuto due casse di finocchi in regalo da persone in odore di mafia. Siccome ad Isola i finocchi costano 3 euro a cassa, Carolina Girasole si sarebbe fatta corrompere per sei euro. La Calabria non è in India. Perché i giornalisti che sparano gli arresti in prima pagina non vengono a vedere com'è stato possibile che solo nell'ultimo mese, in pochi chilometri quadrati, tre amministratori arrestati e processati per mafia, sono stati assolti? Con quale stato

d'animo una persona perbene può pensare di candidarsi in una terra in cui partendo dal Presidente della Regione sino ad arrivare al più piccolo comune (Camini) gli amministratori hanno conosciuto l'onta delle misure preventive per poi essere completamente scagionati da ogni accusa? Sbaglia chi pensa che denunciare gli abusi ed i soprusi, contro i cittadini, equivalga ad indebolire lo Stato. È vero esattamente il contrario. La ‘ndrangheta è figlia della criminalizzazione calcolata della Calabria e della giustizia sommaria. Si legittima quando lo "Stato" insidia la libertà e la serenità dei cittadini perbene per nascondere la propria storica incapacità o meglio, la propria scelta di non bonificare la palude politica, sociale e culturale in cui la ‘ndrangheta attecchisce. Quando si trova comodo affidare, così come in questi anni è stato fatto, la presunta "Lotta" alla ‘ndrangheta a "Giustizieri" che perseguono fini decisamente diversi dalla Giustizia. Il “Caso Girasole" ne è l'ulteriore e lampante dimostrazione. Servirà qualcosa? Oppure il rumore intorno a "Rinascita Scott", con i suoi 400 imputati, è funzionale a distrarre l'opinione pubblica dai tanti, troppi "Casi Girasole"?

Scioglimento dei comuni

L’allentamento dei controlli preventivi di legittimità e il nuovo ruolo accresciuto affidato alla dirigenza, almeno in Calabria, si è svelato una ghiotta occasione per incrementare ogni forma di pressione, mafiosa o clientelare, sulla vita dei comuni

FILIPPO DIANO Altra spinosa questione riguarda lo scioglimento dei comuni e delle Asl infiltrate dal malaffare e dalla ndrangheta. In Calabria, gli organi di 15 istituzioni locali su 30, compresa il ‘Grande mistero’ dell’Asl di Reggio Calabria di cui vorremmo conoscere l’entità del ‘Buco’ finanziario ancora indefinito nonostante i commissari di Stato sono stati deposti per infiltra-

zione mafiosa. E’ bene ricordare che la riforma (?) del decentramento amministrativo e legislativoerastata avviata con la legge n° 59 del 1997 (Legge Bassanini), con il D.Lgs 469/1997 e il D.Lgs 112 del 1998. Le nuove norme intervengono per una nuova e diversa ripartizione delle competenze tra Stato, Regioni ed Enti locali, in ossequio ai principi di sussidiarietà, federalismo e del partenariato indicati a livello europeo nel Libro Bianco sulla Governance. Molto in concreto e con i successivi interventi sul Titolo V della Costituzione – la politica del centrosinistra a livello nazionale, forse per restituire il favore a Umberto Bossi peravere spaccato il centrodestra determinando il successo elettorale di Romano Prodi, affida ai comuni una serie di poteri organizzativi cancellando la figura del Segretario comunale, funzionario dello Stato alle dipendenze del Viminale con poteri di vigilanza

preventiva sugli atti degli enti, relegando questa funzione ‘notarile’in una apposita graduatoria nazionale e conferendo ai sindaci la libertà di scegliersi il ‘controllore’. Un errore svelatosi fatale, visti i risultati. L’allentamento dei controlli preventivi di legittimità e il nuovo ruolo accresciuto affidato alla dirigenza, almeno in Calabria, si è svelato una ghiotta occasione per incrementare ogni forma di pressione, mafiosa o clientelare, sulla vita dei comuni. Più volte, e in occasioni pubbliche, in convegni e dibattiti in presenza di

ministri dell’Interno e di parlamentari, ho sottoposto come giornalista all’attenzione di ‘lorsignori’ l’eventualità di reintrodurre, come forma di prevenzione, il controllo preventivo di legittimità sugli atti almeno per i comuni fino a diecimila abitanti ricevendone univoca risposta, seppure proveniente da orientamenti politici contrapposti:. ”L’autonomia dei comuni è ormai una strada senza ritorno, bisogna andare avanti”. Fino a sbattere: o nei dissesti finanziari, o nell’infiltrazione della criminalità organizzata. Che senso ha, chiedo, lasciare che i cittadini dei nostri comuni paghino prezzi così alti? Che senso ha mandare dopo la commissione prefettizia come rimedio di un male che forse si poteva prevenire?


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Ecco la “Primavera della Calabria”

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INTERVISTA www.larivieraonline.com

Anna Falcone ha ispirato un laboratorio politico progressista, ecologista, femminista, europeista,“Primavera della Calabria”, che nasce con lo scopo di dare spazio e voce alle tante persone che amano la politica e vogliono trovare una terza via di partecipazione libera, che spezzi la scelta obbligata fra astensionismo o voto clientelare FRANCESCA LABONIA Il giorno dell’Equinozio di primavera è nato un laboratorio politico progressista, ecologista, femminista, europeista,“Primavera della Calabria”, ispirato da Anna Falcone, la cui passione politica non ha bisogno di alcun prologo. Avvocata, l’8 marzo ha fatto appello ai e alle Calabresi. Da cos’è nata questa urgenza che lei chiama “Umanesimo sociale”? Dal fatto che la Calabria è da troppo tempo considerata una zavorra per il Sud e invece ‘misteriosamente’ sforna talenti fuori. Una regione piena di ricchezze, di possibilità, ahimè, tutte volutamente inesplorate e non valorizzate. Un’altra esigenza, resa ancora più evidente dalla pandemia, è quella di far cambiare passo alla politica nazionale verso il Meridione. Il progetto politico non guarda dunque solo alla Calabria, ma all’intero Sud? L’Italia non vuole affrontare con serietà e decisione la “Questione meridionale”. Purtroppo è emblematico in tal senso anche il modo in cui si è deciso di affrontare il Recovery Plan, il non aver rispettato il vincolo UE del 68% delle somme da destinare al Sud, che è considerato incapace di risollevarsi. Il governo nazionale ha abdicato al suo ruolo di intervenire su questo aspetto ineludibile dello sviluppo del Paese; ecco, questo è rivelatore di come non ci sia una volontà reale di investire per il rilancio del Sud: c’è bisogno che si mobilitino i cittadini. L’appello dell’8 marzo non riguardava solo il risveglio del Mezzogiorno, ma, in senso strettamente politico, il ruolo del Sud per riorganizzare il centro sinistra nel Paese… Spesso accade che dai territori più martoriati, da situazioni di crisi nasca la scintilla per risorgere. Proprio per questo, proprio dal Sud può e deve partire una scintilla, un moto di rinnovamento serio e profondo per ripensare tutto il centrosinistra. Siamo troppo indietro e gravemente deficitari nelle politiche su sanità, lavoro, politiche sociali. Dobbiamo chiedere e pretendere che, in attuazione dell’articolo 3 della Costituzione, lo Stato riprenda il ruolo centrale che ha nel garantire pari dignità sociale e uguali diritti di cittadinanza per tutti, a prescindere da dove si sia nati o si viva. Una rinascita del centro sinistra dunque. Ragioniamo da anni sull’esigenza di ripensare tutto il centro-sinistra, di renderlo più vicino anche alle nuove fragilità in cui è scivolata, complice la pandemia, ma non solo, tutta la classe media, le partite IVA e chiunque viva o aspiri legittimamente a vivere, del proprio lavoro, onestamente e senza dover chiedere ‘favori’. A ciò si aggiungono le nuove sfide di una società sempre più proiettata verso il futuro, che troppo spesso la Sinistra e il Centro-Sinistra non sono riusciti a

cogliere, a leggere e ad anticipare con soluzioni credibili ed efficaci. I brevetti biotech e il monopolio privato in troppi settori strategicine sono l’esempio più lampante. Non possiamo competere in una società in cui le chiavi del futuro, le conoscenze, i dati, le cure, i modi per influenzare le decisioni pubbliche sono in mani private e a disposizione delle multinazionali. Ci sono beni e diritti che devono essere comuni e accessibili e garantiti a tutti. In molti stanno capendo che se non si riparte dal principio di uguaglianza nei diritti e dalla solidarietà sociale non ci può essere sviluppo per nessuno. Non sono valori solo della Sinistra, fanno parte del nostro patrimonio costituzionale: dalla loro attuazione piena, effettiva, definitiva dipende la tenuta o meno del patto sociale su cui si fonda la nostra democrazia. Il suo appello come si è tradotto in laboratorio politico? L’appello ha suscitato l’interesse di tante persone; con un gruppo promotore (il primo centinaio di persone che ha firmato l’appello, ndr) si è deciso di costituire un laboratorio politico plurale che abbiamo voluto definire progressista, ecologista, femminista, europeista perché riteniamo che questi quattro pilastri siano delle linee di sviluppo che si intersecano fra di loro e che dovrebbero caratterizzare quello spazio politico che non c’è, lasciato vuoto anche dai partiti politici che di fatto, soprattutto in Calabria, sono ridotti a segreterie politiche. Vuole dire che il PD Calabrese non ha risposto all’appello? L’appello era rivolto eminentemente ai cittadini: sono loro che devono riprendersi i partiti e i luoghi della politica, pretendendo che rispondano finalmente al quel “Metodo democratico” che solo ne garantisce la trasparenza e le finalità pubbliche e non personali. A partire dalla Sinistra e dal Centro-Sinistra che o è coerente con questo assunto o non è credibile. Il nostro laboratorio è costituito da persone libere che amano la politica e la loro terra e da varie associazioni, meridionali, ecologiste, solidariste, variamente orientate e da gruppi civici. Come si pone Primavera nella kermesse elettorale regionale? La Calabria andrà al voto fra settembre eottobre, dopo un periodo di sospensione democratica che non conosce precedenti. Ed è la regione che registra il più alto astensionismo per una generalizzata sfiducia nella politica e nella rappresentanza politica così com’è organizzata. I luoghi istituzionali sono percepiti come i luoghi in cui una classe politica sempiterna viene ricandidata e rieletta a prescindere dal suo legame coi cittadini e dal fatto che abbia operato bene o male, perché sono le segreterie politiche a decidere, non gli elettori. Ormai è una minoranza dei

Calabresi quella che va al voto: chiunque voglia esprimere un voto libero e non trovi spazio si rinchiude nell’astensionismo. C’è un serio problema democratico da affrontare: selezionare democraticamente le candidature e riportare le persone alla partecipazione attiva. “Primavera della Calabria” nasce proprio con questo scopo: dare spazioe voce a tante persone che amano la politica e vogliono trovare una terza via di partecipazione libera, che spezzi la scelta obbligata fra astensionismo o voto clientelare. Il nostro è un messaggio di liberazione democratica e politica. Per questo avete scelto il 25aprile come prima uscita pubblica? Abbiamo lanciato un messaggio ai calabresi: per ‘liberarci’ da questa condizione di marginalità e mortificazione democratica, reputata da alcuni irreversibile, dobbiamo diventare partigiani di democrazia per la nostra terra. Per cambiare il

corso della storia in Calabria c’è bisogno che i calabresi riprendano in mano le scelte politiche e si facciano protagonisti e soggetti di questa mobilitazione democratica. Si tratta di buttare fuori i mercanti dal tempio! Dovremmo chiederci tutti come abbiamo raccolto il testimone dei partigiani che allora hanno liberato l’Italia: cosa siamo riusciti a realizzare di quella promessa democratica sancita nei principi e nei diritti fondamentali della nostra Costituzione? Tante periferie territoriali e sociali, abbandonate a se stesse, dimostrano come quel progetto democratico e costituzionale resti ad oggi inattuato. Ripensare il ruolo cruciale del Centro-Sinistra, quello che più ha raccolto il messaggio solidarista della Costituzione, può arrivare da chi è stato lasciato indietro e dimenticato come donne, giovani e ultimi del Mezzogiorno.



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Il mezzo secolo del Manifesto: né Padrini né Padroni STORIA

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Il Manifesto compie cinquant’anni, il più longevo quotidiano in edicola dopo il Corriere della Sera e La Stampa. Cinquant’anni vissuti pericolosamente per il “Quotidiano comunista”, con i conti sempre in bilico, tecnicamente fallito nel 2012, ma prontamente risorto. Un giornale libero, indipendente, solo in parte sostenuto da fondi pubblici, come da Costituzione. Senza editori esterni, ma prodotto dalla cooperativa di giornalisti e poligrafici. E con la testimonianza politica attiva, ogni giorno, dei lettori e abbonati, sul giornale di carta e su web SILVIO MESSINETTI Cinquant’anni e non sentirli. È il più longevo quotidiano in edicola dopo il Corriere della Sera e La Stampa. Ma non ha “Nè padroni né padrini” ed è sempre orgogliosamente “Dalla parte del torto”. Il manifesto compie mezzo secolo, il primo numero andò in stampa il 28 aprile del 1971. Alle domande “Ma perché fate un giornale quotidiano? Come pensate di riuscirci? E a che cosa potrà servire?” così rispondeva Luigi Pintor nell’editoriale di presentazione: “C’è chi ama la società in cui viviamo, perché è al decimo posto nella produzione industriale mondiale. Per noi, è una società impastata di sfruttamento e di diseguaglianza, di cui sono vittime milioni di operai di fabbrica, le popolazioni meridionali prive di speranza, le giovani generazioni senza avvenire. C’è chi giudica democratico lo stato che abbiamo, solo perché non è fascista e non ha cancellato le libertà formali. Per

noi, è uno stato fondato su leggi e strutture repressive dove polizia e istituzioni, scuola e cultura ufficiale, forze politiche e maggioranze al potere, sono modellate per colpire o ingannare gli sfruttati e gli esclusi. O ancora c’è chi vive a suo agio nel mondo contemporaneo, giudicandolo passabilmente pacifico. Per noi è, invece, un mondo odiosamente segnato dal genocidio imperialista, che solo un rilancio del processo rivoluzionario mondiale può mutare. Se, dunque, questo giornale dovesse soltanto servire a una protesta, a una battaglia ideale contro l’ordine di cose esistente, già questa non sarebbe una fatica sprecata. In fondo, la stampa operaia ha sempre avuto prima di tutto questa funzione: di stabilire una linea di demarcazione, con animo che Gramsci chiamava partigiano, tra chi è contro l’ordine costituito e chi in esso si adagia”. Cinquant’anni vissuti pericolosamente per il “Quotidiano comunista”, con i conti sempre in bilico, tecnicamente fal-

lito nel 2012 ma prontamente risorto. Un giornale libero, indipendente, solo in parte sostenuto da fondi pubblici, come da Costituzione. Senza editori esterni, ma prodotto dalla cooperativa (la vecchia e la nuova) di giornalisti e poligrafici. E con la testimonianza politica attiva, ogni giorno, dei lettori e abbonati, sul giornale di carta e su web. “Una forma originale della politica” per dirla ancora con Pintor. Con un occhio di riguardo per il Mezzogiorno e per la Calabria in particolare. Dai memorabili articoli di Valentino Parlato sui moti di Reggio del 1970 fino alla Riace di Mimmo Lucano, raccontata ben prima che salisse alla ribalta della cronaca internazionale. La Calabria come metafora del capitalismo predatorio, terra di “Prenditori” in servizio permanente effettivo, una regione stretta e lunga, circondata dal mare per 700 chilometri, magra come un giunco, ma fortificata da una spina dorsale montuosa che la rende aspra, a tratti impervia, dove si sperimentano politiche di saccheggio dei beni comuni ed espropriazione del pubblico. È il laboratorio del neoliberismo italico più spietato che qui trova una sua versione originale innestandosi nel corpo di una società con un piede ancora fuori dalla modernità e l’altro perfettamente inserito all’interno. E dove la ‘ndrangheta ha il ruolo di cane da guardia, di “Spaventapasseri”: attira l’attenzione per distrarre da giochi di potere ben più grandi, nei quali entrano in campo borghesie locali corrotte e parassitarie, massonerie e manovratori politici. È ciò che in questi ultimi tredici anni ho cercato di raccontare dalle pagine libere ed eretiche del manifesto, spesso avvalendomi della penna ammaliante e vivace di Claudio Dionesalvi. Dando spazio alle sacche di resistenza popolare, ai comitati spontanei, ai sindaci coraggiosi, all’antimafia sociale, alle insorgenze migranti.

L’inquinamento del fiume Oliva e “Le navi dei veleni”, lo scandalo dei laghi silani, lo sfruttamento del carbone a Rossano Calabro, le morti operaie alla Marlane di Praia a Mare, il disastro ambientale a Crotone, abbiamo cercato di sviscerarli con spirito di denuncia e allo stesso tempo con l’idea di stimolare la crescita degli anticorpi sociali, quelle sacche di resistenza alimentate a volte da singoli Robin Hood, in altri casi da comitati organizzati, i soli a combattere il saccheggio del territorio. Con lo spirito dei mediattivisti, ovvero quello di non fermarsi alla descrizione del saccheggio, ma di pensarsi come strumento per un cambiamento sociale. Senza lasciarsi ammaliare da chi vuole che tutto cambi, perché nulla si muova davvero. Durante

un viaggio in Calabria, annotava Valentino Parlato: “La mattina dopo un compagno mi accompagna all'aeroporto, di origine militare. Ora, altro segno dei tempi, ha due nomi piuttosto antitetici: Pitagora e Sant'Anna. Lungo la strada il compagno mi indica quello che resta della riforma agraria, (frutto di tante epiche lotte). Era il feudo del barone Barracco e Lucifero e ora le casette costruite ai tempi dell'Ente Opera Sila sono abbandonate, salvo qualcuna vicino al mare, diventata alloggio turistico. È una lunga storia, ma all'indietro”. Come quella del manifesto, lunga e gloriosa, con le radici piantate nel passato e con lo sguardo rivolto al futuro.

Questo importante documento storico a molti ignoto, segnala e conferma la vicinanza del gruppo dei fondatori del manifesto con la nostra regione. E' il progetto di legge per l'istituzione dell'Università della Calabria presentato da Rossana Rossanda il 29 luglio del 64. Uno dei firmatari per l'istituzione dell'Università della Calabria era il nonno omonimo Silvio Messinetti, papà di suo papà Peppino,


L’organizzazione: Primo periodico comunista in Calabria STORIA

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Uno dei primi periodici comunisti, nati in Calabria, fu “L’Organizzazione - Giornale dei Comunisti della Calabria”, il cui primo numero uscì a Roccella Jonica il 20 marzo 1921. Aveva come fine quello di promuovere il nuovo partito e diffondere le idee che sostenevano il suo operato, mettendo in risalto l’attività comunista, gli incontri, ed i congressi che il partito organizzava in Calabria DOMENICO ROMEO La scissione del Partito Socialista al congresso di Livorno nel marzo del 1921 determinò la nascita di un nuovo partito della sinistra italiana: il Partito Comunista d’Italia. Anche in Calabria sorsero le prime sezioni del Partito Comunista d’Italia, a sostegno delle quali vennero pubblicate delle testate giornalistiche. Uno dei primi periodici comunisti fu L’Organizzazione - Giornale dei Comunisti della Calabria, il cui primo numero, stampato tipografia Fabiani di Gerace, uscì a Roccella Jonica il giorno di sabato 20 marzo 1921 a cura dell’avvocato Eugenio Bova, che era il responsabile. Il giornale era settimanale, difatti usciva ogni sabato; una copia costava £. 0,20; la tiratura era di 250 copie. Quale voce dei comunisti jonici, L’Organizzazione aveva come fine quello di promuovere il nuovo partito e diffondere le idee che sostenevano il suo operato. Nell’editoriale pubblicato sul primo numero si legge: “Anche in Calabria il Partito Comunista prende posizione e guadagna la fiducia e la simpatia delle masse Il nostro giornale.” A poche settimane di distanza dalla scissione di Livorno, è sorto e costituito il Partito Comunista d’Italia destando sincero entusiasmo tra la parte più evoluta e consapevole

delle masse lavoratrici: particolarmente risoluti e fervidi si manifestano gli sforzi dei giovani compagni e degli operai e contadini ansiosi di più, rigidamente inquadrarsi in una veramente razionale organizzazione, destinata ad imporsi rapidamente ed a trionfare contro tutti i nostri avversari. Tanto più si sente la necessità di poggiare a sinistra in quanto si vede ogni giorno maggiormente accentuata l’orgia confusionaria dei socialdemocratici unitari, i quali deposto finalmente ogni pudore politico, entrano a bandiera spiegata in quello stesso osceno blocco così accesamente combattuto nelle elezioni politiche del 1919, e dal comizio al giornale, dall’organizzazione sindacale alla dimostrazione di piazza, tutto fanno tendere alle più basse finalità elettorali. Non sono che di ieri le romanze cantate dai giornaletti rossi della provincia per i raduni di ignari ed illusi contadini, condotti a passeggio da esponenti riformisti, combattenti ed unitari in meravigliosa combutta, che non sorprende né intimorisce più alcuno e meno di tutti la borghesia che ha interesse di assorbirli. Di codesto opportunismo rifo-unitario, le nostre masse lavoratrici ne sono ormai arcistufe e anelano di riprendere il loro posto di battaglia attorno alla bandiera dell’Internazionale, a fianco dei loro fratelli proletari. Dovere imprescindibile dunque, dei comuni-

sti che stanno all’avanguardia del movimento rivoluzionario è di volgersi direttamente alle masse portando loro la parola sincera e disinteressata che restituisce la fede. È necessario organizzare il movimento ed inquadrare le forze vive ed attive della rivoluzione, per salvarle tenendole immuni dalla insinuazione meno appariscente, forse, ma più tenace, più subdola e quindi più pericolosa dei socialisti rifo-unitari, i quali avendo perduto la visione esatta della gravità del momento, non hanno più alcuna influenza nella massa lavoratrice e tentano di infiltrarsi sul terreno sindacale per notori scopi opportunistici. A questa opera di lealismo e di educazione politica noi sentiamo di dovere conferire ogni sforzo e sacrificio, dedicando questo giornale che vuole essere, senza iattanza né falsa modestia, il più rapido veicolo delle idee e un faro mobile per illuminare il proletariato sul cammino affannoso della sua redenzione. Sempre in prima pagina, un articolo dal titolo “Unitari e Comunisti”, a firma di Pasquale Tassone, affrontava la questione relativa alla scissione di Livorno. La seconda e la terza pagina del primo numero erano dedicate al “Manifesto ai lavoratori d’Italia, stilato dal comitato centrale del Partito Comunista d’Italia”, con il quale il partito si presentava ai proletari e lavoratori italiani e dava chiarimenti su come si era costituito. Altri articoli riguardavano la costituzione di sezioni comuniste, oltre quella di Roccella Jonica, come la sezione di Brancaleone, costituita il 13 marzo 1921. Il numero 2°, uscito il 2 aprile 1921, attaccava il Fascismo e l’attività fascista in Calabria. Tra le rubriche presenti nel giornale vi erano: quella relativa agli eventi politici e sociali di Roccella Jonica, già presente nel primo numero; la rubrica “Corrispondenze”, dov’erano pubblicati gli articoli inviati dai vari corrispondenti dai paesi calabresi, tra cui: Melito Porto Salvo, Brancaleone, Bivongi, Canolo, Siderno, Portigliola, Gerace. Il settimanale, comunque, tendeva a mettere in risalto l’attività comunista e gli incontri ed i congressi che il partito organizzava in Calabria.


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Il Barocco in Calabria CULTURA www.larivieraonline.com

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Il termine Barocco, sinonimo di bizzarria e stranezza, contraddistingue un’epoca e uno stile raffinato, caratterizzato nell’arte da forme sinuose, dinamiche e da giochi di prospettiva. Malgrado la crisi seicentesca, l’arte barocca che si manifesta in Calabria evidenzia realizzazioni di grande rilievo nella pittura, nella scultura e in misura meno rilevante anche nell’architettura GIUSEPPE GANGEMI Come abbiamo fatto per il Rinascimento, tratteremo delle principali testimonianze artistiche e architettoniche del Barocco in Calabria sopravvissute ai terremoti, all’incuria e alle razzie. Il termine Barocco che è sinonimo di bizzarria, stranezza, contraddistingue un’epoca e uno stile raffinato, caratterizzato in pittura e nelle altre arti da forme sinuose e dinamiche e da giochi di prospettiva. Il barocco reagì al classicismo e al razionalismo rinascimentali per rispecchiare un’epoca più leggera e superficiale desiderosa di allontanarsi dal rigore della

Controriforma. La committenza religiosa e laica si adeguarono al nuovo sentire artistico per riaffermare, con sfarzo ed enfasi, il proprio potere ed il proprio prestigio. Per illustrare la storia e l’arte barocca nella nostra regione utilizziamo nuovamente gli studi e il ricco archivio del caro amico professore Massimo Genua, dal quale apprendiamo che nel ‘600 prosegue il malessere sociale causato dal malgoverno spagnolo e che occorre attendere la monarchia borbonica del ‘700, sotto la guida di Carlo III e dei suoi discendenti, perché si inauguri una politica illuminata, attenta ai bisogni del popolo, tesa a ridimensionare lo

strapotere dei feudatari, aperta alle innovazioni e al progresso materiale e sociale. Malgrado la crisi seicentesca, l’arte barocca che si manifesta in Calabria evidenzia realizzazioni di grande rilievo. Grazie alle donazioni da parte del concittadino Mattia Preti (1613-1699) che operò prevalentemente a Roma, a Napoli e a Malta dove morì, la città di Taverna custodisce un ricco patrimonio di dipinti nelle chiese di San Domenico e di Santa Barbara e nel recente museo cittadino. Altre tele si trovano nel museo civico di Rende, nella chiesa matrice di Martirano, a Stilo, nella pinacoteca di Reggio, a Gerace e a

Cosenza. Un altro illustre pittore calabrese fu Francesco Cozza (Stilo 1605-Roma, 1682) allievo e collaboratore del Domenichino. Operò prevalentemente nel Lazio, per questo motivo in Calabria esistono solo due grandi tele a Stignano (chiesa di San Rocco) ed a Bianco (chiesa di Tutti i Santi). La nostra regione ospita opere del grande pittore napoletano Luca Giordano e della sua scuola (Cerchiara di Calabria, Reggio, Serra San Bruno, Bisignano, Soriano Calabro, Orsomarso, Cosenza, ecc.), di Battistello Caracciolo, altro esponente della scuola napoletana (Stilo, Catanzaro, Cosenza, Paola), della romana Artemisia Gentileschi (Bagnara Calabra), del fiammingo Guglielmo Borremans (Cosenza, Altilia e forse Badolato) e infine, malgrado l’attribuzione non sia certa, del Caravaggio a Soriano Calabro. Anche la scultura barocca annovera opere di pregio in Calabria, alcune di autori non ancora identificati, come le statue lignee di San Giacomo Maggiore, San Giovanni Battista, San Francesco di Paola, Sant’Elia, San Raffaele, della Madonna del Carmine custodite nell’ordine a San Giorgio Morgeto, Cenadi, Cosenza, Malito, Saracena e Paola. Di altre opere importanti conosciamo gli autori come il napoletano Nicola Fumo (statue lignee a Crotone e a Castrovillari), il bergamasco Cosimo Fanzago e la sua scuola, (marmi e bronzi a Serra San Bruno, Soveria Mannelli, Gasperina, Montauro, Vibo Valentia) il tedesco Davide Muller (statue in marmo a Serra San Bruno e in legno a Sorianello), il siciliano Frate Umile da Petralia, (statue di legno molto originali che si trovano a Cutro, Bisignano, Dipignano, Mesoraca). Le architetture del 1600 e del primo ‘700 presentano caratteri modesti. Tra le testimonianze religiose, per le ricche facciate, citiamo la chiesa di Santa Maria della Serra a Montalto Uffugo, quella di San Giorgio a Pizzo

Calabro, il santuario di San Francesco di Paola. Di un certo rilievo sono le decorazioni interne della chiesa di Santa Maria Maddalena a Morano Calabro, quelle degli oratori del Rosario e di Santa Caterina di Alessandria nelle chiese di San Domenico e di San Francesco d’Assisi a Cosenza, il cappellone del SS. Sacramento nella cattedrale di Reggio, ricostruito fedelmente nei primi anni dell’ultimo dopoguerra. L’unica testimonianza degna di nota dell’architettura civile è Villa Caristo di Stignano, attribuita all’architetto napoletano Ferdinando Sanfelice. In questo periodo, cessano la loro funzione difensiva i possenti castelli delle epoche precedenti che si trasformano in molti casi in palazzi residenziali. Esempi di castelli-palazzo si trovano a Calopezzati, San Lorenzo del Vallo, Mirto, Cirò, Roccella Jonica, Scalea, San Nicola Arcella. Attestazioni di tardo Barocco sono la Chiesa dell’Addolorata a Serra San Bruno ricostruita dopo il disastroso terremoto del 1783, la coeva e somigliante chiesa di Santa Maria delle Grazie ad Arena, la grande basilica dell’Immacolata a Catanzaro realizzata nel 1752 ed ampliata nel 1892, la chiesa dello Spirito Santo a Scilla, la imponente chiesa di Santa Maria del Colle a Mormanno, ricostruita nella seconda metà del ‘700 ed ultimata durante il XIX secolo. Delle opere d’arte simili a quelle del Medioevo, del Rinascimento e del Barocco, si produssero anticamente in Calabria e nelle altre regioni interessate dalla colonizzazione greca: nel primo periodo, paragonabile al Medioevo, gli artisti produssero figure molto sobrie ed ieratiche come la Persefone di Locri custodita a Berlino, in epoca classica come nel Rinascimento dominò uno stile armonioso e simmetrico, pensiamo ai Bronzi di Riace, nel periodo ellenistico che richiama il Barocco vi fu un tripudio di forme fantasiose e in movimento.


I Don Rodrigo locali CULTURA

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I Don Rodrigo non conoscono alcun tipo di restrizione spazio-temporale, nel senso che la prepotenza dei più forti trova spazio e complicità in ogni epoca. il 18 agosto del 1907, nel cuore della Vallata la Verde, comune di Bianconovo, una bella diciottenne è morta in circostanze a dir poco tragiche. Qualcuno cercò di violentarla e, vistosi energicamente rifiutato, la uccise a bastonate, deturpandole in seguito il corpo ENZO STRANIERI Il 18 agosto 1907 la giovane e bella contadina Eugenia Todarello di Pardesca di Bianco fu impunemente trucidata e violata nelle sue parti intime (riempite di pietre e terriccio). I Don Rodrigo non conoscono alcun tipo di restrizione spazio-temporale, nel senso che la prepotenza dei più forti trova spazio e complicità in ogni epoca. Oggi, purtroppo, si è giunti al “Femminicidio”: le donne subiscono violenze mortali da parte di fidanzati, mariti ed ex, parenti, familiari stretti, etc, a dimostrazione che il mondo femminile è ancora considerato inferiore a quello maschile e, pertanto, degno di qualsiasi brutalità. Nel Sud, specie al tempo del dominio baronale (durato quasi cinquecento anni: dal XIV secolo a quasi metà del secolo XX), la donna subiva le neglette angherie maschili, soprattutto quando le veniva a mancare il marito. Lo stato di vedovanza la lasciava “Non protetta” rispetto alle bramosie dei signorotti del luogo. "Gazzetta del Mezzogiorno", 28 Agosto 1907 (Trafiletto fornitomi da Mario Leone) Ma non solo ai baroni interessava la carne, il possesso della “Merce umana”. Ad essi si aggiungeva una vasta schiera di proprietari, spesso rozzi e violenti, che possedevano i migliori terreni e che perciò tiranneggiavano i contadini e i pastori. Ma il 18 agosto del 1907, una giornata torrida più delle altre, nessuno poteva immaginare che nel cuore della Vallata la Verde (contrada Grazìa, comune di Bianconovo), proprio ai margini dell’omonima fiumara, una bella diciottenne sarebbe morta in circostanze a dir poco tragiche. Eugenia Todarello. Si chiamava Eugenia Todarello, era nata a Pardesca di Bianco il 24 settembre 1889 da Francesco Todarello e Mariangela Mesiti, onesti contadini, alle prese con i duri lavori della terra. Quella infausta mattina di agosto, i suoi genitori stavano nei campi a lavorare, i fratelli più piccoli giocavano; Eugenia, invece, con in testa un recipiente di coccio (bumbuleglia) era quasi giunta presso una sorgente non lontana dalla fiumara La Verde per fare rifornimento d’acqua. Ma qualcuno, poco prima della sorgente, cercò di violentarla e, vistosi

energicamente rifiutato, la uccise a bastonate. Nessuno pagò per l’orrendo crimine, un signorotto del posto fu semplicemente interrogato senza conseguenze giudiziarie. Alcuni pastori che pascolavano i loro greggi nelle vicinanze del bosco dissero, forse mentendo, di non avere assistito all’accaduto. Eugenia fu consegnata alla nuda terra del neonato cimitero di Pardesca di Bianco. Lo sgomento fu grande. L’omicida non solo aveva privato della vita la giovane e bella Eugenia, ma ne aveva anche deturpato il corpo. Le sue parti intime furono, infatti, riempite di pietre, un gesto di folle rabbia e disprezzo verso chi si era giustamente opposta alla violenza dei suoi aguzzini. Sulla vallata cadde un silenzio collettivo, la paura ebbe il sopravvento, anche l’ ”Onorata Società” rimase indifferente di fronte alla vita e all’ “Onore” violati; segno, questo, ch’era al soldo dei potenti di turno. Don Domenico Battaglia Ma non tutti stettero zitti, Don Domenico Battaglia, arciprete di Caraffa del Bianco, poco tempo dopo, nel corso di messa domenicale, eseguì il rito della “Squagghjata” (della scomunica), ovvero il rito della candela (che si “Squagghjia”, si scioglie) con il quale il sacerdote emise scomunica nei confronti dell’assassino (o degli assassini?) di Eugenia e di quanti, pur avendo assistito ai fatti, avevano taciuto. Era stato il vescovo di Locri-Gerace Giorgio Delrio (6 dicembre 1906 - 16 dicembre 1920) a disporre che in tutte le parrocchie fossero accese le candele della scomunica. L’evento delittuoso era stato troppo grave per non prendere provvedimenti così decisi. Margherita di Savoia La Regina Margherita, prima regina d’Italia come consorte di Umberto I di Savoia, appurato il terribile delitto invio una lapide-ricordo ai genitori di Eugenia (da sistemare sulla sua tomba). Presso la pretura di Bianco, come anticipato, furono chiamati a testimoniare, oltre al signorotto che aveva più volte importunato, ma senza esito- la giovane e che per questo fu il principale sospettato, alcuni pastori e contadini che quel 18 agosto faticavano in zona. Nessuno vide, nessuno diede prova di coraggio. E’ certo, infatti, che un delitto così barbaro non poteva passare inosservato. Mario La Cava

Mario La Cava, scrittore (Bovalino1908/1988), indagò sulla morte di Eugenia allo scopo di scriverne un romanzo. Ma la cosa non andò in porto. Forse, stante l’omertà, non ricavò le notizie necessarie per un lavoro letterario a sfondo realistico. I sospetti sul signorotto erano sorti per le sue pregresse molestie nei confronti della giovane, ed anche perché era solito approfittare di tutte quelle povere donne che non erano in grado di opporsi alla sua cupidigia. In punto di morte, lo stesso consegnò al prete che era andato a confessarlo una dichiarazione scritta, dove affermava di essere totalmente estraneo al delitto e che ciò doveva essere reso pubblico nel corso del suo funerale. Il suo desiderio fu esaudito da Don Antonino Pelle (priore del santuario di Polsi), officiante incaricato. Ma vox populi, però, era convinta della sua colpevolezza, tanto che, specie gli anziani, ripetevano sconcertati che manco in punto di morte il truce signorotto s’era deciso a confessare i suoi misfatti. Una cosa però è ipotizzabile: per via del ruolo sociale rivestito, egli non poteva non sapere com’erano andati i fatti (nutro il sospetto, stante le modalità del delitto, che a parteciparvi siano state più persone). Restano però da considerare altri aspetti. Perché tanta ferocia? Quali i veri motivi di tale sfregio? E se si fosse trattato di un gesto intenzionale stabilito a suo tempo a tavolino? E se si, da chi? e per quali motivi? Profanare post-mortem un corpo già martoriato, insistendo sulle parti intimi a mo’ di totale infamia, come a voler celebrare il pieno possesso di un corpo considerato privo di valore, in assenza di qualsiasi pietas cristiana, può far pensare che la morte della giovane Eugenia sia stato un evento iniziatico? il progetto insano di un neo-gruppo che ha deciso di sacrificare la giovane sull’altare di chissà quale insano rito? Intanto, sarebbe stato giusto dedicare alla memoria di Eugenia Todarello almeno una via, come pure una santa messa ogni 18 agosto, giorno della sua morte violenta. Successivamente, la chiesa, accertati fatti e conseguente documentazione, potrebbe avviare le procedure per la sua beatificazione. Ciò per dare memoria eterna ad una giovane innocente, che pagò con la vita l’arroganza del Potere. Il compito, a chi di dovere, di provvedere in merito.


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Diario di Viaggio

Sant’Agata, Caraffa del Bianco e Samo

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ANTONIO CRINÒ Innovazione, digitalizzazione, competitività e cultura per ridurre le disuguaglianze territoriali: è uno dei cinque assi del Piano di Ripresa e Resilienza, l’ormai famoso Recovery Plan, le cui risorse devono essere “Allocate”in tempi brevissimi. Considero certamente importante questa opportunità, ma riguardo le disuguaglianze territoriali e lo spopolamento dei piccoli borghi ho da tempo un’idea precisa e forse un pò “Controcorrente”. Per cercare di ridurre gli evidenti divari, che negli ultimi anni si sono notevolmente aggravati servono certamente le risorse (e stavolta ce ne saranno molte), ma ancora di più serve una sorta di “Chiamata alle armi” da parte di tutti gli attori protagonisti, ed in modo particolare di chi abita i piccoli centri. Quello che spesso manca, a mio avviso, è una consapevolezza sulle risorse esistenti e sulle opportunità che il territorio offre, oltre ad una sinergia tra Enti, Associazioni e residenti. Soltanto attraverso progetti condivisi, che partano dal basso si può sperare di guardare al futuro con un pizzico di ottimismo. È stato detto più volte in questo anno “Terribile” ed io sono tra quelli che lo pensano e lo scrivono, che la pandemia possa paradossalmente rivelarsi, pur nella sua drammaticità, una sorta di opportunità. Questo stravolgimento che tutti stiamo vivendo e dal quale speriamo di uscirne prestissimo ci ha fatto certamente riflettere e ci ha indotti a cambiare la scala delle priorità. I nostri figli sono quelli che stanno pagando di più, essendo stati catapultati in un vortice per loro incomprensibile e devono essere loro i veri protagonisti di questo scatto di reni necessario e nonpiù rinviabile. Continuando questo mio viaggio tra i paesi della Locride, raggiungo tre paesini della vallata della fiumara “La Verde” che negli ultimi tempi stanno cercando, chi più chi meno, di uscire dal torpore e dall’apatia. I residenti a Sant’Agata del Bianco, Caraffa del Bianco e Samo (forse un po' meno) sono diminuiti notevolmente negli ultimi anni, eppure ci sarebbero le condizioni, malgrado tutto, per creare occasioni di sviluppo. Un fattore frenante è costituito, anche qui, dalla strada che collega i tre paesi e l’abitato di Casignana alla costa, una strada provinciale che si trova da anni in condizioni di particolare precarietà e che necessiterebbe di un intervento risolutivo, considerando che i terreni che attraversa sono interessati da fenomeni di grave dissesto idrogeologico. Samo è un centro interessantissimo a livello storico e naturalistico: la montagna, il paesaggio, le gole della fiumara La Verde, la maestosità di Monte Perre, di Croce di Dio sia lodato, Monte Iofri (dal quale nelle giornate serene è possibile vedere l’Etna), le tante cascate, la bellissima flora, i percorsi nel Parco, il vecchio splendido abitato di Precacore, sono tutti elementi di assoluto valore e che meritano di essere inseriti in circuiti turistici importanti. Caraffa del Bianco e Sant’Agata del Bianco sono praticamente “Attaccati” e anche in questi minuscoli centri ci sono elementi di notevole interesse storico, culturale e naturalistico sui quali investire. A Caraffa del Bianco la suggestiva Chiesa nel borgo e la chiesa della Madonna delle Grazie, il bellissimo Palazzo Barletta e la splendida veduta del “Pizzo”, una pagina di storia importante con la figura di Rocco Verduci, uno dei cinque martiri di Gerace. Sant’Agata del Bianco ha una parte di territorio interessantissimo a livello naturalistico, prima fra tutte l’altura di Campolico e la parte di territorio confinante con Samo compresa all’interno del Parco Nazionale d’Aspromonte (è notizia di oggi l’inserimento del Parco nei Geositi Unesco), un

grazioso borgo all’interno del quale si è intervenuto negli ultimi anni con intelligenti interventi e seguitissime iniziative . Sant’Agata del Bianco ha dato i natali a Saverio Strati, uno degli scrittori più importanti del panorama letterario italiano e di quello meridionale in particolare. Questi tre paesini sono interessati, come molti altri centri dell’entroterra della Locride, da un progressivo spopolamento e bisogna fare di tutto per rallentare questo fenomeno, al fine anche di ridurre le disuguaglianze territoriali esistenti. È necessario, innanzitutto, intervenire sui servizi primari e già questo comporta spesso delle serie problematiche e grandi sforzi da parte degli amministrator, legati soprattutto alle situazioni economiche-finanziarie dei piccoli centri, che in alcune zone della Calabria ha portato alla necessità di istituire Unioni dei Comuni. Si deve intervenire in modo serio sulla digitalizzazione, in modo da consentire pari opportunità a livello scolastico e lavorativo ai ragazzi dei piccoli paesi rispetto ai loro coetanei più “Fortunati” (si fa per dire…) che abitano nei centri più grandi. Occorre fare tutto questo, non vi è alcun dubbio, ma dove si gioca veramente la partita è sul piano culturale, ed è su questo piano che si devono concentrare le maggiori energie. Ben vengano, quindi, la ristrutturazione di Palazzo Barletta e gli interventi sul borgo a Caraffa del Bianco, ben venga la valorizzazione di Precacore, gli interventi di arredo urbano del centro abitato di Samo e delle aree del Parco d’Aspromonte, i tanti lavori che si stanno realizzando a Sant’Agata del Bianco, ma quello che potrà determinare una inversione di rotta saranno gli interventi immateriali, altrettanto e più importanti degli interventi materiali. Cosa intendo dire? Se un Sindaco riesce a “Storicizzare” interventi culturali e a creare percorsi virtuosi di conoscenza e di partecipazione (mi riferisco per esempio al Festival denominato “Stratificazioni” che da un paio di anni si svolge con grande successo a Sant’Agata del Bianco) ha certamente imboccato la strada giusta. Se i Sindaci, le Associazioni (prime fra tutte le Pro Loco) e i residenti si incontrano e studiano progetti condivisi in campo turistico-culturale e sociale in grado diinteressare per il momento un mercato interno, il cosiddetto turismo di prossimità (per il 2021 sarà certamente cosi a causa del Covid) si sarà fatto già un grande passo avanti. Se si realizzeranno progetti d’area (in questo caso l’elemento comune a livello territoriale è rappresentato dal Bacino del La Verde) che comprendano visite guidate, escursioni, catalogazione e storicizzazione dei numerosissimi palmenti (lo si sta facendo), degustazione di prodotti tipici e interventi mirati in campo agricolo, pernottamenti nel borgo, se si riescono a “Raccontare “ i fatti, i luoghi, se si riscopre come si sta facendo Saverio Strati, se si mettono in campo percorsi seri, si riuscirà certamente a raggiungere lo scopo. Ci vorrà un po' di tempo, questo è evidente, ma vale la pena provarci, anche a Sant’Agata del Bianco, a Samo e a Caraffa del Bianco… Aspettare l’alba ascoltando musica dallo splendido anfiteatro naturale di Campolico, parlare di Strati tra le “Porte pinte”, ammirare e rendere fruibile Palazzo Barletta , gettare lo sguardo alla stupenda vallata del La Verde “Darretu o Pizzu”, raccontare le “Leggende“ legate al culto di San Giovanni e a Monte Iofri, tutte queste non devono essere “Sensazioni isolate” o iniziative isolate, ma devono far parte di un unico contenitore, uno dei tantissimi presenti nella Locride. Consideriamola una sfida che la nostra storia e la nostra terra ci lanciano e che tutti insieme dobbiamo essere in grado di raccogliere in fretta.



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I frammenti storici POESIA

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Frammenti storici di Francesco Luigi Errígo è il primo volume di altri due che seguiranno prossimamente. L’arte di Errígo, attraverso una metafora, si può accostare all’alba chiara che proviene dal mare Jonio

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ANTONIO FLOCCARI

ER TRILUSSA DI STILO

ER MONACO BUDDISTA È successo che un Monaco Buddista, ner mentre se snocciòla la preghiera, er patocco je fa l’arzabandiera: ’na mossa che pe lui nun è prevista. Ma er frate, vivabbio, nun se dispera, se fa da sé medémo l’esorcista e tràcchete…da vero anatomista co un macete se stronca la cariera. E disse ar cicio: – gnente canipuccia nun è permesso da la religgione, percui mejo piscià co la cannuccia. L’avessino penzata certi padri de segasse l’ucello in erezzione p’ er monno nun vedressi tanti ladri…! Giorgio Bruzzese

Frammenti storici di Francesco Luigi Errígo è il primo volume di altri due che seguiranno prossimamente. L’arte di Errígo, attraverso una metafora, si può accostare all’alba chiara con atmosfera ellenica che proviene dal mare Jonio. Storicamente, lo stile di Francesco Luigi Errígo si collega al laconico messo in atto, comunemente, dagli Spartani del Peloponneso che parlavano con essenzialità, passati al futuro anche per questo. Errígo è essenziale, dunque, misura l’espressività con la modestia dell’intellettuale che non mette in mostra se stesso, che non si esibisce. È vicino alla severità linguistica del grande filosofo greco Epicuro, ma anche ai tragediografi greci Sofocle ed Euripide. Un concetto è fondamentale nella creatività di Errígo: l’atomo si può

foto di Michele Iannopollo

frantumare diffondendo enorme energia, la cultura è impossibile a frantumarsi, è un tutt’uno, un gemellaggio fra le varie forme della gamma intellettuale, dal figurativo al letterario, da questo all’architettonico. Si tratta del celebre concetto dell’unità della cultura, della compattezza del sapere. Per cui in Frammenti storici l’espressività verbale si unisce alle immagini, andando incontro all’attualità che mette in evidenza l’importanza dell’immagine, quasi a voler fare scomparire la scrittura tradizionale. Ed è così che si susseguono immagini di luoghi piccoli e grandi che hanno visto nel loro ambiente protagonisti della cultura di fama non solo nazionale. È dunque un’opera, quella di Errígo, che può avere legittima ospitalità nei luoghi di formazione culturale delle nuove generazioni. Attendiamo, con interesse, il seguito a quest’opera interessante e di notevole portata culturale.

Le spine di un tamarro traditore SPINA 1: Terra Terra vecchia dduva non ci passa la sierpi. Terra nova dduva non ci passa cchiù l'aratru do tiempo scordatu dduva non ci passa cchiù l'uomu terra antica dduva a civirtà atterrata ntà timpa quagghia sulu supa u mari ncuna vota terra mpetrata ferita a sangu da tutti e tutto ferita a muorti da l'assassini cumpagni do' tiempu terra mpilici nchiumbata tra cielu e mpiernu nudu ti duna retta mancu

i juochi de' cotrari terra virgugnusa chi non ti virguogni u sgravi muostri e malìa terra mala chi ni cacciasti cuomu nu latru addocchiatu terra murusa dduva l'amuri cuva gigghi di cardu e ficandiani terra de' baruni abbandunata chi mpili fricci de' loari ntà l'amaru do' fieli terra scacciuna supa i marini mafiusi chi non si sparagnianu u mari de' turisti fissa chi non rispettanu 'a tua majisi. Terra cassarijata

da ministri e da mangiuni e muorti e pulitici mariuoli cuomu i pirati musurmani chi t'u' zziccavanu senza co ti maritanu e si pigghiavanu l'uoru chi ti nescìa da fhissa. Terra chi mi bottiji ncuodu non sacciu u ti dicu auttu ca u m'affundi nta lu' mari si bbuoi oppuru 'u m'attierri l'armi e u ma' finisci 'e cuntara i muorti e cantara l'onuri e ciangiri misieria e m'u ripigghi 'u caminu diciendu basta 'a da ricca limuosina chi ti fannu ‘e Roma. Giuseppe Fiorenza


Sradicati, alla scoperta dell’umanità perduta Il nuovo libro di Domenico Panetta, dal titolo “Sradicati”, è un viaggio nel dolore causato dall’emigrazione. Un dolore che non si placa mai, ma dal quale scaturiscono altri stati d’animo suoi racconti personali, Mimmo ripercorre la sua vita e la storia del nostro paese, le tradizioni, le varie consuetudini come il pranzo simbolo di unione familiare, dove ognuno raccontava le proprie vicissitudini. Lo stesso protagonista tenta la strada dell’emigrazione, volando in Canada, ma costretto a ritornare indietro, perché persona non gradita, essendo un comunista. Ritornato in Calabria prosegue nell’impegno e nelle lotte, fino a diventare sindaco di Siderno, ed anche in quel frangente non smetterà di rivolgere un pensiero agli immigrati e ai loro sacrifici. Non smettendo mai di chiedersi, anche con un velo di rabbia, perché la Calabria e tutto il Meridione sono stati condannati ad un triste sottosviluppo. Il libro si conclude con una riflessione, che racchiude una certezza: vivere, senza conoscere il drammatico dolore dell’emigrazione, sarebbe stato certamente meglio.

ROSALBA TOPINI “Sradicati” è il nuovo libro di Domenico Panetta, edito da Ilfilorosso, con la prefazione di Mario Capanna. È un libro che coinvolge sin dalla prima pagina, perché trasporta il lettore in un viaggio dolce e amaro. Racconta di legami forti, indissolubile, di attaccamento alla famiglia, alla terra, un mondo dove c’è un forte senso di dignità e del dovere. E poi c’è il dolore, il dolore di dover lasciare la tua terra natia, quel dolore che non cesserà mai, ma che un po’ alla volta sin trasformerà in una struggente nostalgia. Le case abbandonate del paese racchiudono il senso di questo fenomeno. L’andare via è, infatti, uno strappo, una privazione; tuttavia chi rimane sente di avere un futuro già segnato, con maggiori sacrifici e con una domanda che riecheggia nella mente: “Cosa sarebbe stato di me se fossi partito anche io?”. Attraverso i

FRUTTI DIMENTICATI

Malvasia grande di Ferruzzano VITIS VINIFERA L. FAMIGLIA VITACEE La presente varietà di malvasia si trovava in un campo dove esisteva un vigneto marginale impiantato negli anni cinquanta del 900, dove gli innestatori, praticarono su viti americane degli innesti con marze prelevate solo da vitigni del territorio, di tante varietà, in quanto si pensava che il vino ricavato da uve diverse, fosse più ricco di profumi. Nel 1972 la vigna fu sconvolta da una frana in una sezione, il terreno fu ripianato e furono reimpiantate alcune centinaia di viti di varietà sempre del territorio. Ai margini del campo fu piantato un ulivo e dal terreno spuntò un tralcio di una vecchia vite preesistente che si rifugiò sulla piccola pianta e ricrebbe in simbiosi con essa, trascurata e mai potata. Dall’analisi apparve chiaro che si trattava di una malvasia, che era stata scelta dagli innestatori per via della inusuale grandezza, che non compare dalla foto in quanto il grappolo era cresciuto da una vite non potata, che tende a produrre tantissimi grappoli di dimensioni più piccoli. Quando il proprietario di un vigneto da formare demandava il compito di scegliere le viti agli innestatori, essi prelevavano marze da viti dai grappoli enormi per sbalordire o innesti da viti che si prestavano a

facile attecchimento; tra questi era mitica la Negadebiti, che non c’è più, con cui gli operatori avevano dei risultati sbalorditivi, in quanto l’ insuccesso si aggirava sul due tre per cento. Avevo cercato di salvarla chiedendola al detentore che non nomino, perché gli potrebbe fare piacere essere menzionato, ma non volle concedermi un innesto perché avrei potuto darlo a qualcuno non del territorio, pur sapendo che si sarebbe estinta perché a breve avrebbe espiantato la vigna impiantata non certamente da lui. Solo che alla facilità di attecchimento corrispondeva una produttività vicino allo zero, in quanto essa riusciva a produrre uno o due minuscoli grappoli neri tendenti al blu e ciò l’ha condannata all’estinzione; aveva delle foglie enormi che superavano trenta centimetri di diametro, con la pagina inferiore fortemente pubescente; sicuramente dalle sue uve poteva venir fuori un vino prelibato La presente malvasia poteva raggiungere cinquanta centimetri di lunghezza con gli acini perfettamente sferici, che a maturazione diventavano giallo oro. La parte inferiore del grappolo nella parte estrema si biforcava e si rialzava sui lati esterni, mentre la parte superiore era dotata talvolta di due o tre ali. La vite viveva in simbiosi con un gio-

vane ulivo, che continuò a crescere, producendo una quantità considerevole di grappoli, anche non enormi, fino ad una decina di anni addietro in contrada Gurni del comune di Ferruzzano. Personalmente prelevai delle marze, con cui riprodussi una decina di viti nella mia vigna di contrada Arie Murate del comune di Ferruzzano. Esse vegetando non in simbiosi con un albero e in possesso quindi di grande energia, cominciarono a produrre dei grappoli grandi più del dovuto che, talvolta, nella parte terminale s’ingrossano e si rialzano “A coda di volpe”. Proprio per tale particolarità in Campania, un vitigno portato probabilmente a Posidonia (ora Paestum), colonia di Sibari, nel periodo classico da coloni tessali che tentavano di fondare una colonia nel territorio della distrutta Sibari e furono cacciati dai crotoniati, viene denominato Coda di Volpe, presente nei nostri territorio fino a pochi anni addietro con il nome di Lacrima bianca vera. La vigna cambiò padrone ed il nuovo, oltre a trascurare la vigna, una delle prime operazioni che portò a termine, fu quella di tagliare la preziosissima vite che prosperava maritata ad un ulivo. Rischio d’erosione genetico: altissimo. Orlando Sculli


A tu per tu con il papà: Lollo Muscolo, la mia “Milano da bere”

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INTERVISTA www.larivieraonline.com

Intervista di un padre a un figlio per raccontare la sua storia, quella di uno dei tanti giovani che decidono di aprire una attività nella grande Milano

CARLO MARIA MUSCOLO Il Direttore Pietro Melia insiste da tempo, perché faccia un’intervista a mio figlio Lorenzo, per raccontare la sua storia, quella di uno dei tanti giovani che decidono di aprire una attività nella grande Milano. Non posso dirgli di no, ed ecco due chiacchiere in libertà con Lorenzo. Noi genitori, non avevamo capito che “I figli sono del deserto” e ci aspettavamo di vederlo alla scrivania, nel nostro studio, mentre nella sua testa maturavano altri interessi ed altri obiettivi di vita. E dopo un inutile anno di esperienza sui banchi di giurisprudenza, per accontentarci, ma senza voglia, lo liberammo e la passione prese il sopravvento ed iniziò l’avventura. Ciao Lorenzo ci racconti da dove nasce questa tua passione per il tuo lavoro? Questa passione per il mio lavoro nasce dalla passione verso la notte, verso il bar. Il locale.... probabilmente strascico della ultima Milano da bere, che vivevo come cliente. Giri giri, conosci, paghi, ma il posto ideale per te non c’è, non lo trovi, è l’eden... Ed allora caspita per raggiungere l’eden le vie sono due.... O vai al creatore e, sinceramente, mi sembrava un poco prestino, o compri un bar e lo modelli a tua immagine e somiglianza.... E così ho fatto...prima .... Muovo i primi passi nei locali degli altri, portavo gente insomma dietro anche un discreto compenso....dopo insieme ad amici, rilevo, durante gli studi, una chupiteria sui Navigli un postaccio.... Ma che resterà sempre nel cuore, avevo 20 anni.... Ma dura poco, vendiamo subito e mi trovo in piccola partecipazione di un famoso ristorante meneghino, li non mi diverto, ma imparo, molto, e capisco che la ristorazione sarà la mia vita. 13/9/2014 dopo mille peripezie apro il Twain, il mio gioiello. Preferisco riportare quanto scrive un giornalista esperto del settore: il Twain, ormai solida realtà di via Teodosio, da qualche anno gestito da Lorenzo Muscolo alias Lollo, personaggione eclettico che unisce a solide basi di studio dei drink un’ottima capacità di accoglienza. Il Twain di oggi è un locale particolare, mantiene l’impostazione da lounge bar con grandi spazi e tavoli sia all’esterno che all’interno ma ha abolito l’aperitivo a buffet (grazie!) a vantaggio di una ricerca sulla drink list notevole. Il buffet è stato sostituito da un civilissimo piatto di assaggi italiani servito al tavolo: salumi, affettati, qualche sfizio per chi proprio non vuole rinunciare al rito dell’aperitivo mangereccio. Stessa attenzione viene dedicata alle materie prime, la bottigliera è ricca e varia. Quando vado a trovarlo Lorenzo mostra già dal primo drink l’anima spiazzante sua e del locale. Mi aspettavo un drink particolare inventato da lui come l’ultimo che ha portato alla Maratona dei Barman e invece mi prepara un classicissimo, buonissimo Between The Sheets fatto a regola d’arte. Lorenzo mentre prepara i drink intrattiene il suo pubblico, mi racconta della storia del Between The Sheets, nato da una cotta di un bartender per Josephine Baker che si esibiva seminuda con una tigre al Cafè de Paris. Il sogno del bartender era di trovarsi, appunto, tra le lenzuola con quella dea della Baker. Così creo un cocktail con il Cointreau, arancione, come gli occhi della tigre. Con il Cognac, forte, impegnativo. Ecco queste parole mi ripagano dei mille sacrifi-

ci…. Ed ora dopo parecchi anni sei contento? Sì, perché per quanto questa cosa possa sembrarti assurda, avere il locale più bello, più accogliente e con i cocktail più buoni (nonché al prezzo più basso) il più delle volte non è neanche lontanamente sufficiente a garantirti il successo, dove per successo intendo la sopravvivenza e la soddisfazione di vedere il cliente felice e vederlo tornare e poi tornare ancora. Avere un’azienda in un paese supertassato come l’Italia non aiuta, sono pienamente d’accordo, ma dopo aver portato avanti per anni diverse attività ti posso garantire che se capisci come muoverti, puoi farcela anche senza scappare all’estero. Per riuscire in questo è necessario fare analisi di mercato, individuare un prodotto in grado di scuoterlo, trovare una location che rispecchi le caratteristiche più confacenti all’idea che sta al centro del tuo progetto, trovare il personale adeguato, formarlo, stabilire un ciclo di lavoro e degli standard, verificare che quegli standard vengano rispettati, impostare il marketing aziendale, raccogliere i numeri e capire come e dove correggere il tiro. Questo è solo un piccolo riassunto delle cose che fa un imprenditore, indipendentemente dal tipo di attività che gestisce, ma immagino ti sia chiaro che un lavoro di questo tipo difficilmente va di pari passo con il servizio al banco in prima persona. In sintesi, se non lavori dalla mattina alla sera per portare i clienti nel tuo locale, a chi lo servi il tuo buonissimo cocktail? Lo so, investire nel personale all’inizio può sembrare un azzardo, ma il vero rischio è non dedicare sufficiente tempo a tutti quei compiti indispensabili per la sopravvivenza del tuo prezioso locale. Io stesso faccio contemporaneamente il barman, il ristoratore e l’imprenditore, infatti per evitare di fallire devi lavorare una media di 16 ore al giorno 7 giorni su 7. Quindi la domanda è: quanto vale ogni ora della tua vita? In questi primi anni di soldini ne ho visti veramente pochi e mi ritengo fortunato, più che ostinato, se sono riuscito a cavarmi fuori dal tunnel in cui scelte sbagliate possono portarti. Ho sbattuto la testa una quantità infinita di volte prima di riuscire a capire come far funzionare il mio locale, e alla fine ce l’ho fatta, ma tanti nella mia posizione si sono ritrovati sommersi dai debiti e dai rimorsi. E questo periodo recente di pandemia e chiusure? Questi mesi di lotta per la sopravvivenza della mia attività sono stati in assoluto i più stressanti della mia esistenza e non augurerei nemmeno al mio peggior nemico un’esperienza simile. Ma l’importante è avere determinazione e capacità di rinnovarti. La pandemia ci ha cambiato e se prima aprivamo alle 18, per un lungo periodo alle 18 si chiudeva, e quindi devi reinventarti tutto, ma è andata…. Qualche episodio, aneddoti da raccontare? Episodi da raccontare, tantissimi, troppi e nessuno, noi dal banco vediamo tutto, mogli amanti incontri casuali spacciatori, spogliarelliste, ma è la magia del bar, per noi sono tutti clienti, i migliori…. Ma il segreto professionale va rispettato ahahahah……..un abbraccio a tutti.


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Riace, Sindaco condannato!

Il Comune di Riace, in persona del Sindaco Trifoli, sosteneva che a seguito di controlli effettuati dai propri tecnici era venuto a conoscenza di un contratto di compravendita dell’immobile sito in Riace alla Via Pinnarò, denominato “Palazzo Pinnarò”

Con atto di citazione il Comune di Riace, in persona del Sindaco P.t. TRIFOLI, sosteneva che a seguito di controlli effettuati dai propri tecnici era venuto a conoscenza della stipula, tra il Comitato Italiano per l’Unicef Onlus, in qualità di venditore, e l’Associazione Città Futura – G. Puglisi, in qualità di acquirente, di un contratto di compravendita dell’immobile sito in Riace alla Via Pinnarò, n. 20, denominato “Palazzo Pinnarò”; riferiva, ancora, il Comune di Riace, che giusto decreto n. 326 del 7.9.2009, l’immobile oggetto del trasferimento era stato dichiarato dal Ministero per i Beni e le Attività culturali bene di interesse storico artistico, ai sensi dell’art. 10 del D.Lgs. n. 42/2004 “c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio”, e pertanto sottoposto alle disposizioni del predetto Decreto Legislativo. Secondo quanto riferito dal Comune di Riace, lo stesso, quale ente pubblico territoriale interessato, aveva diritto di ricevere dalla Sovraintendenza territorialmente competente la comunicazione dell’avvenuto trasferimento dell’immobile al fine di esercitare la c.d. prelazione artistica ai sensi del Codice dei Beni culturali. Pertanto, l’Ente territoriale, a suo dire, stante la mancata comunicazione dell’avvenuto trasferimento dell’immobile in questione, non ha potuto esercitare il proprio diritto di prelazione. In ragione di quanto esposto, l’attore ha domandato la nullità, ai sensi dell’art. 164 del D. Lgs. n. 42/2004, dell’atto di trasferimento del citato immobile ha chiesto, inoltre, la condanna delle parti convenute, ciascuna per

quanto di rispettiva competenza, a procedere con la comunicazione della denuncia di trasferimento dell’immobile predetto, al fine di consentire al Comune di Riace di esercitare il proprio diritto di prelazione, nei termini e nelle forme di cui al codice dei beni culturali, con vittoria di spese, diritti ed onorari. Nel costituirsi in giudizio le parti convenute: -CITTA’ Futura, rappresentata e difesa dall’avvocato Andrea Daqua -MINISTERO per i Beni e le Attività culturali – Segretario regionale del Ministero per i beni e le attività culturali per la Calabria -Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città metropolitana di Reggio Calabria e Provincia di Vibo Valentia, rappresentati e difesi dall’Avvocatura dello Stato -UNICEF rappresentata e difesa dagli avvocato Vesci e Guiducci. HANNO DIMOSTRATO: 1) Che l’atto notarile era stato stipulato secondo legge; 2) Che il notaio Rogante ha effettuato le comunicazioni di legge tramite ufficiale giudiziario; 3) E, cosa ancora più grave, hanno prodotto copia della PEC con la quale, contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, la Sovrintendenza, una volta che aveva ricevuto la comunicazione da parte del notaio, aveva tempestivamente e ritualmente avvisato il Comune di Riace (con nota prot. 1582 del 5.3.2019 inviata Via PEC e regolarmente ricevuta) proprio per metterlo in condizione di esercitare la prelazione lamentata. 4) Che, comunque, il Comune di Riace al momento in cui lamentava la prelazione ERA IN DISSESTO FINANZIARIO per cui difficilmente avrebbe potuto acquistare l’immobile Il Tribunale di Locri nel rigettare, in tronco, la domanda proposta dal Comune l’ha condannato al pagamento delle spese di Euro 5.300,00 oltre accessori- a favore delle tre parti costituite (UNICEF, CITTA’ Futura, e Ministero). Un danno economico, quindi, per le casse del Comune di Oltre 20.000,00 Euro. Non ci sarebbe niente da aggiungere se non avanzare l’ipotesi che quell’atto temerario – perché di questo si tratta – avesse la finalità di infliggere un ulteriore colpo a quel modello di accoglienza e integrazione che ha catapultato Riace nel mondo e all’artefice di quel modello, l’ex sindaco Mimmo Lucano. Ma malgrado Trifoli e compagnia – per i quali si prefigura anche un danno erarariale, perché i 20 mila euro di spese legali che essi dovranno rifondare non dovranno certo essere i cittadini a pagarle! – c’è sempre un giudice a Berlino. Mimmo Futia

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Lo Presti replica a Nirta Il giornalista Matteo Lo Presti replica all’articolo di Mario Nirta dal titolo: “Celebrate l’odio, fratres”, pubblicato nel numero 18 di questo giornale, sottolineando come gli avvenimenti storici non possono essere isolati da un contesto di avvenimenti, per strumentalizzare ciò che ci infastidisce. il 25 Aprile è la festa che ha portato l’Italia libera, che ha sollevato il paese a nuova dignità, alla quale Nirta non sembra essere interessato

MATTEO LO PRESTI Ho telefonato con delusione e rammarico alla redazione di “Riviera” dopo avere letto l’articolo di Mario Nirta, che girovaga in modo confuso intorno alla Resistenza, evento di importanza fondamentale nella costruzione della democrazia nel nostro paese, La storia, lo spiega la stessa parola, è un narrare di fatti, che non possono essere isolati da un contesto di avvenimenti per scegliere ciò che ci fa comodo o per strumentalizzare ciò che ci infastidisce. Il Nirta accusa la Resistenza di essere episodio formale, animato da opportunismo, di cui non ci sono tracce nel ventennio della dittatura. Il primo contrasto nasce proprio dall’ impudenza di tranciare giudizi, senza alimentarsi di adeguata documentazione, che dia valore a quanto si afferma. Certo sotto il balcone di piazza Venezia è sciocco pensare di potere adunare oppositori alle farneticanti dichiarazioni del Duce (mi spiace citare con la maiuscola un uomo che tanti danni ha recato al paese. Ma la storia lo impone) sia per la conquista dell’impero, sia per la dichiarazione di guerra nel giugno del ’40. Gli oppositori del regime, anche per minuzie, quando Mussolini girava per le città italiane, venivano arrestati e tenuti in gattabuia per qualche settimana. Altre migliaia di antifascisti emigravano all’estero: Pertini, Turati, il padre livornese del cantante Yves Montand, Emanuele Modigliani, fratello del pittore Amedeo. Purtroppo appare macchiata di pesante ignoranza la figura di Pietro Nenni, che sarebbe andato al seguito del Duce a Salò, da quello che scrive l’impreparato Nirta. Pietro Nenni emigrò in Francia con la

famiglia. Una sua figlia catturata dai tedeschi morì in campo di concentramento, per avere fatto parte della Resistenza francese. Lasciò questo messaggio: “Dite a mio padre che sono morta per avere difesi i suoi valori”. La guerra fu dichiarata al seguito dei successi di Hitler: ”Voglio buttare 5 mila morti sul tavolo della pace”. Non si può sapere cosa avrebbe fatto Nirta se la cartolina precetto lo avesse raggiunto. O partire o farsi fucilare come renitente alla leva. Tertium non datur. Solo 13 e non 12 professori universitari non giurarono fedeltà al fascismo. Molti furono consigliati da Togliatti di rimanere nelle aule universitarie per alimentare l’opposizione al regime. Dire che a Salò morirono “I migliori fascisti” è una sciocchezza. Certo il grande Claudio Pavone durò fatica ad imporre l’analisi della “Guerra civile”. Ma i fascisti di Salò erano quelli che sostenevano i tedeschi nella deportazione dei soldati italiani nei campi di concentramento. Centomila soldati italiani morirono in Russia dotati di stivali di cartone,

con fucili che sparavano 9 colpi al minuto e quelli sovietici 80. Ci furono 14 mila dispersi. “I migliori fascisti ” quelli di Salò? Perché Nirta non parla dei “Migliori borbonici“ che spararono sui garibaldini? Seicentomila deportati italiani rifiutarono di aderire a Salò mentre erano prigionieri in Germania. Sa il Nirta che Mussolini scappava in Valtellina con un cappotto e un elmetto tedesco in testa? Era gesto patriottico? Forse più coraggiosi i sette fratelli Cervi fucilati dai repubblichini, perché proteggevano partigiani che volevano solo pace, giustizia e libertà. La storia ha una dimensione di valori dalla quale non si scappa: onorare come insegna Foscolo tutti i morti il 2 novembre, ma il 25 Aprile è la festa che ha portato l’Italia libera, oltre il ponte degli eccidi di Boves, di Sant’Anna di Stazzema e delle Fosse Ardeatine. Cioè in terra allietata dal sole della fraternità e non insanguinata da una ideologia di morte, che sollevò il paese a nuova dignità, alla quale Nirta non sembra essere interessato.


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Il 25 aprile da veri partigiani

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A Marina di Gioiosa Jonica Il gruppo “10 KM” festeggia i primi 40 anni del grandissimo amico atleta e giornalista Antonio Labate, con 11 km tutti d’un fiato e ristoro finale gentilmente offerto dal festeggiato. Ivan Leotta ci aggiorna sempre su questo gruppo fantastico che gira in lungo e in largo le strade di Marina di Gioiosa, fino a quando il nuovo sindaco Geppo “Benito” Femia li farà girare.

Tutti insieme per il 25 aprile, tutti partigiani, in questa foto gli “avversari”, ripetiamo tra virgolette, Enzo Carabetta, Giovanni Calabrese, Raffaele Sainato e Barbara Panetta, oltre allo straniero, il presidente dell’ANPI, Ercole Macrì, sono tutti dalla stessa parte, almeno per un giorno. Il tempo di un ricordo. Da domani si torna su diversi schieramenti ma oggi siamo tutti partigiani. Questo è stato il senso della manifestazione in onore della “Resistenza” a Locri in questo straordinario 2021. Bella Ciao.

Andrea, un Americano a Locri

Ilario, un Americano a Roccella

Quando si pensa ad un americano subito il pensiero corre ad Alberto Sordi nel famoso film di molti anni fa. In questa foto invece troviamo Andrea Scoccheri, titolare insieme ai fratelli del famoso bar aperto dal caro padre Mario. Andrea è cosi, prendere o lasciare niente fronzoli, nessuna azione fatta per la scena, solo ed esclusivamente vita vera perché pensiamo sia una delle persone più buone della Locride.

Devo dire che quando ho ricevuto questa foto ho subito pensato ad un turista, come ne arrivano tanti a Roccella Jonica. Ormai la ridente cittadina jonica ha superato il tetto delle 10 bandiere blu, e chi la ferma più, tanto per fare rima. Invece poi osservando bene, nella foto ho riconosciuto Ilario Macrì, il mio amico detto “la Calza” per la sua propensione a vendere questo indumento femminile. Ilario è sicuramente uno dei personaggi più pittoreschi di Roccella, ma anche una delle migliori persone che ho conosciuto.

La Madonna del mare

“Milo” il grande amico del canile

Ci è venuto a trovare in redazione il caro Maurizio Aspromonte, eccentrico personaggio di Marina di Gioiosa che comunque è famoso in tutta la Locride. Questa foto è un suo dono alla cittadina di Marina di Gioiosa, nella speranza che torni ad essere la città del sorriso, dopo tutte le vicissitudini giudiziarie che ne hanno compromesso il percorso nonostante oggi, a distanza di anni, dalle aule di tribunale escano solo assoluzioni. Un miracolo.

Questa settimana vi presentiamo “Milo” il grande amico del canile di Sant’Ilario, un bellissimo cane di dodici anni. Milo fa della sua esperienza un vantaggio per tutti i nuovi arrivati al canile, generoso ed esperto. Invitiamo chi vuole, a farci pervenire le foto per pubblicizzare i nostri amici a quattro zampe. Nella speranza di ricevere molte mail, ecco l’indirizzo a cui inoltrarle info@larivieraonline.com

Riunione segreta dei sindaci della Locride Scriviamo anche su questa rubrica perché, pensiamo che la democrazia vada difesa in ogni luogo ed in ogni situazione. I signori che vedete nella foto sono alcuni dei sindaci della Locride capeggiati dai sindaci Campisi, presidente del comitato dei sindaci, e Belcastro, dell’assemblea, da mesi si stanno scervellando perché devono dire alla città metropolitana in quale paese costruire la discarica di servizio al TMB di Siderno, della nostra ATO. Ora il dubbio che questa riunione così importante, sia stata fatta in gran segreto e senza la maggioranza dei sindaci sorge spontaneo. Perché? Forse questi signori non sanno che la nostra terra tremila anni fa inventò le “agora”, le assemblee pubbliche per prendere le decisioni importanti insieme alla gente. Vergogna.

Registrata al Tribunale di Locri (RC) N° 1/14 EDITORE - No così srl - via D.Correale, 5 - Siderno STAMPA: Se.Sta srl: 73100 Lecce INFO-MAIL REDAZIONE: 0964342198 larivieraonline@gmail.com / www.larivieraonline.com

Direttore responsabile

PIETRO MELIA

PRESIDENTE ONORARIO ILARIO AMMENDOLIA

DIRETTORE EDITORIALE

ROSARIO VLADIMIR CONDARCURI

HANNO COLLABORATO

Nadia Panetta, I Sinistrati, Francesco Femia, Mario Scali, Effemme, Vincenzo Amidei, Barbara Panetta, Mariateresa Orlando, Filippo Diano, Francesca Labonia, Silvio Messinetti, Mimmo Romeo, Giuseppe Gangemi, Enzo Stranieri, Antonio Crinò, Antonio Floccari, Giuseppe Fiorenza, Carlo Maria Muscolo, Mimmo Futia, Gaetano Marando, Rosalba Topini, Giuseppe Clemente, Giorgio Bruzzese, Orlando Sculli, Bluette Cattaneo, Matteo Lo Presti, Giuseppe Romeo e Giuseppe Roma.

Le COLLABORAZIONI non precedute dalla sottoscrizione di preventivi accordi tra l’editore e gli autori sono da intendersi gratuite. FOTOGRAFIE e ARTICOLI inviati alla redazione, anche se non pubblicati, non verranno restituiti. I SERVIZI sono coperti da copyright diritto esclusivo per tutto il territorio nazionale ed estero. GLI AUTORI delle rubriche in cui si esprimono giudizi o riflessioni personali, sono da ritenersi direttamente responsabili.


CALABRESE PER CASO

Legalità, e non solo, a doppio standard RUBRICHE www.larivieraonline.com

GIUSEPPE ROMEO 09 maggio 2021 Nel romanzo Heretics (Eretici) scritto da un istrionico Gilbert Keith Chesterton nel 1905 l’autore, noto ai più per essere approdato in Europa con l’arragiamento televisivo in I racconti di padre Brown, circa il significato di essere ortodosso, ovvero seguace di un dogmatismo di cui se ne accettano i paradigmi per ciò che sono, sottolineava quanto […] nulla rivela più sorprendentemente l'enorme e silenzioso male della società moderna dell'insolito uso che si fa oggigiorno della parola "ortodosso". Un tempo l'eretico era fiero di non essere tale. Eretici erano i regni del mondo, la polizia e i giudici. Lui era ortodosso. Non si compiaceva di essersi ribellato a loro; erano stati loro a ribellarsi a lui. Gli eserciti con la loro spietata sicurezza, i sovrani con i loro volti impassibili, i decorosi processi di Stato, i giusti processi legali: si erano tutti smarriti come pecorelle. L'eretico era fiero di essere ortodosso, fiero di essere nel giusto […]. Una frase che ha una sua attualità dal momento che viviamo in un’epoca fatta di saggi e giusti, di eretici e complottisti, di sacerdoti del pensiero unico, dogmatici per finzione e con seguaci per funzione, o funzionali meglio, ai mantra che ogni giorno snocciolano al nostro posto verità inconfutabili, certificate dall’unilaterale narrattiva dei fatti che i media accordano al potente di turno o al potere del momento. Insomma, poco importa che ancora oggi nulla si sa di come e in che misura sia esistito un Affaire Palamara (o Palamaragate), o che si cerchi di svelare quella nuova e nebulosa cortina che vuole un loggiato estendersi al termine ungherese senza avere, ovvia-

GIUSEPPE ROMA

mente, nulla di magiaro, se non riferirsi ad una ben nota omonima piazza romana nel cuore dei Parioli. E poco importa se, finita l’emergenza pandemica, si riscoprono al Nord i soliti calabresi, pronti a riciclare anche investendo adesso in prodotti tipici (si intendono per tali salumi, formaggi e derivati di cui sembra essere l’unica attività di promozione che renda). I sempiterni calabresi; ovvero gli onnipresenti nelle frange del crimine postCovid che non hanno rivali, sembra, tra mafie di colori e varie provenienze, che vedono voli di elicotteri e spostamenti di uomini che sembrano, come da tempo ormai, nostalgiche e costose rappresentazioni di scene di un intramontabile Francis Ford Coppola. Risorse impegnate in un’apocalisse italiana che reitera se stessa da anni in spet-

Tonino

La prima volta che lo vidi, era il 1990, aveva con se una sdrucita bandiera italiana, avvolta dalla cintola in su, i capelli cortissimi sulle orecchie, tipo ultimo punk, e lunghi sulla nuca. Tifava esageratamente Italia, pur capendo poco di calcio, seguiva la ola di quell'estate per i mondiali di calcio organizzati e giocati nella patria di Schillaci. Era ospite in un cascinale di campagna di proprietà di un chirurgo ortopedico di Firenze, nativo della Locride. Lo rividi, tre anni dopo, in una impervia località dell’Aspromonte con una trombetta in mano che cercava di stanare cuccioli di cinghiale e subito pensai che il suo carattere somigliava a una canzone incisa sul nastro di una bobina, usata nella Germania est prima della caduta del muro, che avvolgeva velocemente all’indietro e ascoltandola le parole diventavano fonemi di un cartone animato. Ora, mi dicono, conoscenti comuni, che non beve più tanta birra ma solo pregevole rum cubano che accompagna con un pezzo di cioccolato fondente specie nelle lunghe sere d’inverno quando dal suo balcone vede il lampione sottostante illuminare i binari freddi, resi lucidi dalla pioggerellina, diventare quasi scivolose occasioni di affetti perduti. I treni passano quasi tutti vuoti e il suo cagnolino abbaia al fischio del treno. Non saltella più come un grillo tarantolato sulle parole sgradite, che molte persone gli vomitano addosso, ha imparato con gli anni a stupirsi sempre meno e si meraviglia soltanto del pesce rosso, con striature verde-giallognolo, che conserva in un piccolo

acquario, testimonianza di quando più di 20 anni fa è stato l'ittiofilo più ricercato della costa dei gelsomini. Un piccolo pesce sopravvissuto e da primato mondiale di longevità forse, anche, perché è stato nutrito con caccolette prodotte dai vari nasi delle persone, che hanno attraversato come leggende tristi la vita del mio amicofolletto. Ogni tanto vorrei telefonargli da lontano (magari da Foligno), ma non saprei cosa dirgli che lui già non sa. E poi le parole creano imbarazzo più della presenza. Attualmente fa collezione di musicasette, ne possiede più di 2.986, partecipa ad aste via internet di tutto ciò che concerne musica, ma ha anche un recondito desiderio: procurarsi una tuba da cerimonia da abbinare a un vestito stile gangster per il prossimo matrimonio a cui sarà invitato. Dice che fra tre anni trasvolerà in un paese delle Antille, affitterà un chiosco di frutta su qualche spiaggia e spanciato guarderà tramonti e albe ripetersi in un tedio sereno. Fra noi resta però una tacita promessa, ritrovarci, almeno una sola volta, in riva al nostro mare, magari la notte di San Silvestro con i botti e i razzi che raschieranno con i loro colori la superficie increspata del mare. Un solo rito: brindare al futuro con sottofondo una canzone di Jannacci, colonna sonora per tutte le nostre musiche amate e sentite, ‘’Vengo anch'io, no tu no’’.

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tacolari operazioni dagli incerti esiti processuali. E poco importa, ancora, se, non così raro in Calabria, si scrive una cosa in una richiesta di ordinanza di custodia cautelare e poi si legge altro nel rigetto di un Gip, al di là di un giornalista ritenuto, come tanti, non lontano da quelle presunte prossimità che, in Calabria, sembrano ormai essere così strette e pericolose da dover fare del distanziamento sociale una ragione di vita secondo qualcuno, considerato che ormai ogni famiglia calabrese può celebrare l’aver avuto almeno un congiunto, nel tempo, destinatario di qualche avviso: o per garanzia o per comparire sorvolo sugli indagati/arrestati e poi prosciolti a vario titolo. In questo Paese che si chiama Italia e che non vede simili operazioni condotte con la stessa solerzia - per ver-

ificare i termini di legittimità attraverso i quali parti di un potere dello Stato hanno esercitato o non esercitato le loro funzioni nel rispetto di quella legge «Uguale per tutti» che impera nelle aule dei Tribunali e delle Corti ogni sussulto di legalità rischia di perdere di significato. Si narrano operazioni di piazza rivolte a chiudere una Torteria ribelle nel profondo Nord come se fosse un covo di narcotrafficanti o una bisca clandestina e si soprassiede ad ogni necessaria, puntuale e senza sconti verifica sulle carriere, sui provvedimenti e sulle modalità di gestire oltre l’emergenza - con il diniego di diritti tutelati compressi da provvedimenti al limite dell’anticostituzionalità - la giustizia che è esercita, sarà bene non dimenticarlo, «Nel nome del popolo italiano» e non nel nome di chi vi deve provvedere. In questo Paese che confonde l’obiettiva condotta di indagini e operazioni come se si trattasse del lancio mediatico di un prodotto, che vede a distanza di anni sopralluoghi in tute bianche su scene dimenticate e riprese solo perché qualche cold case le riporta alla ribalta, si fa presto a dimenticare ruoli e funzioni e a dividere tra i soliti, e sempre gli stessi magari, cattivi e i soliti buoni per scelta o per potere a cui si perdona tutto, imperdonabile compreso. Quei buoni che non sbagliano mai anche se esercitano la giustizia dove le leggi e la Costituzione non dicono. Forse viviamo in un clima surreale. Può essere! Ma credo che in verità abbia ancora una volta ragione Chesterton quando dice che è facile, a volte, (aggiungo purtroppo) donare il proprio sangue alla patria, e ancor più facile donarle del denaro. (Tuttavia) Talvolta è più difficile (o meno conveniente) donarle la verità.

la bottiglia del naufrago FRANCESCO FEMIA L’antipatia è il sentire repulsione o avversione verso persone o cose. Istintivamente. Il termine deriva, come tanti dal greco. “Contro” “passione”. E’ un sentimento molto comune, che si manifesta frequentemente tanto che si avverte immediatamente quando ci si trova in presenza di una persona che ci appare subito sgradevole, irritante, insopportabile. A prima vista, senza bisogno di conoscerla, perfino di parlarci. “Mi è antipatica”, ci diciamo subito appena la incrociamo. Vale anche per le cose, ovviamente. C’è chi trova antipatico viaggiare in treno o in macchina, chi mangiare da McDonald o sul prato/sulla sabbia, chi stare con molta gente o stare in perfetta solitudine. E tante altre cose. Di fronte all’antipatia si verificano atteggiamenti diversi. C’è chi si dispiace di questo istinto che prova, e si adopera per superarlo. Cerca di conoscere meglio la persona o si sforza di fare cose che istintivamente non vorrebbe fare. Spesso inutilmente, perché è difficile superare l’istinto, tanto da dire spesso “il mio istinto non sbaglia mai”. Ed è allora che il sentire antipatia può diventare patologico. Perché ci si lascia andare alle proprie pulsioni e si finisce col non “vedere” ma ci si affida al “sentire”. Con le persone basta

niente. Non c’è modo per la persona che risulta antipatica di poter recuperare, di far variare il giudizio che immediatamente scatta subito, di accorciare il distacco creatosi. Non ci sono ragioni per provare antipatia, quelle vengono dopo, quando si vuole ad ogni costo razionalizzare la propria ripulsa. E se non le si trovano, beh allora c’è sempre il “va bene, avrà pure delle qualità ma è antipatico/a!”. Come se la prima parte della frase non avesse nessuna importanza. Ma i rischi sono dietro l’angolo, perché se questo istintivo sentimento, l’antipatia appunto, viene frequentato spesso le conseguenze sono disastrose. Si tramuta e diviene invidia, cattiveria e maldicenza. L’istinto prende il sopravvento e la ragione scompare. Il nostro giudizio viene offuscato e si finisce per prendere lucciole per lanterne. Si vota per simpatia, si fanno le solite simpatiche cose, si frequentano solo le solite persone, si va sempre negli stessi simpatici posti. La curiosità scompare e la conoscenza si riduce. Pertanto se si incontra una persona antipatica forse sarebbe il caso di conoscerla meglio, perché se qualcosa ha suscitato, fosse pure l’antipatia, qualcosa di interessante avrà pure. Altrimenti vale quanto diceva Flaiano che “…per diventare simpatici bisogna comportarsi da canaglia…”

francesco.femia@me.com


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