il reporter-Barberino-novembre-2010

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attualità

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L’ALLARME/2. Sono state una sessantina, in un anno, le vicende affrontate dalla Cgil in Toscana

Mobbing sul lavoro, aumentano i casi Ivo Gagliardi

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on bastasse la crisi che, mese dopo mese, sta contribuendo ad infoltire le fila di disoccupati e cassintegrati anche in Toscana, c’è un’altra parola che è ormai entrata preoccupantemente a far parte del “vocabolario” del lavoratore di oggi: mobbing. Spesso usato senza che se ne conosca l’esatto significato, questo termine sta a denotare un fenomeno molto grave: continue vessazioni e violenze psicologiche (e in qualche caso anche fisiche) nei confronti di un lavoratore da parte di un superiore o di un collega, comportamenti che finiscono per ledere la dignità personale e professionale della vittima fino a provocare conseguenze sulla sua salute (e a volte non solo). Spesso con un fine ben preciso: costringere il lavoratore a rassegnare le dimissioni. Una pratica subdola, a volte non troppo facile nemmeno da riconoscere e quindi da denunciare. Ma in Toscana come vanno le cose su questo fronte? Non troppo bene, almeno a giudicare dai dati dell’ufficio vertenze e lavoro della

Cgil. In un anno, da ottobre 2009 all’ottobre scorso, sono stati una sessantina i casi trattati in tutta la regione, tra quelli già in giudizio e quelli ancora da verificare. Ma è un numero, questo, che ne nasconde ben altri, assicurano dalla Cgil. “Per sessanta casi che trattiamo ce ne sono almeno 600 che ci vengono denunciati – spiega Luana Del Bino, responsabile dell’ufficio vertenze della Toscana – che poi non risultano essere mobbing ma altre cose, ma che sono pur sempre disagi sul lavoro. In una scala di colori il mobbing rappresenta il nero, ma dal bianco al nero le sfumature sono molte”. E comunque, aggiungono dalla Cgil, 60 casi in un anno sono un numero a cui mai si era arrivati in passato. “Se avessimo cominciato qualche anno fa il lavoro a tappeto che stiamo facendo ora – prosegue Del Bino – i numeri sarebbero ben altri. Ma ora c’è la crisi”. E cosa c’entra la crisi con il mobbing? “C’entra, perché ora i lavoratori hanno il terrore di perdere il proprio posto – risponde la responsabile dell’ufficio vertenze – e per questo

Con la crisi, però, in molti hanno il terrore di perdere il posto, e così vengono subiti in silenzio anche i comportamenti più gravi. uomini e donne di 45-50 anni i più a rischio

subiscono anche i comportamenti più gravi senza dire nulla. Solo gli esasperati denunciano”. Persone che proprio non ce la fanno più, e per cui tutto questo si è trasformato in una “malattia”. “Parlando di un caso già passato in giudicato – racconta Del Bino – per i comportamenti che era costretta a subire a una lavoratrice era venuto

l’esaurimento nervoso, aveva preso 20 chili, piangeva sempre... abbiamo fatto vertenza, e le è stato riconosciuto un risarcimento, oltre a essere stata rimessa in ‘sicurezza’ sul lavoro”. Non ci sono, stando ai dati della Cgil, categorie più a rischio di altre (il fenomeno interessa tanto gli impiegati quanto gli operai), e i “mobbizzati” sono in quasi

egual numero uomini (48%) e donne (52%), mentre i lavoratori più “colpiti” sono quelli tra 45 e 50 anni. Ma cosa deve fare chi si trovi, suo malgrado, ad affrontare una situazione simile? “Rivolgersi immediatamente a un ufficio vertenze – conclude Del Bino – ce ne sono in tutte le province toscane. E sanno bene cosa fare”.

L’INTERVISTA. Riccardo Del Punta, docente universitario

“Non è facile da riconoscere”

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a quand’è che si può parlare correttamente di mobbing e quando, invece, il disagio di un lavoratore deriva da altre cause? Per cercare di far chiarezza su questo fenomeno Il Reporter ha interpellato Riccardo Del Punta, docente ordinario di diritto del lavoro all’Università di Firenze. Professore, cosa significa esattamente mobbing sul lavoro? Questa parola deriva da un comportamento animale, quando in alcuni branchi un membro viene emarginato dagli altri: da qui la sua trasposizione sul lavoro. In genere si riconoscono due tipi di mobbing: quello verticale o strategico, messo in atto dal datore di lavoro, un atteggiamento persecutorio che in genere, ma non sempre, ha lo scopo di spingere alle dimissioni, e quello orizzontale, che non nasce per iniziativa dell’azienda ma tra colleghi come disfunzione del lavoro. Anche in questo caso, però, è l’azienda a risponderne. Ci sono criteri universali per riconoscerlo? No, non ci sono. In alcuni casi è evidente, in altri i confini sono

sottili. Perché si possa parlare di mobbing ci deve essere una condotta persecutoria e programmata che si protrae nel tempo. A volte il periodo minimo si calcola in 6 mesi, ma non è una regola generale. Quindi non è un fenomeno facile da individuare... No, assolutamente. Si può presentare con un demansionamento, con una sanzione disciplinare, con rimproveri esagerati, ma anche in molti altri modi. Bisogna stare attenti. A che punto siamo, in Italia, nel suo riconoscimento e trattamento? Nel nostro paese il mobbing è stato “scoperto” come fatto giuridico da una decina di anni, la prima sentenza è stata emessa dal tribunale di Torino nel ‘99. I casi accertati sono molti meno di quelli denunciati, perché a volte i lavoratori si ritengono mobbizzati quando non lo sono, altre è difficile valutare. Comunque, dato che fino a dieci anni fa non se ne parlava nemmeno, sono stati fatti grandi progressi. È importante che questo disagio ora sia venuto /I.G. fuori.

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