Norberto Bobbio un “illuminista pessimista”, di Mariop Quaranta

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SAGGI 68



Mario Quaranta

NORBERTO BOBBIO UN “ILLUMINISTA PESSIMISTA” con un inedito di Norberto Bobbio postfazione di Dino Cofrancesco

ILPOLIGRAFO


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INDICE

7 Prefazione

I. NORBERTO BOBBIO INTERPRETE DI CARLO CATTANEO FILOSOFO

1. Cattaneo, una presenza “ciclica” nella cultura italiana

2. Cattaneo teorico del progresso

11 15 18 23 26

3. Cattaneo contro la filosofia speculativa e metafisica 4. Cattaneo positivista? 5. La razionalità scientifica in Cattaneo

II. NORBERTO BOBBIO NEL MOVIMENTO NEOILLUMINISTA

29 36 37 40 44 46 50 54 62 65

1. Il “primo” Bobbio, in difesa della persona 2. Il neoilluminismo: le riviste, le opere, il contributo di Bobbio 3. Caratteri e ruolo delle riviste 4. La posizione di Norberto Bobbio nel movimento neoilluminista 5. Elementi per una valutazione 6. Condizioni del dialogo 7. Due atteggiamenti unilaterali 8. Dittatura o stato di diritto 9. Elementi per un bilancio 10. La tradizione illuministica anglosassone oggi: un confronto

appendice

70 Lettera di Norberto Bobbio a Mario Quaranta


III. POLITICA E CULTURA CINQUANT’ANNI DOPO

1. Compiti dell’intellettuale in una società democratica

2. Ragioni di un dissenso

73 75 79 82 89

3. “Democrazia” e “democrazia progressiva” 4. Alcune conclusioni 5. Norberto Bobbio, un “illuminista pessimista”

IV. NORBERTO BOBBIO E FERRUCCIO ROSSI-LANDI: DUE GENERAZIONI A CONFRONTO

1. Convergenza di progetti

2. Due intellettuali a confronto

93 96 98 100 103 107 108

3. Rapporti di Ferruccio Rossi-Landi con l’Accademia 4. Rivalutazione di Giovanni Vailati 5. “I fatti di Ungheria” 6. I rapporti con la casa editrice Einaudi 7. Nota sul carteggio

appendice 110 Epistolario Norberto Bobbio - Ferruccio Rossi-Landi

L’ INEDITO DI NORBERTO BOBBIO

Filosofia del diritto e scienza del diritto in Italia nell’ultimo cinquantennio 153

189 Postfazione Dino Cofrancesco


PREFAZIONE

In questo scritto ho analizzato il pensiero etico-politico di Norberto Bobbio relativo agli anni Cinquanta, in cui è stata centrale la sua opera Politica e cultura, pubblicata nel 1955, un anno cruciale per la cultura italiana quando storici, filosofi, scrittori e giornalisti compiono bilanci di un decennio di vita democratica in numerosi libri, saggi, tavole rotonde, inchieste. Il primo capitolo è dedicato all’interpretazione che dà Bobbio del pensiero filosofico di Cattaneo in alcuni saggi, poi confluiti nell’opera del 1974, Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo. Egli ha dedicato alcune opere a filosofi e intellettuali italiani, ma Cattaneo ha un posto privilegiato perché è all’origine dell’illuminismo di Bobbio. Lo dice chiaramente in una lettera che mi ha inviato il 12 dicembre 1988, in cui risponde in questi termini a una mia domanda: Se una data del mio illuminismo si vuole fissare, questa è la pubblicazione di Stati Uniti d’Italia. Gli anni dell’apprendistato, che comprendono su per giù il decennio 1934-1944, sono anni di ricerca e di sperimentazione, di viaggi nella ingens sylva, sono anni degli errori giovanili, senza bussola.

Ebbene, Cattaneo, di cui Bobbio ha curato l’opera Stati Uniti d’Italia nel 1945, è il filosofo che gli ha fornito la bussola, ossia un orientamento filosofico – l’empirismo –, e uno politico – il riformismo. Nei due capitoli successivi ci soffermiamo sul ruolo svolto da Bobbio all’interno del movimento neoilluministico e sulla sua opera del 1955, rilevando l’importanza delle sue analisi di temi centrali di politica e di teoria politica: totalitarismo, liberalismo, democrazia, diritti dell’uomo, e così via, temi poi ripresi anche negli anni successivi. 


prefazione

È indubbio che il movimento neoilluminista, fondato nel 1952 e attivo per un decennio, costituisce la novità più rilevante nella filosofia italiana del secondo Novecento; è stato un movimento essenzialmente culturale-filosofico, le cui idee direttive sono state espresse da Nicola Abbagnano nel saggio “manifesto” del 1952 L’appello alla ragione e le tecniche della ragione. Ma già nel 1948 Abbagnano aveva pubblicato il saggio Verso un nuovo illuminismo: John Dewey, in cui affermava che la filosofia deweyana da più parti si propone come l’ultima esigenza della filosofia contemporanea, un neoilluminismo che, smessa l’illusione ottimistica dell’illuminismo settecentesco e il pesante dogmatismo del razionalismo ottocentesco, veda nella ragione ciò che essa è: una forza umana diretta a rendere più umano il mondo.

La scelta di Dewey come capostipite del neoilluminismo è decisamente eversiva in una cultura come quella italiana, in cui nel primo Novecento tutti gli orientamenti elevarono una barriera protettiva contro tale filosofia, e anche successivamente il filosofo pragmatista fu criticato e respinto. Nel suo saggio-manifesto, Abbagnano dà un rilievo particolare alle «tecniche della ragione», nella persuasione che «non c’è iniziativa razionale che possa esimersi dall’associarsi a una tecnica che la realizzi, a una scelta che l’articoli anche al suo interno». Questo movimento ebbe anche un ambizioso progetto culturale: la formazione di un personale intellettuale anti-idealista e anti-metafisico, laico e democratico, da integrare nell’Università, allargando così e consolidando l’area di una cultura laica, moderna, nella pluralità dei suoi orientamenti. La generazione di filosofi che si è formata nei dibattiti del movimento neoilluminista ha avuto queste caratteristiche. Basterà citarne alcuni: Pietro Rossi, Paolo Rossi, Carlo Augusto Viano, Antonio Santucci, Uberto Scarpelli, Alberto Pasquinelli, Ferruccio Rossi-Landi. Con quest’ultimo Bobbio ha intrattenuto un ampio carteggio, qui pubblicato, in cui entrambi affrontano problemi politici, culturali, filosofici con una franchezza e spregiudicatezza singolari. Esso costituisce un capitolo originale di quella storia degli intellettuali italiani che vari storici, in questi anni, hanno tentato di scrivere. 


NORBERTO BOBBIO UN “ILLUMINISTA PESSIMISTA”


ai miei genitori, in ricordo


I NORBERTO BOBBIO INTERPRETE DI CARLO CATTANEO FILOSOFO

1. Cattaneo, una presenza “ciclica” nella cultura italiana La presenza di Cattaneo è una delle “costanti” nella cultura italiana, in cui il suo pensiero politico e filosofico è riemerso in momenti cruciali del Novecento. All’insegna di Cattaneo è stato culturalmente contrastato il fascismo (Salvemini e Gobetti), e durante il ventennio l’incontro con Cattaneo è stato significativo per alcuni intellettuali come Elio Vittorini, Giansiro Ferrata e Norberto Bobbio; anche Ludovico Geymonat, nell’esprimere la speranza di un rinnovamento profondo della società italiana, si è richiamato a Cattaneo. In diversi momenti del “secolo breve” Cattaneo è stato, dunque, considerato un valido riferimento nella battaglia modernizzatrice dell’Italia. Nel corso degli anni Trenta, l’incontro di alcuni intellettuali italiani con Cattaneo è stato l’occasione per contrapporsi o distaccarsi dalla cultura fascista; la lunga introduzione di Bobbio alla scelta di scritti cattaneani, Stati Uniti d’Italia del 1945, si colloca in tale direzione. In quello stesso anno, un gruppo d’intellettuali che aveva compiuto in modi e tempi diversi il “lungo viaggio” attraverso il fascismo, per sottolineare la novità del loro progetto culturale di rottura rispetto a una consolidata tradizione di stampo idealistico, diede vita alla rivista «Il Politecnico», diretta da Elio Vittorini, ove è esplicito il richiamo alla rivista di Cattaneo, al suo stile di pensiero e di lavoro. Ma quel tentativo di stabilire un rapporto “virtuoso” tra letteratura e socierà, tra scienza e filosofia, non è stato condotto a fondo per l’interruzione forzata della rivista; un’interruzione che ha inciso negativamente nella cultura italiana. 


capitolo primo

A conferma di questo ruolo di Cattaneo basterà ricordare i due interventi di Giansiro Ferrata, uno del 1940 in «Primato» e uno del 1942. Quando Ferrata ripubblicò nel 1978 il secondo scritto, si soffermò su Cattaneo per ricordare un fatto e ribadire un giudizio. Il fatto è che a margine del primo articolo Mussolini scrisse «un’osservazione politicamente deprecatoria»; il giudizio di Ferrata è che «pochi scrittori [come Cattaneo] presentano altrettanto una naturale destinazione antifascista, una antitesi a­priori con i criteri e gli orientamenti impostisi nel “ventennio nero”». Anche Bobbio, riandando nella prefazione agli studi su Cattaneo del 1971 al suo primo saggio, conveniva che «per chi combatteva in primis il fascismo e vedeva nell’antitesi dispotismo-libertà l’antitesi primaria [...] Cattaneo era forse, tra i protagonisti del Risorgimento, il maestro più attuale». Il primo saggio di Bobbio ha il tono e il piglio di un manifesto etico-politico, tutto centrato nel rivendicare un’attualità culturale del pensiero cattaneano, della sua proposta federalista, sostenuta allora dal Partito d’azione, di cui Bobbio è stato uno dei dirigenti. I primi due aspetti del pensiero di Cattaneo sottolineati da Bobbio sono: l’assenza di “germi di decadenza” e l’abbandono della “mentalità speculativa”; due caratteristiche negative presenti, invece, nei due orientamenti di pensiero allora dominanti: l’idealismo gentiliano e l’esistenzialismo, intrisi di retorica speculativa, il cui abbandono costituiva, a suo giudizio, la precondizione per la rinascita di una nuova cultura. In altri termini, Cattaneo poteva essere accolto sia come antidoto a questi due vizi “naturali” della cultura italiana, cui si doveva contrapporre la cattaneana “positività”, sia per i valori etico-politici proposti, primo fra tutti, quello della libertà «intesa come liberazione graduale ed intelligente

N. Bobbio, Introduzione a Cattaneo, Italia-Messico-Cina, Bompiani, Milano 1942. G. Ferrata, Prospettiva dell’Otto-Novecento, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 9.  N. Bobbio, Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino 1971, p. VII. E in altra occasione affermò: Cattaneo «è stato uno dei pochissimi intellettuali risorgimentali (forse l’unico), che non hanno mai potuto essere utilizzati dal fascismo», N. Bobbio, Autobiografia, a cura di A. Papuzzi, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 86. 




bobbio interprete di cattaneo filosofo

dai legami che attorno all’uomo sociale pongono la barbarie e l’ignoranza». Una libertà, dunque, “laica” che non sfocia nella crociana “religione della libertà”, ossia in una forma di religione secolarizzata, ma che rimane ancorata alla prassi umana, per cui la fiducia nella libertà significa «fiducia che la libertà generi altra libertà, e ad una maggiore estensione di libertà corrisponda una maggiore diffusione della civiltà». Una libertà, dunque, che alimenta un riformismo legato a progetti politici, istituzionali, sociali precisi, frutto di uno studio attento della realtà (del territorio e della sua storia, delle tradizioni, delle forze politiche, ecc.). In tal senso Bobbio afferma che «Cattaneo scienziato e Cattaneo politico sono tutt’uno», intendendo la politica in senso alto, come un processo conoscitivo e, insieme, operativo, volto a modificare la realtà. In tale prospettiva si colloca il federalismo di Cattaneo, che fu «nel suo pensiero non un aspetto secondario, ma quasi un punto d’incontro di tutte le sue esperienze culturali, il fuoco in cui convergevano i raggi delle sue ricerche, delle sue aspirazioni, dei suoi sentimenti». Bobbio cerca le ragioni del fallimento del progetto federalista cattaneano, individuando gli ostacoli che in quegli anni dovevano essere affrontati per costruire una nuova Italia: Il federalismo fu dottrina d’intellettuali e non principio d’azione, perché non era, per lo meno in Italia, frutto del tempo, ma era sotto certi aspetti idea troppo vecchia e sotto altri idea troppo nuova, sì che non trovò tra i suoi sostenitori se non politici che vedevano troppo vicino o intellettuali che guardavano troppo lontano; e quindi non ebbe organizzazione, perché non poteva averla, e qualsiasi organizzazione che fosse sorta per la buona volontà di pochi, sarebbe stata destinata al sicuro insuccesso.

    

N. Bobbio, Una filosofia militante, cit., p. 12. Ivi, p. 13. Ivi, p. 9. Ivi, p. 19. Ivi, p. 51.




capitolo primo

Vediamo alcuni riferimenti contro la filosofia, si direbbe, «accademica e ufficiale». Nello scritto Polemica contro Antonio Rosmini, Cattaneo presenta Locke come il filosofo che «scotendo le tradizioni su le quali riposava una boriosa inerzia, riaperse il campo allo studio dell’uomo interiore e all’istoria dell’intelletto». Egli sottolinea il permanente disaccordo che esiste all’interno delle “scole metafisiche”, che crea un generale discredito nei loro confronti, perché «ogni intelletto il quale appena si levi con qualche potenza, inaugura le sue dottrine col distruggere le dottrine altrui». Cattaneo dichiara apertamente, richiamandosi all’insegnamento del suo maestro Gian Domenico Romagnosi, di voler «mostrare a che fini serva ai nostri giorni la coperta della metafisica e di qualche altra cosa più venerata». Egli è, dunque, contro «il martello ontologico» (il riferimento è a Rosmini) che fa cadere in polvere «le dottrine della libertà morale e della responsabilità», e propone un «ritorno alla feconda via dell’esperienza». La critica all’ontologia è una “costante” del suo pensiero: «L’ontologia – dichiara – fu veramente la pietra filosofale della scienza»; ciò significa, prima di tutto, che occorre avviare una ricerca delle idee «dell’uomo associato» anziché, come ha in genere fatto la tradizione, «dell’uomo individuo». E una delle caratteristiche fondamentali della scienza è, appunto, di essere il prodotto più alto dell’uomo associato. Infine, un’altra categoria centrale è quella di «transazione» che «esclude il concetto di sistema», e consente di dare una soluzione al cruciale problema dei rapporti tra continuità e rottura (tra riformismo e rivoluzione) nella storia.

       

Ivi, p. 104. Ivi, p. 16. Ivi, p. 88. Ivi, p. 21. Ivi, p. 87. Ivi, p. 84. Ivi, p. 108. Ivi, p. 96.




bobbio interprete di cattaneo filosofo

4. Cattaneo positivista? Uno degli argomenti più controversi è la collocazione storica di Cattaneo; non è un argomento peregrino, perché secondo che lo si consideri un positivista o un illuminista o un “idéologiste” (questo è il mio parere), o altro ancora, s’istituiscono confronti, filiazioni e continuatori. La stessa ricchezza, ora segnalata, del suo pensiero, che si presta senza troppe forzature a indicare un’attualità stretta con il pensiero contemporaneo, sottolinea le difficoltà a inserirlo in una precisa corrente filosofica. C’è chi l’ha considerato un precursore del positivismo (Giuseppe Tarozzi) o fra i primi positivisti (Ludovico Limentani, Giovanni Gentile, Luigi Bulferetti, Alesandro Levi); c’è chi l’ha ritenuto l’ultimo illuminista lombardo (Franco Alessio), e chi ha riscontrato in lui una fusione di positivismo, illuminismo e storicità (Mario Fubini); altri l’ha collocato, o fra gli empiristi (Ludovico Geymonat), o entro il positivismo sociale (Nicola Abbagnano), o tra “umanesimo e positivismo” (Paolo Rossi), mentre Ferruccio Focher l’ha presentato come un filosofo della storia e Fabio Minazzi un illuminista in sintonia con la lezione kantiana. Antimo Negri, senza più attardarsi in un confronto fra Cattaneo e Ardigò, su cui ha insistito certa storiografia positivistica e idealistica, ha inserito a pieno titolo Cattaneo nella tradizione positivistica italiana, nella convinzione che questa non è riducibile al pensiero di Ardigò, ma comprende molte e diverse voci. Egli ha considerato il saggio di Cattaneo, Invito alli amatori della filosofia, «il manifesto del positivismo italiano», sottolineando la consonanza di molte riflessioni metodologiche e posizioni filosofiche di Cattaneo con quelle del positivismo posteriore. Il fatto è che Cattaneo è vissuto troppo tardi per essere un autentico illuminista ed è scomparso troppo presto per essere un positivista; ma ciò non deve indurci ad attribuirgli un ruolo secondario o marginale nella storia del pensiero italiano, come pure è stato fatto. Indubbiamente egli non fu un positivista à l’Ardigò, per quel tanto di metafisica che permase nel filosofo mantovano; come ha affermato Alessio, Cattaneo ha rifiutato di «elevare la ragionevolezza dell’uomo su di un piano di raziona


capitolo primo

lità assoluta»; ma è altrettanto certo che fu un anticipatore di certi concetti del positivismo. Nell’idéologiste Cattaneo si possono rintracciare due ideeguida che si ritroveranno nel positivismo: il progetto di una scienza della società e un rapporto stretto tra scienza e filosofia, filosofia cui egli riconosce una sua autonomia e che collega direttamente alla scienza, caratterizzandola come «nesso commune di tutte le scienze». Egli è contro i «vanagloriosi idealisti» che disputano solo «su le fila primilari della scienza», costringendoci così a «passare la vita cogli occhi incessantemente confitti nelle buie profondità del dubbio»; li critica sia per il loro «sfrenato disprezzo dei fatti», sia per l’antistoricismo della metafisica che si riscontra nella tradizione che da Platone giunge a Kant e oltre, dove «fra le dottrine e il fatto dell’uomo, si spalanca un abisso incommensurabile». Inoltre, fa parte della sua concezione della storia il duplice rifiuto della «solitudine della coscienza» di Cartesio, la quale c’impedisce di scoprire «quelle tante trasformazioni a cui l’uomo soggiace», e la dottrina di Cousin (tratta da Hegel) «che le filosofie rappresentassero i tempi» e che il genio è «l’interprete del suo popolo ed è grande perché lo rappresenta». Egli rifiuta ciò perché «s’è genio di originalità, lo precede; [...] s’è genio di perfezione, lo supera». La posizione di Bobbio si differenzia da quelle sopra elencate: «La verità – afferma – è che il Cattaneo, come non fu né positivista né razionalista, non fu nemmeno storicista, ma soprattutto storico, scienziato della storia». Una storia intesa come           

Ivi, p. XLV. Ivi, p. 104. Ivi, p. 37. Ibid. Ivi, p. 34. Ivi, p. 44. Ibid. Ivi, p. 45. Ivi, p. 68. Ivi, p. 69. N. Bobbio, Una filosofia militante, cit., p. 71.

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bobbio interprete di cattaneo filosofo

«scienza descrittiva, dunque, e non metafisica ipotetica o scienza speculativa». E nei suoi saggi, Bobbio ci ha dato un’analisi persuasiva della concezione che della storia ebbe Cattaneo, da lui definita post-positivista e post-romantica, ossia contraria a ogni provvidenzialismo (religioso o laico) e a ogni necessarismo, e perciò non conciliabile con il positivismo comtiano e con il romanticismo, ma che tiene conto sia della positività dei fatti accertati, sia del valore della tradizione. Altri frantesero la giustificazione istorica del passato, e vi supposero la necessità di ritornare le cose ai loro principi; e vanamente additarono, come meta ad un viaggio retrogado dell’umanità, ora l’una ora l’altra delle età consumate. In mezzo a queste aberrazioni, i più veggenti sanno congiungere la fiducia nel progresso alla paziente accettazione delle lente e graduate sue fasi, e alla critica proporzionale e perseverante, ch’è pur necessaria a promuoverlo.

Un’ulteriore conferma della concezione anti-romantica della storia di Cattaneo si può individuare nell’uso della categoria di “infinito” che è tipica dell’ideologia romantica, la quale trasvaluta il concetto illuministico di storia secondo lo sviluppo di un principio infinito variamente chiamato Spirito, Umanità, Io, senza che muti la categoria logica, comune sia allo storicismo idealistico, sia al positivismo comtiano, sia all’evoluzionismo sociale. Questa concezione della storia e del progresso come sviluppo di un principio “infinito” eclissa, infatti, il senso dialettico (di “transazione”, nel linguaggio cattaneano) dell’opposizione di tradizione e ragione, di presente e passato, di progresso e conservazione, in un rapporto di “evoluzione”, come nella formulazione del romanticismo, del tradizionalismo ottocentesco e dell’idealismo. In tutti questi movimenti c’è un’interdipendenza dei concetti di società, organicità, tradizione, associati a quel che comunemente è l’atteggiamento “romantico”. Atteggiamento che possiamo caratterizzare con diverse categorie: sentimento, fede, impulso vitale, religiosità, misticismo; tutte richiamano verità ineffabili,  

Ivi, p. 8. L’opera e l’eredità di Carlo Cattaneo, cit., p. 57.




capitolo primo

[è] ch’essa surga nel seno d’una società, anzi di molte società». In conclusione, lo sviluppo della scienza, è «qualcosa di procedente anch’esso dalla natura comune dell’uomo, ma che si accompagna all’alterno e vario ritmo di ascesa e di oscuramento della vita della società e dei loro intrecciati rapporti». Dal momento che la razionalità scientifica è sempre un fatto sociale, lo scienziato vive, lavora e produce in una comunità scientifica. Egli è pertanto consapevole di non poter risolvere, da solo, tutti i problemi sempre più complessi che emergono nelle varie discipline, anche se è altrettanto consapevole di poter (e dover) contribuire alla loro soluzione. Questa concezione della scienza come espressione e prodotto di una comunità scientifica, insieme alla sua dimensione storica, è un indubbio motivo di attualità del pensiero di Cattaneo; un motivo che peraltro non mi sembra sia stato adeguatamente tematizzato da Bobbio. Ed è proprio questa collaborazione che sta alla base della fiducia di Cattaneo nel progresso scientifico; un progresso che non è garantito da nessuna legge della storia né da un fondamento assoluto della ragione, ma è affidato agli uomini, alle loro decisioni di continuare a lottare perché la forza rischiaratrice della ragione, ossia la filosofia, raggiunga via via traguardi sempre più avanzati per costruire una società in cui gli uomini possano vivere una vita felice.



Ivi, p. XLVII.




II NORBERTO BOBBIO NEL MOVIMENTO NEOILLUMINISTA

1. Il “primo” Bobbio, in difesa della persona Prima di esaminare l’opera di Bobbio Politica e cultura (1955), che ha segnato uno dei momenti alti della stagione neoilluministica italiana, considereremo alcuni aspetti precedenti della sua attività culturale, per mostrare che quel testo – in cui si è riconosciuta una generazione – è stato il punto d’approdo di un lavorio teorico-politico tipico di un intellettuale che ha conosciuto il passaggio da una società liberale a una dittatoriale, per poi partecipare alla Resistenza per la riconquista della libertà. Egli si è trovato, per così dire, spiazzato rispetto a un progetto di rinnovamento complessivo della società lungamente atteso ma realizzato in modi e tempi non previsti dalle forze politiche, specie dai partiti di massa, la Democrazia cristiana, il Partito socialista e il Partito comunista. Quali sono state le componenti principali della formazione culturale di Bobbio? Il liberalismo classico, la tradizione di pensiero socialista, entrambi letti nella prospettiva gobettiana, il contatto infine con la cultura filosofica europea, [sono] i veri punti di partenza nella formazione del pensiero di Bobbio.

Mancano in questo elenco due riferimenti importanti: il fatto che lo studente Bobbio si laurea con una tesi sulla filosofia del di-

 E. Lanfranchi, Un filosofo militante. Politica e cultura nel pensiero di Bobbio, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 18.




capitolo secondo

ritto di ispirazione gentiliana, e molti anni dopo riconoscerà che la sua “lentezza” nel passare all’antifascismo, dipese dal fatto che Gentile, il maestro, era fascista e quella filosofia che avevamo creduto l’ultimo approdo del pensiero umano [...] aveva fatto uso e spreco di tutti i propri concetti (in primis, dello stato etico) per giustificare ed esaltare il nuovo regime.

Verso Gentile, Bobbio non riuscirà ad avere quell’atteggiamento critico distaccato che assumerà nei confronti di altri filosofi, come ad esempio Croce. Il suo rifiuto del fascismo-attualismo è avvenuto prima sul piano etico-politico che filosofico; la sua stessa esaltazione di Gobetti (che in certi casi è quasi un’identificazione) si nutre di questa istanza di radicale opposizione a una filosofia che in seguito diventerà l’emblema di ciò che, secondo lui, ogni serio intellettuale deve respingere: lo speculativismo o manierismo, ossia una retorica che usa parole astratte e vuote, prive di significato. Sarà proprio la drastica affermazione su Gentile, presente in Politica e cultura – «Oggi non posso rileggerlo senza provare dispetto o vergogna» – a provocare l’intervento su Gentile del 1975, che si presenta come una vera e propria «stroncatura rigorosa del pensiero giuridico di Gentile». È un atteggiamento, peraltro, che si trova in altri filosofi della “generazione torinese”, come Ludovico Geymonat e Augusto Del Noce; il primo ha espresso le ragioni di un’opposizione radicale al pensiero di Gentile fin dalla tesi di laurea, poi pubblicata (Il problema della conoscenza nel positivismo, 1931), e da allora non ha più mutato parere. Il secondo ha finito la sua attività filosofica con un lavoro su Gentile, dopo avervi dedicato alcuni saggi di notevole impegno teorico-storiografico, nella persuasione che in quella filosofia si è potuto trovare la via per comprendere le vicende della nostra cultura filosofica novecentesca oltre che dello stesso fascismo, e per uscirne definitivamente. In conclusione, per Bobbio (e altri della sua generazione) Gentile  N. Bobbio, Intorno a un giudizio su Giovanni Gentile, in Studi di filosofia in onore di Gustavo Bontadini, Vita e Pensiero, Milano 1975, p. 216.  Ivi, p. 213.




bobbio nel movimento neoilluminista

è essenzialmente un bersaglio polemico, un “cattivo maestro”. Va comunque rilevato che Bobbbio ha formulato una drastica critica della filosofia di Gentile, sostenendo che tutta la filosofia gentiliana sfocia in quella estrema ed assurda forma di egotismo filosofico che è il solipsismo. [...] La coesistenza come problema filosofico è il punto dolente di tutta la filosofia gentiliana [che] non conosce che l’Io a cui si oppone un non-io. Non conosce l’altro-Io, cioè l’altro da me, il coesistente, la persona dell’altro, se non come contenuto del mio pensiero, e quindi un’altra volta come non-io.

E conclude: Si può dire che la teologia tradizionale era una antropologia di Dio, e l’odierno attualismo è una teologia dell’uomo. Una tendenza, questa, che preclude a Gentile una visione del diritto, che si fonda su una distinzione fondamentle fra la mia persona e quella dell’altro.

Il secondo riferimento è all’esperienza filosofica più significativa che compie Bobbio nel corso del quinquennio successivo alla “scoperta” di Cattaneo; è la sua partecipazione al Centro di studi metodologici di Torino fondato nel 1947, che ha «per scopo ricerche sui rapporti fra logica, scienza, tecnica e linguaggio» (come afferma il primo articolo dello Statuto). Nel suo saggio del 1950, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, egli precisa ciò che ha accolto del nuovo empirismo: l’idea del rigore come metodo fondamentale nella ricerca filosofica e giuridica. Questo saggio, ha affermato Bobbio, «rappresentò per me l’inizio di una nuova fase dei miei studi, avvenuta all’insegna della dottrina pura del diritto e attraversi i miei corsi torinesi che si sono succeduti per una decina di anni». Penso che gli scritti bobbiani del primo decennio, 1934-1944, vadano visti sullo sfondo di quella prima, appassionata “infatuazione” attualistica e con il conseguente tentativo di fuoriuscirne. A tale proposi N. Bobbio, Introduzione alla filosofia del diritto ad uso degli studenti, Giappichelli, Torino 1948, p. 90.  «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», IV, 2, 1950, pp. 342-367; ora in Saggi di critica delle scienze, De Silva, Torino 1950, pp. 21-66. Il saggio è nato come relazione svolta nel marzo 1949 al Centro di studi metodologici di Torino.  N. Bobbio, De senectute e altri scritti autobiografici, Einaudi, Torino 1996, pp. 125-126.




capitolo secondo

Su questa posizione si è attestato Bobbio, e quando risistemò in altri scritti la sua concezione dell’intellettuale nella società moderna, ribadì sostanzialmente ciò che ha scritto in questi saggi. 9. Elementi per un bilancio Abbiamo avuto occasione di fare osservazioni e avanzare alcuni rilievi alle posizioni via via assunte da Bobbio; se collochiamo il contributo del filosofo torinese entro il vivace e appassionato dibattito che ci fu nel movimento neoilluministico, potremmo affermare che almeno quattro delle sue posizioni sono comuni a tale movimento, da Bobbio espresse con una particolare chiarezza teorica e una precisa ricostruzione storica. 1. Un rifiuto dell’idealismo italiano, specie dell’attualismo e dei suoi epigoni e dello spiritualismo; 2. il rifiuto di un costume etico-politico che induce gli intellettuali a sottomettere la verità all’ideologia di un partito o di una chiesa. Ciò significa, per l’intellettuale, la perdita della sua autonomia di pensiero, e perciò l’impossibilità di assolvere un ruolo critico, ossia mantenere aperto il dialogo entro la cultura; 3. la denuncia di un preoccupante divario esistente fra politica e cultura, che può essere superato con un paziente lavoro di educazione intellettuale, con la creazione di nuove istituzioni culturali, con un’azione sulle strutture della cultura esistenti, e con una profonda riforma della scuola; 4. sul piano filosofico occorre che il filosofo pratichi e insegni un nuovo modo di filosofare, crei una nuova mentalità basata sulla sobrietà intellettuale, sulla rigorizzazione del linguaggio, circoscrivendo i problemi, assumendo un atteggiamento antidogmatico. A tale proposito i neoilluministi hanno ritenuto che l’aggiornamento della nostra cultura filosofica dovesse trarre ispirazione soprattutto dal neopositivismo, dalla filosofia analitica, dal pragmatismo, con un conseguente collegamento con la nostra tradizione empiristica. Su quest’ultimo punto si avverte una differenza all’interno del movimento, e la proposta di Bobbio di richiamarsi al modello crociano di intellettuale, se poteva essere accolta da una parte della sua generazione che si era battuta contro il fasci-

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bobbio nel movimento neoilluminista

smo, e perciò aveva riconosciuto in Croce un alfiere della lotta antifascista, non poteva essere accettata da intellettuali dell’ultima generazione che avevano avuto esperienze diverse. Evidentemente Bobbio pensa che la situazione politica di quegli anni, caratterizzata dalla guerra fredda, ossia dall’esistenza di due blocchi contrapposti, non lasciava spazio a una posizione autonoma. Occorreva compiere un’operazione culturale analoga a quella che fece Croce negli anni Trenta: avviare un processo di lunga durata di formazione culturale, preparare gli intellettuali della nuova generazione a una “guerra di posizione”, in modo che non si trovassero poi, come quelli della sua generazione, largamente impreparati ai compiti di una ricostruzione effettivamente democratica della nostra società. Come negli anni Trenta, bisognava soprattutto garantite la “tenuta” degli intellettuali, indipendentemente dalla loro adesione o appartenenza ai partiti, ribadendo che il loro ruolo e la loro pratica sociale andavano commisurati al loro atteggiamento critico verso i problemi che la vita civile poneva all’ordine del giorno. Alla base di questo atteggiamento c’è, come abbiamo già notato, l’esperienza fallimentare del Partito d’azione, la cui breve vita è stata causata, fra l’altro, dalla mancanza di uno spazio politico per una “terza forza”. Così, dopo la “disseminazione” del “partito degli intellettuali” nei vari partiti italiani, Bobbio avverte la necessità prioritaria di una “laicizzazione della politica” da parte dei partiti di massa (DC e PCI), che si può ottenere lasciando aperto il dialogo, ossia legittimando il pluralismo culturale. Da quanto abbiamo detto, il richiamo di Bobbio a Croce molto difficilmente poteva essere unanimemente accettato entro il movimento neoilluminista, sia perché proprio in quegli anni Croce accentuò la sua condanna del marxismo come mera escatologia (mentre precedentemente lo aveva considerato come un utile canone di interpretazione storica), sia perché quando Bobbio ha sostenuto la necessità che l’intellettuale sia anche un tecnico, tale idea è rimasta allo stadio di indicazione generica. Insomma, quello che è mancato è stato un serio confronto con l’elaborazione gramsciana sugli intellettuali; né va dimenticato il contributo

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APPENDICE LETTERA DI NORBERTO BOBBIO A MARIO QUARANTA

Pubblico la lettera che Norberto Bobbio mi scrisse dopo la lettura del saggio Norberto Bobbio ideologo del neoilluminismo. Per una lettura di Politica e cultura («Il Protagora», IV, 13-16, 1988-1989). Nella ristampa ho tenuto conto del suo suggerimento sull’eccessiva lunghezza delle citazioni mentre sull’interpretazione dell’intellettuale “organico” in Gramsci ho inserito un supplemento di argomentazioni. Mi è sembrato utile farla conoscere soprattutto per le informazioni che Bobbio fornisce sulla sua autobiografia intellettuale.

Caro Quaranta, ho letto con molto interesse le pagine a me dedicate. Mi sono parse particolarmente felici le prime, in cui lei tiene conto di quell’articolo sul Gentile, che è pochissimo conosciuto. Sulle origini del mio personalismo da Scheler non saprei dire. Ma che il personalismo (a dire il vero filosoficamente ben poco approfondito) sia stato il primo e principale motivo della mia filosofia “militante”, mi pare indubbio. Molto opportuna mi è sembrata la citazione di un altro dei miei articoli meno conosciuti, La persona e lo stato, che io stesso avevo dimenticato e che pure contiene in nuce, come lei ha osservato, il mio pensiero politico senza che io stesso ne sia stato in tutti questi anni consapevole. Totalmente d’accordo sull’ambiguità della mia posizione nei riguardi di Croce, che potrebbe essere definita, con una espressione cara sia a Croce sia a Gentile, di “concordia discors”. Mi convince meno invece la contrapposizione finale con Gramsci, non perché il contrasto non ci sia, ma perché non mi pare che la Sua interpretazione dell’intellettuale in Gramsci sia quella giusta.

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bobbio nel movimento neoilluminista

Se dovessi farle un’osservazione critica direi che il saggio è un po’ troppo lungo specie nella parte espositiva dei singoli articoli, che avrebbero potuto essere riassunti in modo sintetico. Infine, pensavo che l’avrebbe maggiormente colpita la dichiarazione secondo cui sarei stato un illuminista pessimista, che è forse la chiave di spiegazione di molte delle mie ambiguità. Se questo Suo articolo è servito anche a provocare [Aurelio] Macchioro, di cui da tempo non ho più notizie, è una ragione in più per rendergli merito. Grazie dei vari articoli, e i più cordiali saluti, Norberto Bobbio Torino, 4 luglio 1989

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III POLITICA E CULTURA CINQUANT’ANNI DOPO

1. Compiti dell’intellettuale in una società democratica A cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione, riappare l’opera di Norberto Bobbio del 1955, Politica e cultura, con un’ampia introduzione di Franco Sbarberi, cui il curatore ha aggiunto in appendice, e opportunamente, il saggio del 1956 Ancora dello stalinismo: alcune questioni di teoria. In un momento in cui il pensiero e l’attività di Bobbio continuano ad alimentare la discussione e una diffusa pubblicistica, la riproposta di quest’opera è quanto mai opportuna, non solo perché, afferma Sbarberi, è un «testo esemplare di filosofia civile», ma anche perché insegna un metodo per avviare il dialogo fra posizioni culturali, ideologie e progetti politici diversi. Un problema, questo, ancora oggi di estrema attualità. Il curatore accenna inizialmente alle letture e ai lavori di Bobbio precedenti l’opera del 1955 (in cui sono raccolti quattordici saggi pubblicati dal 1951 al 1955), e accenna al personalismo di Bobbio, che costituisce, a mio parere, il suo primo apporto filosofico più importante, che rimase lo sfondo della sua successiva ricerca. È l’esito, afferma il curatore, che al pensiero etico-politico di Bobbio ha dedicato un corposo capitolo nell’opera L’utopia della libertà uguale, del suo utilizzo del metodo fenomenologico husserliano esteso “dall’esperienza logica all’esperienza dei valori” (ma il curatore attribuisce forse troppi padri al personalismo bobbiano).  

N. Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino 2005, pp. XLI-273. F. Sbarberi, L’utopia della libertà uguale, Bollati Boringhieri, Torino 1999.

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APPENDICE EPISTOLARIO NORBERTO BOBBIO - FERRUCCIO ROSSI-LANDI

[1] Aprire nuovi sentieri Cervinia, 12 agosto 1952 Caro Rossi-Landi da parecchio tempo non le scrivo più. Ma l’inizio delle vacanze e un viaggio in macchina in Savoia, hanno interrotto le mie abitudini. A poco a poco riprendo, e naturalmente ricomincio a scrivere lettere. Vedo che le cose del volume sul pens.[iero] cont.[emporaneo] am.[ericano] procedono bene. Gilpatric ha scritto anche a Codegone una lettera simile a quella ricevuta da lei. Ho comunicato a Codegone le ultime notizie. Certo, a settembre, finite le vacanze, dovremo trovarci per combinare la lettera. Forse sarà opportuno che lei pensi a una scappata a Torino. Per non complicare le cose potremo fare una riunione a tre, lei, Codegone (che non solo è il presidente, ma è anche la persona più accessibile) ed io. Le considerazioni che lei fa sul colloquio filosofico italo-inglese sono vere, sono assolutamente vere. Noi siamo dei dilettanti. Lo so per molte ragioni. Anzitutto lo so per esperienza personale: tutto quello che ho scritto, l’ho scritto con la chiara coscienza che non servisse a nessuno, e ho rimandato sempre a tempi tranquilli, più fortunati, più prosperi, le cose importanti che non scriverò mai. Da anni sono impegnato per contratto a scrivere un trattato sull’interpretazione giuridica – uno degli argomenti di cui mi sono occupato di più –, ma non ne vengo a capo, sia perché l’enorme dispersione delle mie non molte energie in mille rivoli che non convergono nello stes-

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bobbio e rossi-landi: due generazioni a confronto

so fiume, non mi concede più il tempo necessario per scrivere lunghi lavori, sia perché quando mi ci metto mi accorgo che mi mancano ancora troppi ferri del mestiere, e la meta rimane sempre lontana. Lo so poi per esperienza altrui, vale a dire per quel che vedo fare attorno a me: nel campo della filosofia del diritto il dilettantismo imperversa: o retorica degli eterni valori, o rifritture di temi idealistici, o grandi progetti di una filosofia dell’avvenire che resta allo stato di progetto. (I giuristi sono più seri: chi scrive una monografia sull’istituto della mediazione o sull’illecito nel diritto amministrativo fa cose che, tutto sommato, non sfigurano a petto di quelle che si scrivono in Francia e in Germania). Lo so infine, e come!, in quanto direttore di una rivista di filosofia: su dieci articoli che arrivano in redazione nove sono impubblicabili. Il decimo che si pubblica è nella migliore delle ipotesi velleitario. (Forse una rivista di storia della filosofia, come quella di Dal Pra, ha vita più facile). Purtroppo credo che per gente della mia generazione che è cresciuta nell’atmosfera romantica del neo-idealismo, si è ripiegata su se stessa travolta dalla “passione per la vita” degli esistenzialisti, si è arroventata a contatto con la filosofia della storia marxista, ed ora si macera – o si diverte – con le “technicalities” dei neo-positivisti, e che, oltretutto, negli anni della maturità, dai trenta ai trentacinque, ha creduto che ci fossero cose più importanti che scrivere libri di filosofia, credo che per questa generazione non ci sia più nulla da fare. Il rappresentante migliore di essa – con tutta la sua maturità e la sua importanza, con tutta la sua passione intellettuale e il suo disordine mentale – è Enzo Paci. Più di quello che dà Paci, essa non potrà dare. La nostra generazione e i più giovani hanno davanti una strada più lunga. Tocca a voi ridare serietà agli studi filosofici, frenare le ambizioni, castigare l’orgoglio  Mario Dal Pra (1914-1992) dal 1956 ha insegnato Storia della filosofia all’Università di Milano; nel 1946 fondò la «Rivista storica della filosofia», proseguita nel 1950 con il titolo di «Rivista critica di storia della filosofia».  Enzo Paci (1911-1976), allievo di Antonio Banfi, docente all’Università di Pavia (1951-1957) e di Filosofia teoretica in quella di Milano dal 1958; fondò e diresse dal 1951 la rivista «aut aut». Dopo un primo accostamento critico all’esistenzialismo e al relazionismo, ha promosso e discusso la fenomenologia husserliana, attestandosi su questa posizione filosofica: Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, 1961; Funzione delle scienze e significato dell’uomo, 1963.

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capitolo quarto

metafisico, insegnare la pazienza contro la faciloneria, la modestia contro la presunzione, la cautela contro l’avventatezza. Non dico che ciò che vedo fare dai giovani mi convinca. Se si guarda al modo con cui in molti casi si consegue la docenza e la cattedra, c’è da scoraggiarsi. Oltre alla crisi della cultura, c’è una decadenza dei costumi di cui bisogna sempre tener conto. Ma appunto per questo è bene che ci sia qualcuno che cominci e si metta in prima linea. Lei fa bene ad insistere, a battere nel suo chiodo del tecnicismo. Non sono convinto che la filosofia (a meno di non comprendere nella storia della filosofia Platone, Spinoza, Hegel, e anche Croce) stia tutto in quel mestiere di cui lei e i suoi amici inglesi parlano. Ma comunque quello è un mestiere. Ed è sempre meglio far bene un mestiere, anche se non è tutto la filosofia, o non è affatto la filosofia, che fare i filosofi senz’arte né parte (anche Croce, del resto, l’ha sempre detto, solo che lui stesso ha talvolta razzolato male, e malissimo i suoi allievi. Vedi Raffaello Franchini). Ciò su cui non sono del tutto d’accordo, è il suo scoramento, direi il suo pessimismo, per il fatto che qui ci si occupa soprattutto degli altri, mentre gli altri, di cui ci occupiamo, lavorano per creare. Nella situazione attuale della nostra cultura filosofica credo che la cosa migliore sia di prender contatto con ciò che scrivono quelli che riteniamo più seri di noi, assimilarli, farli conoscere, discuterli, metterci a confronto con loro. Si possono dire cose importanti e utili parlando degli altri. È il primo modo per dissodare il terreno, sgombrarlo dai sassi, e aprire nuovi, magari piccolissimi, sentieri. Direi di più: ciò che mi lascia perplesso nei confronti della cultura inglese è che si occupa così poco degli altri. Se qualche diffidenza mi rimane è proprio perché parlano sempre fra di loro, e a giudicar dalle citazioni dei loro libri dimostrano di saper gustare una fetta troppo esigua della torta filosofica (nei libri giuridici la mancanza di contatto coi libri stranieri è impressionante: ho letto recentemente che libri sull’interpretazione giuridica. Mi sembrava di leggere – quanto a sistematici e a problemi – nostri giuristi del quattro e cinquecento. Del Methoden-

 Raffaello Franchini (1920-1990) dal 1964 fu ordinario di Filosofia teoretica nell’Università di Messina e dal 1974 in quella di Napoli. Ha esaminato la filosofia crociana in Esperienza dello storicismo, 1953, svolgendola verso personali soluzioni espresse nell’opera Teoria della previsione, 1964, previsione di cui Croce negò il valore conoscitivo.

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bobbio e rossi-landi: due generazioni a confronto

streit, di cui son pieni i libri francesi, tedeschi ed italiani... e svizzeri, mi pare che non sappiano assolutamente nulla). Mi veniva in mente, ad esempio, a Torino quando si discuteva intorno ad Hare, che questi si occupa di etica e di valori e cita, se ben ricordo, cinque o sei articoli di suoi amici o di persone che stanno nella casa di fronte. Che cosa ha letto Hare? Ha letto, tanto per fare un nome, l’etica di N. Hartmann? E se l’ha letto, che cosa ne pensa? Non sarebbe tanto di guadagnato, e noi ci sentiremmo più fiduciosi e persuasi, se lui o qualcuno come lui scrivesse un saggio o un libro sulla teoria dei valori di Hartmann? Per fare un altro esempio: Herbst viaggia recando nella valigia la Philosophische Untersuchungen. Ha letto la Logische Untersuchungen di Husserl? Se le ha lette, che cosa ne pensa? Non sarebbe bene che qualcuno come Herbst ci sapesse dire, dal momento che ci si debba sbarazzare di Husserl, come dobbiamo sbarazzarcene? Barone non ha capito Wittgenstein. Va bene. Gli Herbst, che leggono solo Wittgenstein (guardi che non so chi sia Herbst, e lo trasformo, per ragioni polemiche, in un modello che magari non corrisponde affatto alla realtà) hanno capito Husserl? Hanno capito Hegel?, hanno capito, che so io, Marx? Ho letto recentemente il libretto di Hampshire su Spinoza: eccellente libretto. Ma dia in mano questo libro a un metafisico. Forse le verrà a dire che H.[ampshire] non ha capito Spinoza. Chi ha ragione? (Non dico questo per difendere Barone, il cui modo di liberarsi dal pesante fardello del neo-positivismo, a cui aveva dedicato anni di diligente lavoro, mi è parso, nella parte finale del libro, piuttosto ingenuo e inconclu-

 Richard M. Hare (1919-2002) è uno dei maggiori rappresentanti della Scuola di Oxford, ove fu professore di Filosofia dal 1947 e di Filosofia morale dal 1966 al 1983, per passare poi all’Università della Florida. Alcune sue opere sono state tradotte in italiano: Il linguaggio della morale, 1952; Libertà e ragione, 1962; Studi sul metodo filosofico, 1972.  Hartmann Nicolai (1882-1950) ha insegnato in varie università tedesche; dopo un’iniziale adesione al neokantismo e una rielaborazione della fenomenologia perviene a una posizione di realismo gnoseologico, presentando la filosofia come ontologia. Fra le sue opere tradotte e discusse nella cultura italiana per merito di F. Barone: Filosofia sistematica, 1943; La fondazione dell’ontologia, 1963.  N. Hampshire Stuart (1914-2004), docente all’Università di Londra e poi a Princeton, è un autorevole rappresentante della filosofia del linguaggio ordinario oxoniense, le sue opere fondamentali sul problema dell’azione umana e della libertà sono state tradotte in italiano, il testo su Spinoza è del 1951.

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L’INEDITO

Norberto Bobbio FILOSOFIA DEL DIRITTO E SCIENZA DEL DIRITTO IN ITALIA NELL’ULTIMO CINQUANTENNIO



Premessa Bobbio mi ha consegnato questo suo scritto nel primo dei due incontri nella sua casa di Torino; altre volte l’ho incontrato nel corso di suoi interventi a Padova e a Venezia. Doveva essere pubblicato in un libro in onore di Nicola Abbagnano che poi non si fece. Questo testo, insieme a quello di Ludovico Geymonat sulla storia dell’epistemologia italiana dello stesso periodo e per la stessa destinazione, mi sarebbero serviti in vista di un mio scritto sulla cultura italiana del Novecento progettato da Mario Dal Pra, poi interrotto. In un secondo momento chiesi a Bobbio di pubblicarlo insieme ad altri due saggi sulla filosofia del diritto in Italia, in una collana che allora dirigevo. Mi rispose che avrebbe dovuto rivederli a fondo ma che era impegnato in altri lavori. In questo panorama Bobbio riprende, in termini diversi rispetto ad altri saggi, il problema delle responsabilità della cultura italiana verso il fascismo, indicando ruolo e limiti della filosofia del diritto di quel periodo. [m.q.]

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I

All’inizio del 1921 apparve il primo numero della «Rivista internazionale di filosofia del diritto», che dura tuttora. Ne era stato ideatore e fondatore, e ne fu direttore per circa quarant’anni dal 1921 sino al 1938 (anno delle leggi razziali) e poi ancora dal 1947 al 1968, Giorgio Del Vecchio che a quella data era reputato il più autorevole rappresentante della filosofia del diritto italiana, noto soprattutto per la sua trilogia, I presupposti filosofici della nozione del diritto (1905), Il concetto del diritto (1906), Il concetto della natura e il principio del diritto (1908), attraverso cui, inserendosi nel generale orientamento antipositivistico della filosofia dei primi anni del secolo, aveva esposto le linee di una filosofia d’ispirazione neo-kantiana che egli stesso aveva battezzato “idealismo critico”. Nel programma della rivista, che volutamente si asteneva dal raccomandare una daterminata corrente filosofica, e metteva l’accento più sulla larghezza dell’informazione che sull’unità d’indirizzo, il brano più significativo era certamente quello che riguardava il rapporto fra filosofi del diritto e giuristi, tanto che vale la pena di riportarlo per intero:

 Per la storia della rivista si veda Rivista internazionale di filosofia del diritto. Indice generale alfabetico e sistematico dei volumi I-L (1921-1973), a cura di R. Orecchia, F. D’Agostino, Giuffrè, Milano 1975, pp. VII-XI.  Si veda Bibliografia di Giorgio Del Vecchio (con cenni biografici), Cappelli, Bologna 1941. Mi permetto di richiamare l’attenzione su un mio saggio passato quasi del tutto inosservato: Diritto e morale nell’opera di Giorgio Del Vecchio, in Scritti vari di filosofia del diritto raccolti per l’inaugurazione della Biblioteca Giorgio Del Vecchio, Giuffrè, Milano 1961, pp. 73-91.

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norberto bobbio Sopra tutto vorremmo che questa rivista fosse il punto d’incontro di filosofi e di giuristi, i quali troppo spesso s’ignorano e quasi ostentano una reciproca incomprensione, mentre grande sarebbe da ambo le parti il vantaggio se, abbandonando vieti abiti mentali e diffidenze ingiustificate, si stabilisse tra gli uni e gli altri una certa comunione di lavoro e un attivo scambio di idee, per ciò che concerne la vita del diritto e i suoi problemi fondamentali. Noi vorremmo che i cultori dei singoli rami del diritto fossero attratti e sollecitati a riflettere sull’aspetto più generale delle loro discipline, sui criteri direttivi in esse applicati, e sulle questioni vive che hanno attinenza colla logica e colla metodologia del diritto in genere, comunicando le loro riflessioni di tal natura ai cultori della filosofia; i quali a loro volta ameremmo che portassero le loro speculazioni vieppiù a contatto colla concreta realtà del diritto, e saggiassero a questa prova la forza e la verità dei puri principi, così da collaborare effettivamente alla soluzione di quei problemi, che si presentano d’ordinario ai giuristi sotto aspetti empirici e contingenti. Specialmente nelle discussioni sul ius condendum e nella preparazione di nuove leggi un tal metodo di collaborazione potrà dare, se non erriamo, i migliori frutti, inducendo naturalmente e contemperare le esigenze del tecnicismo giuridico e il riguardo allo stato di fatto colle aspirazioni ideali ad una più perfetta giustizia.

In questo brano Del Vecchio prendeva atto del divorzio fra filosofi del diritto e giuristi, e, auspicando un più intenso scambio d’idee, indicava sommariamente quali temi avrebbero dovuto approfondire i giuristi per avvicinarsi ai filosofi e quali compiti avrebbero dovuto assolvere i filosofi per attrarre l’interesse dei giuristi. Il divorzio fra filosofi del diritto e giuristi non era una novità, ma all’epoca in cui Del Vecchio scriveva quelle righe molte circostanze avevano contribuito a renderlo particolarmente grave. Da un lato, la reazione antipositivistica di fin di secolo aveva indotto anche i filosofi del diritto a considerare le scienze come una forma inferiore di conoscenza sulla quale si ergeva la filosofia cui spettava non soltanto di stabilire i limiti invalicabili entro cui lo scienziato doveva restare, ma anche di definire i concetti primi su cui le scienze dovevano fondarsi; in particolare nell’ambito del diritto, era diventato un luogo comune presso i filosofi della nuova scuola che il compito di determinare che cosa fosse il diritto spettasse al filosofo, il quale con la  Per la storia della filosofia del diritto di questo periodo fondamentale G. Perticone, Teoria del diritto e dello stato, Bompiani, Milano 1937.

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filosofia del diritto e scienza del diritto in italia

mente sgombra dei troppi fatti minuti che aduggiavano il lavoro del giurista era in grado di seguire il cammino dello Spirito nel mondo. Dall’altro, i giuristi si erano sempre più attenuti al principio metodico che aveva informato le scienze più rigorose, al principio della “avalutatività”, e che nel campo degli studi giuridici comportava la differenza fra il ius conditum di cui soltanto il buon giurista doveva occuparsi e il ius condendum che era occupazione non da scienziati ma da politici. In altre parole, mentre il giurista predicava l’astinenza da tutto ciò che non fosse commento e interpretazione del diritto positivo, e perfezionava il proprio tecnicismo allontanando da sé i non addetti ai lavori, il filosofo tendeva a innalzarsi tanto al di sopra della povera empiria, tanto in alto verso il cielo dei concetti, da perdere qualsiasi contatto con la realtà del diritto in azione. La diffidenza di cui parlava Del Vecchio era reciproca: i giuristi diffidavano dei filosofi perché avevano l’impressione di non imparare nulla dalle loro escogitazioni sul concetto apriori del diritto presentato nientemeno come la condizione stessa di ogni esperienza giuridica possibile, o sulla posizione della categoria del diritto nelle forme o guise dello Spirito universale; i filosofi diffidavano dei giuristi, perché li vedevano immersi nel mare chiuso della legislazione positiva, non sfiorati dal dubbio che al di là del diritto positivo vi fosse il mare aperto (anche se più difficile da navigare) del diritto vivente. Chi voglia avere un’idea dell’abisso che separava l’opera di un filosofo del diritto da quella di un giurista non ha che da leggere uno di seguito all’altro due libri apparsi quasi contemporaneamente, entrambi usciti dalla stessa università (Pisa): i Fondamenti della filosofia del diritto del filosofo Giovanni Gentile (1916), e L’ordinanento giuridico del giurista Santi Romano (1917). L’opera di Gentile non poteva essere letta efficacemente se non da chi fosse già stato iniziato alla filosofia dell’autore della Teoria dello spirito come atto puro. Era assolutamente da escludere che un giurista, anche di buoni studi umanistici, fosse in grado di afferrarne il senso o anche solo di capire quale ne fosse l’oggetto e lo scopo. D’altra parte, chi si fosse abituato a respirare nell’at Che il compito del filosofo fosse quello di definire il concetto apriori del diritto, considerato come condizione di ogni esperienza possibile, era una tesi dei neo-kantiani; che fosse quello di dare al diritto un posto nella vita dello Spirito era una tesi degli idealisti neo-hegeliani.

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POSTFAZIONE Dino Cofrancesco

Chiarezza di scrittura e passione speculativa caratterizzano da sempre l’uomo e lo studioso Mario Quaranta, saggista, storico della filosofia e della scienza, acuto osservatore dei luoghi in cui si produce cultura, dalle riviste alle case editrici. Non fa eccezione il presente lavoro che mi è stato chiesto di presentare al lettore e che mi accingo a fare non senza mettere le mani avanti con una prudente avvertenza, Domine, non sum dignus. Le questioni teoriche e metodologiche che l’Autore analizza nel saggio, ricostruendo sapientemente la stagione del “neoilluminismo italiano” impegnato a svecchiare la cultura filosofica, nel tentativo – a mio avviso riuscito – di non consegnarla a cattolici, a neoidealisti e a marxisti, comportano piani di discorso e approfondimenti teoretici ed epistemologici per i quali mi manca l’attrezzatura intellettuale adeguata. E, tuttavia, c’è un aspetto non secondario di quella stagione sul quale mi sento di spendere qualche riflessione, forse terra terra, per chi dimora sulle vette della teoresi, ma non privo di implicazioni etico-politiche non sottovalutabili per chi è interessato, soprattutto, a verificare se il nesso supposto tra il pensiero liberato dalle vecchie metafisiche (idealistiche e materialistiche) e la prassi fondatrice di una più elevata convivenza civile regga davvero alla prova della ragione – con la erre minuscola – e, soprattutto, all’analisi dei fatti. Per questo la mia Introduzionee intende essere anche, se non innanzitutto, un franco dialogo con un amico come Mario Quaranta che illustra in modo ineccepibile opere e autori – e in primis Norberto Bobbio – ma sembra lascia-

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dino cofrancesco

re al lettore le conclusioni da trarre dal suo racconto filosofico. Mi atterrò a quanto mi sono proposto senza la minima supponenza o pretesa di porre i puntini sulle “i”, ma con l’atteggiamento umile – iscritto nella mia formazione scettica, empiristica e anche, lo riconosco, un po’ qualunquistica – di chi, dopo aver applaudito l’attore che ha recitato sulla scena la parte dell’eroe posivivo, non rinuncia a chiedere se, per caso, non ci sia anche dell’altro, ovvero se il finale – in questo caso drammatico – non sia dipeso solo dalla nequizia dei tempi, dall’immaturità di un popolo o dall’aver enunciato con troppo anticipo delle verità scomode. Prenderò in considerazione tre momenti della biografia intellettuale di Bobbio: 1. la riscoperta di Carlo Cattaneo; 2. il dialogo con la sinistra marxista; 3. la concezione azionista della figura e del compito dell’intellettuale, per sollevare dubbi e attivare seri ripensamenti interpretativi che, nel saggio di Quaranta, sono appena sfiorati: e non è certo una colpa il non averlo fatto, dal momento che si proponeva, onestamente, di spiegare – per riprendere il titolo di una fortunata collanina dell’editore Ubaldini – «ciò che veramente ha detto Norberto Bobbio» e non «ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Norberto Bobbio» – per riprendere, questa volta, la nota formula crociana. I

Scrive Quaranta: Secondo Bobbio Cattaneo s’inserisce in quella corrente empiristica che ha avuto in Bacone e soprattutto in Locke i suoi maggiori teorici; si comprende, allora, la contrapposizione, che in Cattaneo fu sempre viva, del sapere scientifico con la filosofia speculativa e la metafisica. Inoltre, Cattaneo esalta la tecnica non come ancilla della scienza, ma come parte integrante dell’impresa scientifica, cui si affianca una filosofia senza pretese “imperialistiche” nei confronti della scienza, ma anzi come “metodologia generale del sapere”.

Le ricadute sociali dell’impresa scientifica, l’importanza per la ricerca sul piano della convivenza civile, lo stimolo che essa dà al mercato e all’innovazione tecnologica, la stessa luce etica

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postfazione

(in senso lato) che si proietta sull’imprenditore che affronta la concorrenza attenendosi lealmente alle regole del gioco, sono motivi che si trovano nel gran Lombardo. Cattaneo, dirà Rosario Romeo, vedeva la società civile come un processo unitario volto all’emancipazione congiunta dell’intelligenza e delle forze produttive e insieme alla redenzione dei ceti più deboli e indifesi, sinora vittime dell’arbitrio dei potenti e dell’arretratezza degli ordinamenti civili.

Per questo poteva piacere sia al liberale Luigi Einaudi, che al socialista meridionalista Gaetano Salvemini, che al socialista riformista Alessandro Levi. L’assenza in lui di «germi di decadenza» e «l’abbandono della mentalità speculativa» ne fanno, «secondo la formula bobbiana», «un “illuminista rinato nel secolo della storia”, che dell’illuminismo accoglie la fiducia nella razionalità scientifica, e del romanticismo la teoria del progresso dell’umanità». Difficile non essere d’accordo per il lettore dell’Invito alli amatori di filosofia e di Psicologia delle menti associate. Sennonché, ci si chiede – e ammetto che la domanda può sembrare ingenua – perché la politica culturale, sottesa alle pagine catteneane e volta a «tradurre i principi in istituzioni vive», guardandosi bene dalla pretesa di «rifare il mondo» ma desiderosa solo di correggere l’esistente – con una sapiente ingegneria gradualistica, si sarebbe tentati di aggiungere popperianamente –, avrebbe dovuto essere soltanto l’ispiratrice di un’area politico-culturale – la sinistra progressista laica e non marxista – in buona sostanza, a quel modo in cui il materialismo storico e quello dialettico costituivano le sacre scritture dei partiti proletari? Insomma, se i repubblicani storici avevano come stella polare Giuseppe Mazzini, i socialcomunisti Karl Marx, i cattolici la Rerum novarum di Leone XIII, i vecchi liberali Benedetto Croce, gli antifascisti laici (almeno nei disegni di Bobbio) dovevano guardare a Carlo Cattaneo. Non poteva dirsi, proprio, un’“appropriazione indebita” ma certo si trattava di un’operazione ideologica che testimoniava i travagli di una stagione storica e di una generazione di intellettuali che, rinati di colpo alla vita politica, in virtù del 25 luglio 1943 e

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INDICE DEI NOMI

Abbagnano, N., 23, 40, 44, 45, 65, 98, 130, 142, 149, 150 e n, 151, 153, 208 Albertario, D., 162 Alessio, F., 15, 23, 143 Aliotta, A., 40 Amendola, G., 80 Antiseri, D., 102 Antoni, C., 39, 128, 134, 135 n Arata, C., 142 Ardigò, R., 23 Are, G., 193 Aron, R., 203, 206, 210 Ascarelli, T., 177, 178 e n, 179, 180 Bacone, F., 27, 66, 190 Badaloni, N., 141 Baget Bozzo, G., 205 Balbo, F., 38 Banfi, A., 111 n, 135 n Barbano, F., 136 Barcellona, P., 184 n Barié, G.E., 39, 123, 124, 135 Barone, F., 113, 125, 127, 128, 129 e n, 130 Battaglia, F., 142 n Becker, O., 168 n Bedeschi, G., 198 Benedetto, XVI, papa, 69 Bergman, G., 116, 124 Berlin, I., 203, 206 Betti, E., 177 Bianchi Bandinelli, R., 37, 51, 52, 75, 82, 195 Bilenchi, R., 39

Binanti, L., 102 Bonfante, P., 164, 165 e n Bontadini, G., 99 Bosetti, G., 89 n Caiani, L., 173 e n, 177 Cajumi, A., 132, 133, 134 Calabresi, L., 206 Calamandrei, P., 172 e n, 195 Calderoni, M., 101 Calogero, G., 33, 41 n, 53, 54, 97, 101, 142, 150, 171 e n, 172, 209 Cammarata, A., 162, 163, 164, 165, 167 e n, 168, 173 e n, 181 e n Cantoni, R., 39, 42 Capitini, A., 49, 87 Capograssi, G., 164, 167 e n, 169, 170, 173 Cappelletti, M., 172 n Caracciolo, A., 209 Carli, F., 194 Carli, G., 212 Carnap, R., 116 Carnelutti, F., 172, 173 n, 176 e n, 177 Carocci, A., 38 Cartesio, R., 24 Cases, C., 148 e n, 151 Castro, F., 107, 209 Cattabiani, A., 205 Cattaneo, C., 11-24, 26-28, 31, 34, 35, 42, 66, 94, 98, 143 e n, 149, 190, 191, 192, 193, 194, 200, 203 Ceccato, S., 102, 116 n, 124




Finito di stampare nel mese di maggio 2018 per conto della casa editrice Il Poligrafo srl presso Q&B Grafiche di Mestrino (Padova)






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