Design e immaginario Oggetti, immagini e visioni fra rappresentazione e progetto

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design e immaginario

Paola Proverbio, architetto e dottore di ricerca in Scienze del design all’Università Iuav di Venezia, tiene corsi su teoria e storia del design e dell’architettura contemporanea in diversi atenei milanesi. Membro di AIS/Design - Associazione italiana storici del design, è stata consulente scientifico per la digitalizzazione degli archivi storici Danese, Flos, Arteluce e per l’archivio iconografico della rivista «Domus». Per il CASVA - Centro di Alti Studi sulle Arti Visive del Comune di Milano ha studiato e catalogato archivi di design e architettura, con contributi confluiti in Gli archivi di architettura, design e grafica in Lombardia. Censimento delle fonti, a cura di L. Ciagà (CASVA, Milano 2012). Ha pubblicato di recente: La Danese 1957-1991. Un paradigma del design senza tempo («Arte Lombarda», 161-162, 2011) e le monografie Alberto Meda, Denis Santachiara, Antonio Citterio (Hachette, Milano 2012-2013). Attualmente si occupa del rapporto tra il design e la sua rappresentazione fotografica: Lucia Moholy, fotografa del Moderno («AIS/Design. Storia e Ricerche», 1, 2013); Fotografia d’industria e fotografia del prodotto industriale. Frammenti per una storia («AIS/Design. Storia e Ricerche», 2, 2013); La fotografia di design a Milano. Note per una storia fra gli anni Cinquanta e Sessanta (in Milano 1945-1980. Mappa e volto di una città, a cura di E. Di Raddo, FrancoAngeli, Milano 2015).

in copertina © Philippe Fragnière, Untitled, 2014

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26,00

ISBN 978-88-7115-940-9

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design e immaginario Oggetti, immagini e visioni fra rappresentazione e progetto

Raimonda Riccini è professore associato all’Università Iuav di Venezia, dove coordina il dottorato di Scienze del design. Dirige «AIS/Design. Storia e ricerche», rivista on line dell’Associazione italiana storici del design, di cui è presidente. Cura mostre (per la XX Triennale di Milano: “Gli occhiali presi sul serio”, 2002; “Nanni Strada”, 2003; “Design in Triennale”, 2004; con Medardo Chiapponi, “Made in Iuav”, Venezia 2008; “Copyright Italia. 1948-70”, Roma 2011, per i 150 anni dell’Unità d’Italia) e scrive saggi su teoria e storia del design (fra i più recenti: Pensare la tecnica, progettare le cose, Archetipolibri, Bologna 2012; con G. Anceschi, Il guizzo e la griglia. Antonio Macchi Cassia designer, Allemandi, Torino 2013; Tomás Maldonado and the Impact of the HfG Ulm in Italy, in Made in Italy. Rethinking a Century of Italian Design, a cura di G. Lees-Maffei e K. Fallan, London 2014; Artificio e trasparenza, in Il corpo umano sulla scena del design, a cura di M. Ciammaichella, Il Poligrafo, Padova 2015).

a cura di Paola Proverbio e Raimonda Riccini

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Gli oggetti sono strutture immaginarie. Lo sono non soltanto perché producono significati simbolici e culturali, aprendo mondi impensati, ma anche perché l’immaginario è insito nella formulazione e nella progettazione di nuovi oggetti. Si potrebbe dire che l’immaginario è un produttore di oggetti, tanto quanto gli oggetti sono produttori di immaginario. E in questa circolarità il design ha fissato un punto storicamente essenziale facendo, di questa circolarità, la sua caratteristica peculiare, il suo connotato saliente: dar forma agli artefatti e, attraverso la forma, dar vita a immaginari. Grazie alle voci di autori di diverse discipline, il volume analizza il ruolo che gli oggetti hanno nella costruzione sociale dell’immaginario, con contributi provenienti da ambiti produttori di potenti immaginari, come il cinema, la letteratura, la fotografia, l’editoria, l’arte. Ma si interroga anche su come si forma l’immaginario nel mondo della progettazione, scandagliando le dinamiche che governano l’iter immaginativo: da un lato ricostruisce gli elementi fondanti e la storia di questo processo, dall’altro documenta le sue innumerevoli sfaccettature nei percorsi progettuali dei designer stessi.



saggi iuav collana di ateneo 7



DESIGN E IMMAGINARIO Oggetti, immagini e visioni fra rappresentazione e progetto

a cura di Paola Proverbio e Raimonda Riccini

ilpoligrafo


progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon copyright Š settembre 2016 Università Iuav di Venezia Il Poligrafo casa editrice Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-7115-940-9


indice

9 Premessa Paola Proverbio, Raimonda Riccini Parte prima

suggestioni e visioni: l’oggetto nell’immaginario collettivo 19 Immaginario del design fra tecnica, estetica e progetto Raimonda Riccini 37 Design, oggetti e mondi fantastici Medardo Chiapponi 51 Oggetti, cose, dispositivi: linee di una ricerca Antonio Costa 83 Dalla rappresentazione fotografica degli oggetti all’oggetto moderno Cristina De Vecchi 107 L’incanto delle cose. L’immaginario degli oggetti nella letteratura francese della modernità Francesca Pagani 129 La strategia del desiderio: immagini, sessualità e oggetti Elda Danese 145 Anversa, 2001. Editoria, mostre e immaginari della moda Saul Marcadent 171 Ai confini dell’immaginazione progettuale Michele Sinico


Parte seconda

tragitti dell’immaginario progettuale

185 Designer. Processo ideativo e componente immaginativa Paola Proverbio 199

ManualitĂ , materia, allestimenti e oggetti anonimi. Conversazione su Achille Castiglioni con i figli Giovanna e Carlo a cura di Paola Proverbio

225 Fantascienza, tecnologia e filiera digitale. Conversazione con Denis Santachiara a cura di Paola Proverbio 245

Mondi formali, tensione alla bellezza e pragmatismo operativo. Conversazione con Odoardo Fioravanti a cura di Paola Proverbio

261 Tapio Wirkkala. Il progetto plasmato con le mani Rosa Chiesa 277 Raccontare l’anima segreta delle cose di Tobia Scarpa Teresita Scalco

289 bibliografia

305 Note sugli autori

309 Indice dei nomi


DESIGN E IMMAGINARIO



premessa Paola Proverbio, Raimonda Riccini

L’immaginario è argomento che attraversa, con gradi diversi di intensità, ma con un ruolo determinante, tutte le discipline e i saperi legati al design e alla cultura visuale. La sua intima connessione con categorie come creatività, utopia, innovazione, visione, progetto lo colloca al centro di una riflessione trasversale che riteniamo particolarmente utile per il design, in quanto l’immaginario è fra i connotati salienti delle pratiche progettuali che fanno di questa professione uno dei perni dell’innovazione materiale e sociale nel mondo contemporaneo. Sebbene la nozione di immaginario ancora oggi abbia uno statuto impreciso, abbiamo voluto prendere le mosse dell’accezione che ne dà il sociologo Paolo Jedlowski: «l’immaginario deriva dall’immaginazione, che è facoltà del possibile», cioè possibilità di «emanciparsi parzialmente dai vincoli dell’esistente», Il libro è frutto di un lavoro comune. Per l’organizzazione e la cura dei testi, la prima parte “Suggestioni e visioni: l’oggetto nell’immaginario collettivo” è da attribuire a Raimonda Riccini e la seconda “Tragitti dell’immaginario progettuale” a Paola Proverbio, che ha anche interamente curato come autrice le conversazioni con Denis Santachiara, Odoardo Fioravanti, Giovanna e Carlo Castiglioni.  Per questa ragione il tema è diventato il perno dell’attività seminariale del Dottorato in Scienze del design dell’Università Iuav di Venezia nella primavera del 2013. Sotto il coordinamento scientifico di Raimonda Riccini, sono stati organizzati due cicli di incontri, frutto del lavoro comune delle curatrici, che hanno coinvolto docenti, dottorandi e studiosi di diversa provenienza culturale. Hanno partecipato ai seminari, oltre a chi scrive, Marco Bertozzi, Rosa Chiesa, Giulia Ciliberto, Antonio Costa, Elda Danese, Cristina De Vecchi, Toufik Haidamous, Silvio Lorusso, Laura Losito, Mario Lupano, Gabriele Monti, Francesca Pagani, Teresita Scalco, Paolo Simoni, Michele Sinico. A tutti, anche a coloro che non hanno avuto modo di scrivere un contributo, va il nostro ringraziamento.


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perché il concetto di immaginario «rimanda al fatto che, immaginando, noi moltiplichiamo la vita: riconosce che sul possibile noi ci sporgiamo». Questa dimensione di proiezione nel futuro, sul quale è possibile sporgersi, ci è parsa la più consona a far comprendere la relazione fra l’immaginario e il design, ovvero il sapere progettuale che si protende in avanti, secondo la nota etimologia del termine progetto. Nell’elaborare i programmi dei seminari, e affrontando la discussione con gli ospiti, ci siamo rese conto di quanto l’immaginario abbia profonde radici in numerose discipline, da quelle letterario-filosofiche a quelle delle scienze umane e sociali, fino a essere centrale anche nella riflessione scientifica e nella produzione tecnologica. Si tratta di un termine ampio, che ha visto crescere per tutto il Novecento un uso sempre più intenso e che ha finito per soppiantare quello di immaginazione. Nel nostro caso i due termini sono stati usati in senso sostanzialmente sinonimico, poiché il presente lavoro non ha certo ambizioni sistematiche, ma piuttosto l’interesse a esplorare un campo ancora poco dissodato nel mondo del design, dove il concetto di immaginario si è sviluppato in maniera difforme e non con l’estensione che meriterebbe. Benché sia chiaro a tutti quanto gli oggetti del design e della moda siano importanti nella formazione degli immaginari nelle società contemporanee, quando si passa a considerare quale sia il ruolo dell’immaginario nel processo di progettazione, configurazione e realizzazione di questi stessi oggetti, il panorama critico e analitico è decisamente scarno. Dunque al centro di questo lavoro è l’immaginario in relazione al design. L’ambizione è quella di non limitarsi a indagare soltanto il significato e il ruolo degli oggetti nella costruzione culturale e sociale dell’immaginario. Accanto a questo, si è voluto  P. Jedlowski, Immaginario e senso comune. A partire da «Gli immaginari sociali moderni» di Charles Taylor, in Genealogie dell’immaginario, a cura di F. Carmagnola, V. Matera, Utet Università, Novara 2008, p. 238.  M. D’Amato, Nuovi paradigmi dell’immaginario, Enciclopedia Treccani (XXI Secolo), http://www.treccani.it/enciclopedia/nuovi-paradigmi-dell-immaginario_(XXI-Secolo)/ [11 aprile 2016].


premessa

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scandagliare quale sia il percorso immaginativo proprio del processo di progettazione degli oggetti da parte dei designer. La questione di fondo dell’analisi risiede nella comprensione delle dinamiche che governano la dimensione immaginativa dei designer, nello svelarne l’iter ideativo. E in effetti la componente immaginifica che il designer attribuisce all’oggetto è parte costitutiva del processo di progettazione, non è un elemento che compare «al di fuori» del processo, come se fosse un’attribuzione a posteriori. Soprattutto negli oggetti d’uso quotidiano – dagli elementi d’arredo agli strumenti del lavoro, dai mezzi di trasporto ai dispositivi della comunicazione (e si pensi agli immaginari legati oggi alle tecnologie digitali e alle loro potenzialità futuribili!) – questa componente insita nel momento della progettazione è elemento di distinzione indispensabile. Essa colloca ogni singolo oggetto non solo in uno specifico segmento merceologico e di mercato, ma in una precisa zona dell’immaginario sociale. Che il design sia un elemento essenziale in questa dinamica lo sapevano bene, fin dai primi del Novecento, gli interpreti di un mondo capitalistico, allora assai più chiaro da decifrare rispetto a quello attuale, come Thorstein Veblen con la sua epigrammatica idea del valore ostensivo degli oggetti. O, successivamente, autori come Jean Baudrillard o Roland Barthes con le loro analisi sulla dimensione mitica, simbolica e segnica delle cose e dei sistemi a cui esse danno luogo nel contesto della società dei consumi. Così come lo sapevano (e sanno) ancor meglio gli uomini del marketing o quelli della comunicazione, che attorno agli oggetti costruivano (e continuano a costruire) un’invisibile rete di significati simbolici, di rimandi e suggestioni. Come lo sapevano, infine e soprattutto, i designer stessi che ai loro prodotti hanno assegnato il ruolo di concretizzazione di una poetica e di un’estetica personali attraverso la quale interpretare il mondo della cultura materiale del nostro tempo. Partendo da queste considerazioni, il volume è stato suddiviso in due parti. La prima parte comprende esempi di come diversi territori disciplinari produttori di potenti immaginari sociali leggono la


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presenza degli oggetti nella nostra esistenza (dal cinema alla fotografia, alla moda, all’arte, alla letteratura, dalla psicologia alla storia della tecnica e del design di prodotto). La complessità che contraddistingue il termine immaginario si riflette in una potenzialità narrativa che le diverse angolazioni disciplinari mettono in campo secondo le proprie specificità. Per questo abbiamo intitolato la prima parte del volume “Suggestioni e visioni: l’oggetto nell’immaginario collettivo”, un titolo che vuole dar conto della complessità riflessiva dell’argomento della nostra osservazione. Se è vero che in questa sezione si privilegia ancora lo sguardo che da diverse aree di sapere inquadra e illumina il senso degli oggetti come dispositivi narrativi o di costruzione culturale (come nel caso dei saggi di Antonio Costa, Cristina De Vecchi e Francesca Pagani), è altrettanto vero che in essi si cerca di mettere a fuoco alcune specificità della cultura del design, dove è particolarmente intenso l’intreccio fra immaginario collettivo e produzione di immaginario attraverso l’azione artistica e la progettazione editoriale (Elda Danese, Saul Marcadent). Peraltro questo intreccio è presente nei processi storici sia nella produzione di artefatti sia nella loro narrazione, la cui circolarità è messa in luce dal testo di Medardo Chiapponi, in cui si estraggono dalle pagine di opere letterarie come le Mille e una notte o dai racconti di fantascienza di Isaac Asimov alcune analogie fra la caratterizzazione degli oggetti magici e quelli reali. Un passo ulteriore verso il riconoscimento del rapporto fra processi immaginativi e realizzazione degli artefatti è tentato nel testo di Raimonda Riccini, che rintraccia alcune costanti (ma anche relative discontinuità) nei processi di figurazione e configurazione degli oggetti nel mondo tecnico, a partire dal rapporto con il corpo umano. Per ultimo, il testo di Michele Sinico, Ai confini dell’immaginazione progettuale, è volutamente collocato a ridosso della seconda parte del volume, perché è propedeutico a inquadrare il tema dell’immaginario individuale che si riversa nel lavoro del progettista. Ovvero, il testo ci dice come effettivamente funzionano i meccanismi cognitivi che producono l’immaginazione nell’elaborazione di un progetto. E soprattutto ci induce a pen-


premessa



sare che l’immaginazione ha un limite e che lo sviluppo progettuale avviene entro un perimetro dal quale non è dato uscire. Un perimetro che ci permette anche di riconoscere la natura profondamente sociale degli oggetti, il cui senso e uso e valore possono essere misurati e progettati e utilizzati soltanto all’interno di una cultura materiale condivisa. La seconda parte del volume è dedicata ai “Tragitti dell’immaginario progettuale”, con cui si è entrati direttamente nel merito del tema della relazione tra immaginario e design. La sezione è preceduta dal saggio di Paola Proverbio, che utilizza lo strumento del dialogo immaginario per mettere a confronto le voci di Bruno Munari e Italo Calvino in un serrato scambio di idee fra l’immaginazione letteraria e quella che presiede i processi visivi e progettuali, con sorprendenti reciproci legami. L’indagine sul campo è stata resa possibile dal confronto diretto con un gruppo di designer – Tobia Scarpa, Denis Santachiara, Odoardo Fioravanti –, per apprendere direttamente dagli autori qual è l’iter immaginifico che sottende alla loro attività progettuale. Allo stesso tempo si è cercato di analizzare a posteriori come abbia agito l’immaginario personale di due designer come Achille Castiglioni e Tapio Wirkkala. La selezione dei designer riflette personalità, generazioni e contesti geografici diversi. Una differenza che corrisponde non solo a nazioni lontane fra loro (Italia e Finlandia), ma entro lo stesso ambito italiano la scelta è ricaduta su personalità che per provenienza (e nel caso di Tobia Scarpa anche per area operativa) non appartengono specificamente al consueto territorio milanese del design (a esclusione di Achille Castiglioni). A ogni modo, l’analisi condotta all’interno del solo contesto progettuale italiano risulta sufficientemente diversificata e feconda per avanzare una serie di prime riflessioni se si considera che, com’è già stato rilevato più volte nel corso del tempo, quello italiano in rapporto al contesto internazionale non è un design «normativo», ma «iconico»: perché in esso «è sempre presente un surplus rispetto alla pura presenza come oggetti d’uso [...] oggetti che immettono un quid differenziale [...] e la presenza di un fattore immaginativo del tutto



oggetti, cose, dispositivi: linee di una ricerca Antonio Costa

Tra aprile e maggio del 2013 ho tenuto al Dottorato in Scienze del Design dell’Università Iuav di Venezia tre seminari nell’ambito di un ciclo intitolato “Immagini e immaginario degli oggetti”, organizzato da Paola Proverbio, con il coordinamento scientifico di Raimonda Riccini e la collaborazione di Giulia Ciliberto. Nei tre seminari ho presentato e illustrato i contenuti di altrettanti capitoli del libro al quale stavo lavorando e che, nel frattempo, è uscito, con il titolo La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock. Il senso delle cose nei film. Non è proprio il caso di ripresentare qui capitoli di un saggio già pubblicato. Ho pertanto concordato con Raimonda Riccini di proporre una riflessione su alcuni aspetti metodologici del libro, a partire dalle tre parole chiave che lo percorrono: oggetti, cose, dispositivi. Qualche recensore, lasciandosi prendere un po’ la mano, mi ha attribuito la tesi che sarebbero gli oggetti i veri protagonisti del cinema. Che lo siano del mio libro, corrisponde almeno in parte a verità. Che lo siano, invece, del cinema tout court, o del cinema di Hitchcock quanto meno, è una tesi che non ho mai sostenuto. E inoltre ho preferito usare, nel sottotitolo, la parola cose che, rispetto a oggetti, è più generica e può comprendere tanto gli artefatti quanto gli elementi naturali. In medias res La scelta di riprendere un passo delle Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard per introdurre il mio libro (e ancor prima  A. Costa, La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock. Il senso delle cose nei film, Einaudi, Torino 2014.


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il mio ciclo di seminari) mi ha fornito degli indubbi vantaggi. Il primo dei quali è stato la possibilità di entrare subito in medias res. La mia introduzione si è immediatamente riempita di cose: di cose e di storie. La citazione di Godard mi ha consentito di mettere immediatamente in campo un accendino, una borsetta, una spazzola da capelli, un bicchiere di latte. Oggetti di uso comune, banali, privi di risvolti epici e del tutto sprovvisti di aura. E tuttavia implicati in storie che ci hanno preso e affascinato, come quelle dei film di Hitchcock evocati da Godard. Questo ingresso in medias res mi ha evitato di dilungarmi in definizioni teoriche e mi ha consentito di limitarmi, pragmaticamente, a una classificazione alquanto empirica di usi e funzioni degli oggetti nella significazione filmica. La tassonomia che ho proposto, avendo quali riferimenti oggetti d’uso comune, è piuttosto elementare: 1) funzione strumentale; 2) funzione narrativa; 3) funzione simbolica; 4) funzione plastica (o estetica). Soffermiamoci brevemente su ciascuna di esse. Prima di tutto, riconosciamo gli oggetti presenti sullo schermo perché riconosciamo la loro funzione strumentale, che normalmente è la stessa nella vita reale e nella finzione. Tuttavia, come accade nella lingua, dove è pur sempre possibile un uso improprio delle parole (è il caso della metafora), esiste un uso improprio degli oggetti, che si realizza tutte le volte che attribuisco loro una funzione diversa dalla propria. Per esempio, se uso lo Juicy Salif, il celebre spremiagrumi di Philippe Starck, come un’arma. In questo caso si parla di «arma impropria» (arme à destination, dicono i francesi). Nel mio libro, cito vari film: Todos los hombres sois iguales (M. Gómez Pereira, 1994) in cui una fanciulla usa l’“invenzione” di Starck per colpire un poliziotto; oppure Lo scatenato (Franco Indovina, 1967) in cui Vittorio Gassman “indossa” la lampada Arco dei fratelli Castiglioni come se fosse un casco spa-

 Si tratta del capitolo delle Histoire(s) du cinéma dedicato a Hitchcock e al «controllo dell’universo», nel quale si osserva che ci capita di dimenticare dettagli importanti delle trame dei film di Hitchcock, mentre ricordiamo con grande precisione determinati oggetti. Per la trascrizione del passo, cfr. J.-L. Godard, Histoire(s) du cinéma, Gallimard, Paris 1998, IV, pp. 78-92.


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1. Mio zio (J. Tati, 1958)

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presentazione: nello stesso tempo in cui il cinema si è attrezzato per riprodurli, ha sviluppato tecniche per produrli artificialmente (per esempio, effetto nebbia, effetto notte, dissolvenza in nero, dissolvenza incrociata). Soffermiamoci sulla nebbia. Essa definisce determinate qualità atmosferiche e percettive di un paesaggio. Risultato di una forte concentrazione di microscopiche gocce d’acqua negli strati inferiori dell’atmosfera, la nebbia provoca una consistente diminuzione della visibilità, fino ad arrivare secondo la classificazione in uso negli aeroporti a valori prossimi allo zero (ceiling zero). La nebbia è normalmente considerata il peggior nemico di registi, operatori, direttori della fotografia. Rendendo incerti i profili delle cose, privando la visione della profondità di campo, la nebbia riduce o annulla le condizioni di trasparenza e di piena visibilità, necessarie per ottenere una buona inquadratura. Ma ciò che abitualmente è avvertito come un limite può essere sfruttato a fini espressivi. E questo vale per la nebbia come per l’oscurità. Tanto è vero che il cinema ha imparato a produrre artificialmente l’effetto nebbia (fog effect) e l’effetto notte (day for night) per poterli padroneggiare, senza che le riprese debbano svolgersi al buio o in condizioni atmosferiche proibitive. L’effetto può essere ottenuto intervenendo sul pro-filmico (cioè su quanto viene predisposto per essere ripreso): si produce nebbia artificiale mediante un apparecchio che si chiama nebbiogeno (fog machine o fogmaker) e che è stato introdotto nei set cinematografici dopo essere stato messo a punto in campo militare e teatrale. Ma l’effetto nebbia può essere ottenuto anche attraverso procedimenti ottico-fotografici (garze o materiali semitrasparenti posti davanti all’obiettivo) e, in epoca più recente, mediante manipolazioni digitali dell’immagine. Un’esperienza percettiva del mondo naturale viene simulata e, per così dire, grammaticalizzata, diventando così una figura della retorica cinematografica. È sorprendente mettere a confronto la definizione di nebbia che troviamo in un dizionario dei simboli con quella di dissolvenza  Mi permetto di rinviare, per un approfondimento, ad A. Costa, Vedere nella nebbia: per un repertorio di film brumosi, in Nebbia, a cura di R. Ceserani, U. Eco, Einaudi, Torino 2009, pp. 383-395.


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6. Ricostruzione della machine à fumée di E. Marey, realizzata dalla Cinémathèque Française nel 1999 (foto Stéphanie Dabrowski)

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incrociata data da un qualsiasi manuale di tecnica cinematografica. Alla voce “nebbia”, il dizionario dei simboli dice: Simbolo dell’indeterminato, di una fase dell’evoluzione: quando le forme nuove non si distinguono ancora o quando le forme vecchie, che stanno scomparendo, non sono ancora sostituite da quelle nuove e nitide.

Qualsiasi dizionario di cinema ci spiegherà, poi, che la dissolvenza incrociata è un procedimento che segna il passaggio da una scena a un’altra: l’immagine della prima scena va progressivamente scomparendo, mentre quella della nuova emerge a poco a poco, fino a occupare interamente lo schermo. Nato come trucco di trasformazione e di magia, tale procedimento è diventato ben presto un segno d’interpunzione, codificato in quanto tale e destinato a marcare il passaggio da un piano temporale a un altro (dal presente al passato), da un luogo all’altro, dalla realtà al sogno. Va aggiunto, però, che la dissolvenza incrociata conserva, come ha scritto Christian Metz, «qualcosa della fusione sostanziale, della trasmutazione magica, dell’efficacia mistica». Importanti aspetti della tecnica e del linguaggio filmico come l’effetto flou, la dissolvenza incrociata e la dissolvenza in nero traggono la loro origine da esperienze percettive primarie come l’esperienza del buio o della nebbia, con tutte le risonanze e amplificazioni simboliche che esse acquistano nelle diverse culture. Secondo Tonino Griffero, rappresentante italiano di spicco della cosiddetta «atmosferologia», una determinata tonalità emotiva (Stimmung) di un paesaggio, in particolari condizioni atmosferiche, deriva dal fatto che «quando siamo all’interno di una determinata impressione, non guardiamo verso di essa, ma semmai a partire da essa». Le ricerche sulla riproduzione dei movimenti del corpo umano sono state precedute e accompagnate da quelle sulla ri

J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dictionnaire des symboles, Laffont, Paris 1969, trad. it. Dizionario dei simboli, Rizzoli, Milano 1986, p. 122.  Ch. Metz, Le signifiant imaginaire. Cinéma et psychanalyse, UGd’E, Paris 1977, trad. it. Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio 1980, p. 255.  T. Griffero, Atmosferologia, cit., pp. 66-67.


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produzione dei fenomeni del mondo fisico, sui mutamenti di stato degli elementi naturali. Prima di arrivare alla proiezione di fotografie animate, sono state necessarie lunghe sperimentazioni sull’analisi del movimento e sulla fissazione delle sue varie fasi. Il fisiologo Étienne-Jules Marey, con il suo fucile cronofotografico, impressionò su lastra le fasi del volo di un gabbiano e condusse molte altre sperimentazioni, fino a fissare le fasi di movimento di un’onda marina, dalle quali ottenne una vera e propria sequenza animata: La vague, 1890. In realtà, non possiamo percepire la bellezza delle immagini tremolanti di La vague senza pensare alla ricerca e alla apparecchiatura che le hanno rese possibili, senza cogliere la consistenza materica dell’immagine (gli spruzzi dell’acqua contro gli scogli) e, insieme, riflettere sul prodigio della fusione in una continuità percettiva delle sezioni immobili del flusso temporale ripreso. La ricerca di Marey è sempre in bilico tra la dimensione astratta della pura forma, della geometria, e l’energia sensuale della materia, come dimostrano del resto le sue lastre fotografiche sul movimento dei fluidi, oggetto della mostra Les mouvements de l’air. Étienne-Jules Marey photographe des fluides (Musée d’Orsay, ottobre 2004 - gennaio 2005). I dispositivi messi a punto da Marey non solo hanno prodotto e documentato il farsi e il disfarsi di forme di rara bellezza, ma hanno anche indicato con grande chiarezza che il problema non è rendere il visibile, ma rendere visibile ciò che normalmente sfugge al nostro sguardo. C’è indubbiamente una valenza estetica nei prodotti delle ricerche di Marey il cui fine era quello di rendere raffigurabili e, soprattutto, misurabili fenomeni che non si possono osservare a occhio nudo. Attraverso l’invenzione di dispositivi finalizzati all’analisi e alla misurazione, Marey ha allargato la sfera dell’esperienza a tutte le forme di movimento in cui si manifesta il principio vitale dei corpi e degli elementi. In tale modo egli ci ha mostrato la possibilità di tradurre le pulsazioni del corpo vivente in grafi, schemi astratti e configurazioni meccaniche, e nello stesso tempo, ha fat Cfr. L. Mannoni, G. Didi-Huberman, Mouvements de l’air. ÉtienneJules Marey photographe des fluides, Gallimard, Paris 2004.


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7-8. Il diamante bianco (W. Herzog, 2005)

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to emergere dalla dinamica della materia inanimata una cartografia segreta delle forme viventi (fig. 6). Georges Didi-Huberman, nel suo saggio sulle machines à fumée costruite da Marey per definire direzione, peso e comportamenti dei filamenti di fumo, osserva come la vita delle forme attraversi scienza, arte, tecnica e come la (ri)scoperta del mondo delle cose contrassegni l’«esperienza della modernità». Didi-Huberman ripercorre la vita delle forme attraverso le fasi del movimento, del flusso, della durata, dell’espansione e, infine, della «danza di ogni cosa», spaziando dalle danses serpentines di Loïe Fuller al fotodinamismo futurista di Anton Giulio Bragaglia, dai film di Marcel Duchamp (Anémic Cinéma) e Man Ray (Emak Bakia, Étoile de mer) alle installazioni di Bruce Nauman (Light-Trap for Henry Moore n° 2, 1967). Del resto, volute di fumo, flussi di vapore, riverberi di luce sono ben presenti nelle vedute del Cinématographe Lumière in quanto movimenti delle (nelle) cose, come per esempio in Les Brûleuses d’herbe. Le ricerche di Marey, sia che si rivolgessero al movimento umano e animale sia che indagassero i movimenti dell’aria, pongono già con assoluta chiaroveggenza quello che sarà il problema del rapporto tra materia e forma nel cinema, che acquista un particolare significato nello studio sui rapporti tra elementi naturali e dispositivo cinematografico. Non si tratta di sovrapporre una forma a una materia, ma di rendere visibile la forma inerente a ciascuna materia. C’è un film di Werner Herzog, Il diamante bianco (The White Diamond, 2005) che ci offre ottimi spunti per chiarire questa problematica. Protagonista del documentario è Graham Dorrington, giovane professore d’ingegneria aerospaziale alla Queen Mary University di Londra. Dorrington ha non pochi tratti in comune con Marey: studia la dinamica dei fluidi con dispositivi del tutto analoghi a quelli dello scienziato francese (ne vediamo uno bellissimo all’inizio del film) ed è fermamente convinto che compito dello scienziato sia di estendere le frontiere del visibile, combinando le tecnologie del volo con quelle della ripresa cinematografica; inoltre è appassionato del volo degli uccelli (sono indimenticabili le inquadrature degli stormi di rondoni).

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Ivi, pp. 281-316.


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2. Pouf e materassino Pisolò, 1997 (foto Archivio Santachiara) 3. Lampada a sospensione Nuvola, 2006 (foto Miro Zagnoli)

4-5. Mostra “Design Paradise”, Mosca, Saloni WorldWide, 2005 (foto Archivio Santachiara)

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conversazione con denis santachiara 


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1. Tobia e Afra Scarpa (foto courtesy Archivi Tobia Scarpa)

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raccontare l’anima segreta delle cose di tobia scarpa

2. Tobia Scarpa e Teresita Scalco nella casa di Mogliano (foto courtesy Studio Liz)

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3. Lampada Biagio, 1968 (foto courtesy Archivio Tobia Scarpa)

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4. Tobia Scarpa e Teresita Scalco nella casa a Trevignano; sullo sfondo, ritratti di Afra Bianchin (foto Alessandro Fabbro, courtesy Studio Liz)

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design e immaginario

Paola Proverbio, architetto e dottore di ricerca in Scienze del design all’Università Iuav di Venezia, tiene corsi su teoria e storia del design e dell’architettura contemporanea in diversi atenei milanesi. Membro di AIS/Design - Associazione italiana storici del design, è stata consulente scientifico per la digitalizzazione degli archivi storici Danese, Flos, Arteluce e per l’archivio iconografico della rivista «Domus». Per il CASVA - Centro di Alti Studi sulle Arti Visive del Comune di Milano ha studiato e catalogato archivi di design e architettura, con contributi confluiti in Gli archivi di architettura, design e grafica in Lombardia. Censimento delle fonti, a cura di L. Ciagà (CASVA, Milano 2012). Ha pubblicato di recente: La Danese 1957-1991. Un paradigma del design senza tempo («Arte Lombarda», 161-162, 2011) e le monografie Alberto Meda, Denis Santachiara, Antonio Citterio (Hachette, Milano 2012-2013). Attualmente si occupa del rapporto tra il design e la sua rappresentazione fotografica: Lucia Moholy, fotografa del Moderno («AIS/Design. Storia e Ricerche», 1, 2013); Fotografia d’industria e fotografia del prodotto industriale. Frammenti per una storia («AIS/Design. Storia e Ricerche», 2, 2013); La fotografia di design a Milano. Note per una storia fra gli anni Cinquanta e Sessanta (in Milano 1945-1980. Mappa e volto di una città, a cura di E. Di Raddo, FrancoAngeli, Milano 2015).

in copertina © Philippe Fragnière, Untitled, 2014

e

26,00

ISBN 978-88-7115-940-9

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design e immaginario Oggetti, immagini e visioni fra rappresentazione e progetto

Raimonda Riccini è professore associato all’Università Iuav di Venezia, dove coordina il dottorato di Scienze del design. Dirige «AIS/Design. Storia e ricerche», rivista on line dell’Associazione italiana storici del design, di cui è presidente. Cura mostre (per la XX Triennale di Milano: “Gli occhiali presi sul serio”, 2002; “Nanni Strada”, 2003; “Design in Triennale”, 2004; con Medardo Chiapponi, “Made in Iuav”, Venezia 2008; “Copyright Italia. 1948-70”, Roma 2011, per i 150 anni dell’Unità d’Italia) e scrive saggi su teoria e storia del design (fra i più recenti: Pensare la tecnica, progettare le cose, Archetipolibri, Bologna 2012; con G. Anceschi, Il guizzo e la griglia. Antonio Macchi Cassia designer, Allemandi, Torino 2013; Tomás Maldonado and the Impact of the HfG Ulm in Italy, in Made in Italy. Rethinking a Century of Italian Design, a cura di G. Lees-Maffei e K. Fallan, London 2014; Artificio e trasparenza, in Il corpo umano sulla scena del design, a cura di M. Ciammaichella, Il Poligrafo, Padova 2015).

a cura di Paola Proverbio e Raimonda Riccini

I --U --A --V ilpoligrafo

Gli oggetti sono strutture immaginarie. Lo sono non soltanto perché producono significati simbolici e culturali, aprendo mondi impensati, ma anche perché l’immaginario è insito nella formulazione e nella progettazione di nuovi oggetti. Si potrebbe dire che l’immaginario è un produttore di oggetti, tanto quanto gli oggetti sono produttori di immaginario. E in questa circolarità il design ha fissato un punto storicamente essenziale facendo, di questa circolarità, la sua caratteristica peculiare, il suo connotato saliente: dar forma agli artefatti e, attraverso la forma, dar vita a immaginari. Grazie alle voci di autori di diverse discipline, il volume analizza il ruolo che gli oggetti hanno nella costruzione sociale dell’immaginario, con contributi provenienti da ambiti produttori di potenti immaginari, come il cinema, la letteratura, la fotografia, l’editoria, l’arte. Ma si interroga anche su come si forma l’immaginario nel mondo della progettazione, scandagliando le dinamiche che governano l’iter immaginativo: da un lato ricostruisce gli elementi fondanti e la storia di questo processo, dall’altro documenta le sue innumerevoli sfaccettature nei percorsi progettuali dei designer stessi.


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