Il Periodico News - MARZO 2019 N°140

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il Periodico News

“C’ERA UNA VOLTA L’OLTREPò “ DI GIULIANO CEREGHINI

MARZO 2019

La cucina dei poveri: “pulenta e saràca, fügàsa coi gratòn, la busäca...” La cucina, negli anni tra le due guerre e per buona parte dell’ultimo dopo guerra può, a buon ragione, essere definita povera. Povera perché fatta di povere cose, povera perché cucina di poveri cristi, come amabilmente definiva quella gente il giullare d’Oltrepò Mario Salvaneschi in arte Lasaràt. Non era cattiva, tutt’altro, ma semplice celebrazione di scarse materie prime genuine e stagionali. Uno dei segreti era l’esaltazione della stagionalità degli alimenti causata dalla difficoltà se non impossibilità, di conservazione delle derrate. Frumento, quindi farina per pasta e pane, latte, verdure, legumi, frutta, strutto, salami e salamini dall’annuale sacrificio del maiale, vino buono e “pulärìa” prodotti del pollaio. La differenza la faceva la quantità disponibile dei prodotti summenzionati se non la loro parziale o totale assenza. In anni particolari, famiglie numerose con scarse disponibilità finanziarie o di terreno coltivabile, ebbero a soffrire fame vera, quella che attanaglia la mente prima ancora che lo stomaco. Sopravvivevano conducendo esistenze miserrime e sopportando privazioni inimmaginabili pur con la dignità di uomini veri. PANE E PASTE - Ogni famiglia contadina coltivava grano: chi per avere esclusivamente pane quotidiano e paste fatte in casa, altri, i più benestanti, per ricavare pochi danari dalla vendita dell’eccedenza. “Fà àl pân” era lavoro prettamente femminile che iniziava la sera antecedente il rito con la creazione o lavorazione della biga, pasta e prelievitata o con l’uso della pasta madre o con “al cärsènt”; proseguiva qualche ora prima dell’alba per l’impasto, il confezionamento delle gigantesche micche, l’infornamento delle stesse, la cavata dal forno in tarda mattinata e la conservazione in enormi cestine di vimini appese al soffitto, dei preziosi micconi che normalmente onoravano il povero desco per una settimana. Solo l’accensione ed il riscaldamento dei forni con l’uso di legna di scarto, era mansione maschile ma, al momento di verificare la giusta temperatura, interveniva “l’arsadùra”, la vecchia padrona di casa, che sceglieva il giusto attimo per consegnare alle refrattarie pietre roventi, il frutto del mattutino lavoro e la speranza della settimana futura. Dopo la cottura del pane, il forno conservava ancora tanto calore da poter cuocere biscotti, frutta o arrosti. Tra i meglio ricordi di molti di noi giovanotti attempati, c’è il profumo fragrante e tentatore del pane appena sfornato che, raramente veniva consegnato alla mensa di quel giorno, ma preservato gelosamente per un magro futuro a cui, almeno il pane, non doveva mancare. Con cadenza bisettimanale le donne si occupavano della pasta che veniva regolarmente confezionata in casa tranne che in rare occasioni, quale la cena

della vigilia di Natale, dove le lasagnette o trenette, rituali con i funghi secchi, venivano acquistate sfuse alla bottega del paese. Erano taglierini, tagliatelle o maltagliati confezionati a mano con l’ausilio di una magica macchinetta sfogliatrice che ogni famiglia possedeva e che i bambini adoravano vedere in azione, anzi adoravano azionare mediante una manovella da ruotare con studiata delicatezza. I “tajären” ottenuti venivano amorevolmente raccolti dalle esperte mani delle donne, poggiati su cannette stese tra due seggiole e lasciati seccare per una notte o più se la stagione umida lo consigliava. I maltagliati invece venivano lasciati sulla spianatoia abilmente infarinata, per essere riposti in capaci madie che, con la pasta, conservavano farina di grano o di mais oltre a fagioli, fave e ceci secchi pronti per una notte d’ammollo e un uso vario e ricorrente. LA POLENTA - Segnava drammaticamente il benessere anzi, il ripetuto e frequente consumo era inversamente proporzionale al benessere: più questo aumentava più diminuiva la polenta. Era l’alimento più a buon mercato, saziava, non appesantiva la digestione, non ingrassava ma quei poveretti non l’amavano molto: polenta a pranzo con contorno di poco o niente, polenta abbrustolita sulla stufa a cena accompagnata da radi pesci sotto sale “saràch o sarachèn”. Si racconta che i più poveri appendessero un lungo spago alla trave che sormontava la tavola, vi legassero per la coda una robusta “saràca” per permettere a tutti di strofinare la polenta fredda o abbrustolita, sul gustoso pesce sotto sale. Nessuno poteva però trattenere il pesce che oscillava appeso alla cordicella che scendeva dal trave: bastava per tanti commensali che si accontentavano più del profumo che della quantità di companatico. Persino la prima colazione era spesso

“Fà àl pân” era lavoro prettamente femminile che iniziava la sera antecedente il rito con la creazione o lavorazione della biga, pasta e prelievitata o con l’uso della pasta madre o con “al cärsènt”

rappresentata da polenta fredda e latte; quest’abitudine determinava assuefazione che spesso sfociava nel rifiuto, causa nausea, al solo vedere o pensare di degustare la dorata cupoletta scodellata fumante sul tavolo. Si narra di un povero fanciullo di paese, canzonato dai compagni di scuola perché ogni volta che la maestra chiedeva ai ragazzi cosa avessero mangiato la sera precedente, Lui rispondeva invariabilmente “polenta” suscitando l’ilarità dei compagni. Il nonno trovò rimedio allo spiacevole contesto del nipote: “quando la maestra ti chiederà cos’hai mangiato ieri sera tu devi rispondere risotto e non polenta”. Il pargolo sollevato attese con trepidazione la fatal domanda della maestra intrigante e prontamente rispose “ho mangiato il risotto”. La maestra intrigante si, ma non sciocca, chiese: quanta ne hai mangiato?” ed il povero tontolone sincero rispose senza riflettere “due fette!”, suscitando un inferno di risate da parte dei compagni, divertiti dal cambio di menù inventato. LATTE, BURRO E FORMAGGI - Latte appena munto, era spesso cena, oltre che colazione per grandi e piccini: una buona scodella di latte, un pochino di zucchero, qualche crostino indurito ed a volte una fettina di polenta fredda. Qualche mugugno ma l’unica alternativa era il digiuno. Il burro con il lardo, era il condimento usuale in un’economia che non permetteva l’acquisto dell’olio se non per condire le insalate. Prodotto dalle mucche dell’agricoltore, acquistato con parsimonia stante la cronica mancanza di soldi che spesso, portava a scambi di materie che richiamavano alla memoria antiche tradizioni di baratto. Privo di conservanti e di additivi vari, steso su di una fetta di pane e spolverato con un pochino di zucchero, il burro di casa era un’assoluta bontà per merende o spuntini di grandi e piccini, lungi dal preoccuparsi dell’aumento del colesterolo o del livello dei trigliceridi. Era inoltre condimento con lo strutto, di minestroni, risotti, arrosti e stufati: solo l’insalata veniva condita con il poco olio che la famiglia poteva permettersi. Veder maneggiare la bottiglia dell’olio con cura estrema, raccogliendo con il dito ogni parvenza di piccola gocciolina che tentasse di scendere lungo il collo della bottiglia, rende chiaro il motivo per cui rovesciare l’olio, nella credenza popolare, porti sfortuna: l’insalata per mesi sarebbe stata condita semplicemente con aceto e sale. Al termine dell’allattamento del vitellino, il latte delle mungiture delle mucche, sino all’asciutta tre mesi prima del porto, veniva posto in capaci recipienti di terracotta e lasciato per una notte. Affiorava naturalmente uno spesso strato di panna che veniva tolto delicatamente e posto in un apposito contenitore dove, la panna lavo-

Giuliano Cereghini rata, si solidificava in una grossa palla di burro di un bel giallo paglierino. Il residuo del latte scremato, veniva cagliato, posto in un apposito strumento bucherellato per l’uscita dello siero detto “farsäla”. La formaggella ottenuta veniva caricata di sale e dopo pochi giorni, posta a maturare in luogo asciutto. Per ottenere un formaggio più cremoso si usava cagliare il latte intero, non scremato, realizzando formaggelle tonde e morbide dette “mulän”. Quattro o cinque formaggelle, coperte da un tulle a maglia grossa, venivano in primavera poste in una capace terrina, esposte al sole e ricoperte da foglie di noce per richiamare un moscerino che, passando tra le maglie del tulle, depositava le uova sul formaggio. Le larve che ne derivavano iniziavano a nutrirsi di formaggio lavorandolo metodicamente, a partire dal centro della forma verso l’esterno. Il formaggio che ne derivava, cremoso e piccante, era ed è una assoluta specialità conosciuta in Oltrepò con il nome di “furmàg câ brüsa, nìsso, o furmàg coi bèg”. Oltre a questi pochi altri formaggi onoravano la tavola di quei tempi: qualche pezzo di parmigiano razionato con estrema parsimonia e, in rare occasioni, una fettina di buon gorgonzola che purtroppo spariva velocemente. LEGUMI - in un periodo storico dove la gente usava pochissima carne, le proteine dei legumi rivestivano enorme importanza: ceci, fagioli, fave e piselli freschi in stagione o seccati per tutto il resto dell’anno, venivano usati per minestre e minestroni, saltate in padella o servite in insalata con poco condimento. I ceci, rinvenuti dopo l’ammollo di una notte, cucinati con costine di maiale, una paio di cotichelle arrotolate e due foglioline d’alloro, fornivano una zuppa deliziosa e un secondo piatto se scolati e serviti con le cotichelle e le costine spezzettate condite con olio, aceto e sale. I piselli venivano cucinati freschi con lardo o pancetta, aggiunti a minestre e minestroni che nobilitavano con il loro tocco dolce e fragrante. Fave e fagioli oltre a caratterizzare le ricordate minestre,


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