Hystrio 2011 4 ottobre-dicembre

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critiCHE/Trentino alto adige - friuli venezia giulia

ORAZI E CURIAZI, di Bertolt Brecht. Traduzione di Emilio Castellani. Dramaturg Magdalena Barile. Regia di Fabrizio Arcuri. Scene di Andrea Simonetto. Costumi di Marta Montevecchio. Luci di Diego Labonia. Video di Lorenzo Letizia. Con Miriam Abutori, Michele Andrei, Matteo Angius, Emiliano D. Barbieri, Gabriele Benedetti, Fabrizio Croci, Pieraldo Girotto, Francesca Mazza, Sandra Soncini. Prod. Accademia degli Artefatti, Roma. FESTIVAL DRODESERA, DRO (Tn) - FESTIVAL INTERNAZIONALE DI ROMA FESTIVAL SANTARCANGELO 41 (Rn).

Spina, Ornella Lorenzano. Prod. Compagnia del Sole - Diaghilev -Panart, Bari. MITTELFEST, CIVIDALE DEL FRIULI (Ud). in tournÉe Facile dire guerra. Complicato rappresentarla, anche se un secolo di cinema ci ha abituati alla sua spettacolarità. Difficile, molto più difficile, parlare dei dopoguerra. Una volta che la macchina bellica si è scaricata e giornalisti e troupe radiotelevisive hanno lasciato il campo, rimangono i sopravissuti. Loro soli, con i loro mali e le loro cicatrici. Di questo parla Lars Norén, in Guerra. Nel testo, datato 2003, il 66enne autore svedese punta lo sguardo su quel che resta. Che sia una irriconoscibile città della polveriera balcanica, o la Somalia, un paese mediorientale o asiatico, perfino il nostro Mediterraneo oggi, poco conta. Conta che qui, nel dopoguerra, ogni valore, ogni morale, ogni dignità, ogni moto del cuore è azzerato. Una madre e le sue due figlie. In realtà animali bastonati: feriti dalle violenze del conflitto prima, abusati dalle forze “di pace” poi. Capita che l’uomo - il marito, il padre, il soldato - che era dato per morto nella furia del combattere, si ripresenti un giorno alla porta. Malandato, ferito, completamente cieco. Ma forte nel reclamare i propri diritti - di marito, di padre, di ex-combattente con tutto il rancore, il senso di possesso, il peso delle sue sconfitte. Nell’allestimento di Guerra che Marinella Anaclerio ha diretto e portato al debutto nella Cividale estiva di MittelFest, seguendo la traduzione di Annuska Palme Sanavio, tutto questo è detto con essenzialità e, per pudore, taciuto. Fino al momento in cui un gesto o una domanda non costringono i personaggi a svelarsi. Crudamente. Che la figlia maggiore si prostituisca alle milizie di pace. Che la madre abbia trovato accoglienza tra le braccia del cognato, l’imboscato. Che la bambina più piccola abbia perso il senso della realtà assieme all’innocenza, non sono in fondo che effetti collaterali, come stava e forse ancora sta scritto sui report di guerra. Su questo paesaggio Anaclerio e la sua compagnia di interpreti accendono e spengono riflettori crudi, in uno spettacolo senza alcuna retorica. Che con la sua brutalità, abbaglia. Roberto Canziani

(foto: Alessandro Sala/Cesuralab)

in tournÉe

PRO & CONTRO Accademia degli Artefatti: i guerrieri di Brecht e l'autopsia del Comunismo

C’

è un fatto: che sempre di più questo teatro contemporaneo, che ormai trattiamo come una bestia morta su cui effettuare un’autopsia, interroga la distanza che separa il presente e il nostro ruolo al suo interno. Il pregio indiscutibile del lavoro di Fabrizio Arcuri e della sua Accademia degli Artefatti è occupare quella distanza con un ragionamento. In Orazi e Curiazi va in scena un esperimento: costruire un ponte tra la riflessione politica di Brecht e il teatro che viviamo oggi; un tentativo di valicare quel fiume di lava che è il pensiero debole intorno alla realtà, oggi fagocitata dalla sua stessa rappresentazione. Si comincia con un quadro apocalittico in cui un team di esploratori in tuta antiatomica scandaglia, in un salotto, i resti senza vita di quella che deve essere stata una festa. Accuratamente isolati e con esemplare ironia compianti, i reperti sono i simulacri di un comunismo senza bambini mangiati, bandiere di un ideale esausto, già pezzo da museo. La leggenda del confronto tra Roma e Alba prende in Brecht vita e respiro nella forma didattica che qui è quasi un gioco di società da salotto borghese. Si torna bambini, ci si divide in squadre, si usano armi fittizie, si segnano i punti su una lavagna. E intanto due schermi trasmettono la pulsante interferenza di un segnale che non esiste più, pensiero estinto. Arcuri conduce il suo plotone di attori all’ennesima fatica e, dove il ritmo si spezza sotto il peso di una durata eccessiva e qualche compiacenza di troppo, a cementare i buchi restano attenzione e ragionamento. Quelli di un teatro che non parla di politica ma che politica è; un teatro epistemologico che cerca nei propri stessi materiali la loro attendibilità di dati scientifici; e quelli attacca, con le armi di un’analisi puntuale, lasciando in pegno al pubblico una verità schiacciante sul presente: «c’è un conflitto in atto e ridere è la nostra strategia». Ecco come quella bestia può essere ancora riportata in vita. Sergio Lo Gatto

B

recht comprese Orazi e Curiazi fra i suoi “drammi didattici”, corpus di opere non destinate primariamente alla scena bensì pensate come esercitazioni per gli attori. Arcuri tenta, senza successo, di forzare la natura scolastica del testo e di dimostrare quanto esso riesca a parlare di e a interpretare la nostra decadente contemporaneità. A tale scopo appiccica al dramma un prologo e un epilogo. Così, lo spettacolo ha inizio con la visione apocalittica di uomini in tuta anti-radiazioni che entrano in una vecchia sede del partito comunista, fra ritratti di Lenin e bandiere rosse, e si conclude con un sosia della rockstar Kurt Cobain che intona la sua malinconica ballata mentre un plastico di legno rimanda alla distruzione delle Torri Gemelle e una voce fuori campo ci invita a rivalutare ciò che davvero merita preoccupazione nella nostra realtà, prossima a un’immane catastrofe. Fra questi due inserti, c’è la recita del dramma, ambientata nella succitata sede di partito e agita da nove attori, quattro per gli Orazi, altrettanti per i Curiazi e una nona – Soncini, abbigliata e truccata prima come una geisha e poi come una crocerossina – impegnata a pronunciare le didascalie, con gestualità e toni in verità ripetitivi e inefficaci. La compagnia si muove in uno spazio sovraffollato di oggetti e di arredi e allestisce lo scontro fra i due schieramenti per mezzo di una successione vorticosa e confusa di scenette che, nelle intenzioni della regia, dovrebbero risultare buffonesche e caricaturali. In ordine sparso: una battaglia a torte in faccia, le pseudo-imprese della controfigura di Rambo con minicamera annessa, il melodrammatico addio delle donne degli Orazi ai mariti, un interminabile dibattito su archi e frecce. Al tutto lo spettatore assiste come un osservatore casuale, ben presto annoiato e niente affatto coinvolto: d’altronde né il prologo futuribile, né l’epilogo semplicisticamente moraleggiante riescono a convincerlo che quanto sta vedendo sia qualcosa di più di un’esercitazione, autoreferenziale e, a tratti, decisamente velleitaria. Laura Bevione

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