Hystrio 2006 3 luglio-settembre

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Pechino

Il teatro cinese sta emergendo sulla scia della crescita economica nazionale - Ma quanto rischia di contaminarsi per far piacere a noi?

Pura acrobazia made in China di Anna Ceravolo ne world, one dream», lo slogan scelto per le Olimpiadi in Cina del 2008 incrocia d’improvviso e senza requie lo sguardo del passante anche più distratto, ammicca dai muri, scorre via insieme ai mezzi pubblici. Si intercala nel paesaggio urbano come un refrain condannato alla noia. E mancano ancora due anni. Pochi, per gli ambiziosi progetti di ristrutturazione che hanno in mente gli amministratori. Le ruspe lavorano a ritmo ininterrotto e la foresta di gru che avanza tra i grattacieli già innalzati o tra gli ultimi lembi di terra vuota mette addosso un sordo malessere. A Tianjin, i muri perimetrali dei palazzi coloniali - tutto quanto è rimasto in piedi di queste vecchie, inquietanti dimore -, racchiudono solo cumuli di macerie. Tutto è stato volontariamente demolito, e tutto è da rifare. Nel più breve tempo possibile. Ma è come se la città fosse stata bombardata fino a ieri. No davvero, i cinesi non hanno né l’opera di Pechino, né tantomeno l’opera qinqiang o la kunjiu, né, ugualmente, il “dramma parlato” per la testa. Il teatro riguarda esigenze remote. Ci vuole poco a farsi l’idea che sia rimasto una curiosità per turisti o un passatempo serale per gli expats di stanza nell’“impero di mezzo”. E a dimostrazione che il gradimento “estero” sia preso per dogma, vi è il caso dei monaci Shaolin, dichiarati superstar dopo le tournée internazionali. E anche loro, non si creda, in patria si esibiscono soprattutto per un pubblico non cinese, che torna ad applaudirli dopo averli visti a casa propria. Certo, si tratta solo di un’impressione determinata da una visita frettolosa. Ma scena analoga a quelle viste in Cina si è ripetuta a Milano, quando la scuola dell’Opera di Pechino si è

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esibita al Teatro Strehler lo scorso maggio. Bene, il Teatro Strehler si trova a confine con la frenetica, milanese China Town. Eppure, in platea, si contava una sparuta, minima “delegazione” cinese. Lo spettacolo presentato in Italia è stato del tutto in linea con quanto si è potuto constatare sui palcoscenici cinesi. Cioè, seppur perfetti ed entusiasmanti, gli spettacoli si riducono a frammenti di opere che si inseguono uno dietro l’altro. In cui lo svolgimento di una trama viene meno, lo sviluppo della creazione drammatica si intoppa e resta sospeso, perché quel che importa è dare una dimostrazione dei generi che include l’opera cinese (acrobazia, recitazione, musica, canto, danza, arti marziali) e della impareggiabile capacità degli artisti. All’esasperazione di questa formula non sfuggono, dopo gli incontri diplomatici, i capi di stato, immortalati in innumerevoli foto, invitati a passare qualche ora alla Lao She Teahouse (casa da tè) di Pechino. Lao She essendo uno scrittore di teatro, e Teahouse la sua opera più famosa, nonché il luogo dove oltre a consumare il tè, a fine ’800 si tenevano rappresentazioni teatrali. Lì vi si dà una sorta di varietà, tutti numeri che si rincorrono, dalla piccola orchestra all’attrice, dalle cantanti alle ballerine, dall’acrobata al “Fregoli” dell’opera che muta freneticamente la maschera, mentre il pubblico sgranocchia minute delicatessen innaffiate di tè. Sappiamo tutti che la Cina fa notizia. Temuta rivale o partner di comodo, sulla Cina si stanno sprecando fiumi di inchiostro. Soprattutto sulle pagine economiche dei quotidiani. E la sensazione è che la diffusione delle arti performative che fanno capo all’opera cinese sia uno strumento per sciogliere il ghiaccio della diffidenza occidentale. Non è un caso, perciò, che gli spettacoli abbiano assunto la forma di cui si diceva.


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