La stabilità del rettangolo

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avvicinò alla finestra socchiusa. Fuori c’era l’aria mite dell’autunnale crepuscolo romano. L’assenza di umidità dava ai lampioni, non ancora accesi, un vitreo lucore bruno. Chiuse la finestra e tornò alla sedia. Accese la lampada, che diffuse una luce quieta e azzurrina sulla pagina e sul tavolino. Scrisse ancora per un po`. Alzandosi sussurrò: «Fusione di affetto e distanza». Più tardi, mentre si preparava a scendere per la cena, telefonò a suo padre. Manifestò il proprio entusiasmo per l’incontro con un circolo politico culturale così distante dalle loro idee e alle sue preoccupazioni oppose la necessità del dialogo. Il Professore le comunicò che proprio l’indomani sarebbe stato in ospedale per i controlli, anticipati dal medico per l’improvvisa disponibilità dei macchinari. «Non voglio che tu vada solo». «Verrà Elena». «No. Deve venire Ernesto. Non voglio stare inquieta». «Obbedisco!» rispose il Professore. «Bravo». Dopo averlo salutato, telefonò ad Ernesto per chiedergli di non partire e di accompagnare il padre. «Farò da sola, per questa volta. Sta tranquillo». Finita la cena tornò in camera e seguì un programma televisivo, ma spense presto e si mise a letto. Non aveva tirato giù le tendine e la stanza era rischiarata dalla luce argentea e muta di una luna fredda e lontana. Uscì dal letto e le abbassò. Dalla prima luce Edit era seduta al tavolino. Il molle chiarore dell’alba si affacciava con un rosa smaltato che scivolava sul verde tenero e dava alla stanza una compostezza insieme familiare e distante. Scriveva con il suo solito modo veloce ed intervallato. Durante le pause, quasi cadenzate, a volte restava seduta e

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