February 2018

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Anniversari: il Sessantotto a Gorizia, 50 anni fa, tra manifestazioni, proteste e chitarre di Vincenzo Compagnone

“Siate realisti, chiedete l’impossibile!”. Sono trascorsi cinquant’anni da quando quello slogan, insieme ad altri simili (“Proibito proibire”, “L’immaginazione al potere”, “Una risata vi seppellirà” e l’immancabile “Fate l’amore, non la guerra”) risuonava e sventolava in ogni angolo del mondo. Era il 1968: l’anno simbolo delle rivolte studentesche, delle proteste contro la guerra in Vietnam, della primavera di Praga e degli omicidi di Martin Luther King e di Bob Kennedy. Il maggio francese (“Ce n’est qu’un debut, continuons le combat”) fu il focolaio di un malcontento e di una voglia di cambiamento che da lì a pochi mesi si sarebbe propagata in tutte le maggiori città europee. L’anno in cui – per un’intera generazione di giovani – l’utopia pacifista, internazionalista e libertaria sembrò davvero a portata di mano. Bastava scrollarsi di dosso le catene, allungare le dita e afferrarla. A fungere da catalizzatore era il rifiuto di ogni forma di autoritarismo, in una protesta che coinvolgeva per la prima volta l’intero ordine delle cose, scagliandosi contro più nemici: dai costumi sociali (di stampo bigotto) ai drammi internazionali, dall’imposizione di una cultura dominante alla repressione sessuale. Era ieri o erano secoli fa? Il ’68 resta una data-simbolo che non smette di essere mitizzata o demonizzata, rimpianta o denigrata. E c’è da scommettere che, in un anno di grandi anniversari (primo fra tutti il centenario della fine della Grande guerra) il dibattito ancora una volta tornerà ad animarsi. Ma Gorizia come visse quella stagione di grandi fermenti, di appassionate aspettative e di successive delusioni? Dieci anni fa Isonzo-Soca, il periodico diretto da Dario Stasi, ne ricreò il clima con un pregevole reportage fotografico, che attingeva dagli archivi personali di vari goriziani. Le immagini restituivano il sapore retrò “di una realtà – così scriveva il periodico – fatta di amicizie e future lacerazioni, di impegno sociale e battaglie civili, di partecipazioni di massa e coraggiose scelte individuali, in una città di provincia che ebbe il merito, quantomeno, di consentire l’avvio dell’esperienza di Franco Basaglia e di tutto il suo gruppo”. “L’istituzione negata – Rapporto da un ospedale psichiatrico” uscì proprio l’anno in cui il periodo goriziano di Basaglia volgeva al termine, e divenne subito, in quanto bibbia del superamento dell’istituzione-manicomio, un libro cult dell’epoca, al pari dei saggi di Herbert Marcuse (“L’uomo a una dimensione”) e accanto a film come “I pugni in tasca” di Marco Bellocchio o l’americano “Fragole e sangue”. Le fotografie riprodotte da Isonzo-Soca nel 2008 mostravano le prime manifestazioni lungo le vie principali di Gorizia, a partire già dal 1967 quando si tenne la prima sfilata contro la

guerra nel Vietnam e il corteo delle scuole superiori per il famoso “protosincrotrone” di Doberdò che avrebbe dovuto assicurare nuovi posti di lavoro nella nostra provincia (dopo mille polemiche il macchinario fu realizzato invece in Svizzera). Sempre nel 1967 ebbe luogo il concerto “Chitarre contro la guerra” (del Vietnam) in piazza Cesare Battisti, che ottenne un grandissimo successo fra i giovani. Nel 1968 le manifestazioni si intensificarono ed è curioso notare come, nel look dei giovani, alle giacche e alle cravatte si sostituirono in breve tempo eskimo e borse di tela verde, capelli e barbe lunghe e minigonne. I più attivi e politicizzati erano i ragazzi degli istituti tecnici e professionali, che una mattina, in sciopero, fecero irruzione nella sede del Classico per stanare i più tranquilli liceali, provocando anche il ruzzolone di un’insegnante. Protagonisti delle sfilate non furono solo gli studenti ma anche gli operai, con un corteo di trattori in corso Italia e l’occupazione della Safog di Straccis. Nel ’68 un giovane sacerdote di 36 anni, don Alberto De Nadai da Salgareda, si prodigava a Sant’Anna per costituire – così gli aveva detto l’arcivescovo Pangrazio - una comunità parrocchiale in un quartiere periferico in pieno sviluppo edilizio, celebrando la messa sotto un portico (la chiesa fu costruita appena nel 1971), mescolandosi alla gente, andando a trovare a casa i malati e giocando a pallone con i ragazzi nel campetto del rione (Per chi non lo sapesse, nel 1976, contestato dai benpensanti che lo accusavano di essere un “prete comunista”, fu rimosso dall’incarico e fondò la Comunità cristiana di base). E infine nel 2008, l’anno del reportage rievocativo di Isonzo-Soca, venne a Gorizia per la prima e unica volta nella vita Mario Capanna, lo storico leader studentesco del ’68, poi deputato di Democrazia proletaria. La Digos, che pensava fosse ancora un pericoloso sovversivo, spedì due agenti a buttarlo giù dal letto all’hotel Transalpina alle 2 di notte per perquisire la camera. La mattina dopo il vicequestore Conticchio gli porse le scuse, e nel pomeriggio, intervistato da scrive, presentò all’Auditorium (nell’ambito della rassegna Care Cassandre di Alberto Princis) il suo libro “Il Sessantotto al futuro”. “Non la nostalgia, né l’amarcord e tanto meno il reducismo – scriveva Capanna, che ricordo come persona gioviale e di grande cultura – né la futile boria de “l’avevamo detto”. Ma la (ri) lettura del passato per disegnare compiutamente l’avvenire. Non occorre un altro Sessantotto. E’ necessario qualcosa di più e di meglio, se si vuole che la storia prosegua”. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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