Canzoni e movimento giovanile
MA NON È UNA MALATTIA
SAVELLI
Area, Finardi, Gianco, Lolli, Manfredi, Sannucci, Stormy Six
MA NON È UNA MALATTIA Canzoni e movimento giovanile
SAVELLI A cura di Romano Màdera Interventi di Paolo Hutter, Giovanna Marini, Gianfranco Manfredi, Stefano Segre
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La musica è politicamente sospetta Romano Màdera
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Cari Area, Finardi, Gianco, Lolli, Manfredi, Sannucci, Stormy Six… Giovanna Marini
AREA 38 42 42 43 44 44 44 46 46 46 47 47 47 49
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Per una musica radicale Luglio, agosto, settembre (nero) Arbeit macht frei! Consapevolezza Le labbra del tempo L’abbattimento dello Zeppelin Cometa rossa Zyg (crescita zero) Brujo L’elefante bianco Gioia e rivoluzione Gerontocrazia Giro, giro, tondo La mela di Odessa (1920)
Musica, menate, canzonette, festival pop, movimenti Paolo Hutter e Stefano Segre
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Nostra merce quotidiana Gianfranco Manfredi
EUGENIO FINARDI 50 54 54 56 56 57 57 58 59 60 60 61 62 62 63 64
Canzoni come specchi Caramba Afghanistan Saluteremo il signor padrone Quando stai per cominciare La CIA Voglio Musica ribelle La radio Oggi ho imparato a volare Tutto subito Non è nel cuore Diesel Scuola Non diventare grande mai Scimmia
RICKY GIANCO 66 72 72 73 73 75 76 76 78 80 80 81 82 82 83 84
Tu sei rock e su questo rock costruirò la mia chiesak Sei rimasta sola Tu vedrai Il vento dell’est Un amore Questa casa non la mollerò Rock della ricostruzione Davanti al nastro che corre Ospedale militare Campo minato Nel mio giardino Fango A Nervi nel ’92 Io voglio star bene Compagno sì, compagno no, compagno un cazzo La lettera
GIANFRANCO MANFREDI 108 112 112 113 113 116 116 117 118 76 78 80 8
Comincio dalla crisi Ciclostile L’ultimo comizio Sogno Nonsipà La famiglia Dagli Appennini alle bande Zombie di tutto il mondo unitevi Un tranquillo festival pop di paura Ultimo mohicano Nella diversità I modelli La cicogna
CLAUDIO LOLLI 86 90 92 93 94 96 97 98 99 100 100 101 102 103 104 107
Mollate le menate e menatene l’autore Aspettando Godot Io ti racconto La morte della mosca Ho visto anche degli zingari felici (I e II parte) Compagni a venire Alba meccanica Incubo numero zero La socialdemocrazia Analfabetizzazione Attenzione Canzone dell’amore o della precarietà Canzone scritta su un muro Da zero e dintorni Autobiografia industriale I giornali i marzo
CORRADO SANNUCCI 122 127 128 129 130 132 133 134 136 137 139 140 141 142 144
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Böllarsi La macchina in seconda fila Piombo Dialetti Il vestito vecchio e brutto La morte comincia così Sette paia di scarpe I falò di maggio Anna, la terra e l’acqua Biglietto di ritorno Zuppa di Gemona A casa, a casa Ambulanza Tanto per cambiare La dialettica (l’è un gran malanno)
ARMONIZZAZIONI
APPENDICE 178
I motivi di una polemica Simone Dessì
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Io, uno di quei liberalsocialisti europei Bruno Lauzi
STORMY SIX 148
151 151 152 152 154 154 155 156 158 158 159 159 160 160 161 161
«Una Milano stralunata ma, come suol dirsi, ’civile’ e vagamente giacobina» Garibaldi La manifestazione Stalingrado 8 settembre Dante Di Nanni La sepoltura dei morti Arrivano gli americani Un biglietto del tram L’apprendista Buon lavoro Carmine Il labirinto Arrivano gli americani Rosso Cuore L’orchestra dei fischietti
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Ma non è una malattia
La musica è politicamente sospetta Romano Màdera
Politica e musica
La moda, anche quella politica, ha rivalutato musica, canto e danze. Non che prima del movimento del ’77 le note politiche non esistessero. Anzi. Solo, prima della crisi della figura del militante, più o meno dal ’73 in poi, facevano sfondo, erano parte della coreografia. Come le marce militari rispetto alla battaglia. Decisiva è la battaglia, il tamburo batte nell’intervallo, per tenere in alto i cuori. Le due musiche preferite: bandiera e l’internazionale futura umanità. Per essere futura quella umanità si accompagnava con alcune delle peggiori marcette dell’Ottocento. I particolari del quadro erano forniti da comizi ed esortazioni prosastiche rifocillate da qualche ritmo, pigramente stiracchiato per non annegare la voce recitante. Un revival, adattato come ogni revival che non si rispetti, del poco musicale ma tanto glorioso antenato, il proletariato Ottocento-inizio Novecento. Possiamo azzardare due funzioni al revival. La prima è la stessa della riesumazione, fatta Un revival, senza ordine alcuno, frugando in mezzo ad impettiti adattato come ogni busti di persone gravi con i gesti casuali e un tantinello rozzi di turista in vacanza che fa shopping al Gran revival che non Bazaar, di testi sacri, liturgici e persino della raccolta di si rispetti, del poco immaginette classificate con tanta cura dal movimento operaio. Ogni movimento nuovo, recitava il sacro musicale ma tanto canone, ama prendersi a prestito vecchi costumi, un po’ glorioso antenato, per nobilitarsi ai suoi propri occhi, un po’ per dare ad il proletariato intendere la sua legittimità. Non essendo più prevista la provvidenziale opera di Dio, il riconoscimento del Ottocento-inizio figlio legittimo deve essere, laicamente, scovato dal Novecento. magazzino della storia, moderna dea. Così facevano i rivoluzionari fine Settecento-inizio Ottocento con l’antica Roma (e, mio Dio!, i controrivoluzionari del Novecento) così facevamo noi, tirando la barba di Marx, e di molte altre divinità meno degne, per coprire di panno nobile, di alto lignaggio, le nostre trovate di ultimi venuti. Se poi si cantano gli stessi inni è ovvia la pretesa di ricostruirsi una patente di legittima eredità: siamo noi i continuatori di quelle gesta: delle lotte per le dieci ore, per il voto, Romano Màdera
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della rivoluzione russa ma anche di Che delizia quella anarchica mai fatta, chissà mai, di quella cinese ma pure della resistenza la Storia italiana, di Castro e di Josè Marti, e forse travolta dalla di Bolivar passando per via Lumumba, popolana senza dimenticare Kronstadt che pure era vittima di un altro nostro antenato frenesia della e così via. D’altra parte, l’Edipo di Sofocle, tarantella. senza aspettare Freud, già lo sapeva che nelle storie di famiglia il volerla saper lunga costa caro. E infatti meglio, meglio assai davvero, ricordarsi le fanfare. Così Addio Lugano bella, L’internazionale di Lenin (e di Stalin), prendiamo la falce e il martello, le otto ore, Che Guevara, Gorizia… cantiamo ragazzi che arriva il vino, potrebbe scapparci un tarallo! Che delizia la Storia travolta dalla popolana frenesia della tarantella. La seconda funzione di tanto riesumare era quella di arrivare, come nelle commedie piene di equivoci, all’inequivocabile riconoscimento: che mamma storia ci dicesse, oggi, riportandocelo a casa per guidare la famiglia, che il nostro papà era davvero lui, il proletariato dai tanti figli. Benché molti ancora si ostinino, questo padre di consueto così partecipato e serio, ci tollera, al massimo,come figli adulterini, nati dalle sue meno serie avventure. Il proletariato organizzato, disciplinato e unito dalla fabbrica, camera nuziale del suo connubio, si diceva,col socialismo scientifico, non ci può soffrire. Preferisce i certificati, fa genealogie al Municipio e davanti allo Stato, sceglie la famiglia, continua ad ungere del suo crisma i primogeniti. Giacca e cravatta e voto al PCI. Qualche volta si incazza, ma è solo una lite in famiglia. Questi cenciolosi, proletari sotto e semi, sfasciume sociale di vario tipo senza neanche nomi precisi, per carità. Non è che già allora non vi fosse chi, inquieto, restio a credere alle ripetizioni, un po’ meno provinciale, si occupava della musica viva del movimento internazionale e vi rintracciava sintomi di quel che si dovesse intendere per la «natura del movimento». Ci vedeva una E affannato si domandava se non vi fosse qualcosa di sorta di movimento più e di meno delle avvisaglie di una ripresa proletaria rivoluzionaria. Ci vedeva una sorta di movimento concontroculturale, troculturale, insomma una lotta di civiltà che passava insomma una non più tra una classe e un’altra ma che attraversava la classe stessa. lotta di civiltà che Mi parrebbe segno di accademismo, vieta puzza sotto il passava non più naso, non avere il coraggio di dire chi. Questo «chi» tra una classe erano poche persone, raccolte principalmente attorno a «Re Nudo» e ad Andrea Valcarenghi. Capita spesso di e un’altra ma che sentire qualche ex leader operaista attribuirsi la paterattraversava nità del Movimento. Non solo queste affermazioni non la classe stessa. tornano in musica ma neppure possono essere sessuate,
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Ma non è una malattia
tanto meno provengono da zone di coscienza alterate. Va da sé che ai bei tempi si sbeffeggiavano, sputacchiavano, si consideravano beoti i pochi embrioni, gli annunci sintomatici dell’interiore evoluzione-rivoluzione che di lì a poco avrebbe sensibilmente mutato gran parte del movimento di opposizione. Quindi, da una parte la musica, nel bene e nel male, sentita da tutti o quasi, dall’altra il giudizio politico e le marcette, anche qui da parte degli stessi tutti. O quasi. La consueta divisione fra sensibilità culturale e riduzione razionalistica della cultura politica o della politica Quindi, da una culturale. È confortante che nel ’73 qualche politico, come Gianfranco Manfredi, prestasse orecchie attenparte la musica, te all’altra sponda e cominciasse a fare dell’ironia, nel bene e nel male, in musica e versi, sul preteso universo chiuso della sentita da tutti militanza. Non a caso, credo io, l’oggi risibile nuovo modo di far politica agitava mente e passioni di quello o quasi, dall’altra strano gruppo, era d’avanguardia va detto, di gente il giudizio politico sbagliata nel mestiere sbagliato col nome sbagliato, che e le marcette, anche era il «Gramsci». Il ’73 è un anno di grande crisi del movimento del ’68. qui da parte degli L’impotenza, che ben pochi seppero misurare, delle stessi tutti. O quasi. ricette partitiniche, leniniste comunque denominantesi, la miseria dell’universo scandito dalla coppia di concetti classe e Stato, covava sotto il fuoco fatuo della sinistra rivoluzionaria gruppuscolare. Dio dollaro che dal ’71 si scuoteva nel tentativo di Sisifo di rimettere in sesto il suo mondo accendeva le faville della crisi mondiale sotto barili di petrolio. D’improvviso appariva concreta la dimensione dello scontro, l’arena era il mondo, e non il mondo che tifava per il Vietnam senza avere il cannone in casa, il mondo che spareggiava i conti ogni tre mesi con la lira. Carli, Banca e Governo apparvero per quel che erano e sono, anche se Carli ha cambiato mestiere, marionette dell’invisibile burattinaio a nome mercato mondiale. Né più vicino, era possibile confortarsi tanto. Mirafiori imbandierata a grande sezione di Lotta continua concludeva una tormentata stagione d’amore. L’avventura era finita proprio quando la conquista pareva riuscita. Di lì a poco, ritrosa e stizzosa come una vera moglie, la classe operaia organizzata, la speranza universale di liberazione, sarebbe tornata, malinconicamente, tirando calci e sfuriate, al tetto legittimo, nella pur vana speranza di avere un marito decente. Ma forse la storia li ha sposati così e, in fin dei conti, se non si sa volere altro che il proprio male, recita il proverbio, non c’è che da piangere se stessi. Di soppiatto la politica dei gruppi si aggiornava, essendoci costretta. In fondo perché restare fedeli alle marcette, una volta scoperto che l’operaio adulto e maschio tirava per le lunghe e che, all’inverso, i giovani, proletari semi e sotto e per niente, le donne, i diversi, allentata la speranza e la possibilità di scaricare le energie che protestavano contro la gabbia della Norma, e della Conformità Romano Màdera
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al Mondo Così Com’è (meglio, al Mondo come la sua faccia in luce attesta, bluffando, che sia) e di realizzarle in militanza, nicchiavano ormai ai richiami di mobilitazione? Meglio darsi una spolveratina. Fare concerti. Farli divertire questi ragazzi prestando loro qualche secondaria attenzione. E in fondo a suon di musica ci si finanzia. Non è stato così. È stato un benedetto vaso di Pandora. Pandora era curiosa, intelligente, non le piaceva un mondo che serbava i suoi malanni sotto il coperchio, per questo lo tolse. Mille fili cominciarono a ritrovarsi, anche se qualcuno ritiene che l’unico sbocco del sensibile mondo che cerca di farsi luce sia ancora sempre e soltanto quello della politica. Pandora era Ma per essere soltanto o fondamentalmente quello curiosa, intelligente, della politica, la canalizzazione di un mondo sommerso (da secoli e, o, da millenni e, o, da sempre), mondo di non le piaceva un corpi, di sensibilità, di forza, contro mondi di logiche mondo che serbava i oggettive, di valori, non può che essere canalizzazione di distruzione, violenza anch’essa macchinizzata, nuova suoi malanni sotto negazione di corpi, sensibilità, forze, fantasie. Mille fili, il coperchio, a matassa, spesso sgradevoli a vedersi, si ritrovano. per questo lo tolse. Nessuno riesce a fornire loro, per fortuna, e per questa fortuna si sono così brillantemente sbrigliati nel ’77, una solida prospettiva «politica» per il futuro. Sono come erano i loro albori negli USA, dopo lo squallido ritorno dalla Corea a metà degli anni ’50, come l’Urlo di Ginsberg annunciava, una malattia di questo mondo, e per questo tendono a rappresentare il sintomo di una nuova civiltà, una misura e una forma di relazione totalmente diversa fra il mondo sommerso e negato e il mondo sommerso e affermato di questa civiltà, della civiltà cristiano-borghese realizzata come tecnica della produzione e del dominio, del disperato dominio della natura e della società. L’urlo di ciò che è stato affogato, quasi senza interruzione, lungo più di quattrocento anni e per certi aspetti più di duemila anni e per certi aspetti da sempre, non è un gridolino educato. D’altra parte per orecchie così assordate come le nostre, solo urla feroci possono pretendere di essere udite. E forse solo un po’ d’Africa trapiantata al colmo della disperazione americana poteva favorire il parto di una musica del genere. Una musica che richiede anche gambe, va detto, è già un bel passo, non si sa per dove, l’importante è che sia un passo, e non di marcia. Tuttavia questo non è che un aspetto. La vecchia società, sotto il manto rosso che non è più del pazzo ma del rivoluzionario lucido, macchinalmente preciso, almeno così vuol essere, cerca l’addomesticamento. Vuole che si accompagni la lotta politica. Vuole una musica belletto. Una nuova edizione delle marcette. Finardi è purtroppo esemplare. Dice bene e riesce, sì, a vendere proprio per questo «una musica ribelle che ti entri nella pelle» ma a far che? Per «smettere le menate» e «metterti a lottare».
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Ma non è una malattia
Menata, quando ero fanciullo, era la masturbazione. La masturbazione è in effetti un eccellente metro per giudicare dai sintomi la vitalità di un mondo. Pan, il dio pan, il capro, il dio cornuto, il dio energia del tutto, il dio del desiderio, era, per i greci, il dio che era presente nella masturbazione. Si dice che marinai abbiano udito, regnante Tiberio, cristianesimo all’orizzonte, un urlo: «Pan il grande è morto». Finardi vuole la musica non per la masturbazione, faccende tra loro più affini per chi abbia orecchie non solo sulla testa ma sulla spina dorsale e sappia captare i brividi strani che la risalgono e che eccitano ascoltando musica non domestica o da cortile, brivido che ha lontane parentele con l’impulso masturbatorio, Finardi vuole musica per mettersi a lottare. Finardi è un po’ prete (cattivo) e un po’ generale: cioè è un cantante da messa, politica s’intende. Non a caso, politica e messa, si servono con musica: sì, per trasferire indebitamente l’eccitazione musicale sull’adesione ad un discorso, a dei valori. Ogni politica, come ogni etica, è logicamente ed emotivamente debole. Né la ragione né le pulsioni possono fondare i divieti, le prescrizioni etiche e politiche. Caso è il contrario. Allora si portano pulsioni musicalmente suscitate, vi ricordate Orfeo e le fiere ammansite?, ad identificarsi con una rappresentazione ideologica, in modo da impedire una critica solo lucida e, fissandole alla rappresentazione, impedire che le pulsioni vadano per conto loro. Ho scelto Finardi che eccita, perché si lotti, come emblema di tanta, troppa gente della musica di movimento. Scelgo Manfredi al polo opposto, che spinge la critica alla politica nel testo così a fondo da far nascere desideri musicali al di là del sostentamento forzato, del tributo, che la musica continua a pagare alla politica. Entrambi, presi insieme come due poli che definiscono Una musica che metaforicamente uno spazio, rappresentano bene il ferrichiede anche mento che trascina il movimento, e noi che siamo mossi dagli stessi fermenti: ora nel volere nuove rappresentagambe, va detto, zioni politiche, ora nel voler oltrepassare questa è già un bel passo, prescrizione assoggettando il politico bue all’affermanon si sa per dove, zione di una cultura, nel senso di coltivazione, della vita. Poiché fino ad oggi si è soltanto recintata la vita, si è coll’importante tivata la difesa e la reazione alla vita, pretendendo, è che sia un passo, in questo modo, di vivere. Ci tocca adesso chiarire quale non di marcia. cosa del rapporto fra musica e politica.
Romano Màdera
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Musica e politica
Musica e politica: se teniamo l’occhio su quella «e» che unisce i due termini potremo renderci conto dell’inganno. Non si tratta, infatti, di un tranquillo ritrovarsi, né tampoco di una facile unione, si tratta di una lotta che l’opaca rassegnazione al buon senso vorrebbe, e vuole decidere: già nel segno di una vittoria della politica. Le «e» dei termini messi accanto a questa deità divoratrice li accompagnano come guinzagli di cani condotti, senza saperlo, in una passeggiata il cui segreto è la camera a gas, la morte per asfissia. Così vuole la parola scritta, così ha voluto spesso la ragion di stato, o di nazione, o di partito, o di chiesa. Il numero è infinito, dei tentativi ripetuti di far servire la musica da belva fiaccata, da tigre ingattita, aggiogata al carro di trionfo di una qualche impersonificazione delle istituzioni. Dal canto gregoriano alla musica della riforma e della controriforma, alle marce militari, a Goebbels che gonfiava il suo povero destino cercando di trafficarlo, con l’emozione del destino stesso che risuonava dalla quinta beethoveniana. E alle celebrazioni sovietiche, e alla nona cantata a Pechino nel giorno della vittoria. Ma la musica è una belva difficile, la sua mansuetudine può rivelarsi d’un tratto selvaggia, può ricordarsi della sua origine e servirla, invece di inchinarsi ai suoi effetti. Accadde così che Beethoven, passeggiando con Goethe, a differenza di quest’ultimo, non si tolse il cappello davanti alla famiglia imperiale. Lenin si emozionava tanto come ascoltatore di musica da proibirselo, per non disturbare la autocreazione di sé come perfetta macchina al servizio della causa proletaria. Settembrini, l’ideologo dell’umanesimo progressista della Montagna incantata, sentiva la musica come «politicamente sospetta». Il politico teme per il suo mestiere-identità e allontana da sé questa fonte di possibile disturbo. Ha profonda ragione, il suo istinto da animale di città è percorso da tremiti all’annuncio dell’inattesa ferocia che la musica, quando non sia addomesticata in funzione illustrativa di altro, spira da sé. Come spiegare questi combattenti strani, da quali lontane regioni giunge a noi la loro inimicizia? Se Ma la musica è una Marx trova un limite alla sua capacità di spiegare e quasi si sofferma su di una soglia di mistero, ciò gli belva difficile, accade di fronte alla grande poesia greca e alla tragedia. la sua mansuetudine Su quella soglia invece nasce il volo prodigioso di Nietzpuò rivelarsi sche, che indaga la tragedia per riscoprirvil’origine d’un tratto selvaggia, nello spirito della musica. Gli interessi, le vesti di cittadino e, in genere, la rapprepuò ricordarsi sentazione di una parte — e allora, ben capite, ogni della sua origine partito! — sono un’estensione del sentire il discontinuo, la separatezza degli individui fra loro e in loro, e servirla, invece e il nesso solo sociale che li collega; l’agire politico di inchinarsi implica lucidità e calcolabilità, attenzione al rapporto ai suoi effetti. di forza, non travolgimento corporeo in balia di una
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Ma non è una malattia
scossa che ne esige il desiderio di rifusione con il tutto: «Si trasformi l’inno alla “gioia” di Beethoven in un quadro e non si rimanga indietro con l’immaginazione, quando i milioni si prosternano rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è uomo libero, ora s’infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la “moda sfacciata” hanno stabilito fra gli uomini. Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso. [...] L’uomo non è più artista, è divenuto opera d’arte: si rivela qui fra i brividi dell’ebbrezza il potere artistico dell’intera natura, con il massimo appagamento estatico dell’unità originaria. Qui si impasta e si sgrossa l’argilla più nobile, il marmo più prezioso, l’uomo, e ai colpi di scalpello dell’artista cosmico dionisiaco risuona il grido dei misteri eleusini: Vi prosternate, milioni? Senti il creatore, mondo?»¹ Non è questa una via di liberazione, per lo schiavo e per il padrone, una via di ebbrezza che la troppo lucida mente del politico, di Settembrini e di Lenin, non può che avvertire come ostile, mistificatoria, oppiacea, tanto pericolosa quanto trascinante e seducente? La macchina del partito, il quadro comunista, non deve sentire le note rapinose che ne cancellano l’identità di ruolo, l’essere politico, il rappresentare una parte contro un’altra. Nel trionfante corteo dionisiaco una parte e l’altra si rivelerebbero, persino nei loro più sanguinosi reciproci affronti, maschere dello stesso gioco, e l’attore nella musica volgerebbe, inquietamente, gli occhi su di sé, ridendo fino a scoppiare di un travestimento che è la sua stessa pelle. Ci sono tempi oscuri, o troppo chiari, forse troppo patinati, tempi nei quali la vista, attratta dalle superfici che le si offrono così nette rimane catturata, e l’abile potenza del serpente danza ridicolmente alla pantomima suggerita dall’incantatore. Tempi così lindi da inorridire dell’orrido, così esperti nel confinarlo, nell’uguagliarlo al listino di borsa e all’andamento del traffico. I carri funebri passano inosservati e, se osservati, ingiuriati dall’esorcismo più vigliacco. Nel più funebre mondo mai spettacolarizzato sulla scena del tempo. In questi tempi così chiari ogni accenno all’abisso deve essere immantinente riscattato: se brucia una città stiamo sicuri di leggere la mattina dopo le più sperticate lodi dei pompieri o la più accesa denuncia dell’inefficienza dei pubblici poteri. Le luci sono così potenti da non lasciare ombre sull’identità dei personaggi: tutti si sentono molto «se stessi». Il miracolo è fatto: tutti sono ognuno ma nessuna sospetta di chiamarsi nessuno, e si appoggia sicuro sulla sua identità irriproducibile, che è la pura e semplice geometria di un naso storto così e non dritto colà. Tant’è quanto resta dell’individualità. Marx aveva strappato
Tutti sono ognuno ma nessuno sospetta di chiamarsi nessuno, e si appoggia sicuro sulla sua identità irriproducibile.
1. F.Nietsche, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 1977, pp 24-5.
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almeno parte del segreto alla sfinge: le persone sono persone, maschere di cose, di cose-merci, di quantità di «valore». Ma nature troppo deboli, troppo figlie del loro tempo, hanno letto i suoi messaggi. L’aria tragica che vi circola, di teatro dell’orrore e del vuoto, è stata sostituita con accorte esortazioni proteiniche a farsi forza e a non smettere di lottare né tampoco, di sperare nell’avvenire. Queste nature sfatte (e il significato è letterale: in ciascuno in quanto uguale agli altri, in questa civiltà, la natura è sfatta), queste illusioni individuali, illusorie quanto atomi distinti che pretendano differenziarsi solo perché sono distinti, come potrebbero reggere l’immersione che la musica suggerisce e talvolta compie al di là dell’io, delle tranquille certezze, in un continente di affinità così strette da confondersi e da soffocare le distanze poste fra sé e il sentimento «panico», totale della vita? In quel continente il più atroce dolore fa soltanto la sua parte nell’orchestra, la tragedia conosceva così bene la mappa di quest’avventura da innalzarla alla visione del mito, ripetendo in esso lo sforzo di una nuova individuazione, che nasce proprio da e rimane nel continuo rischio dell’annichilimento, rappresentato dalla musica nel grande tutto. Verità storica o figura dell’anima, poco importa: la metafora dice bene quel che deve dire, l’atteggiarsi di fronte alla vita, e alla morte, ma anche all’amore, al sesso, ai bambini, a uno stadio, a un’aggressione, a una frase tagliente, a una malinconia, a un abbandono, a uno scuotimento rassegnato di testa pesante dopo il numero non numerabile dell’ultima delusione patita. Una musica tale da essere presa sul serio e tale da farsi prendere così sul serio è incompatibile con un mondo di pallidi automi. Renderebbe senza sosta intollerabile l’intera rete dei rapporti sociali e sociali tra sé e Sé. Instillerebbe il dubbio a questi automi-persone cancellandone la tronfia sicurezza di esistere individualmente. A questa musica bisogna proibire la nascita o, nel caso, spingere a fondo la degradazione del gusto fino all’eguaglianza istupidita fra Petrus Boonekamp e dramma sinfonico. Non certo per caso trionfa Malebolge della Canzone. Dove tutto è rifuso e rifondibile, Charlie Parker Vivaldi la mondina e John Cage. La musica pericolosa è omologata alla Una musica tale canzone (disco, impianto, come si da essere presa sente bene, questo qui ha vent’anni) sul serio e tale o esorcizzata all’antiquariato dei Conda farsi prendere servatori e delle Gioventù Musicali. La politica, persino nei casi più musi- così sul serio cali di storia politica (la Rivoluzione è incompatibile francese o quella cinese), non può che cercare di addomesticare la musica. con un mondo Di farla diventare, lei, negatrice delle di pallidi automi.
Queste nature sfatte come potrebbero reggere l’immersione che la musica suggerisce e talvolta compie al di là dell’io, delle tranquille certezze?
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Ma non è una malattia
parti se non nella partitura, nazionale, di classe, di ceto, di età ecc. ecc. Di piegarla proprio come la natura a scenario, funzione illustrativa ed esortativa dell’azione: o scimmia ammaestrata per stuzzicare i passanti ad entrare nel tendone del circo politico. Per la politica tutto deve essere macinato nello stretto imbuto della storia e dei problemi «concreti». Ciò che fuoriesce, quasi tutto ad una considerazione soltanto coraggiosa, deve essere cancellato, messo in secondo piano, tralasciato. Molti segni negli ultimi venti anni hanno parlato diversamente. Una poesia che ha lacerato il museo letterario trovava accenti nella musica, nella musica meno domata perché cresciuta, dalla sua nascita in catene, ben oltre l’altezza del carceriere – Ginsberg – Kerouac – Charlie Parker be bop. Era questa la catena che univa l’annuncio di un movimento di Rinascita, di diversa civiltà, di nuova forma equilibrio e misura fra l’autocratica ragione e l’anarchismo pulsionale. E, irridendo le intenzioni dei suoi esecutori e dei suoi ascoltatori, una specie di simbologia orgiastica ritmata, fra le maglie già costruite di nuove prigioni e nuovi immeschinimenti, si è fatta strada ovunque. In fondo gli ultimi a capirlo, mentre l’immeschinito da tempo prevale, sono i politici che, pateticamente, alla fine, discutono anche di musica. Ancora vorrebbero farla servire alla lotta mentre fragorosamente la nota irride il testo e chiede di battere il ritmo. Qualche altro è invece già un’indicazione: comincia anche nel testo a irriderne le pretese politiche. Speriamo sia un buon annuncio per l’avvenire musicale. E chi ha tempo per la musica, e per le altre Muse sue sorelle, avrà sempre meno tempo per l’idiozia. Cioè per la civiltà E chi ha tempo cristiano-borghese che ne è il festi- per la musica, val, tragico e bello in questa figura dell’idiota, ma proprio per questo ripe- e per le altre titivo, solo ossessivo e autocratico. Muse sue sorelle,
Per la politica tutto deve essere macinato nello stretto imbuto della storia e dei problemi «concreti».
avrà sempre meno tempo per l’idiozia.
Romano Màdera
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Cari Area, Finardi, Gianco, Lolli, Manfredi, Sannucci, Stormy Six, Giovanna Marini
devo fare troppe premesse accingendomi a parlare di voi. Per alcuni devo addirittura svitarmi la testa e guardarla li a fianco a me, che ascolta, perché io non riuscirei mai, per una forma di «sclerosi da educazione musicale classica», ad ascoltare questa musica con divertimento e godimento tanto è lontana da me, anche per date di nascita, per modo di vivere, di pensare e di organizzare la giornata: che poi è cultura. Ma questa musica, anche se non la so ascoltare, spesso la vivo vicino, conosco chi la fa, la pensa, la vive, magari gli voglio bene, come a Claudio Lolli; e allora l’ascolto ne rimane confuso, cancello quello che proprio per me non ha senso e cerco quello che ne ha, faccio insomma già un lavoro di selezione nell’ascolto per continuare a conoscere, vivere, accettare. Pensate un po’, quindi, come le mie parole sono poco attendibili. Altre volte, quando invece l’autore non lo conosco, ma ne sono perseguitata per il gran parlare che se ne fa, me ne allontano sempre più a un punto tale che la sua musica mi sembra una lingua tutta negativa, non la voglio ascoltare, mi è antipatico lui e la sua musica, lui perché non lo conosco ma me lo fanno conoscere per forza; pensate un po’, anche in questo caso, che disastro i miei giudizi musicali, quanto poco equilibrati i miei pensieri. Premetto tutto questo (e chissà quanto altro ancora) per dire che quando mi chiedono di parlare di voi vado sempre in crisi perché quando si studia qualcosa, quel qualcosa poi diventa sempre importante. Ricordo, in orchestra, dei pezzi orrendi (anche se cinquecenteschi non è detto che Cinquecento e bellezza vadano necessariamente d’accordo): ebbene, dopo studiati, mi ci ero affezionata, mi ero affezionata all’introduzione di Anima Li considero e corpo di Emilio Cavalieri, una cosa noiosissima; quelle come le voci che lungaggini, quelle ripetizioni le giustificavo, mi ci ero affezionata. Ora ai dischi che ho qua davanti — dopo un primo raccontano le momento di rifiuto, anche per il lavoro da fare — mi ci sono nostre giornate, affezionata, ve li racconto, non li giudico, sarebbe per me adesso. impossibile, li considero come le voci che raccontano le
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nostre giornate, adesso: quindi da ascoltare. Ho sentito molte volte suonare gli Stormy Six e quello che mi ha sempre impressionato di loro era lo studio. L’esecuzione precisa al millimetro, i cambiamenti di ritmo (e li prediligono) sempre eseguiti come un sol uomo; gli incisi sviluppati in fugato (e li prediligono), sempre esposti con grande fermezza ritmica, il canto non melodioso (vedi Rosso) bensì scelto nota per nota in modo da essere di difficile previsione e quindi di difficile intonazione (e da un po’ prediligono anche questo), sempre intonatissimo. Quello che apprezzo negli Stormy, oltre tutto questo, è il rigore di studio. Dovrei parlare con loro un po’ per sapere esattamente che cosa si prefiggono ma certo è che all’ascolto del loro disco L’apprendista ci si dice: questi stanno portando avanti un’ipotesi musicale, con grande rigore, non deflettono. Posso anche azzardare quale sia esattamente questa ipotesi: la canzone come comunicazione di culture, non solo «racconto», ma esposizione orizzontale di percorsi musicali e ritmici stratificati e sovrapposti fino al giorno d’oggi in vari strati della società, riassunti e portati «in blocco» alla conoscenza della gente; così che nella canzone ognuno può rinvenire il suo proprio percorso culturale, ma rinvenirlo in modo sintetico assieme agli altri (esemplare la canzone dei «fischietti») ma in ognuna è questo assunto. A tutto questosi sovrappone anche il discorso lessicale, (ottima la consonanza musicale fra parola e note nel nome di Carmine: che riassume in un solo inciso tutto il discorso che vado facendo sulla corrispondenza di parlato e di cantato nella musica urbana). Insomma sul piano teorico gli Stormy Six procedono in modo egregio, ogni loro brano è non solo un racconto ma un’esemplificazione di uno stile: Rosso è rigorosamente composto secondo la scelta di dodici toni o semitoni non in connessione tra loro (Schoenberg), ogni brano contiene lo sviluppo degli incisi ritmici e melodici dell’esposizione, ogni brano parte con un tema «ragionato» (Cuore), propone i salti di quinti in progressione. La «canzone» degli Stormy Six (e si tratta di forma «canzone» ABA in cui B è l’inciso sviluppato solitamente in modo fugato, rigorosamente contrappuntistico) è esemplare per la messa in pratica di questa famosa ipotesi di lavoro a cui accennavo prima secondo uno stile raffinatamente colto. Ora, questa mattina ascoltavo la loro vecchia Stalingrado e Gianfranco Mattei ecc.: certo, ci si domanda se il fascino degli Stormy Six per me non fosse stato piuttosto (visto retrospettivamente) questo incongruo appiccicare un sonante rock con voci per terze a un impianto colto, sofisticato.
La canzone come comunicazione di culture, non solo «racconto», ma esposizione orizzontale di percorsi musicali e stratificati e sovrapposti.
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Questo ibrido così esemplificativo di una generazione bersagliata da scatole sonore tanto diverse da quelle della musica colta, tranquillamente mescolate ad essa come facevano anni fa gli Stormy Six. Mai dire: «era meglio prima»; vi prego di capire che per me significa «era più facile da ascoltare», ma mi chiedo se in queste rigorose esposizioni del disco L’apprendista non si sia persa quella vostra tranquilla irruenza, quella (ma sì, diciamolo!) «ispirazione» che si va frantumando nel conto degli intervalli della canzone Rosso (eppure si sta piangendo Mao in questa canzone), se insomma qualche volta il cedimento al meno rigoroso ma al più lirico non sia salutare. Certamente la «canzone» degli Stormy Six è canzone di alto livello, è canzone matematica direi, tutta ragionata, di questo abbiamo anche bisogno; cioè essa vuole senz’altro un ascolto analitico, non davvero animalesco; il battere le mani a ritmo che da parte del pubblico è stato elevato a «partecipazione», con gli Stormy Six non attacca, non è quella partecipazione lì che essi suscitano e questo è un fatto molto positivo. Questa moda nata con il canto napoletano-sinistra-militante-tammorriata, che rende il pubblico una massa inerte convinta di partecipare perché stanno lì come salami battendo le mani a ritmo è giustamente fustigata da canzoni come Rosso o Labirinto o Cuore dove, se accade di battere le mani, è perché si è operato selettivamente con il cervello quel famoso ascolto analitico che la musica deve suscitare. E in questo gli Stormy Six fanno centro. Rimane sempre da discutere naturalmente quale dev’essere il ruolo della canzone (ammesso che gliene si voglia dare uno). Se è quello di veicolare rapidamente idee e racconti, certo la «canzone» degli Stormy Six risulta di troppo difficile assorbimento ed è infatti impressionante il loro cercare puntigliosamente temi non memorizzabili; trovo però questo fatto positivo, visto che mi sembra assurdo assoggettarci al «ruolo» della canzone così come è inteso nella sua accezione più carosellistica. Del resto anche gli altri che ho ascoltato non fanno più canzoni memorizzabili. Claudio Lolli, per esempio, fa canzoni-discorso, che costringono all’ascolto. Quelle di Lolli, a differenza di quelle degli Stormy Six che costringono ad un ascolto globale, di musiche (e stratificate: musiche aperte, piene di discorsi) e testo, quelle di Lolli fanno ascoltare le parole. Parole elevate ad un «parlar cantando», sostenuto da un groviglio musicale che stento un po’ a decifrare. Nell’Alba meccanica, per esempio, abbiamo, dopo un po’, un tema preciso di bassi in successione discendente, che non è assolutamente nulla di nuovo, serve direi più che altro da punto d’incontro fra i vari strumenti; e questo mi sembra il nuovo stile di Lolli: un parlato cantato
Certamente la canzone degli Stormy Six è canzone di alto livello, è canzone matematica direi, tutta ragionata, di questo abbiamo anche bisogno; cioè essa vuole senz’altro un ascolto analitico.
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seguito da strumenti operanti non sempre un loro discorso autonomo, ma sempre ricongiungentisi in un punto di incontro. Questo dell’appuntamento musicale è un sistema che ha di negativo, musicalmente parlando, che ogni nota non ha un senso se non in vista del famoso appuntamento da raggiungere. Questi sono fra l’altro i limiti dell’improvvisazione musicale: un vagare in attesa dell’appuntamento, senza precise intenzioni. Ora, questo a me sembra uno spreco di energie dato che i testi di Lolli sono stimolanti. Preferisco allora un temino organizzato e portato avanti con ironia quale quello di La socialdemocrazia. Trovo che Lolli ha dato anche negli Zingari degli spunti musicali interessanti, d’invenzione un po’ animalesca, un po’ intuitiva, che andavano trattati con intelligenza musicale fino a farli diventare «discorso musicale» più preciso. Stento a riconoscere, invece, in quest’insieme di suoni, sotto ai testi sempre interessanti di Lolli un autentico «discorso» musicale, sia d’improvvisazione che di precisa proposta e risposta: e ogni volta che colgo un insieme Con le sue che potrebbe essere portato avanti come discorso ma non lo è (come succede in Analfabetizzazione e in Attensofferenze zione, dove infatti il cosiddetto «accompagnamento» di studente che è fatto con organo, o moog, insomma tastiera), mi ramnon cessa di marico. Io entro sempre in stato di apprensione quando credere nelle cose, sento queste non meglio identificate «tastiere» invadere prepotentemente il campo perché per me stanno a nella vita, nella significare una carenza d’invenzione; mi fanno intravesovversione dere fra le righe (o, meglio, fra i suoni), un discorso tipo: «e qua che ci mettiamo?», «mettici un po’ di moog». dei falsi valori. No, meglio niente; i parlati ondeggianti e nevroticamente appassionati di Claudio Lolli non hanno nessun bisogno di «un po’ di moog», meritano qualcosa di meglio. Lo vorrei sentire solo, allora, con la voce un po’ timorosa, un po’ rauca, da persona che non vuole dare fastidio, con le sue sofferenze di studente che non cessa di credere nelle cose, nella vita, nella sovversione dei falsi valori, e che parla e racconta, solo, contrappuntato da un violino, lirico, che magari se ne va per i fatti suoi. Sarebbe meglio, sarebbe più vero: questo impasto di suoni non determinati in un improvvisato privo di meta precisa mi disturba, mi frastorna. Passo a Gianfranco Manfredi, e mi chiedo: va bene, Claudio Lolli «poggia» i suoi testi su un determinato musicale che mi angoscia (tenete presente che quello che musicalmente angoscia me, quarantenne, non necessariamente deve angosciare voi, ventenni, anzi a quanto pare non vi angoscia per niente; vi invito a questo punto a tornare a leggervi la mia «premessa»), Manfredi fa esattamente il contrario; ogni suo testo «poggia» su un determinatissimo musicale anni ’50, un po’ retrò, molto «musica commerciale», divertente per l’incontro tra parole nuove da «contestazione» unito a queste musiche che passano tutto l’arco delle musiche Giovanna Marini
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radio-tele-San Remo che ci hanno afflitto da anni. L’insieme, l’incontro, fra questi testi intelligenti, ironici, corrosivi e queste musiche (in questo contesto) disarmate per la loro fragile leggerezza, ingombrante stupidità, dissennatezza, è anche divertente, ma certamente siamo ben lungi dall’ascolto globale, dalla «musica aperta» che stimoli l’ascolto analitico, ecc. dallo «studio», insomma, della «canzone» degli Stormy Six. A questo punto mi chiedo: e allora Lolli con quel groviglio disordinato di suoni? Certo questo si ascolta meglio, fa ridere. Manfredi, con questi musicisti abili, consumati, che mi fanno dall’Old America di Ultimo mohicano alle serene settime e none di Gianco di Un tranquillo festival pop di paura, stile anni Cinquanta con progressione tendente all’infinito, e a Zombie di tutto il mondo unitevi, con il fascino perverso da night, e a I modelli stile americo-latino, Manfredi — dicevo — tutto sommato mi fa divertire. Però, musicalmente non ho sentito niente di nuovo: certo, va benissimo metter in burla la «canzonettistica» che ci ha afflitto o consolato per tanti anni, è un’idea anche quella, ma certe volte le trovate mi stancano: anche lì con testi come quelli di Manfredi, vorrei musica più faticata, più cercata, più sudata. Comunque sempre di cose gradevoli vado parlando, solo che di astuzie ce ne sono già tante e trovo che anche quelle del disco Maledetti degli Area sia oggi un’astuzia. La voce di un simile di Johnny Halliday, un rock intellettualizzato, i vocalizzi, i ritmi: entriamo nel campo della musica che ormai ha fatto la sua comparsa, ben datata, ma anche la sua scomparsa. Credo che partire da un concerto di Brandeburgo non è sufficiente patente di intellettualità; L’incontro fra questi oggi la dolcificazione dei brani di musica colta è patente di carosellicità più che altro. E fra l’altro, basta con testi intelligenti, questo continuo decontestualizzare la musica! Già sofironici, corrosivi friamo tanto noi sotto i continui attacchi di decontestualizzazione che poi si chiamano «perdita d’identità»… e queste musiche Oggi ascolto con interesse quelli di cui ho parlato disarmate sopra, perché in ogni caso li trovo sinceri, e questo per la loro fragile è molto, moltissimo. Dei blocchi prefabbricati di musica di Finardi io non leggerezza sento nessun bisogno. Ascoltandoli mi rendo conto che e dissennatezza i maldestri sostegni musicali che accompagnano Lolli è anche divertente, sono sinceri, che i troppo destri contenitori di Manfredi sono splendidi. Che i testi di Lolli e Manfredi sono ma certamente non solo sinceri ma intelligenti, articolati, che Mansiamo ben lungi fredi ha un gusto dell’ironia, del rovescio del rovescio, dall’ascolto globale. del non banale che me lo rende vicino, simpatico
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subito
voglio
(anche se non lo conosco), persona. Non riesco a trovare in Finardi un discorso che non sia la sigla di una banalità: «la scuola non serve a niente, lottiamo, ragazzi, tutto subito, si cerca la verità» ecc.; pallidi ricordi riassunti in slogan pubblicitari di cose che prima erano idee, baci perugina in cartine rosse. Ci fosse mai una canzone in cui questo ragazzo ha un dubbio, usa una parola dando a intendere che potrebbe anche significare altre cose. Questi testi così spiattellati ci arrivano cavalcando un’onda sonora fatta di pochissime note, di solito tre e di molto rumore ritmico, ma il rock è meglio. Io parlo di pop come di blocchi prefabbricati, quindi non mi avventuro a discutere l’operazione musicale degli Area perché non distinguo in quali blocchi musicali si muovono, li lascio lì e con la avere mia testa svitata e poggiata al mio fianco li ascolto; so che hanno avuto molto successo, ricordo di una volta nel ’70 a Pisa, mi pare, che mi erano piaciuti, c’era con loro un sax, un ragazzino, che mi pareva molto bravo; poi li ho visti marciare senza dubbi su questa strana onda sonora indistinta che non so più come chiamare, ma che non mi parla perché la sento non discorsiva, monolitica ecc.; ma la musica di Finardi mi lascia ancora più di sasso. Gli Area mi sembrano al suo confronto degli abili manovratori di periodi musicali, accennano persino dei contrappunti; quello di Finardi è un blocco solo in sol, fa, mi, re, la, senza possibilità di discorso; potrebbe anche tenere una nota sola e snocciolare questi incredibili riassunti di idee correnti, solo che in questo modo sarebbe per lo meno sofisticato. La voce di Demetrio Stratos è un’ottima voce, portata a toni quasi irraggiungibili, e, soprattutto, continuamente «svolata». Quello che mi domando è se questo vagare per le varie scale diatoniche, cromatiche e per quarti non sia assolutamente fine a se stesso. Non lo sarebbe se si avvalesse di un discorso musicale autonomo, ma mi sembra che Stratos non sia riuscito ad uscire dal concetto di «prefabbricato», che è quello che mi ha sempre insospettito nella musica degli Area. E mi spiego. Gli Area sono stati i primi a fare del pop italiano. E va bene; a loro il merito. Ma questo pop italiano a me non piace: ho la sensazione che sia un succedersi senza imprevisti di blocchi prefabbricati dove l’interesse, unico, è quello dei timbri. Peccato, che spreco! mi viene da pensare; si poteva unire a questo studio timbrico un interesse per il discorso musicale che invece è dato tutto per scontato; è il trionfo della musica a sigle, quindi riduttiva in tutti i sensi. Ecco, mi pare che la «voce sola», appunto perché sola — quindi sganciata e libera — rimanga pur sempre in quella logica. Proprio come un orso del giardino zoologico che — se gli si levasse la gabbia — continuasse a passeggiare avanti indietro per quei cinque metri quadrati e non di più. Scusatemi tutti questo vaniloquiare da vecchia strega. Spero proprio di lasciare il tempo che trovo; mi era solo stato chiesto di dire quello che pensavo. Giovanna Marini
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Musica, menate, canzonette, festival pop, movimenti Paolo Hutter e Stefano Segre
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Area, Stormy Six, Gianco, Manfredi, Finardi. E Milano dal ’75 al ’78: impossibile pensarli senza questa storia e questa città, e viceversa. (Parziale eccezione fanno gli «stranieri» Sannucci e Lolli, ma l’importazione degli Zingari felici è un elemento non secondario del ’77 a Milano). Eppure non stiamo parlando organicamente di una «scuola milanese» (che in parte esiste) e del suo organico rapporto col movimento e coi piccoli produttori di musica. Parliamo solo di alcuni punti di riferimento, di una serie discontinua di cantanti, complessi e situazioni. È stato così anche nelle radio di sinistra milanesi, nonostante le moralistiche proteste della cooperativa «l’Orchestra» che avrebbe voluto una scelta musicale più coerente e unilaterale a favore della produzione progressista e indigena. Le radio sono andate più a casaccio, seguendo umori Area, Manfredi, del conduttore e del pubblico, disponibilità di dischi, corsi e Stormy Six, ricorsi in un ambito — relativamente autonomo e separato Gianco, Finardi. — pur sempre della moda. Così in un’ora media di un giorno medio della mezza estate del ’76 si poteva sentire Stormy E Milano dal ’75 e Finardi, Area e Manfredi, Gianco e Lolli, in mezzo a al ’78: impossibile Six Dylan e Bennato, Alman Brothers e NCCP, Alan Stivell e pensarli senza Rolling Stones, Guccini e Jannacci, Giovanna Marini, Giorgio Gaber e i Pink Floyd. Tutta questa casualità e consumiquesta storia smo non impediscono però di rintracciare i fili che hanno e questa città, legato — non solo nei grandi concerti — le storie politiche e viceversa. e culturali dei giovani milanesi con questi artisti e gruppi.
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In certi momenti del ’75 e del ’76 a Milano, il centro Santa Marta occupato, coi suoi corsi di musica, sembrava un piccolo soviet della Cultura e dell’Arte: per le case occupate, per i mercatini rossi, per la campagna elettorale di DP e soprattutto per i circoli giovanili nascenti e per gli studenti reduci dall’aprile rosso antifascista. Il Circolo La Comune teorizzava un avvicinamento senza precedenti tra produzione e consumo di cultura
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musicale, da realizzarsi in decine di situazioni decentrate, rompendo l’alienazione delle grosse aggregazioni. Mauro Pagani, fulminato sulla strada di Damasco, abbandonava la Premiata Forneria Marconi per suonare e insegnare nel «movimento». Qualche radicale dei circoli giovanili teorizzava addirittura la fine dell’artista («la musica la facciamo tutti»). Gli Area, gli Stormy Six e anche Finardi sono cresciuti prima e hanno lavorato per lo più fuori da questo ambito più «militante» ma ne sono stati abbondantemente condizionati. Sono stati fuori non solo per i motivi di mercato, di storia, di professionalità che li hanno fatti stare nella industria discografica, ma perché in qualche modo rispondevano a un bisogno giovanile molto più vasto, generico e «delegato» di quello che si esprimeva nel protagonismo di Santa Marta: il bisogno dei «grossi» punti di riferimento culturali-musicali, e anche — ancora — dei grossi concerti. Sono stati però abbastanza attenti, accorti e sensibili da evitare il divismo, e da evitare le «terribili» contestazioni del ’76-77 che colpirono — ad esempio — Venditti, De Gregori e i Santana. Solo Finardi è stato «beccato» (a Quarto Oggiaro, estate ’77) ma già in una fase discendente della sua parabola.
È un rapporto di identificazione e di contraddizione insieme, quello tra i big della scuola milanese e i giovani del movimento.
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Insomma è un rapporto di identificazione e di contraddizione insieme, quello tra i big della «scuola milanese» e i giovani del movimento. Prendiamo innanzitutto quelli che si sono più ispirati alla musica anglo-americana. Non è passato poi molto tempo da quando erano semplicemente «la Donatella», «l’Alberto», «l’Eugenio» e «il Franco» e così via: strani ragazzi che si ritrovavano per passare le giornate tra l’ascolto dell’ultimo degli Stones, il bar Magenta, le prove e magari le fricchettonate in giro per la città. Poi (dal famoso ’75) sono rimasti i personaggi alla mano, che centinaia di compagni conoscono di persona: e però questo rapporto diretto diventa segno di distinzione, elemento costitutivo della informale «corte» dei giovani addetti alla «politica culturale». Conduttori di rubriche musicali, militanti delle commissioni culturali dei gruppi, ministri degli «esteri» (e dei concerti) dei centri sociali e dei circoli giovanili, sottoredattori dei fogli e delle riviste. E parzialmente anche «gli artisti della scuola milanese» sono il bersaglio degli interventi delle infuocate assemblee del Parco Lambro ’76. «Palco sì o palco no è un falso problema, la questione è molto più alla base, bisogna rieducare chi vuole cantare». E ancora in occasioni più recenti abbiamo sentito: «non è solo un palco — quei 2-3 metri in più di altezza — che ci dividono da loro, ma una generazione e anni di storia durante i quali si è sempre utilizzato chi sa tenere in mano lo strumento meglio degli altri, anche se in molte cose è simile a noi». È un dibattito interminabile, Paolo Hutter / Stefano Segre
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È un dibattito interminabile: tra richiesta di professionalità e genio, e rifiuto del divo.
ogni tanto sembra che si morda la coda: tra richiesta di professionalità e genio, e rifiuto del «divo», affermazione di potere sul cantante e sostanziale subalternità ad esso, ecc. A proposito delle vaste critiche a Finardi, per esempio, si può raccontare che ancora nel carnevale ’78 a una festa in piazza Abbiategrasso un giovane è andato al microfono con la chitarra e si è messo a cantare le canzoni di Finardi imitandone gesti e accento. Senza intenzioni ironiche.
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In tutto questo intervento usiamo verbi quasi sempre al passato. Anche se tutti questi cantanti o gruppi sono ben vivi e vegeti e produttivi. Ci pare infatti che il momento «magico» di maggiore successo di musica e di maggiore rappresentatività per il «movimento» sia — per tutti loro — esaurito. Riscosse e rilanci sono sempre possibili, ma per ora è così, un consumo retrospettivo. Degli Area, di Finardi, degli Stormy Six si riascoltano i vecchi dischi più che i nuovi. E sono indissolubilmente legati a quella fase più ascendente — o, meglio, più politicamente aggregata — del movimento giovanile che si è chiusa a Milano col 20 giugno e col parco Lambro ’76: la fase della «Nuova Resistenza», della formazione dei circoli giovanili, delle campagne elettorali col rock-jazz italiano (tanto per schematizzare), parallela al boom della nuova musica napoletana. Lolli, Manfredi e Gianco, invece, sono più legati al contraddittorio ’76-77 milanese, con l’ironia, la rabbia, la critica della politica, la disgregazione e le nuove utopie di provenienza bolognese-romana. Questa schematica divisione in periodi può parere arbitraria sul piano della storia politica o su quello della storia musicale, ma (nell’intreccio di essi) è la più convincente; ed è verificabile nelle trasmissioni delle radio, (nelle scelte dei conduttori, come nelle telefonate di richiesta). Quasi in mezzo, tra l’ultimo Lambro e il successo pieno di Ma non è una malattia, Gaber canta e recita al Lirico La libertà obbligatoria, decretando ufficialmente la crisi della generazione del ’68 (I compagni si sconvolgono in platea a sentire I reduci mentre il beota pubblico dei ceti medi PCI-PSI applaude entusiasta). «Il mio mitra è il contrabbasso» fa a un certo punto Gioia e rivoluzione degli Area, ed è come dire: «guardate che tutta questa tecnologia musicale e questi volumi Il contraddittorio alti sono un’arma per voi». Nel perio- ’76-77 milanese, do d’oro, gli Area sono stati vissuti dal movimento quasi come un cen- con l’ironia, travanti della squadra del cuore. la rabbia, Soprattutto da quelli più giovani, la critica della cresciuti prima sul pop rock che sulla «politica», e non disposti a cedere politica, i loro gusti musicali in cambio di la disgregazione.
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canzoni militanti nazional-popolari. Gli Area «dominano» il pubblico con musica cromatica, energica, aggressiva fin dal primo Lambro, quello del ’74. I loro aspetti più avanguardistici e sperimentali li rendono magari simpatici (una punta di orgoglio per la bizzosità del centravanti) ma sono poco apprezzati in sé. Sono Luglio Agosto Settembre (nero) e Gioia e rivoluzione i pezzi emblematici, i più richiesti, mentre Caution Radiation Area prima, e Maledetti poi, «vanno» poco, sono «fuori». Nel ’75, organizzato da Gong, si svolge un esperimento di ricerca musicale nella scuola media di Cinisello Balsamo. Tra gli insegnanti, oltre a Eugenio Finardi, Demetrio Stratos e Patrizio Fariselli degli Area, che illustrano il rapporto tra differenze musicali e differenze politiche nei musicisti neri. Poi c’è il famoso Gli Area dominano concerto di musica spontanea, consistente in 10 chili di mele sgranocchiate contemporaneamente dai ragazzini. il pubblico con Del resto la mela la mangiano anche loro, quando suonano musica cromatica, in pubblico La mela di Odessa. Nel ’75 fanno oltre duecento concerti. Il tragico Lambro del ’76 si chiude bene solo grazie energica, a una jam session degli Area, tutto il pubblico entra nella aggressiva fin dal musica giocando coi cavi sensibili del sintetizzatore sparsi nel prato. Un canto del cigno. primo Lambro.
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Finardi è la «vulgata» musicale dell’ABC esistenziale e politico dei giovani milanesi di movimento; il che significa la volgarizzazione, la banalizzazione ma anche il primo tentativo di dare a questa «autonomia» un'espressione in canzoni. Stupore, divertimento, sfottitura ma anche un leggero orgoglio di consacrazione hanno accolto — prima ancora dei testi — quel suo tipico accento largo lombardo americanizzato, tipo «scoppiato» da bar. (È stato visto entrare al Bar Magenta, chiedere «Barista un gettone per il Juke Box», dare un calcio affettuoso al Juke Box, mettere la Musica ribelle cantando contemporaneamente ad alta voce...). Nelle canzoni ha infilato storielle morali semplici (per gli eroinomani «basta un po’ di comprensione e metadone») e, finalmente, il gergo (da «Mollare le menate» a «ma che vada a ranare»). Settori più politicizzati o più smaliziati del mondo giovanile milanese non lo hanno mai sopportato, insospettiti anche dalla clamorosa campagna pubblicitaria della Cramps e da oscure confuse voci sui suoi trascorsi con la droga. Per un certo periodo — fine ’75 — a radio Canale 96 era quasi vietato trasmettere i suoi dischi. Mentre una composita area, un po’ aristocratica e un po’ proletaria e sballata, aveva come riferimento fisso le sue trasmissioni a Milano Centrale («Stasera sono su da Dio»). Per il pubblico il discorso di Finardi non esprimeva — come potrebbe sembrare — la riscoperta del personale e del quotidiano, ma al contrario il percorso da sballato, emarginato, svaccato ecc... a «compagno» volonteroso e ottimista. «Mollare le menate e mettersi a Paolo Hutter / Stefano Segre
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lottare», appunto. (Il suo personale lancio pubblico, poi, fu proprio un applauditissimo Saluteremo il signor padrone in un concerto al Palalido organizzato dalla FLM della zona Sempione). Punto di partenza di questo percorso finardiano potrebbe essere un meccanico un po’ pirla dell’hinterland: badate infatti alla mal camuffata passione di Finardi per i motori (dal treno, alla moto ecc...) che si svela nel titolo dell’ultimo LP, Diesel. Al Lambro Finardi ha «tenuto» il pubblico facendo accendere fiammiferi e bruciare giornali, in una di quelle tipiche mosse da «cattivo spettacolo» poi stigmatizzate da Manfredi. (Ha fatto anche la battuta più involontariamente tragicomica, di fronte alle fiammelle: Sembra proprio un cimitero).
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Nello stesso inverno ’75-76, mentre Finardi impazzava sulla frequenza di radio Milano Centrale, a radio Canale 96 andava almeno due volte al giorno Un biglietto del tram, l’LP degli Stormy Six. Della storia lunga di questo complesso tutto milanese l’epicentro — forse loro malgrado — è indiscutibilmente Stalingrado. Erede delle canzoni di lotta epiche (come Compagno Franceschi sarà vendicato), uscito opportunamente a poca distanza dalle Giornate antifasciste militanti dell’aprile ’75, Stalingrado è un punto di riferimento politico psicologico prima ancora che musicale. C’è tutto, per quella tradizione tipica della sinistra rivoluzionaria milanese che ha appena reclutato le sue ultime leve: l’acciaio, la marcia, il vino, Lenin, Stalin. («La radio al buio e Così gli Stormy sette operai, sette bicchieri che brindano a Lenin»). Sono canzoni da cantare alla sera all’osteria, dopo la riunione, Six vengono tentando di provocare il sorriso e il brindisi dei vecchi del a rappresentare PCI. Così gli Stormy Six vengono a rappresentare quell’area quell’area di di giovani che non cerca nella canzone un rispecchiamento giovani che cerca diretto sonoro o linguistico, ma una specie di rassicurazione storica e di bandiera ideologica. Fanno concerti nelle nella canzone scuole e alla Statale, e ovviamente non vanno al Lambro ’76. una specie Poi vengono più elaborate ricerche musicali, Cliché e L’apdi rassicurazione prendista, che però non assumono più un ruolo di punto di identificazione. Piuttosto un modello di musica come prostorica fessionalità, serietà, sforzo («lottare e studiare per il socie di bandiera alismo»), come negli attuali incontri periodici degli Stormy Six con gli studenti delle scuole di Buccinasco. ideologica.
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Di Manfredi si potrebbe dire: è quasi il contro-Finardi, rappresenta il percorso opposto — quello da militante a disgregato, a zombie critico. Il passo successivo e opposto di «mollare le menate e mettersi a lottare» è il recupero delle «menate» (a più alto livello) in Ma non è una malattia. Questo pezzo è conosciutissimo e ormai cristallizzato a Milano, da quando (novembre ’76) è diventato la insostituibile sigla della rubrica Giovani di Radio
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popolare. Nei primi tempi arrivò qualche telefonata di protesta: «dà una immagine svaccata dei compagni». Ma poi la compiaciuta ironia del pezzo è «passata». (Bisognerebbe riflettere su «come diventare sigla» fissi, stravolga e in qualche modo condanni definitivamente una canzone. Comunque ogni tentativo di sostituire la «Malattia» con un’altra sigla è fallito). Manfredi è sempre stato troppo intellettuale, sfuggente, ironico — e musicalmente «sfottente» — per diventare un divo. Dal ’76 però è diventato in qualche modo «punto di riferimento» della composita area (o delle aree) che a Milano si oppone alla politica dei gruppi e all’emmellismo. In un primo momento era sembrato il cantore degli autonomi, per il Mitra lucidato di Ma chi ha detto che non c’è, per l’esproprio di Quarto Oggiaro Story, per il mai registrato Liberiamo (Notarnicola, Franceschini, Ognibene). Ma è stato un passaggio sopravvaManfredi lutato e malinteso. Liberiamo cominciava con Notarnicola ma finiva con il corpo e l’immaginazione. Più che il Mitra è sempre lucidato contavano i «momenti di dolcezza» e «gli istanti di stato troppo memoria» e l’Ultimo Mohicano sfotte qualunque grinta intellettuale, militante. E infatti agli autonomi si sono affiancati, e forse sfuggente, ironico quasi sostituiti, i circoli giovanili, i cani sciolti, le femministe (ma soprattutto i femministi), i 68isti in crisi. E perfino e musicalmente — se esistono — i «qualunquisti di sinistra» che andavano «sfottente» per pazzi per le baggianate notturne a ruota libera di Manfredi, diventare un divo. Gianco e De Bernardi dai microfoni di Canale 96. All’ultimo Lambro Manfredi «passa» con qualche fischio (cantava male...) ma il ’77 è l’anno dei concerti dal vivo allegri e spumeggianti con Gianco. L’area composita e sotterranea che abbiamo citato si è presa — con Manfredi — il gusto di alcune clamorose rivincite. In mezzo a un festival di «Fronte popolare» percorso dai servizi d’ordine del MLS e dell’Autonomia, Manfredi e Gianco cominciano timidamente la presa pel culo dei miti politici e musicali degli ultimi anni ’60 e terminano tra applausi e risate entusiaste.
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Di per sé, cioè senza Manfredi, Gianco è tutt’altra cosa. Il suo secondo debutto, come cantautore liberato e transfuga, è stato accolto con piacere, dopo una superficiale diffidenza iniziale. Nel suo famoso spettacolo del ’77 con Manfredi, ha dato finalmente a tutti i post-venticinquenni la possibilità e gli strumenti per liberarsi ridendo dei miti musicali dell’adolescenza. E poi quella di «liberarsi» dei faticosi e «impegnati» dibattiti interpersonali (Mangia insieme a noi), e della riverenza post-femminismo verso la donna (Un amore). Ma qui sta il rischio dell’imbroglio, evidente anche in tutto il ruolo di Gianco nello spettacolo Zombie di tutto il mondo unitevi. La auto-ironia sui miti della generazione del ’68, o sui «compagni», non diventa la riscoperta pura e semplice
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del qualunquismo laico del trentenne milanese medio? Soprattutto se invece che auto-ironia è conferma di una estraneità pura e semplice. (Gianco è uno che sui casini del Lambro ’76 ha dichiarato a «Re Nudo»: «Io sono stato qualche anno fa al festival pop di Lincoln, c’erano 120 mila giovani tranquilli, sdraiati, scopavano, facevano il cazzo che volevano, c’era un’organizzazione perfetta. Ascoltavano la musica... Per quanto riguarda i casini che sono successi qui, a me puzzano di provocazione non so se preparata, non so da chi»). Eppure anche il qualunquismo di Gianco ha «funzionato» nell’area scomposta del movimento milanese del ’77. Ha rispecchiato serate di sbronze ridanciane, acide, autodistruttive, simili alle sue. Con la camicia aperta sul petto villoso, la birra o il whisky a fianco, un minimo di recupero maschilista.
La autoironia sui miti della generazione del ’68, o sui «compagni», non diventa la riscoperta pura e semplice del qualunquismo laico del trentenne milanese medio?
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Ma non è una malattia
Nostra merce quotidiana Gianfranco Manfredi
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La roba dei cantautori non è più solo roba di dischi: biografie, raccolte di testi, antologie per le scuole, autobiografie (ma una volta non si scrivevano a sessant’anni dopo cinque o sei rivoluzioni e un paio di guerre mondiali?), autobiografie immaginarie (cinematografiche), rimandi dall’uno all’altro, guerricciole con giornalisti, letture parallele dei testi e delle loro fonti, convegni congressi, citazioni archivistiche del numero di catalogo e anno di uscita del disco x, interviste a getto continuo dal vivo e dal morto, richieste di puntualizzare «la propria posizione nei confronti del movimento». E c’è anche chi ci crede. Alcuni episodi recenti mi vengono in mente: Herbert Pagani a Sanremo ’77 alla Rassegna della Canzone d’Autore (sì «d’Autore» nel senso degli «Autori» quelli della Storia della Filosofia e della Letteratura) si presenta in scena come esiliato politico volontario in terra di Francia; e nessuno si mette a ridere. L’anno prima alla stessa Rassegna, Roberto Vecchioni (peraltro persona estremamente dolce e simpatica per quel poco che lo conosco) preso dalla serietà del ruolo dedica un pezzo a Rimbaud e quello successivo a Guccini, così uno via l’altro; e nessuno si mette a ridere. Altro esempio: a primavera ero in sala di registrazione a fare un disco e di sopra c’era Edoardo Bennato: E dopo averlo durante un cambio di sala mi accorgo che in un angolo c’è suonato circa un milione e mezzo di lire in nastri a sedici piste. Chiedo cos’è quella pila e mi si dice che sono diverse regie cantato, strazioni di uno stesso pezzo: hanno tenuto tutti i nastri sentendosi dire perché Bennato & c. sono indecisi su quale versione è venuta da un musicista: meglio. Che volete? Un disco rimane. È Storia. Poi ci scri«però si potrebbe vono su i Critici. Non ce ne si può più pentire. È una bella responsabilità. E se poi non è venuto al meglio? Ciccia, rifare meglio», direbbe uno. Eh no! Non scherziamo. ci pensa su È tutta una roba molto seria, scherzare è vietato. E invece ricordo il dottor Enzo Jannacci che dopo aver improvvisato un attimo e gli un pezzo in sala, finendo di scriverne il testo su foglio di fa: «Trattasi carta quadrettata, e dopo averlo suonato e cantato, sentendi canzonetta». dosi dire da un musicista: «però si potrebbe rifare meglio», Gianfranco Manfredi
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ci pensa su un attimo e gli fa: «Trattasi di canzonetta». «Trattasi di canzonetta» amici, compagni, cittadini, «canzonetta»; e a dirla un po’ di volte di seguito, questa parola può far persino ridere.
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Definito l’argomento, vedo di dirne qualcosa: in effetti della canzonetta in un modo o nell’altro si parla molto, ma con una curiosa particolarità. La canzonetta si suppone costituita di due parti: testo e musica. Il testo lo si riporta e discute, la musica di solito no. In questa stessa collana di libretti la musica è di solito esiliata alla fine del volume, senza note, come disordinata e caotica sequenza di misteriosi accordi. La musica diviene anch’essa linguaggio verbale, assurdo solfeggio di accordi: «Mi-mi, la-la, sol-re». (E c’è chi sostiene che in effetti a ben vedere, le cose stanno proprio così, ma non credo che la scelta dei curatori di questa collana sia ispirata a un tal acume critico). La musica insomma, non c’è. Se c’è è come linguaggio verbale marziano che rimanda a una decifrabilità solo tramite chitarra: strumento maledetto, condannato a ripetitore di accordi, accarezzato con la stessa meccanica foga di quando ci si fa una sega disattenta, assente dal corpo. Di musica non se ne parla anche perché vallo a trovare tra tanti Re-Censori uno che di musica capisca qualcosa. Altri invece dicono: non se ne parla perché non è rilevante. È sempre la Lo sanno tutti stessa, brutta, ripetitiva, è una specie di «tappetto su cui che testo giusto mettere la questione» (o è una questione sepolta sotto il su musica tappeto?). Oppure: è molto meno rilevante la musica del «personaggio». Quindi è meglio risalire dal testo direttasbagliata non mente al personaggio. Oppure: è molto meno rilevante del vende, mentre famoso «fenomeno» che c’è intorno. Quindi è meglio divatesto qualsiasi gare sul fenomeno che interrogarsi sul «noumeno» (nel caso: su musica giusta la musica). Questa «cosa in sé» sfuggente è però quella che dà coerenza al tutto, che dà unità al «prodotto», che fa della vende di più. canzone una canzone e che costituisce il richiamo stesso di godimento che attira il bravo compratore. Lo sanno tutti che testo «giusto» su musica «sbagliata» non vende, mentre testo «qualsiasi» su musica «giusta» vende di più. Lo sa anche la SIAE che paga il doppio di diritti a chi fa la musica rispetto a chi fa il testo. Ma allora: cos’è questa musica che c’è ma non c’è, che è ripetitiva e uguale ma costituisce l’unicità e la novità del prodotto? È la musica del feticcio. La musica del feticcio è una musica universale e astratta, costituita da astratte relazioni, da astratto godimento. Tanto presente quanto costituita di assenza. È l’oggetto assente che vive come sua concretezza di cosa, solo la propria natura di merce compiuta, cioè di astratto «valore».Anche quando ci si sia messi d’accordo che della musica bisogna parlare si va insomma a scoprire che quella musica la cui qualità concreta bisognerebbe indagare, non c’è, è una musica «senza qualità»
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o meglio ha l’unica qualità d’essere sempre equivalente a se stessa: «e la musica All’origine è sempre quella che è» come dice il già la canzone è citato Jannacci. strutturalmente Anche il cosiddetto superamento dei generi trova qui la sua base materiale: merce e proprio esso è reso possibile dall’equivalenza in virtù di questa in virtù della quale come 20 libbre di sua origine tela = 1 Bibbia, così x sonate per organo — y rock’n’roll. I generi segnavano il suo destino ancora le specificità concrete dei pro- è di merce. dotti, ma queste specificità scolorano quando le si riconosce per apparenti qualità che nascondono un’unica, equivalente qualità: l’astratto «valore». Dunque il segreto della canzonetta è la sua natura intima, strutturale, di merce. Non è vero che prima ci sia la canzone che sgorga spontanea dalla cosiddetta creatività e poi la sua mercificazione su disco. All’origine la canzone è strutturalmente merce e proprio in virtù di questa sua origine il suo destino è di merce.
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Curioso che questa natura sia ancora occultata nei dotti dibattiti sulla Canzone d’Autore. L’ormai rituale interrogarsi sul «Linguaggio della Canzone d’Autore» continua a rimuovere il vero punto di partenza: questo linguaggio è «il linguaggio della vita reale» e il linguaggio della vita reale nel dominio del capitale è «il linguaggio della merce». Il che vuol anche dire che se la canzone nel suo «linguaggio» è vicina al linguaggio quotidiano, e se la natura del suo linguaggio è linguaggio di merce ciò avviene perché lo stesso linguaggio del quotidiano, il nostro linguaggio, è linguaggio di merce. Scoprire la merce nel linguaggio della canzone è semplice: durata standard del pezzo, suo riconoscimento sulla base del marchiotitolo che spesso enfatizza una frase-slogan ripetuta all’ossessione nel corpo stesso della canzone, la struttura quasi obbligata A-BA-B (strofa-ritornello-strofa-ritornello), la sequenza stessa degli accordi tanto più di «successo» quanto più abituale, il dispositivo musicale e testuale che rafforza l’attenzione (con la parola chiave, la piccola provocazione, il sospiro erotico, l’emergere dello strumento solista) laddove tenderebbe a calare. Tutto ciò rappresenta l’assonanza della canzone allo slogan pubblicitario, ai suoi tempi e al suo sviluppo, tutto ciò rappresenta in forma visibile che si tratta d’una merce da acquistare. Più le strutture della canzone ripetono questo modello, più la canzone è coerente all’ascolto infantilistico e regressivo del compratore. La cosa è così scoperta che «La Voce del Padrone» l’ha addirittura rappresentata in etichetta senza scandalizzare nessuno: un cane davanti al grammofono (il padrone). Ascolta Fido, ascolta e compra. In fondo (e in superficie) è proprio Gianfranco Manfredi
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una musica da cani. Ma la «musica da cani» esiste perché esiste la «vita da cani»: se è semplice rilevare la merce nel linguaggio della canzone, è apparentemente più complesso rilevarla nel linguaggio quotidiano, nei rapporti interpersonali. Se la miseria della musica può essere oggetto di facile e banale ludibrio, le miserie del quotidiano (il nostro essere intimamente merce) sono più angosciose o comiche a rilevare. Negarsi alla passività ricettiva della canzone e negarsi alla passività meccanica della vita dovrebbe essere una cosa sola. Ma se siamo pronti all’offesa verso la merce in canzone, meno pronti e disponibili siamo alla rilevazione della merce nel nostro linguaggio quotidiano fatto di frammenti di battute pubblicitarie, di allusioni a programmi televisivi o a film, di slogan e di insiemi verbali disponibili a piacere nel puzzle ideologico di sempre. E questa è solo la superficie: sotto ci sono i ruoli e i protagonismi nel quotidiano, la ripetitività e ovvietà dell’eros quotidiano, il disporsi sempre su copioni già recitati e su esperienze già vissute (o il passare dall’una all’altra senza viverne nessuna in modo limpidamente «apollineo»). Questa è la canzonetta più dura da contestare, ma è proprio questa canzonetta che va a costituire il godimento della canzonetta in disco, il riconoscimento del sé nell’astrattezza di rapporti della canzonetta. «Il problema più importante per noi è di avere una ragazza di sera»: canzone miserella, ma non era forse costituita dalla miseria del nostro quotidiano? La natura della canzonetta, la sua natura libidica, forse sta proprio qui: nell’essere lo specchio di merce della nostra vita di merce. Solo che il suo essere specchio ci permette di pensare come reale e concreto il soggetto al di qua dello specchio (noi). Ed il trucco è qui: dal punto di vista dello specchio è irrilevante che ciò che è riflesso sia una cosa concreta o sia a sua volta un riflesso. Ma dal punto di vista nostro (di soggetti) non è poco rilevante essere corpi concreti, materiali, fisici o apparenze di ruoli, soggetti spettacolari. Specchiandoci nell’al di là della merce si può rischiare di non porsi il problema fondamentale del nostro al di qua: del nostro essere insieme corpi e personificazioni di merce.
Se la miseria della musica può essere oggetto di facile e banale ludibrio, le miserie del quotidiano sono più angosciose o comiche a rilevare.
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Più la canzonetta si fa vicina alla quotidianità (come quelle contenute in questa raccolta) più la contraddizione si avvicina al punto di rottura. La fusione-confusione di merce e di soggettività, di slogan-politico e di slogan-pubblicitario, di soggetti reali e soggetti spettacolari, si compie pienamente. Ed è evidente che il problema non è interrogarsi sulla «buona fede» di questo o di quello che canta: questione moralistica e idiota perché che esista o no «buona fede» ciò non intacca la sostanziale esistenza della merce. Il problema vero è
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come su questo punto di rottura dove la merce si costituisce in quotidiano e il quotidiano in merce, si possa esercitare una pratica di «scissione» invece che di «composizione», si possa attraversare e valicare il dominio della merce piuttosto che consegnarvisi felici e risolti.Per molti anni molti di noi hanno creduto che la rottura con la merce avvenisse nella rivendicazione radicale dell’autonomia del politico. Contro i modelli della canzonetta di consumo, i modelli della canzone di lotta; contro gli amorucci della canzonetta, l’amore per il comunismo; contro lo slogan pubblicitario lo slogan politico. Ma si faceva finta di non vedere che anche Celentano si proponeva analogamente: «Sono ribelle nel vestire nel dormire nell’amar la bimba mia», e sicuramente con più forza e maggiore carica di ribellismo spettacolare. Si faceva finta di non vedere che la ribellione alle vecchie forme e il meccanismo stesso che sta a monte della produzione-distribuzione del disco e non solo del disco se è vero che Marx ha scritto che il capitale non conosce santi ed eroi, è il principio del rivoluzionamento costante delle forme di vita, è un profanatore che non ammette altri sedimentati valori che non siano «Il Valore». La forma del ribellismo come modello spettacolare alternativo, è stata ed è la forma fondamentale attraverso la quale passano le grosse operazioni commerciali, le promozioni vendite, la colonizzazione di nuovi mercati. Dagli anni ’30 a oggi, più questo meccanismo si è sviluppato, più l’autonomia del politico s’è Il soggetto vista riassorbire nel ciclo della merce. Tanto che oggi in che si specchia in alcuni casi proprio l’autonomia del politico diviene occultamento della sostanziale natura di merce. Anche i cosiddetti soggetto politico «fruitori», sempre alla ricerca dell’autonomia dalla merce, non sopporta da un lato autorizzano a credere che la canzone politica x di scoprirsi esso non è merce «per i contenuti che esprime», dall’altro quando si accorgono che è merce, ci si incazzano. Ma siamo sempre stesso merce, davanti allo specchio: il soggetto che si specchia in soggetto esso stesso politico non sopporta di scoprirsi esso stesso merce, esso stesso legato al ciclo, esso stesso spettacolare. O se lo scopre legato al ciclo, è preso da contentezza «creativa» e tutto felice si proclama esso stesso anch’egli «soggetto spettacolare». Anche qui l’autonomia del spettacolare. soggetto diviene copertura alla propria sostanziale natura di merce. Oppure diventa «liberata», consenziente autosegregazione nell’identità merce-politica, soggetto-spettacolo. L’identificazione è sollecitata e stimolata dai mass-media: se ti capita di fare l’indiano, improvvisamente esiste il grande e organizzato e ripetitivo «movimento degli indiani»; se ti capita di sparare, improvvisamente esistono «quelli della P. 38» tutti mascherati, tutti chini come Charles Bronson e quindi fuori dalle tradizioni spettacolari del movimento operaio (perché l’ha decretato Umberto Eco che probabilmente se dovesse sparare lo farebbe dal tetto di coccio della sua casa di campagna con una bandiera Gianfranco Manfredi
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rossa in mano e un archibugio dall’altra, tanto per stare nella tradizione).In questa creazione di soggetti spettacolari, molti soggetti reali finiscono per aderire all’immagine spettacolare di sé, per pensarsi in quei termini, anzi per essere così addirittura all’origine. Lo spettacolo viene prodotto dal quotidiano perché esso ha formato il quotidiano a spettacolo. Questo ciclo c’è chi se lo nasconde e c’è chi ci si diverte dentro: che bello, anch’io faccio spettacolo, mica solo Humphrey Bogart! Allora il problema diventa questo: come non occultarsi la propria natura di merce attraverso una sedicente autonomia, e come insieme cercare una dimensione di alterità, di superamento di questa natura che è poi «lo stato di cose presente». Di fronte a questo problema la mera autocritica e autoironia non bastano più, devono essere sviluppate in avanti. La produzione di stereotipi alternativi, di contromodelli che si impongono nella necessità della «tendenza», dovrebbe lasciare il posto alla produzione continua di casualità, di situazioni, di improvvisazione. Ma allo stesso tempo bisogna spingere a fondo il lavoro negativo: la scomposizione e la dissoluzione dei modelli fissati in figure ideologiche. Questo «lavoro negativo» non può non avere al suo interno la duplicità del comico e dell’orrido. Del comico come irrisione della miseria del modello, della riduttività della merce, dell’ossessività della ripetizione. Dell’orrido come estraneità al cadaverismo, alla putrefazione del feticcio uguale a se stesso. Ma anche qui la canzonetta è canzonetta: da vivere non come un intimidatorio «oggetto misterioso» desideLa produzione rato e distante, ma come una delle tante possibili di stereotipi «esperienze», non come la lapide della propria vita, ma alternativi, come uno dei tanti detriti e frammenti che restano (o dovrebbe lasciare spariscono) nel concreto quotidiano, sempre che a questo quotidiano si sia capaci di dare concretezza oltre il il posto proprio astratto ruolo spettacolare. Impedire che la alla produzione propria biografia coincida con la propria (o altrui) discografia, o bibliografia, o filmografica, è tutt’uno col continua difficile ma necessario tentativo d’andare oltre il proprio di casualità, essere parte organica e cieca d’uno spettacolo che è spetdi situazioni, di tatore di sé, elemento meccanico d’una macchina che riproduce se stessa, del feticcio che si gode. improvvisazione.
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Per una musica radicale Area
Il gruppo AREA si forma alla fine del 1972 raccogliendo musicisti provenienti dalle esperienze musicali più diverse e diversificate, dal pop al free jazz alla musica elettronica e sperimentale, unificati da un progetto di fondo: creare «musica radicale». Non si è trattato solo di un’enunciazione teorica, ma di una specie di filo conduttore del loro confrontarsi con la realtà musicale e culturale italiana. Per questo si è trattato di una scelta che è diventata immediatamente scontro e incontro: opposizione radicale a quella specie di colonialismo musicale da parte di gruppi e case discografiche americane e inglesi, e recupero della tradizione musicale mediterranea senza scorciatoie cosiddette popolari. Le prime incisioni ed i primi concerti hanno significato la concretizzazione e la verifica di scelte di campo che hanno avuto un’importanza determinante in tutta la loro attività. Emblematico e riassuntivo della loro problematica è Lobotomia, contenuto nel secondo LP Caution Radiation Area. Suono ossessivo, lancinante, pile e riflettori puntati sugli spettatori, concerto come spettacolo, come coinvolgimento diretto del pubblico: un fatto, un gesto che non solo rompeva, (o meglio riduceva alle estreme conseguenze) il tessuto musicale su cui si era innestata la musica pop, ma metteva anche in discussione il rapporto tra produttore, esecutore e pubblico, togliendolo dalla passività nella quale forzatamente era costretto. Avere dedicato questo brano ad Ulrike Meinhof non significava semplicemente un’adesione genericamente ideologica, quanto piuttosto una condanna della Il rifiuto della repressione carceraria, emblematizzata nella trapanazione passività e la del cranio (lobotomia appunto); e intendeva aprire un dibattito sul rapporto tra musica e politica, musica e pubpartecipazione, blico, musica e comunicazione. Gli Area non hanno mai considerata, essa inteso la loro adesione politica alla sinistra come una semstessa musica, plice etichetta di comodo, ma come impegno sia sul terreno musicale e culturale che su quello della militanza: da qui la spettacolo, loro partecipazione ai raduni e alle manifestazioni che dal arrangiamento, ’72 ad oggi i compagni hanno promosso. Gli Area hanno rottura della costantemente svolto una critica concreta non soltanto alla musica d’evasione, ma anche ai comportamenti stereotipati separazione tra dei compagni e, ad esempio, al loro modo di fruire i conchi esegue certi, visti dagli Area non come parentesi di fuga dalla e chi ascolta. realtà, ma come momento di incontro e di comunicazione.
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Quando scelsero di riinterpretare e rielaborare uno dei pilastri del nostro patrimonio musicale, L’inno dei lavoratori, lo fecero secondo una sonorità particolare, non gratuitamente attualizzata, ma rispondente ad un bisogno di superare le ripetizioni da litania di tutto ciò che la storia del movimento operaio ci aveva lasciato; e questo corrispondeva al tentativo di fare entrare quella idea di rivoluzione musicale in tutti gli ambiti. Anche nel pubblico. La successiva produzione discografica degli Area documenta — ci pare — quello scambio che il gruppo è riusciL’attività degli to a realizzare con il pubblico: il rifiuto della passività Area si è quindi e la partecipazione, considerata, essa stessa musica, mossa su binari spettacolo, arrangiamento, rottura della separazione tra paralleli tra ricerca chi esegue e chi ascolta. L’attività degli Area si è quindi mossa su binari paralleli tra ricerca musicale ed impemusicale ed gno politico, come processo dialettico che vedeva di impegno politico, volta in volta la loro ricerca musicale e culturale confrontarsi con il pubblico e le loro esigenze. come processo Questo è appunto il senso della loro opera Maledetti, dialettico che dove vengono superate le facili musicalità che carattevedeva la loro rizzavano il suono del brano Gioia e rivoluzione per alzare il tiro e affrontare una problematica al limite della ricerca ricerca musicale culturale e musicale: una sonorità diversa, dura, che non confrontarsi con lascia nessuno spazio al compiacimento sonoro.Conil pubblico e le loro temporaneamente ciascuno degli Area non ha smesso di coltivare il proprio patrimonio personale, indirizzanesigenze. dolo verso specifiche ricerche; da qui gli album singoli di Demetrio Stratos, impegnato nella ricerca di nuove vocalità, di Patrizio Fariselli, che lavora per un uso diverso delle tastiere, di Paolo Tofani, che sperimenta un rapporto tra sonorità della chitarra e sintetizzatore. Questi sono alcuni degli elementi che hanno
contraddistinto la presenza degli Area nel panorama musicale italiano. Le altre cose le potrebbe forse dire ognuno di quelli che sono entrati in contatto con gli Area.
Discografia Arbeit Match Frei (Cramps) Caution Radiation Area (Cramps) Crac (Cramps) Are(A)zione (Cramps) Maledetti (Cramps) Anto/logicamente (Cramps)
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Luglio, agosto, settembre (nero) 42 42
Giocare col mondo facendolo a pezzi bambini che il sole ha ridotto già vecchi. Non è colpa mia se la tua realtà mi costringe a fare guerra all’omertà alla Città. Forse così sapremo quello che vuole dire affogare nel sangue tutta l’umanità. Gente scolorata quasi tutta eguale la mia rabbia legge sopra i quotidiani. Leggi nella storia tutto il mio dolore vedi la mia gente che non vuol morir(e). Quando guardi il mondo senza aver problemi cerca nelle cose l’essenzialità. Non è colpa mia se la tua realtà mi costringe a fare Guerra all’Umanità.
Ma non è una malattia
Arbeit macht frei
Nelle tue miserie riconoscerai il significato di un arbeit macht frei Tetra economia quotidiana umiltà ti spingono sempre verso arbeit macht frei Consapevolezza ogni volta di più ti farà vedere cos’è arbeit macht frei.
Consapevolezza
Se un giorno vorrai il tuo cervello, da te saprai quello che già fai; sciogli i legami, loro insieme a te. Viaggia nel cielo su cavi di ferro tra voci d’acciaio che parlano mute lascia partire il tuo ascensore. Tu allora vedrai tutta la squallida realtà di un tabù che l’umanità ha sempre vissuto senza libertà tutto l’amore ridotto nel nulla riposa vecchio tra mostri di muffa lascia partire il tuo ascensore. Schiaccia sul muro senza pietà la tua morale che tí vuole ancora imprigionato tra mediocrità lascia partire il tuo ascensore lascialo andare e prendi il potere.
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L’abbattimento dello zeppelin
Dentro di me sale la rabbia sorda che mi hai risvegliato tu, un mondo che non ho L’uomo che ha perso la sua animalità nel buio bianco di un’idiota idealità Solo chi è nudo riesce a capire la tua forza muta che comunica realtà Facce sporche di paura che si nascondono nel buio luci spente sugli altari di una stupida umiltà gesti, urla, rabbia, (gemiti), (coiti), (vivere), senza nulla dire senza nulla fare è un diritto che io ho... io ho
Dicono tutti che è colpa mia viaggiava nel cielo gonfiato dal vento sembrava ubriaco di un grande potere Un rumore d’acciaio lo ha fatto cadere piombare nel fango senza più stile Dicono tutti che è colpa mia giocano tutti con il corpo sgonfiato dal vento che è senza memoria dicono tutti che è colpa mia il vento mi ha detto che morirò.
Le labbra del tempo
Cometa rossa
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Ma non è una malattia
Apri le mie labbra, aprile dolcemente. Aiuta il mio cuore. Cometa cuci la bocca ai profeti. Cometa chiudi la bocca e vattene via. Lascia che sia io a trovare la libertà.
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ZYG (crescita zero) L’estetica del lavoro è lo spettacolo della merce umana.
L’elefante bianco
Brujo
Ossigeno Zero Barbiturici Magnetism Input Output Logos Esorcismo Ossidare i cavi della mia libertà la mia merce non servirà La mia mente non ha più creatività progettare totalità.
Corri forte ragazzo, corri la gente dice sei stato tu ombre bianche, vecchi poteri il mondo compran senza pudore vecchie immagini, santi stupidi tutto lascian così com’è guarda avanti non ci pensare la storia viaggia insieme a te Corri forte ragazzo, corri la gente dice sei stato tu prendi tutto non ti fermare il fuoco brucia la tua virtù alza il pugno senz a tremare guarda in viso la tua realtà guarda avanti non ci pensare la storia viaggia insieme a te Impara a leggere le cose intorno a te finché non se ne scoprirà la realtà districar le regole che non ci funzionano più per spezzar poi tutto ciò con radicalità
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Ma non è una malattia
Gioco, gioco col tuo mondo posso dominarti. Giro, giro sempre in tondo posso controllarti. Guardo, guardo giù nel fondo posso soggiogarti. Rido, rido del tuo tempo devo stritolarti.
Gioia e rivoluzione Canto per te che mi vieni a sentire suono per te che non mi vuoi capire rido per te che non sai sognare suono per te che non mi vuoi capire Nei tuoi occhi c’è una luce che riscalda la mia mente con il suono delle dita si combatte una battaglia che ci porta sulle strade della gente che sa amare che ci porta sulle strade della gente che sa amare Il mio mitra è il contrabbasso che ti spara sulla faccia che ti spara sulla faccia ciò che penso della vita con il suono delle dita si combatte una battaglia che ci porta sulle strade della gente che sa amare
Gerontocrazia
Giro, giro, tondo
Sonno, tu che porti via i bambini portami via anche questo te l’ho consegnato piccolo piccolo riportamelo grande grande come una montagna slanciato come un cipresso che domini da est ad ovest Col potere delle cose posso avere la tua vita controllata e si chiama libertà. L’esperienza quotidiana del terrore ti lascia, soltanto, me. La violenza consumata nell’amore ti spinge, incontro, a me. Se tu guardi nel passato troverai tutto quanto stabilito e si chiama verità. Senza storia né memoria lascia che io scriva i passi, tuoi. Vivi in pace la tua vita non pensare e sogna felicità. Guarda nel passato troverai tutto quanto stabilito e si chiama libertà. Senza storia né memoria lascia che io scriva i passi tuoi. Vivi in pace la tua vita non pensare e sogna felicità.
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Ma non è una malattia
La mela di Odessa (1920) C’era una volta una mela a cavallo di una foglia cavalcava cavalcava cavalcava insieme attraversarono il mare impararono a nuotare. Arrivati vicino al mare dove il mondo diventa mancino la mela lasciò il suo vecchio vestito e prese l’abito da sposa più rosso, più rosso la foglia sorrise era la prima volta di ogni cosa riprese la mela in braccio e partirono. Giunsero in un paese giallo di grano pieno di gente felice pieno di gente felice si unirono a quella gente e scesero cantando fino alla grande piazza qui altra gente si unì al coro � Ma dove siamo ma dove siamo — chiese la mela — Se pensi che il mondo sia piatto allora sei arrivata alla fine del mondo se credi che il mondo sia tondo allora sali, incomincia un girotondo — e la mela sali, salì, sali, sali, sali la foglia invece salutò, salutò, salutò rientrò nel mare e nessuno la vide più forse per lei il mondo era ancora piatto.
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Canzoni come specchi Eugenio Finardi
Qualcuno potrebbe definirmi americo-italiano e penso che in parte que- Lo scontro, sta definizione mi sta proprio bene. il confronto con Le ragioni sono molte: sono passato, la realtà italiana, come molti, attraverso un tunnel di suoni, una specie di grosso tubo di con le radici cellophan dentro al quale potevo sen- milanesi, tire la musica dei Rolling Stones hanno sempre come la sonorità del blues senza dimenticare «i gorgheggi» e il clima contraddistinto della musica lirica. Già, mia madre la mia vita. era una cantante lirica e, come molti bambini che si rispettino, anch’io pensavo da grande di fare il cantante lirico. Ma i camaleonti cambiano molto spesso la pelle: ed io, che camaleonte non sono, penso di avere accumulato in questi anni molte pelli; se mi squamassi si potrebbe scoprire quella del negro dei blues, quella della musica dura e della mitomania per Mike Jagger e quella meno mitologica del cantautore di oggi. E quella dell’americo-italiano. Non è una battuta: ho sintetizzato un processo che ho vissuto usando come metro sia la musica sia un atteggiamento mentale. Infatti ho sempre visto l’America come un grande luna park vivente, fatto di neon, magliette, telefilm e persone che non avevano tutte le «menate» del latino, del greco, della chiesa cattolica, della retorica e di quel genio italico che spero sempre muoia soffocato da una montagna di rifiuti. Non sono Tommy caduto sul pianeta Italia e neppure Mr. Smith in un viaggio di piacere. La contraddizione, lo scontro, il confronto con la realtà italiana, con le radici milanesi, hanno sempre contraddistinto la mia vita. Non ho mitizzato l’America confrontandola con l’Italia, così come non ho disprezzato l’Italia confrontandola col mito americano: Parco Lambro ho preso atto della diversità e della omogeneità fatta di ’74, la scoperta squallore e di moralismo. Non il fallimento di un sogno ma la consapevolezza della necessità di essere dentro dei compagni, alle mie radici. Da tutto ciò è maturato il mio interesse, della solidarietà, il mio coinvolgimento nella realtà italiana, nella polidi una dimensione tica, nel Movimento, nello sbattimento per la droga, nella vita degli «scoppiati», nella quotidiana ricerca di politica.
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un flash di felicità. Come tanti, dopo un’estate a Terrasini, sono uscito dalla dipendenza dal mondo della droga, dal mondo dell’ideologia hippy: Parco Lambro ’74, la scoperta dei compagni, della solidarietà, di una dimensione politica. Tutto è cambiato, si è modificato con entusiasmo, con coinvolgimento: si è aggiunta un’altra pelle che ha coperto le smagliature precedenti. Canzoni ingenue, dure, schematiche, canzoni come specchi nei quali mi riflettevo tutto: questo è stato il mio primo album. Non sono «quello che canta nei dischi perché c’ha i figli da mantenere», ma perché vuole parlare, dire, fare, conoscere, confrontarsi: perché mi piace. Inizia l’attività del cantautore o meglio cambia segno, dimensioni; il «vecchio» Finardi che modifica il testo degli altri per ritrovare i suoi testi, la sua musica, andare in giro. Un modo diverso di «sbattersi»: ora la realtà è fatta di soldi, di camion, di luci, di palco, di migliaia di persone diverse: insomma di lavoro. Questo scontro, questa conoscenza di una realtà diversa, solo pensata come esistente ma mai verificata, conosciuta, mi ha spinto ad una radicale modificazione del mio sentire, della mia precedente identificazione con gli emarginati: sono uscito da questo «ghetto» non per una scelta ideologica ma spinto, quasi guidato e «costretto» da una realtà di massa, dal mondo del lavoro quotidiano. Non un nuovo flash, non la conseguenza di una reale o supposta popolarità, non per opportunismo, ma per uscire dai miti, dagli schieramenti, dalle scelte condizionate, per continuare un lavoro, un mestiere, un modo di essere, parlare, suonare, comunicare, dire, come sento.
Discografia Non gettate alcun oggetto dai finestrini (Cramps) Sugo (Cramps) Diesel (Cramps)
Eugenio Finardi
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Caramba
Hai 22 anni come me ma chi te lo fa fare il gioco di chi si serve di te per continuare la repressione di chi non t’ha lasciato scelte di chi non t’ha mai dato niente ma tre sole strade aperte poliziotto ladro o emigrante e fare il tuo dovere è giusto ma il dovere quello vero è combattere in ogni posto lo sfruttamento nero E allora dai tiriamo fuori noi finalmente uniti dai vari San Vittori i compagni incarcerati Quello che ti fanno fare non è protegger la nazione ma è solo trasformare Tu predichi la pace della coscienza il mondo in una prigione ma la tua pace è solo indifferenza E ascolta quel che dico tu che dici di non provar mai rabbia e pensaci su bene è solo che nascondi la testa nella sabbia e sai non siamo noi il nemico nel pozzo senza fondo ci sei solo tu siamo quelli che hanno ragione e l’eco che senti l’hai gridato tu E allora dai tiriamo fuori cadendo giù tu che non senti se non parli tu noi finalmente uniti tu che non parli che per guadagnarci su dai vari San Vittori L’incenso non può coprire i compagni incarcerati il cattivo odore solo quello ch’è reale potrà restare e continuare Ma l’Afghanistan lo sai è così lontano e il paradiso non è mai sottomano ma se guardi da vicino quello che hai davanti a Milano Il 13 febbraio a Milano le botte al Palalido a Milano ieri la musica era quasi finita ma oggi per fortuna è ricominciata L’incenso non può coprire il cattivo odore solo quello ch’è reale potrà restare e continuare certe volte ho voglia di partire e quel che ho cominciato di non finire ma poi rimango a Milano che solo qui potrò arrivar lontano
Afghanistan
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Ma non è una malattia
Eugenio Finardi
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Saluteremo il signor padrone
Quando stai per cominciare
A vent’anni sembra molto strano non esser più bambino e quasi un uomo ma hai tanto tempo davanti per far le cose importanti per finalmente realizzarti ma quando stai per cominciare ti chiamano a fare il militare Oh NO!!! e lì ti tolgono ogni diritto puoi solo stare zitto e obbedire e lì t’insegnano che il dovere è solo rispettare chi ha il potere e se per caso non impari ci sono sempre i carceri militari Oh NO!!!
Saluteremo il signor Padrone per il male che ci ha fatto che ci ha sempre derubato fino all’ultimo denar Saluteremo il signor Padrone con la so risera netta niente soldi ne la cassetta ed i debiti da pagar Macchinista, macchinista faccia sporca metti l’olio nei stantuffi di risaia siamo stuffi e a casa nostra vogliamo andar Saluteremo il signor Padrone per il male che ci ha fatto che ci ha sempre maltrattato fino all’ultimo momen Saluteremo il signor padrone per la vita che ci fa fare nella fabbrica dieci ore poi solo il tempo di dormir Macchinista, macchinista del vapore metti l’olio nei stantuffi di risaia siamo stuffi e a casa nostra vogliam tornar
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Ma non è una malattia
La CIA
Well there’s really nothin’ that you can do or say cause you know, honey, you’re never gonna have it your way because I’m paid, I’m paid by the CIA and you’re never gonna be free until I go away. La CIA ci spia e non vuole più andare via la CIA ci spia sotto gli occhi della polizia la CIA ci spia e non vuole più andare via. And I travel round the world to help it to stay «free» and I’ll help you anyway even if you disagree because I’m sure I know the meaning of democracy it means that my way, is the only way to be. La CIA ci spia e non vuole più andare via la CIA ci spia sotto gli occhi della polizia la CIA ci spia e non vuole più andare via.
Voglio
Da piccoli ci hanno insegnato che l’erba voglio non cresce nemmeno nel prato del Re o della Regina e quante volte ci hanno sgridato ma io dico che non c’è niente di male a desiderare basta che quello che si vuole lo si sappia anche realizzare Voglio abitare in una casa di legno costruita con le mie mani così come viene senza un angolo retto con un telescopio in un buco sul tetto per guardare le stelle e i pianeti e scoprirne i segreti perché anche guardando lontano si capisce quel che si ha vicino Voglio una donna che si faccia rispettare per le cose che sa fare che mi sia compagna che mi sia amica con cui dividere la vita E voglio un figlio che mi faccia ricordare quanto è importante giocare giocare per non perdere tempo ma giocare per crescere dentro E voglio che lui cresca in un paese di pace dove si ascolta quello che la gente dice dove si sia capaci di capire quando si deve cambiare Eugenio Finardi
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Anna ha diciott’anni e si sente tanto sola ha la faccia triste e non dice una parola tanto è sicura che nessuno capirebbe e anche se capisse, di certo la tradirebbe e la sera in camera prima di dormire legge di amori e di tutte le avventure dentro nei libri che qualcun altro scrive, che sogna di notte, ma che di giorno poi non vive e ascolta la sua cara per sentire un po’ di buon senso da voci piene di calore e le strofe languide di tutti quei cantanti con le facce da bambini e coi loro cuori infranti ma da qualche tempo è difficile scappare c’è qualcosa nell’aria che non si può ignorare è dolce, ma forte e non ti molla mai è un’onda che cresce e ti segue ovunque vai è la musica, la musica ribelle che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle che ti dice di uscire, che ti urla di cambiare di mollare le menate e di metterti a lottare. Marco di dischi lui fa la collezione e conosce a memoria ogni nuova formazione, e intanto sogna di andare in California o alle porte del cosmo che stanno su in Germania dice: «qua da noi in fondo la musica non è male, quello che non reggo sono solo le parole». Ma poi le ritrova ogni volta che va fuori dentro ai manifesti o scritte sopra i muri. È la musica, la musica ribelle che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle che ti dice di uscire, che ti urla di cambiare di mollare le menate e di metterti a lottare.
Musica ribelle
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Ma non è una malattia
La radio Eugenio Finardi
Quando son solo in casa solo devo restare per finire un lavoro o perché ho il raffreddore c’è qualcosa di molto facile che io posso fare è accender la radio e mettermi ad ascoltare. Amo la radio perché arriva dalla gente, entra nelle case e ci parla direttamente, e se una radio è libera, ma libera veramente, mi piace ancor di più perché libera la mente. Con la radio si può scrivere, leggere o cucinare non c’è da stare immobili, seduti li a guardare, forse proprio quello che me la fa preferire è che con la radio non si smette di pensare. Amo la radio perché arriva dalla gente, entra nelle case e ci parla direttamente, e se una radio è libera, ma libera veramente, mi piace anche di più perché libera la mente.
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Oggi ho imparato a volare
Tutto subito
Oggi ho imparato a volare sembra strano, ma è vero, ci ho pensato... mi son sentito sollevare come da uno strano capogiro. Il cuore mi s’è quasi fermato ho avuto paura e sono caduto, ma per fortuna mi son rialzato e ho riprovato: Oggi ho imparato a volare e non me ne voglio più dimenticare, da tutti i miei amici in visita andrò e alle loro finestre io busserò e dirò: Guarda, ho imparato a volare è facile anche tu potrai imparare t i devi solo un poco concentrare e devi scegliere dove vuoi andare. E se bene sceglierai allora potrai cambiare e se non ti dispererai allora potrai volare. Forse qualcuno si spaventerà, e chi guarda in basso non ci vedrà, chi non vuol vedere non ci crederà, ma ci sarà certo qualcuno che proverà e allora lui imparerà a volare è facile, tutti possono imparare, dai impariamo a volare dai impariamo a volare... E sopra la città si sentono le voci, e sopra la città si vedono le luci
Non senti gridare per le strade della città: Tutto subito voglio aver e tutto subito mi devi dare ma veramente a chi la vuoi menare: voglio tutto subito per favore tutto subito senza fiatare non ho niente da perdere e tutto da guadagnare e voglio tutto subito per favore tutto subito e non protestare sono stanco di subire, sono stufo di aspettare tutto subito voglio avere tutto subito mi devi dare no, non esiste non ascolto più promesse: voglio tutto subito... tutto subito... tutto subito (e non fiatare) tutto subito (e me lo devi dare) tutto subito (per favore)
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Ma non è una malattia
Non è nel cuore La prima volta che ho fatto l’amore non è stato un gran che divertente, ero teso, ero spaventato, era un momento troppo importante, da troppo tempo lo aspettavo ed ora che era arrivato non era come nelle canzoni, mi avevano imbrogliato. E l’amore non è nel cuore, ma è riconoscersi dall’odore e non può esistere l’affetto senza un minimo di rispetto, e siccome non si può farne senza, devi avere un po’ di pazienza, perché l’amore è vivere insieme, l’amore è sì volersi bene, ma l’amore è fatto di gioia, ma anche di noia. Ma dopo un po’ mi sono rilassato, e con l’andar del tempo ho anche imparato che non serve esser sempre perfetti, che di te amo anche i difetti, che mi piace svegliarmi la mattina al tuo fianco, che di fare l’amore con te non mi stanco, che ci vuole anche del tempo, ma lo scopo è conoscersi dentro. E l’amore non è nel cuore, ma è riconoscersi dall’odore, e non può esistere l’affetto senza un minimo di rispetto, e siccome non si può farne senza, devi avere un po’ di pazienza, perché l’amore è vivere insieme, l’amore è sì volersi bene, ma l’amore è fatto di gioia, ma anche di noia. Oggi ho litigato con la Elia, si parlava di diritti e di doveri ma se ci penso, nella nostra storia, fatti i conti in fondo siamo pari.
Eugenio Finardi
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Da Salerno a Milano con un carico di frutta sotto il sole bisogna fare in fretta Giancarlo guida e Mario è su in cuccetta su per l’Italia che scotta verso un mercato che li aspetta e in Emilia sull’altra corsia un’orchestra di liscio che torna da Pavia. E diesel è il ritmo della vita è la nuova pulsazione per la nuova situazione e diesel è il ritmo delle cose è la giusta propulsione per la mia generazione. Ma poi tornando verso casa l’asfalto è dei camion e di chi li guida gente che la vita se la suda e io amo questa gente che si dà da fare che vive la sua vita senza starsela a menare che non teme la fatica ma che non si fa sfruttare E diesel è il ritmo della vita è la nuova pulsazione per la nuova situazione e diesel è il ritmo delle cose è la giusta propulsione Ci dicevano e insistevano di studiare per la mia generazione. che da grandi ci sarebbe stato utile sapere le cose che a scuola andavamo ad imparare che un giorno avremmo dovuto anche lavorare e c’è chi è stato promosso, c’è chi è stato bocciato chi non ha retto la commedia ed è uscito dal gioco ma quelli che hanno studiato e si son laureati dopo tanti anni adesso son disoccupati e infatti mi ricordo mi sembrava un po’ strano passare quelle ore a studiare il latino perché allena la mente a mettere tutto in prospettiva ma io adesso non so nemmeno calcolare l’IVA. Io volevo sapere la vera storia della gente come si fa a vivere e cosa serve veramente perché l’unica cosa che la scuola dovrebbe fare è insegnare a imparare io per mia fortuna me ne sono sempre fregato non facevo i compiti e non ho quasi mai studiato ma ascoltavo dischi e mi tenevo informato cercavo di capire e adesso me la so cavare perciò va pure a scuola per non far scoppiare casino studia la matematica, ma comprati un violino impara a lavorare il legno o ad aggiustare ciò che si rompe che non si sa mai nella vita un talento serve sempre.
Diesel
Scuola
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Ma non è una malattia
Non diventare grande mai non serve a niente sai continua a crescere più che puoi ma non fermarti mai continua a giocare, a sognare, a lottare non ti accontentare di seguire le stanche regole del branco, ma continua a scegliere in ogni momento perché, vedi, l’avere ragione non è un dogma statico, una religione, ma è seguire la dinamica della storia e mettersi sempre in discussione perché sai non basta scegliere di avere un’idea giusta assumere il linguaggio ed il comportamento per poi dormire dentro perché, vedi, l’aver ragione il tuo dovere è di migliorarti non è un dogma statico, una religione di stare bene, di realizzarti ma è seguire la dinamica della storia cerca di essere il meglio che ti riesce e metterti sempre in discussione per poi darti agli altri il tuo dovere è di migliorarti e ad ognuno secondo il suo bisogno di stare bene, di realizzarti, e ad ognuno a seconda della sua capacità cerca di essere il meglio che ti riesce e anche se oggi potrà sembrare un sogno per poi darti agli altri da domani può essere realtà e ad ognuno secondo il suo bisogno da domani deve essere la realtà e ad ognuno a seconda della sua capacità non diventare grande mai e anche se oggi potrà sembrare un sogno non serve a niente sai da domani può essere realtà continua a crescere più che puoi, da domani deve essere la realtà ma non fermarti mai non diventare grande mai continua a giocare, a sognare, a lottare non serve a niente sai non ti accontentare di seguire continua a crescere più che puoi, le stanche regole del branco ma non fermarti mai ma continua a scegliere in ogni momento continua a giocare, a sognare, a lottare non ti accontentare di seguire le stanche regole del branco, ma continua a scegliere in ogni momento e ad ognuno secondo il suo bisogno e ad ognuno a seconda della sua capacità e anche se oggi potrà sembrare un sogno da domani può essere realtà da domani deve essere la realtà e non ascoltare chi ti viene a dire che fino ad adesso non è funzionato mai
Non diventare grande mai
Eugenio Finardi
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Scimmia Il primo buco l’ho fatto una sera a casa di un amico così per provare e mi ricordo che avevo un po’ paura c’è molta violenza in un ago nelle vene ma in un attimo, una fitta di dolore, un secondo ad aspettare poi un’onda dolce di calore, quasi come nell’amore e poi mi son lasciato andare, completamente rilassato in un benessere artificiale, come mai avevo provato. Ma poi a casa me lo son giurato che io no, non ci sarei cascato «io la imparerò ad usare, la saprò gestire non mì farò fregare» ma cí continuavo a pensare, non mi usciva dalla mente e man mano che passava il tempo diventava la cosa più importante. «E poi non me ne frega niente di quel che pensa la gente tanto siamo tutti assuefatti di qualcosa e di cosa è irrilevante» e continuavo ad aumentare, mi facevo quasi tutte le sere e appena fatto mi scoprivo a temere di non riuscirne più a trovare. E ore ore ore per ogni farmacia ad aspettare «e sto’ stronzo del dottore non me la vuole dare a lui che cazzo gliene frega, ma un giorno me la paga un giorno passo con un sasso e gli faccio la vetrina nuova ... e dai prestami una fiala, è da sei ore che mi sbatto Poi per due anni non ho quasi fatto altro non ho suonato, non ho fatto l’amore tiravo il tempo da un buco all’altro in giro a sbattermi o in casa a dormire. Ma una mattina mi son chiesto: «come andrà a finire? Andare avanti, finire in galera, magari anche morire e poi così non può durare, sta diventando quasi come un lavoro otto ore a sbattermi ma ormai sballo poco anche con l’”ero”. E poi sto perdendo tempo e sprecando quello che ho dentro io così mi sto consumando, mi brucio ma mi sto spegnendo e smettere non è poi così difficile non fa neanche tanto male basta un po’ di cura e di comprensione magari un po’ di metadone e fuori c’è tutto un mondo da scoprire sul quale si può intervenire e se tieni duro sei mesi vedrai che non ci ripenserai quasi mai».
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Romano MĂ dera
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Tu sei rock e su questo rock costruirò la mia chiesak Ricky Gianco
«Ora sei rimasta sola, piangi e non ricordi nulla», non è una ammorbidita frase dello Stecchetti (poeta maledetto): è il capoverso di una mia vecchissima canzone anni ’60-61 che torna stranamente d’attualità, a distanza di 15 anni, al Festival della stampa d’opposizione al Parco Ravizza a Milano. Verso la fine del mio spettacolo, analizzo in modo autocritico le mie origini musicali «rocchettare» e il revival parte per l’appunto con la sopra citata Ora sei rimasta sola. È in quella situazione molto tesa che mi chiedono di cantare tutta la canzone, lasciandomi a dir poco stupito; mi viene spontaneo replicare: «Sì d’accordo, però cantate anche voi». A questo punto si mettono a cantare in seimila (più o meno) e mi trovo improvvisamente in imbarazzo, a disagio, letteralmente nella merda, ma ormai cantiamo in coro. Da questo apparente superficialità nasce, secondo me, una chiara spiegazione del cosiddetto fenomeno del revival. Non è un ripescaggio dovuto a vecchi nostalgici, è la curiosità di giovani che vagamente conoscono o che comunque, per mancanza di nuovo (magari divertente o rilassante) hanno voglia Il revival non è un di tempo libero e non liberticida. È altrettanto esplicito ripescaggio che questo tipo di evasione è possibile in un particolare contesto dove, dopo avere controllato i documenti, dovuto a vecchi la coscienza politica e la sicurezza della stessa, viene di nostalgici, è la conseguenza la possibilità di ammettere: «Ma sì, lasciacuriosità di giovani moci andare a coglionaggini per un momento, cantiamo un po’ facendoci un paio di autonome risate». Stabilito che vagamente quindi il tipo di sdoppiamento che da una parte si idenconoscono o che tifica nell’Internazionale e dall’altra nella ricreazione del comunque, per rock, l’unica cosa importante è che credere nel rock vormancanza di nuovo, rebbe dire correre il rischio di inzupparsi in una specie di bieca fede ma che, per prendere fiato, va benissimo. hanno voglia Nessuno, penso, vorrebbe ritrovarsi nei pannacci di chi, di tempo libero dimenandosi spietatamente ad 80 anni, si spiegasse adducendo: «Ho speso tutta la mia vita per il rock’n’roll». e non liberticida.
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Tra l’altro correrebbe il rischio di ritrovarsi convogliato tra le fila di un corteo composto di alpini e marinai, nel ruolo di rockenrollaro. La realtà credo sia che non ci hanno mai insegnato niente, e che ci hanno sempre lasciato fare l’amore in modo spaventato e drammatico, senza permetterci il normale piacere di una sincera risata, prima, durante e dopo; così le canzoni ci hanno accom pagnato e seguito, il più delle volte perseguitandoci nella repressa realtà di sempre. C’è, di conseguenza, una rabbia, una ribellione, una rivoluzione che a slogan ritmici porta anche la canzone a una nuova espressione di contestazione e di bisogno epidermico di parlare di esigenze reali, non di «Amori stellari e franceschiani» (mi riferisco a Battisti-Mogol che non hanno ancora capito che era proprio Francesca e mi sembra più che giusto). Siamo ora ad una fase in cui, da una parte, esiste un linguaggio indubbiamente e decisamente cambiato, Lo sdoppiamento dall’altra una formula e un modulo musicale che non è che da una parte cambiato quasi per niente. Forse il problema è «fare si identifica suonare le parole e fare però parlare la musica». Io ci sto provando, e dico questo perché mi rendo conto che è nell’Internazionale possibile, anche se difficile e a volte sfracellante (mi e dall’altra nella riferisco a A Nervi nel ’92 e a Compagno sì, compagno no, ricreazione del rock. compagno un cazzo). Adesso vorrei fare un passo indietro, premettendo che non credo nella reincarnazione né quindi nella faticosa possibilità di nascere e morire due o più volte. Con questo non voglio intro durre il solito e sempreverde misterioso interrogativo «Che cos’è la vita?» ma diciamo che mi limiterò all’esigenza di una più facile, anche se spericolata, risposta: la vita è un waltzer, anzi — in questo caso — un rock’n’roll. Questa specie di postprefazione è dedicata a quelli che sicuramente accosteranno alla lettura cronologica dei testi la facillima definizione «Il vecchio Ricky Gianco e il nuovo Ricky Gianco» senza così togliere una volta per tutte a Gesù Cristo quello che naturalmente era di Lazzaro. Il rock and roll nasce con un musicista disc-jokey di nome Alan Freed che, ascoltando dischi di rithm and blues nell’America del 1951, inizia un programma radiofonico intitolato: «Moondog’s Rock’n’Roll Party». L’accostamento delle parole R’n’R (Rock’n’roll) si ispira automaticamente a R’n’B’ (rithm and blues). Nel 1954 parte definitivamente il rivoluzionario periodo con in testa il defunto Elvis, che, fra l’altro, molti ascoltatori statunitensi credono cantante di colore; così si scatena un nuovo modo di esistere e il diverso linguaggio comincia a entrare in tutte le case americane stracolme di teenagers cresciuti nel maccartismo, ma comunque desiderosi di nuovo, oltre che di vecchi e soliti hamburgers. Ogni casa discografica cerca immediatamente l’idolo da contrapporre a Elvis ed è così che si sviluppano vari tipi di rock e di esecutori, che io dividerei approssimativamente in questi gruppi: Ricky Gianco
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1) rock bianco, selvaggio, carico di sesso e violenza (Presley - E. Cochran - J.L. Lewis - G. Vincent - B. Holly); 2) rock nero, chiave base di blues e ritmo e strumento non di lotta per la fine del ghetto ma per l’uscita o la fuga da esso (L. Richard - F. Domino - C. Berry - B. Diddley); 3) rock bianco perbenista e puritano con ritmi educati e abbandono a tradizioni country ed hillbilly, roba da vecchio Sud, meglio se ricco (R. Nelson - Everly Brothers - R. Orbinson - C. Twitty - P. Boone); 4) rock del pianto, falso ritmicamente e melenso melodicamente, con punte di sofferenza massima anche in caso di piacevoli e felici situazioni tipo: You are my destiny, Put your head on my shoulder, The diary, Happy birthday sweet sixteen (P. Anka - N. Sedaka F. Avalon - R. Luke). Naturalmente, questa non è la storia del rock, ma un modo per spiegare abbastanza chiaramente come io, un po’ per sfiga, un po’ per mia insipienza, sia cresciuto nel filone del rock del pianto. Probabilmente, anche se in maniera vittimista, per uscire dal mio metro e sessanta e dai miei perseguitanti brufoli (1957-58, i brufoli non li ho più). Sono passato, in 21 anni di lavoro, attraverso: feste scolastiche - festival del dilettante (tipo «Cappio d’oro», dove i fischi del pubblico potevano metterti nella condizione di essere trascinato fuori dal palco, mentre cantavi, grazie appunto al Il diverso sta in famoso «Cappio»); feste di piazza – avanspettacolo – festival di Sanremo –balere – teatri – cabaret – stadi tutto lo spettacolo – festival dell’Unità – dell’Avanti ecc. crescendo sempre come fatto culturale, a contatto con pubblici diversi. che si è in blocco Anche se i comportamenti sono cambiati, le reazioni del pubblico sono spesso, a parer mio, quasi identiche. Il continuamente diverso sta in tutto lo spettacolo come fatto culturale, evoluto nel tempo che si è in blocco continuamente evoluto nel tempo e nelle sostanze. e nelle sostanze. Quello che voglio dire è che un Villa ancora oggi è applaudito, ma dallo stesso vecchio pubblico di allora, mentre un Gaber ha un pubblico nuovo che non accetterebbe sicuramente Villa. L’interessante sta nel fatto che forse un Gaber potrebbe recuperare il vecchio pubblico di Villa, non certamente il contrario. Quando gl’intellettual-borghesi degl’anni ’60 ascoltavano Paoli, Bindi, e poi Tenco e De André, sorridendo perché a conoscenza dei vari Vian, Brassens, Brel ecc., consideravano il fenomeno tutto loro e fra i libri di Baudelaire, Brecht e Marx infilavano i dischi di queste divertenti e intelligenti canzoni. I balera-people, invece, meno comodamente seduti, non seguivano i contenuti (considerato anche che la loro merce ne era priva) ma si tuffavano nella danza lasciando solo ai vecchi il piacere di una cantata in osteria. Così, in un secondo tempo, mentre i borghesi si buttavano sul mondinaggio salottiero, i proletari e sottoproletari più o meno incazzati, cominciavano a chiedere e poi a pretendere ciò che gli
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Cantautori e cantautori politicizzati fanno della musica italiana un fatto di informazione e attualità.
apparteneva e che era la loro cultura popolare fatta di lotte continue col sempre più faticoso quotidiano. Con la lotta comunista d’opposizione prima e definitivamente col ’68-69 dopo, si riprende un duro lavoro politico (non per la misteriosa «ricostruzione») per una costruzione collettiva che coinvolge tutti, militanti e non, che sveglia anche chi vive chiuso in casa coi’ propri problemi personali. La canzone politica per antonomasia diventa così non solo una denuncia fatta di Bandiere rosse o A morte il padrone, ma anche di personale che, in questa maniera, diventa politico. Cantautori e cantautori politicizzati fanno della musica italiana un fatto di informazione e attualità, come forse era conosciuta secoli prima da cantastorie pungenti e ironici. Per quello che mi riguarda credo molto in questa direzione, senza con ciò rinnegare la mia origine fatta di rock, ma piuttosto meditando sul fatto che se Elvis Presley avesse potuto scegliere tra mafia e movimento, probabilmente avremmo avuto un grosso leader. (La lettera di Lenin su Mussolini mi è venuta in mente solo dopo, lo giuro: anche se non so su «cosa»).
Discografia Una giornata con Ricky Gianco (Jaguar) Ai miei amici di Ciao Amici (Jaguar) Ricky Gianco Special (Ricordi) Disco dell’angoscia (Ultima spiaggia) Alla mia mam… (Ultima spiaggia) Alla composizione delle canzoni di Ricky Gianco hanno collaborato Miki Del Prete (Sei rimasta sola), Detto-Don Backy-Del Prete (Tu vedrai), G. Pieretti (Il vento dell’est), E. Green-C. Montgomery (Questa casa non la mollerò) e G. Manfredi.
Ricky Gianco
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Tu vedrai Ora sei rimasta sola piangi e non ricordi nulla scende una lacrima sul tuo bel viso lentamente lentamente Ora sei rimasta sola [1962] cerchi il mio viso tra la folla forse sulle tue piccole mani stai piangendo il tuo passato Ma domani chissà se tu mi penserai allora capirai che tutto il mondo eri tu la tua vita così a niente servirà e tutto intorno a te più triste sembrerà Ora sei rimasta sola...
Sei rimasta sola [1962]
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Ma non è una malattia
Tu vedrai, tu vedrai La luce verrà la luce verrà dall’alto del ciel o no no non disperar Tu non ti perderai perché nel suo immenso amor la mano ti porgerà la mano ti porgerà e nel vento farà udire la sua voce e se tu l’ascolterai dalla notte un astro sorgerà, allora Tu vedrai la luce del sol tu vedrai l’azzurro del mar tu vedrai le stelle brillar nel regno del Signor! Lui ti perdonerà oh sì ti perdonerà perché nel suo regno d’or lo so ti porterà dal tuo volto di lacrime io so che la tua mano ora stringe la sua mano e nel cuore il buio più non hai Tu vedrai...
Il vento dell’est
Quando il vento dell’est mi porterà il profumo dei capelli suoi io guarderò verso il vento dell’est e mi ricorderò che lei è andata di là Quando il vento dell’est si fermerà e la neve verrà a posarsi su noi se sarà li con te fa che non pianga mai che non abbia mai freddo che non soffra mai più. E fa che i suoi capelli siano sempre più lunghi perché solo così è più bella che mai Io piangerò e guarderò verso il vento dell’est [1966] per vederla tornare
Una giovane Signora, un’amica affascinante una donna strana, con un viso interessante un po’ per aiutarmi, un po’ per essere tranquilla con la propria coscienza casalinga progressista che è sensibile all’amore, all’amore di un bel fiore che non vuole sapere quando muore il tuo dolore che non vuole sapere quando nasce in te la vita tanto tutto finisce, basta crederla finita mi ha detto: «vuoi un consiglio, vuoi conoscere il tuo destino vai in via Arzaga a mio nome, c’è un bravissimo indovino peserà il tuo dolore e ti sentirai sicuro guarderà fra le tue chiappe e leggerà il tuo futuro. Un amore che non sai, forse non hai saputo mai il dolore che mi dai quando ti stringo e non lo sai Certo insistendo presso amici a Busto Arsizio potrei conoscere il suo nome e il suo indirizzo e pagando molto il tuo dentista gentilmente [1975] mi potrebbe dare una foto di un tuo dente e per riuscire a sapere cosa senti nel tuo cuore potrei andare a Firenze da quell’altro tuo dottore
Un amore
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dal Magnifico Ghigo farmi dare fra le più belle un ingrandimento delle tue sane mammelle ma per conoscerti veramente proprio a fondo potrei corrompere quel dietologo tuo stronzo a lasciarmi dare un’occhiata solamente per vederti pagare, nuda, ventimila seriamente Un amore che non hai o forse non hai avuto mai il dolore che mi dai quando ti tocco e non lo sai Forse io sono un volgare pervertito quando ti fisso con lo sguardo un po’ smarrito quando guardo quelle gambe tue non belle irrequiete e tonde, proprio come due gemelle quando io accarezzo la tua pelle profumata e tu mi guardi attenta, quasi un poco spaventata e poi stringi la mia mano ed ío sento un gran calore sta’ tranquilla, credo sia un difetto di circolazione e quando io guardo da affamato le tue labbra come un gorilla tra le sbarre chiuso in gabbia no, non ci badare, c’è chi nasce fortunato c’è chi nasce sociologo e chi bischero malato Un amore che non sai, forse non hai saputo mai il dolore che mi dai quando ti guardo e non lo sai E imbarazzante ritornare a casa a sera con in mano un fiore se ti vede la portiera forse lontano dalla mamma, dai nipoti e dalla zia e dai nonni e dai tuoi suoceri, dagli amici e da casa tua dici: «se ti avessi incontrato per i giochi senza frontiera oltre cortina quando è buio verso sera» se non avessi questo ruolo così importante da intellettuale borghese, con la testa sulle spalle forse se non avessi paura che un paio d’ore diventassero magari giornate senza più amore o se un giorno mi amassi e dicessi di non amarmi o forse solamente con un altro, insomma basta Un amore che non hai o forse non hai avuto mai il sorriso che tu hai che forse non ho avuto mai Quello che volevi forse io non l’ho capito un incontro a scacchi con di fronte tuo marito per vederlo vincere e scoprire il suo sorriso e sentirmi dire con un tono caldo e preciso: «qui non c’è fortuna è uno scontro di cervelli» e potere guardare i tuoi occhi freddi e belli Un amore che non sai, forse non hai saputo mai il dolore che mi dai quando ti amo e non lo sai
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Ma non è una malattia
Son qui per buttarci fuori di città son tutti in fila lì per sei però non sono mica amici miei sono venuti tutti qui per noi, ma guarda che adunata di cowboys di qui non uscirò, questa casa non la mollerò In terza fila vedo uno che somiglia proprio a mio cugino porco cane è proprio Bruno, ma perché s’è fatto celerino ma se ci prova a venire su, io dalle scale lo ributto giù di qui non uscirò, questa casa non la mollerò E c’è una donna qui con me che non aveva visto mai un bidè quando lo schizzo viene su, si mette a ridere, non ne può più tripli servizi, ma tu guarda un po’, passano il giorno a fare la popò di qui non uscirò, questa casa non la mollerò Sul pavimento le piastrelle son dipinte tutte quante a stelle sulla parete abbiamo scritto «questa casa è nel nostro diritto» se le tenete vuote cari miei, [1974] le conserviamo intanto noi per voi di qui non uscirò, questa casa non la mollerò Un candelotto viene su, non si respira, non se ne può più mia moglie stringe fra le braccia un bel bambino lucido da caccia di questi tempi non ci sono santi, con tanti ladri è meglio stare pronti ma di qui non uscirò, questa casa non la mollerò Presto la porta si aprirà, un poliziotto ci sorriderà ci chiederà se per favore vogliamo scendere un paio d’ore sarà gentile ci darà del Lei, ne ammazzerà soltanto cinque o sei ma di qui non uscirò, questa casa non la mollerò
Questa casa non la mollerò
Ricky Gianco
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Rock della ricostruzione Metti fuori la bandiera [1974] festa della libertà è finita la paura rifiorisce la città tanta gente per la strada e mattone su mattone cento mani mille mani Viva la ricostruzione (Lama) Solo uno sforzo per la collettività l’ultimo sforzo poi ci si riposerà (Lama) Case nuove nei paesi una nuova società e la gente è ritornata alla solita realtà ci si trova meno uguali torna l’ordine il decoro non si può più stare in piazza Tutti al posto di lavoro (Lama) Solo uno sforzo per la produttività l’ultimo sforzo poi ci si riposerà (Lama)
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Davanti al nastro che corre
[1974] Davanti al nastro che corre Dove corre chi lo sa corre il respiro mi toglie Presto il ritmo aumenterà cinquanta pezzi al minuto Di roba che non è mia ci dice viva il lavoro No non sa che cosa sia Davanti al nastro che corre Dove corre chi lo sa corre i pensieri mi toglie E con sé li porterà sotto la pressa i pensieri Non son più una cosa mia escono piatti ed uguali Tutti in fila vanno via La mia testa i miei polmoni ed il mio sesso io non li sento io no non sono più lo stesso Davanti al nastro che corre Dove corre chi lo sa ecco mi prende m’afferra E con sé mi porterà con le mie ossa il mio sangue Cosa ci fabbricherà un macchinario più grande Che altra gente inghiottirà La mia testa i miei polmoni ed il mio sesso io non li sento io no non sono più lo stesso
Ma non è una malattia
Ricky Gianco
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Ospedale militare [1975]
Ma perché il mio letto devo farlo così? ma perché non posso andare a fare pipì? ma perché la luce la spengiamo alle nove ma di che commedia stiam facendo le prove? io voglio scappare, me ne voglio andare oltre questo muro d’ospedale militare non voglio più vedere colonnelli e vecchie suore, suore, suore, suore salto sopra il muro e sono fuori in pigiama sul tram la gente guarda male «Ma guarda un po’ che roba, và che tipo originale, ehi mi scusi giovanotto senta qui in pigiama non si può stare guardi che io la denuncio, non mi fa neanche sedere» «Ma sa che sono un grande invalido, e non vede che sto male, male...» Ora se mi beccano che cosa accadrà? forse il contrappello è passato di già forse mi rimandano diritto al mio corpo forse mi ricercano da vivo o da morto io voglio scappare, me ne voglio andare oltre questo muro d’ospedale militare alla mia ragazza ora andrò a telefonare, presto, presto, presto spero non mi lasci qui di fuori in pigiama in un bar la gente guarda male «Ma guarda un po’ che roba, dove andremo così a finire? ehi mi scusi giovanotto, senta qui in pigiama non si può stare è già mezz’ora che fa numeri, io vorrei telefonare» «mi scusi ma è una cosa urgente, ci ho una gatta da pelare... pronto? pronto? pronto?»
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Ma non è una malattia
Ricky Gianco
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Campo minato La lancetta del potere [1975] ha una forma appuntita e girando cancella la vita il cassetto della mente troppo pieno di carte riempiremo con terra di Marte Ho smontato la mia testa per vedere che c’è dentro solo cenere d’un fuoco spento soffocato dalle spine tenta una reazione che non sa diventare emozione Va più in là dei confini del prato la realtà sta sul campo minato vieni qui, fai due passi fai due passi con me La catena dei pensieri imprigiona una cosa che diffonde una luce misteriosa che sconfigge la notte buia della prigione con la forza dell’immaginazione Giù da quel grattacielo è volato un volantino volteggiando m’è caduto vicino è il messaggio d’un tipo chiuso nell’ascensore ma a salire ci vorrebbero ore Va più in là... Il corteo di bandiere si fa sempre più corto e la vita è salpata dal porto quanta gente sul molo pugni chiusi a salutare però io mi voglio imbarcare quanta gente al botteghino a giocare il suo terno sulla presa del Palazzo d’Inverno meglio dare l’assalto senza date fissate alla rossa fortezza d’Estate Va più in là...
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Ma non è una malattia
Nel mio giardino [1975] Nel mio giardino invece dei fiori ci sono semafori gialli invece degl’alberi ho messo lampioni e il prato è di sassi scuri le siepi son fatte di filo di ferro la vasca dei pesci è un bidone direte un giardino davvero un po’ strano infatti lo chiamo Milano Nel mio giardino un rivolo sporco avanzi di un copertone un tram senza ruote una targa rubata segnali di sosta vietata sul muro là in fondo immagini a pezzi di tante elezioni passate direte un giardino davvero un po’ strano infatti lo chiamo... Milano lo chiamo Milano La palla sgonfiata rottami di neon e tacchi di scarpe da donna juke-box senza dischi un libro buttato ed io che mi sento malato e corro seduto su questa poltrona a cui ho fissato due ruote su e giù dal giardino mi sento un po’ strano che razza dí posto... Milano che posto è Milano
Fango [1976]
Fango ebbe un padre negro e una madre pellerossa l’uno e l’altra lo lasciarono davanti ad un portone era l’Università di Heidelberg o forse di Jena e un leggio ebbe per culla e un libro per la cena Quando fu più grandicello fece un salto a Leningrado e si mise a lavorare in una fabbrica di sogni lui voleva fare un uovo, un uovo tutto rosso e levigato ma in programma erano cubi con lo stemma dello Stato Sopra il muro di Berlino se ne stette appollaiato aspettando che passasse un editore di memorie passò invece una ragazza con un mitra fra le braccia lui le sparse del profumo sui capelli e sulla faccia
Ricky Gianco
Quando arrivò in America lo beccarono all’istante lo accusarono d’aver ucciso ben sette presidenti fango conservò la calma disse: «Io, non c’entro niente lo ammazzato i Re di Roma, sì, i Re di Roma solamente» I così lo torturarono con i ferri con i vetri con i fili con il gas con gli strumenti più segreti ma lui continuò a sorridere e sparì tutto d’un tratto perché Fango non smentisce la sua anima di spettro Ora Fango è per la strada, lungo i muri, nei quartieri nelle culle dei bambini dorme, non si fa vedere ma tu senti il suo calore sulla punta delle dita Fango nasce nel tuo corpo e trasforma la tua vita
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A Nervi nel ’92
Un cappello un po’ bizzarro ed un sigaro toscano un bastone nella mano: era lei [1977] qualche anno nella pelle occhi dolci e luminosi una smorfia e poi un sorriso: era lei e un omino un po’ pelato rosso in viso, alcolizzato col cappotto un po’ scucito: era lui. La guardava un po’ incantato e in silenzio si sedeva ma parlava, ma parlava solo lui. A Nervi nel ’92 su una panchina scolorita a Nervi nel ’92 le raccontava la sua vita Lentamente ricordava una storia di una donna che giocava Il mio male non conosco e non rischiava quasi mai qui mi sento fuori posto che il telefono scopriva un oggetto da curare anche se poi lei mentiva meglio dire sorvegliare sopra il filo m’hanno dato in ospedale camminando in su e in giù. la patente di anormale In un circo coi leoni vorrei stare in compagnia coi pagliacci mattacchioni e la chiamano malattia lavorava e lavorava solo lei ma cos’è poi la salute ma di colpo si fermava chi ce l’ha chi la decide? e diceva che l’amava Il dottore il tribunale lei rideva ma ascoltava ferma lì. forse il capo del personale A Nervi nel ’92... un esperto in psichiatria Le sue mani affusolate l’altro in ginecologia un po’ timide e delicate tutto questo è malattia lui stringeva La salute è uscire fuori e lei stringeva sempre più non marcire più da soli Oramai da molti anni non lasciarsi più morire il ’18 era passato dentro a un bar ma non si era mai dentro a un cortile stancato insieme a lei Chiuderò la mia ferita Mordicchiandosi le dita voglio prendermi la vita non diceva una parola la salute non si spreme ma i suoi occhi la prendiamo tutti insieme la tradivano sempre più ma cosè poi la salute E così una sigaretta chi ce l’ha chi la decide? con amore ciancicata ...non crepare nel reparto gli accendeva e lui non dormire più all’aperto... fumava insieme a lei.
Io voglio stare bene [1977]
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Ma non è una malattia
Compagno sì, compagno no, compagno un cazzo [1977]
Sto facendo un notiziario cambogiano da una radio libera, per chi? Il microfono è un po’ fallico però il potere non ce l’ho no, no! Circondato dai mass media sulla sedia io lavoro sempre gratis ma c’è, Antonietta che mi ama e che mi aspetta tutta notte lei mi ascolterà Compagno sì, Compagno no, Compagno un cazzo! Compagno sì, Compagno no, Compagno un cazzo! Io c’ho il profugo cileno a casa mia è arrivato nel ’73 e da allora lui non è più andato via Antonietta fammi star da te passa un giorno, passa un mese, passa un anno L’unità sconfiggerà il padrone ma Antonietta mi ha buttato per la strada vuoi veder che sono io il coglione Compagno sì... Vado a prendere. un po’ d’erba da un amico ad Antonietta la regalerò io la lascio chiusa in macchina un secondo per andare a bere un buon caffè quando esco m’han spaccato il finestrino e un ragazzo sta saltando il muro come fai a mandare uno a San Vittore poi finisce che gli fanno il culo Si avvicina un tizio con cravatta e giacca tira fuori in fretta un tesserino e mi dice: «Tu sei uno di sinistra sta’ tranquillo sono un celerino son pulotto sì, ma son del Sindacato forza dimmi cosa ti ha rubato» Io gli dico: «Lascia perdere compagno è un problema troppo delicato» Compagno sì, Compagno no, Compagno un cazzo! Ricky Gianco
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La lettera
[1977] Eran belle le strade con il vento tagliente, e noi coi turisti Maria Teresa girava a Schonbrunn, e noi comandati da un cicerone colonnello che amava i pavimenti del castello e la carrozza cancellava la realtà I cavalli bianchi della scuola spagnola, e noi è vero danzano, ma sopra hanno un cavaliere, e noi anche un grande ballerino può cadere anche un marito può picchiare il sedere abitava qui Beethoven e sordo morirà Come un male che non puoi curare come una cancrena, hai deciso tu amputare è meglio, è razionale un taglio netto certo basterà, forse a salvare la sua e la tua felicità è facile morire, è più difficile capire Sai pregare in tedesco in una chiesa a Vienna e buffa, ridi, e noi il mercato delle pulci, una torta al cioccolato, i mostri, e noi suona falso un violino in ungherese il goulash è obbligatorio, ma è Viennese e il Bristolone la tua spilla renderà Arcimboldo dipingerà la mia testa per te, e noi nei miei occhi il tuo amore, sulla fronte la tua lealtà, e noi sulle labbra il tuo fiato desiderato nella mia gola il tuo palato fra le mie rughe la tua sincerità
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Ma non è una malattia
Come un male che non puoi curare La tua tosse del mattino, uno spazzolino in due, e noi fra i miei denti la tua gengivite, una sola in due, e noi il tuo corpo che io amo e tu non conosci e il tuo dolore che mi nascondi la mia disperazione e mi fai fare l’amore Io mi sento bene, sono pronto, è Natale ormai, e noi come un albero coi palloncini sorriderò, per noi non preoccuparti poi se il sette gennaio senza più luci né radici finirò giù in cortile o sul solaio Come un male che non puoi curare come una cancrena hai deciso tu amputare è meglio, è razionale un taglio netto certo basterà, forse a salvare un’altra volta, la sua e la tua felicità non lasciarmi morire, io voglio ancora capire
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Ma non è una malattia
Ricky Gianco
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Mollate le menate e menatene l’autore Claudio Lolli
«L’eclisse della canzone», mi verrebbe da dire, se è lecito che una cosa così terracquea (o terra-terra) come la canzone venga paragonata al dio. Voglio semplicemente dire che, se fino a qualche tempo fa, la canzone trovava nella sua immediata rozzezza (sempre equivoca) una praticità utile per urgenza, oggi vive (o nasconde) la contraddizione di mobilitare (a pagamento) buona fetta delle masse giovanili (e delle masse-medie) senza avere niente da dire. Oppure (che è lo stesso) dicendo tutto in un modo talmente spudorato da privarsi dell’unica parvenza di funzione che potrebbe avere: l’inutilità. L’occhio storico dovrebbe farci capire che il lanciatore di messaggi, il cantautore, ha ereditato con furbizia, magari inconsapevole, il bisogno di immaturità dell’ascolto, ha ereditato il populismo del canto (di)spiegato, ha ereditato la mediocrità del maestro di musica e dell’armonia pascoliana, ha ereditato infine il successo commerciale del divo. Ed io non vorrei che questo necessario travaglio sfociasse invece che in una scomunica, in una rinnovata investitura da parte di chi è nuovo alla scena politica, e non ha bisogno di battitori né, appunto, di lanciatori. Non è, naturalmente, autolesionismo, ma semmai autoironia: in ogni caso non credo né nell’intimismo crepuscolare della parola che più è trita più è «sentita», cioè nel pescare nella memoria come fonte di miti dolciastri («basta con la canzone consolatoria»), né nell’impegno socialdemocratico, da funzionario, Oggi dobbiamo di chi dice e spiega. e cerca di vendere il suo «world in progress» (con le contraddizioni annesse e intercamaccorgerci biabili, naturalmente) alle piccole burocrazie locali che la canzone non desiderose di «cultura» («basta con la canzone impeha mai consumato gnata»). Basta, probabilmente, con la canzone: non per radicalmente nessun snobismo né per sentimento di catastrofe, ma perché oggi dobbiamo accorgerci che la canzone non ha mai linguaggio e sta consumato radicalmente nessun linguaggio e sta quindi quindi rivomitando rivomitando linguaggi non digeriti, così come li ha divorati: l’impegno da un lato e il romanticismo dall’allinguaggi non tro le sono serviti da impossibile Alka-Seltzer. digeriti, così come «Ma io non ci sto più, disse lo sposo e poi»: non c’è bisoli ha divorati. gno di impazzire per sostenere che oggi «in canzone»
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Ma non è una malattia
non si può tentare che qualcosa di assolutamente «inutile», o comunque perlomeno di innominabile: l’unico modo per dire qualcosa è quello di non dirlo, perché quel «non-dirlo» solamente può spingere a fondo il bottone del piacere, o, se vi fa piacere, della comprensione. È quello che ho cercato di fare nel mio disco Disoccupate le strade dai sogni: purtroppo la realtà non ha voluto che il suo significato rimanesse a lungo ambiguo: la socialdemocrazia, irritata forse dai tromboni, ha subito voluto dimostrare di possedere anche i carriarmati; l’ultimo atto non era previsto nel copione, viene solo testimoniato, con la scambiabilità del suo linguaggio, nell’ultima canzone I giornali di marzo, l’unica composta L’unico modo per dopo il «fattaccio». Non spieghiamo più niente: il potere è chiaro ed è «utile», ed ha anzi bisogno di gente che dire qualcosa vada in giro a spiegare la sua evidenza, la sua utilità. è quello di non dirlo, Lavoriamo (o lavorate se volete) ad una canzone assoluperché quel «non tamente inutile. Del resto, se mi si concede la citazione, credo che Benjamin avesse veramente ragione quando dirlo» solamente diceva che «l’arte per l’arte non è stata quasi mai da può spingere prendersi alla lettera, è stata quasi sempre una bandiera a fondo il bottone sotto cui viaggia una merce che non si può dichiarare del piacere, o della perché non ha ancora nome».
comprensione.
Discografia Aspettando Godot (EMI) Un uomo in crisi, Canzoni di morte, canzoni di vita (EMI) Canzoni di rabbia (EMI) Ho visto anche degli zingari felici (EMI) Disoccupate le strade dai sogni (Ultima spiaggia)
Claudio Lolli
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Vivo tutti i miei giorni aspettando Godot dormo tutte le notti aspettando Godot ho passato la vita ad aspettare Godot. Nacqui un giorno di Marzo o d’Aprile non so mia madre che mi allatta è un ricordo che ho ma credo che già in quel giorno però invece di poppare io aspettassi Godot. Nei prati verdi della mia infanzia nei luoghi azzurri di cieli e aquiloni nei giorni sereni che non rivedrò io stavo già aspettando Godot. L’adolescenza mi strappò di là e mi portò ad un tavolo grigio dove fra tanti alberi però invece di leggere aspettavo Godot. Giorni e giorni a quei tavolini gli amici e le donne vedevo vicini o mi mangiavo le mani però non mi muovevo e aspettavo Godot. Ma se i sensi comandano l’uomo obbedisce così sposai la prima che incontrai ma anche la notte di nozze però non feci nulla aspettando Godot. Poi lei mi costrinse ed un figlio arrivò piccolo e tondo urlava ogni sera ma invece di farlo giocare un po’ io uscivo fuori ad aspettare Godot. E dopo questo un altro arrivò e dopo il secondo un altro però per esser del tutto sincero dirò che avrei preferito arrivasse Godot. Sono invecchiato aspettando Godot ho sepolto mio padre aspettando Godot ho cresciuto i miei figli aspettando Godot. Sono andato in pensione dieci anni fa ed ho perso la moglie acquistando in età i miei figli son grandi e lontani però io sto ancora aspettando Godot.
Aspettando Godot
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Ma non è una malattia
Questa sera sono un vecchio di settant’anni solo e malato in mezzo a una strada dopo tanta vita più pazienza non ho: non posso più aspettare Godot. Ma questa strada mi porta fortuna, c’è un pozzo laggiù che specchia la luna è buio profondo e mi ci butterò senza aspettare che arrivi Godot. In pochi passi ci sono davanti ho il viso sudato e le mani tremanti, è la prima volta che sto per agire senza aspettare che arrivi Godot. Ma l’abitudine di tutta una vita ha fatto sì che ancora una volta per un momento io mi sia girato a vedere se per caso Godot era arrivato. La morte mi ha preso le mani e la vita l’oblio mi ha coperto di luce infinita e ho capito che non si può coprirsi le spalle aspettando Godot. Non ho mai agito aspettando Godot per tutti i miei giorni aspettando Godot e ho incominciato a vivere forte proprio andando incontro alla morte.
Claudio Lolli
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Io ti racconto lo squallore di una vita vissuta a ore, di gente che non sa più far l’amore, ti dico la malinconia di vivere in periferia del tempo grigio che ci porta via, io ti racconto la mia vita, il mio passato, il mio presente, anche se a te, lo so, non importa niente. Io ti racconto settimane fatte di angosce sovrumane, vita e tormenti di persone strane, e di domeniche feroci passate ad ascoltar le voci di amici reclutati in pizzeria, io ti racconto tanta gente che vive e non capisce niente, alla ricerca di un po’ d’allegria. Io ti racconto il Carnevale, la festa che finisce male, le falsità di una città industriale, io ti racconto il sogno strano di inseguire con la mano un orizzonte sempre più lontano, io ti racconto la nevrosi di vivere con gli occhi chiusi alla ricerca d’una compagnia. Ti dico la disperazione di chi non trova l’occasione per consumare un giorno da leone, di chi trascina la sua vita in una mediocrità infinita, con quattro soldi stretti tra le dita, io ti racconto la pazzia che si compra in chiesa o in drogheria un po’ di vino, un po’ di religione. Ma tu che ascolti una canzone, lo sai che cos’è una prigione, lo sai a che cosa serve una stazione, lo sai che cosa è una guerra, e quante ce ne sono in terra, a cosa può servire una chitarra, lo sai che siamo tutti morti e non ce ne siamo neanche accorti, e continuiamo a dire «Così sia».
Io ti racconto
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Ma non è una malattia
La morte della mosca Oggi è morta una mosca, dopo avere volato tanti anni da sola bassa bassa su un prato. Un prato non è mai abbastanza grande perché una mosca ci si perda, ritrova sempre il suo cespuglio, il suo dolce odore di merda. Le mosche procurano noia se volano a schiera unita, da sole non danno fastidio: si schiacciano dentro due dita... Oggi è morta una mosca digrignando gli ultimi denti, subendosi l’ultima beffa: anche la morte appartiene ai potenti Oggi è morta una mosca! Oh, mio Dio, che sfacelo ronzare noiosamente tanto lontano dal cielo! Oggi è morta una mosca: Crack! l’ultimo colpo di ali, fortuna che noi siamo uomini, fortuna che siamo immortali. Oggi è morta una mosca, muriamola nel suo alveare insieme a tutte le altre, onoriamola con un piccolo altare... Almeno però non si perda il senso degli ultimi stenti: alle mosche rimane la merda, il cielo appartiene ai potenti
Claudio Lolli
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Ho visto anche degli zingari felici (1a e 2a parte) È vero che dalle finestre non riusciamo a vedere la luce perché la notte vince sempre sul giorno e la notte sangue non ne produce, è vero che la nostra aria diventa sempre più ragazzina e si fa correre dietro lungo le strade senza uscita, è vero che non riusciamo a parlare e che parliamo sempre troppo. È vero che sputiamo per terra quando vediamo passare un gobbo, un tredici o un ubriaco o quando non vogliamo incrinare il meraviglioso equilibrio di un’obesità senza fine, di una felicità senza peso. È vero che non vogliamo pagare la colpa di non avere colpe e che preferiamo morire piuttosto che abbassare la faccia, è vero che cerchiamo l’amore sempre nelle braccia sbagliate.
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È vero che non vogliamo cambiare il nostro inverno in estate, è vero che i poeti ci fanno paura perché accarezzano troppo le gobbe, amano l’odore delle armi e odiano la fine della giornata. Perché i poeti aprono sempre la loro finestra anche se noi diciamo che è la finestra sbagliata. È vero che non ci capiamo, che non parliamo mai in due la stessa lingua, e abbiamo paura del buio e della luce, che abbiamo tanto da fare e non facciamo mai niente. È vero che spesso la strada ci sembra un inferno e una voce in cui non riusciamo a stare insieme, dove non riconosciamo mai i nostri fratelli, è vero che beviamo il sangue dei nostri padri, che odiamo tutte le nostre donne e tutti i nostri amici. Ma ho visto anche degli zingari felici corrersi dietro, far l’amore e rotolarsi per terra, ho visto anche degli zingari felici
Ma non è una malattia
in Piazza Maggiore ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra. Siamo noi a far ricca la terra noi che sopportiamo la malattia del sonno e la malaria, noi mandiamo al raccolto di cotone, riso e grano, noi coltiviamo il mais su tutto l’altopiano Noi penetriamo foreste, coltiviamo savane le nostre braccia arrivano ogni giorno più lontane da noi sono i tesori alla terra carpiti con che poi tutti gli altri restano favoriti. Ma siamo noi a far bella la luna con la nostra vita coperta di stracci e di sassi di vetro quella vita che gli altri ci respingono indietro come un insulto, come un sasso nella stanza.
Claudio Lolli
Ma riprendiamola in mano, riprendiamola intera, riprendiamoci la vita, la terra, la luna e l’abbondanza. È vero che non ci capiamo che non parliamo mai in due la stessa lingua, e abbiamo paura del buio e anche della luce, che abbiamo tanto da fare e non facciamo mai niente. È vero che spesso la strada ci sembra un inferno o una voce in cui non riusciamo a stare insieme, dove non riconosciamo mai i nostri fratelli, è vero che beviamo il sangue dei nostri padri, che odiamo tutte le nostre donne e tutti i nostri amici Ma ho visto anche degli zingari felici corrersi dietro, far l’amore e rotolarsi per terra ho visto anche degli zingari felici in Piazza Maggiore ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
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Compagni a venire 96
Potrò mai perdonare a te che giri casa con la vestaglia unta di macchie di dolore, di avermi allattato al fiume del tuo male, stampandomi sul viso l’angoscia e il suo colore, potrò mai perdonare, a te che giri casa fiero nei tuoi ricordi di libertà passate, di avere contrastato la mia spina dorsale per paura che io non ti venissi uguale, potrò mai perdonare al vostro amore stanco il piacere segreto di una notte lontana che mi ha sbattuto in un mondo extravaginale senza nemmeno chiedersi se preferissi nascere o la morte gloriosa di un aborto illegale. Potrò mai perdonare, a te ragazzo magro, tutti i pugni sul muso che mi hai dato per noia o per aiutarmi a crescere, o per raddrizzarmi il naso, o per vedermi piangere proprio nel mio cortile, potrò mai perdonarti, amico per sei anni, di avermi ascoltato con un orecchio solo, e il tuo tradimento nero, fine del nostro mondo, con cui sei diventato un bel fascista biondo, potrò mai perdonarvi amici tutti quanti, l’amore e l’amicizia che non mi avete dato, e questo mio sangue fragile, il mio povero disastro, la colpa ed il dolore di non esser mai stato per nessuno di voi nemmeno un fratellastro. Potrò mai perdonare, a te ragazza piccola, il bacio che hai preferito gettare dal balcone, quel bacio, che non mi hai voluto regalare nemmeno il giorno prima della Rivoluzione, potrò mai perdonare, a te ragazza grande, di avermi adoperato per le tue gelosie, a te e alla tua città quel tramonto di vento, in cui sono partito felice di bugie, potrò mai perdonare, a voi, mie poche donne, di avermi sempre usato solo per stare bene, come un unguento dolce, che asciuga una ferita aperta di paura, come un liquore amaro, che però digestimola e digerisce la vita... Potrò mai perdonare, al dio che non esiste, di avere rovinato la mia adolescenza, seduto su una pila immensa di riviste di donne nude, prova della sua inesistenza, potrò mai perdonare alla gente per bene di avere amareggiato le mie bandiere rosse e di avere deriso, sui muri della mia gioia, l’immagine di Lenin che parla alla sua gente, Ma non è una malattia
potrò mai perdonare a me stesso la mia rabbia immensa, tempestosa, crudele come un mare che travolga le navi, e affoghi i pescatori che trovino il coraggio di volerlo tentare, un mare che le loro donne non sapran perdonare. Potrò mai ringraziarti, compagno sconosciuto, per il vino che hai offerto senza chiedermi il nome senza informarti troppo di dove ero venuto, di quanto sangue usciva dalla mia situazione, potrò mai ringraziare anche te, compagno negro, per il «we love you» che mi hai voluto regalare, come una sicurezza che la nostra differenza, era un motivo in più per doverci parlare, potrò mai ringraziarvi compagni sconosciuti, disponibili sempre a offrire amore e vino, sperduti in questo mondo, non a grandezza d’uomo e nemmeno di donna, e neanche di bambino, provincia di una vita, che dovrà pur finire, potrò mai ringraziarvi, compagni a venire.
I. Alba meccanica L’alba s’inventa una ruota a Torino, l’alba s’inventa una ruota a Milano, l’alba s’inventa una ruota a Bologna, l’alba s’inventa una ruota a Berlino, l’alba s’inventa una ruota a Napoli, l’alba s’inventa una ruota a Roma, meccanicamente all’arrivo del sole cominciano tutte a girare, da sole L’alba s’inventa un ingranaggio, il sole lo unge con il suo grasso, l’alba s’inventa una ruota che gira, respira, compagno, l’aria che tira! Respira compagno la goccia di grasso che esce da questo ingranaggio, ma non respirarla con cortesia, è la socialdemocrazia, non respirarla troppo forte: è la meccanica della tua morte Claudio Lolli
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II. Incubo numero zero Il giorno di solito comincia sporco come l’inchiostro del nostro giornale scritto sui bianchi muri delle prigioni della repubblica federale che giorno per giorno avanzando tranquille son quasi davanti alla tua finestra con un corteo di stelle e scintille, i tamburini, la banda, l’orchestra «Spegnete la luce» pensava Ulrike, «che la foresta più nera è vicina», ma oggi la luna ha una faccia da strega e il sole ha lasciato i suoi raggi in cantina; «spegnete la luce» pensava Ulrike, «che la foresta più nera è vicina» ma un jumbo jet scrive «viva il lavoro!» col sangue nel cielo di questa mattina Con un megafono su un autobus rosso un Cristo uscito dal circo Togni comincia un comizio con queste parole: «Disoccupate le strade dai sogni, disoccupate le strade dai sogni, sono ingombranti, inutili, vivi, i topi e i rifiuti siano tratti in arresto, decentreremo il formaggio e gli archivi, disoccupate le strade dai sogni, per contenerli in un modo migliore possiamo fornirvi fotocopie d’assegni un portamonete, un falso diploma, una ventiquattrore, disoccupate le strade dai sogni ed arruolatevi nella polizia, ci sarà bisogno di partecipare (ed è questo il modo) al nostro progetto di democrazia, disoccupate le strade dai sogni e continuate a pagare l’affitto, ed ogni carogna che abbia altri bisogni dalla mia immensa bontà sia trafitto, da oggi è vietata la masturbazione,
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Ma non è una malattia
lambo e lambrusco, vestiti di nero, apriranno le liste di disoccupazione chiudendo quelle del cimitero, poi costruiremo dei grandi ospedali, i carabinieri saranno più buoni, l’assistenza (forzata) per tutta la vita e vitto migliore nelle prigioni, disoccupate le strade dai sogni e regalateci i vocabolari, che non vi si trovi a fare l’amore, i criminali non hanno salari...» A questo punto arriva un trombone, cammina col culo però sembra alto, intona commosso una strana canzone, Cristo la canta e mi è addosso in un salto: «Disoccupate le strade dai sogni non ci sarà posto per la fantasia nel paradiso pulito, operoso della nostra nuova socialdemocrazia...» A questo punto mi butto dal cielo mi butto dal letto do un bacio in bocca a un orribile orco, e lecco l’inchiostro, lecco l’inchiostro del nostro giornale È vero che il giorno sapeva di sporco la social democrazia è quel nano che ti arresta Più del vento sarà la mia bandiera forte, più del vento sarà, più del vento.
III. La socialdemocrazia «Il nemico marcia sempre alla tua testa...» Ma la testa del nemico dove è che marcia alla tua testa, ma la testa del nemico dove è che marcia alla tua testa, ma che nebbia, ma che confusione, che aria di tempesta, la socialdemocrazia è un mostro senza testa «Il nemico marcia sempre alla tua testa...» Ma una testa oggi che cos’è, e che cos’è un nemico, e una marcia oggi che cos’è, e che cos’è una guerra: si marcia già in questa santa pace con la divisa della festa, senza nemici né scarponi e soprattutto senza testa La socialdemocrazia non va a caccia di farfalle, il nemico marcia in testa a te, ma anche alle tue spalle, il nemico marcia con i piedi nelle tue stesse scarpe, quindi anche se le tracce non le vedi è sempre dalla tua parte La socialdemocrazia è un mostro senza testa, la socialdemocrazia è un gallo senza cresta, ma che nebbia ma che confusione, che vento di tempesta, ed il potere da quel giorno m’insegue con le sue scarpe chiodate di paura, mi insegue sulle sue montagne, quelle montagne che io chiamo pianura Claudio Lolli
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IV. Analfabetizzazione
La mia madre l’ho chiamata sasso perché fosse duratura sì, ma non viva, i miei amici li ho chiamati piedi perché ero felice solo quando si partiva, ed il mio mare l’ho chiamato cielo perché le mie onde arrivavano troppo lontano, ed il mio cielo l’ho chiamato cuore perché mi piaceva toccarci dentro il sole con la mano, non ho mai avuto un alfabeto tranquillo, servile, le pagine le giravo sempre con il fuoco; nessun maestro è stato mai talmente bravo da respirarsi il mio ossigeno, e il mio gioco E il lavoro l’ho chiamato piacere, perché la semantica o è violenza oppure è un’opinione, ma non è colpa mia, non saltatemi addosso, se la mia voglia di libertà oggi è anche bisogno di confusione ed il piacere l’ho chiamato dovere, perché la primavera mi scoppiava dentro come una carezza, fondere, confondere, rifondere e infine rifondare l’alfabeto della vita sulle pietre di miele della bellezza Ed il potere, nella sua immensa intelligenza, nella sua complessità non mi ha mai commosso con la sua solitudine, non l’ho mai salutato come tale; però ha raccolto la sfida con molta eleganza e molta sicurezza da quando ho chiamato prigione la sua felicità
VI. Canzone dell’amore o della precarietà
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Precarietà ci punta un dito sulla schiena, il suo ricordo ci addolora la sua presenza ci spaventa; e se le mani si toccano senza comprensione il gioco vince dieci volte perde la forza, e l’immaginazione salta di palo in frasca tra noi due Domani sarà un giorno senza numeri, i tuoi vestiti scalderanno un altro, e l’unica felicità che oggi la scienza della vitalità può concepire è registrare, sopra un treno, o su un giornale, registrare, la quiete, la tempesta, il temporale, il girotondo del respiro strano di questa vita distratta ed interrotta che però bacerebbe ogni angolo deserto della tua bocca e della tua mano, della tua bocca
Ma non è una malattia
V. Attenzione
Attenzione: lo so che questa casa è aperta a tutti, è sempre piena di compagni, che i fiori che dipinge la tua mano sono belli e tanto colorati, però ci si affeziona anche alla propria fantasia alla propria confusione al proprio essere persi in mezzo al mare, e le vele le reti le prigioni sono calde e danno sicurezza proprio come dei santi incorniciati attenzione: che non ci si risvegli una mattina con qualcosa da salvare Attenzione: non è vero che son morte le sirene che le navi vanno avanti, attenzione, trasformatevi in dei ragni se soltanto avete voglia di scappare, attenzione, che non ci ritroviamo un giorno con la testa di un serpente incapace di strisciare tra i fori ancora aperti di un’idea attenzione a non lasciarsi per la strada i gesti le parole necessari per parlare, attenzione a non svegliarsi una mattina senza la voglia di cambiare Attenzione: lo so che il mantello di quel vecchio partigiano è sempre in prima fila lì sull’attaccapanni, e poi che la pazienza è una virtù e che il sole nascerà con l’acqua e con la neve di chissà tra quanti anni. Attenzione: lo so che il fucile è lì nascosto in quel libro di racconti, però che non diventino ricordi o fantasie che non sia caricato solamente a sogni Attenzione, che non ci ritroviamo una mattina per le strade a raccontarci le nostre storie di bambini nati morti, e magari, magari anche con soddisfazione; attenzione che non ci ritroviamo tra le mani la paura immensa e vera, dentro il corpo, nella testa, tra le mani, la paura calda immensa e vera della rivoluzione
Claudio Lolli
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Canzone scritta su un muro Salve ragazzo che passi il giorno alla finestra della tua stanza, fin che tristezza, insieme alla sera, accende finestre in lontananza: guardi le spalle di chi lavora davanti a te, un corpo di uomo scarica casse. Chissà perché? Quando vorrai buttarti di sotto e fare i conti con la tua impazienza, dal carnevale di una città e accenderai la sigaretta sotto il peso di una tremenda felicità. di cui il condannato Gente che ride quando si parla, non può fare senza gente che ride quando si canta, questa canzone scritta su un muro gente convinta che vivere sia ti arriverà, ne sono sicuro, accontentarsi e godersi quel tanto con le sue povere, scarne parole questa canzone scritta sul muro libere come ragazze sole, vi colpirà, ne sono sicuro questa canzone scritta di niente con le sue povere, scarne parole, sceglierà te, tra tutta la gente, ma libere come ragazze sole, per l’ultimo brindisi, l’ultimo addio, questa canzone scritta di rabbia l’ultima cara bestemmia per Dio ognuno di voi ... e salve uomo che ogni mattino per sua voglia che l’abbia: rinunci a un grammo del tuo destino, per me sarà stringervi salti su un tram intirizzito, tra le mie braccia addormentato dentro a un vestito. e, ad uno ad uno, sputarvi in faccia Tra i marciapiedi lisci di una città Salve ragazzo con la chitarra chissà se il sole ti troverà? che sporchi i muri di una città, Il giorno che vorrai dire basta, e godi ormai, sopra una panca il giorno che scuoterai la testa il tuo primo sonno in tranquillità. e vorrai prender quel A grandi passi scopre che ti spetta dalla tua vita il misfatto un nuovo mattino, e da chi la calpesta con la tua morte scopre questa canzone scritta su un muro i tuoi segni un po’ da bambino. ti arriverà, vorrei esser sicuro, A passi lenti verrà col secchio con le sue povere scarne parole, della vernice un imbianchino, libere come ragazze sole, sbuffando: «oggi doppio lavoro, questa canzone scritta di rosso tutto per colpa di questo cretino!» sarà con te a saltare quel fosso, e la tua canzone scritta su un muro sarà con te, insieme a te canterà cancellerà, ne sono sicuro, il primo giorno di libertà e basterà forse appena una mano ... e salve gente senza un colore, perché il suo suono si spenga, piano... senza un problema, senza un dolore, la tua canzone, il tuo testamento gente coperta da scorie gravi: come una foglia goduta dal vento, per ogni occhio almeno due travi; e dei tuoi amori, di quel che sei stato gente sepolta resterà solo quel muro imbiancato.
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Ma non è una malattia
Da zero e dintorni Ti viene mai compagna la voglia di rinascere su un camioncino diretto (espresso o accelerato) verso la sua punta (o verso le Eolie o Lipari), con un sole scenograficamente corretto e anche pulito, lasciandoti alle spalle l’odore acido dei giorni in cui devi filtrare il tuo senso come il the, e il carico gravoso delle nuvole, gobba, fardello in cui nascondi con stanchezza tuo padre, tuo figlio, l’amore che non hai, ti viene mai, ti viene mai? Ti viene mai compagna la voglia di rinascere con una gamba sola, magari, e anche, anche senza sigarette, ma anche senza la fretta assurda della nuova metropolitana, e anche senza il bisogno di sentirti naufragare in un’isola lontana, tutte le volte che ti guardi far l’amore, con in un occhio la voglia e nell’altro la rabbia e il dolore, con quel cane randagio che ho bastonato stamattina sulla strada, con quel cane randagio di tuo marito che ti chiede come vai, ti viene mai, ti viene mai? Ti viene mai compagna la voglia di tornare sulla strada battuta dai venti dai sassi e dagli sputi del potere, quella strada che in sogno avevi creduto di vedere o di avere almeno immaginato, quel giorno che sei arrivata fin sulla porta con la tua sciarpa rossa in mano e i cioccolatini tra i denti, talmente sbriciolati da sembrare persino trasmigratori contenti di ansie, quelle pozzanghere su cui non si riesce mai a volare, ti viene mai la voglia di tornare? ti viene mai, ti viene mai. Claudio Lolli
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Autobiografia industriale
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Il primo giorno che ho messo un piede alla EMI mi hanno guardato, sembravano tutti un po’ scemi; qualcuno diceva ch’ero forse il garzone del bar che aveva lasciato il caffè sulle scale, qualcuno diceva che non ero normale e qualcuno rideva, rideva... Il direttore, una strana espressione sul viso, fece una smorfia (che oggi voglio chiamare sorriso...) e m’introdusse nel suo studio di uomo arrivato, mi parlò di Arcipelago Gulag e mi disse: «Io penso che oggi sia molto giusto assentire al dissenso, al dissenso...» Autobiografia industriale, viva l’amore con l’industria culturale! Amore erotico, e soddisfacente, ma in definitiva, un po’ troppo «esauriente» L’arrangiatore, dopo avermi ascoltato un pochino, disse: «Non male, è simpatico quel valzerino! Io, ci vedrei sopra un Primo e un Secondo violino, e una viola che piange da sola, perché no? una pianola, qualche cosa che prenda e che stringa la gola, la gola... » Il tecnico audio mi squadrò con un ghigno feroce, ma il peggio è stato quando ho fatto sentire la voce così piena di ragni, di granchi, di rane (e altre cose un po’ strane) una voce dal regno dei più, o da festival del sottosuolo, una voce oltretutto che mi accompagnavo da solo... Autobiografia industriale, viva le tette dell’industria culturale! Tette opulente, e dissetanti, ma, tutto sommato un po’ troppo «pesanti»
Ma non è una malattia
La confezione, con il marchio di verginità, venne affidata a un fotografo di qualità, che in verità nel vedermi rimase perplesso: «Con quella faccia da fesso potrei fotografarlo solamente in un cesso, magari con un po’ di velluto rosso...» Il primo giorno che ho messo un piede alla EMI mi hanno guardato, sembravano tutti un po’ scemi; ma oggi ho capito che di tutti il più scemo ero io, l’unico che si prendeva sul serio, e ci stava anche male, un incrocio terribile insomma tra un Coglione ed un Criminale... Autobiografia industriale, come inserirsi nell’industria culturale, cioè: come possono gli intellettuali dare una mano per mantenere sempre gli stessi rapporti sociali Io a quel tempo stavo ancora aspettando Godot, cioè aspettavo la morte per poter dire «rinascerò, fatto diverso, collegato d’amore alle masse, più cultura, più lotta di classe», ma Godot non è mai arrivato, si fa le cose sue, ed è meglio così, in fondo, per tutti e due... Come prodotto non sono riuscito un gran che, vendono certo molto più Jaegermeister di me, ma lo confesso questo in fondo è un piacere da poco e non prova che sono diverso, seriamente diverso. Com’è amaro il tuo calice, vita, com’è amaro il tuo gioco... Autobiografia industriale, cioè com’è il latte dell’industria culturale: un latte amaro, molto indigesto, ma soprattutto, un po’ troppo caro Claudio Lolli
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Ma non è una malattia
I giornali di marzo
I giornali di marzo, i giornali di marzo hanno spiegato, i giornali di marzo, i giornali di marzo hanno raccontato, è quello di ritrovare un accordo un colloquio (è sfuggito per miracolo al linciaggio) il più preoccupante per i medici è un carabiniere (ha inoltre fatto un esame esterno del cadavere) senza sapere dove andare, senza sapere che direzione prendere (inginocchiarsi, prendere la mira e sparare) solo la pasticceria memore della recente ferita è serrata (nel primissimo pomeriggio con il cielo ancora parzialmente sereno) I giornali di marzo, i giornali di marzo hanno parlato, i giornali di marzo, i giornali di marzo hanno chiarito, un bottegaio a guardia della sua bottega (guardati con rabbia da un capannello di persone) ha l’orlo del pantalone perforato, grida «m’ha salvato lo scarpone» (alle tredici e quindici sono partiti alcuni colpi) in un succedersi incalzante di fughe, assalti e contrassalti (solo le poche centinaia di persone che non erano scappate) da alcuni uffici sono stati portati all’aperto tavoli (i nostri aspiranti tupamaros devono convincersi) I giornali di marzo, i giornali di marzo hanno capito, i giornali di marzo, i giornali di marzo hanno mentito, gli uomini sono scesi a terra già in assetto di campagna (la prudenza delle forze dello stato) hanno replicato con lanci a ripetizione di candelotti lacrimogeni (è stato centrato alla schiena cadendo immediatamente) «coi bottoni dorati e gli ottoni lucenti, fischiando la Marsigliese, mentre il vento fa il solletico ai sogni rimasti impigliati nel cancello dei denti».
Claudio Lolli
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Ma non è una malattia
Romano MĂ dera
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Comincio dalla crisi Gianfranco Manfredi
Comincio dalla Crisi perché anche se non è stato il primo pezzo che ho scritto, l’inizio vero è proprio lì, nella «crisi». Allora c’era il gruppo Gramsci, gruppo abnorme, gruppo antigruppo, nato dalla relazione provvisoria tra residui di altri e più massicci raggruppamenti che andavano dal Movimento studentesco alla Comune di Fo. E gruppo che peraltro fin dall’inizio aveva presente l’ipotesi di non dover durare molto, ma di dover essere solvibile «nel movimento». Dentro c’erano tutte le contraddizioni d’essere un gruppo antigruppo e quindi anche un disco militante che era in certo senso antimilitante e che voleva insieme esporre e sbeffeggiare la linea del gruppo. Ecco perché La crisi è un pezzo operistico grottesco: nella scelta dell’opera è implicito il trionfalismo esultante per l’analisi giusta sulle tendenze del capitale e insieme il gonfiamento satirico e irridente di questo stesso trionfalismo, della linea «seria» in «cantato», della «teoria» in «canzonetta». E così anche Avanguardo (scritto prima, nella fase della gruppettizzazione spinta del movimento) è un inno erotico alla presunzione del leaderismo e La proletarizAncora troppa zazione una mazurca che finisce in festa popolare militanza, troppa e interclassista). Ancora troppa militanza, troppa teoria, e troppo poca quotidianità nonostante tutto. Come, teoria, e troppo nonostante tutto, il gruppo Gramsci era ancora troppo poca quotidianità gruppo (e anche troppo Gramsci). nonostante tutto. Il periodo dello scioglimento non era periodo da far dischi, però allora vennero fuori delle canzoni di sano dubbio sulla militanza che mi capitò di suonare in un paio di spettacolini fatti in giro in Lombardia per qualche tempo. Si chiamavano La politica non è un’altra cosa e E succede che ti chiudono le fabbriche. Ricordo bene soprattutto il primo da cui sono tratti Ciclostile e L’ultimo comizio perché c’era dentro tutto il tema dello scioglimento volontario del gruppo. Mentre il secondo lo ricordo molto male perché è il periodo dove ho scritto notevoli stronzate, neomilitanti, e per di più con un semplicismo e una sicumera teorica giustificati solo dal fatto che allora certi comportamenti violenti erano altrettanto semplicisticamente e opportunisticamente giudicati tout court fascisti (quale miglior inizio per la fascistizzazione?). L’esigenza di difendere certe forme di lotta non giustificava tuttavia l’idiozia mia di fare pezzi intitolati:
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Ma non è una malattia
Saremo cattivissimi o Pulisci le armi, Imparavo come dove le scelte musicali grottesche i Iuoni, la musica non funzionavano più in negativo sul testo, ma finivano invece per appog- contenessero giarne le componenti più insulse una ricchezza e demagogiche. comunicativa Stranamente nello stesso periodo (1974) si rafforzavano i miei rapporti che la nostra con gente che dalla politica ufficiale politica da ghetto era di solito rimasta estranea (cantanti mai riusciva e musicisti) e imparavo come i suoni, la musica contenessero una ricchezza a trasmettere. comunicativa che la nostra politica da ghetto mai riusciva a trasmettere. Così mentre da un lato facevo come mai prima il cantante militante iperincazzato, dall’altro lavoravo come autore a testi di canzonette. La famiglia è stato inciso da Ninni Carucci in un LP sulla crisi della coppia, e Sogno da Donatello in un LP sul tema del ritorno alla campagna. Temi che oggi vedo molto meno evasivi e molto meno distanti dalla quotidianità che non quelli «duri». Ovvio che La famiglia è nonostante tutto ancora molto distante da qualsiasi «pratica dell’inconscio», e che Sogno sotto sotto nasconde ancora troppa fiducia nelle forze produttive e nello sviluppo meccanico, oltre che alcune ingenuità espressive. Poi è venuta Ma non è una malattia, quando finalmente cane sciolto, liberato da militanze, ho ricominciato a partire dal personale anche se un personale tutto coinvolto nei casini che succedevano. E poi Zombie su cui per ora non riesco a riflettere a posteriori ma che mi sembra grosso modo segni un punto in cui la quotidianità e il personale, come anche il politico, si rivelano intrisi di merce e di mass-media. L’ultimo testo, La cicogna, l’ho scritto per un gruppo blues di Milano, la Treves blues band, di cui ammiro oltre ogni dire la rozzezza la tristezza e l’amarezza che sono l’unico terreno su cui è ancora possibile ridere e irridere.
Quando finalmente cane sciolto, liberato da militanze, ho ricominciato a partire dal personale anche se un personale tutto coinvolto nei casini che succedevano.
Discografia La crisi (Spettro) Ma non è una malattia (Ultima spiaggia) Zombie di tutto il mondo unitevi (Ultima spiaggia) Alla composizione delle canzoni di Manfredi hanno collaborato Ricky Gianco, Ninni Carucci, Giuliano Ebani, Fabio Treves, Gaudio Dentes, Claudio Fabi, Roberto Colombo.
Gianfranco Manfredi
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Ciclostile
Questa nostra faccia gialla non di Cina ma di nervi di stanchezze accumulate di riunioni senza fine mi domando spesso se a qualcosa servirà o se come foglie morte un autunno si cadrà e gira, gira, gira, gira, gira il ciclostile quanti fogli da distribuire e chissà se poi potrà servire, servire e gira Siamo ghiande e confidiamo che diventeremo querce Quando ho mai accettato di fare ’sto comizio ma magari serviremo su questo trespolone tra quattro altoparlanti solo a un pasto di maiali la gente ch’è rimasta alcuni li conosco mi domando spesso se son tutti a capannelli non mi sembrano tanti noi ce ne rendiamo conto Certo sono deluso mi aspettavo più masse o se invece preferiamo il fuoco degli applausi acceso dal mio dire l’illusione alla realtà invece francamente la gente se ne frega e gira... passeggia in lungo in largo e sembra non sentire Ora tu mi guardi strano Il tempo dei comizi è quello in cui la gente dici: non ti seguo più fissa la trattoria dove andare a mangiare e va bene ho esagerato è il tempo della conta: in quanti eravamo? nello sfogo di un momento E fesso chi m’ha detto di scrivere il discorso ma io mi domando se e di dirlo con tono un poco esagitato si può viver senza dubbi e stupido che sono a finire in crescendo o se invece è dubitando aspettando un applauso che non è arrivato che si va alla verità sulle prime ho pensato di aver scordato un popolo e gira... quando delle rivolte ho fatto la mia lista ma non è possibile, ci ho messo pure gli indios e una tribù maora internazionalista Il tempo dei comizi è quello in cui i compagni piegano gli striscioni e se ne vanno via è il tempo di rimettersi a posto la camicia cercare un vecchio amico e prendersi un caffè E allora mi son detto: «compagni la piantiamo con questa commediola del comizio finale cerchiamo un nuovo modo una cosa diversa sennò piantiamo tutto ed andiamo a mangiare!» quando mi sono accorto d’aver parlato forte col microfono aperto e la gente ascoltava sono rimasto muto con la faccia da pirla ma la gente applaudiva quel comizio le andava perché il tempo dei comizi è finito da quando la gente non applaude più a comando...
L’ultimo comizio
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Ma non è una malattia
Sogno Sogno una campagna che non sia una campagna sogno una città che non sia affatto una città finalmente un luogo dove ci si possa stare per amare per creare libertà Voglio disegnare sopra i muri ciò che voglio e voglio una società che sia diretta da mio figlio perdermi nel cielo però senza religione solo amore la totale libertà E alberi che diano liquori ed erbe che guariscano tumori e macchine che facciano limoni computers per creare le stagioni E il ferro si potrà mutare in oro se ci sbarazzeremo del lavoro Sogno una campagna che non sia una campagna...
Nonsipà All’ingresso del metro c’è un cartello con un NO dice che non pagherò... oh no lo sportello è aperto già tutti quanti si entrerà e non si pagherà... oh no C’è il comizio della CISL sento i fischi fin da qui des me fu sentì anca mi... oh sì la bolletta mostrerò tutti quanti si urlerà che non si pagherà... oh no Uè s’è fatto già mesdi sento un vuoto proprio qui ’ndiamo tutti al Motta sì oh sì su mangiamo la brioss la pizzetta tre babà e non si pagherà... oh non non no
Gianfranco Manfredi
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La famiglia Quanti sposi ben vestiti s’inginocchiano all’altare chiesa piena di parenti cerimonia di due ore sono in festa in una nicchia gli angeli con la Madonna l’uomo spera che sia vergine quella notte la sua donna All’altezza del taschino mostra un bel rigonfiamento non è il cuore è la pistola: gli conviene stare pronto. Matrimonio religioso com’è bello essere sposo la famiglia è come un campo molto spesso un camposanto Una coppia in municipio sindaco col tricolore lui gli sta leggendo il codice loro firmano l’amore Lacrimucce della mamma la veletta della zia dopo il pranzo delle nozze sono pronti a andare via Di già pensano alla casa alle nuove proprietà i regali dei parenti e per sempre fedeltà Matrimonio in municipio com’è bello sul principio la famiglia è come un prato però col filo spinato Io non sono un alienato e neppure un aguzzino spero che mi vada bene non è detto sia destino però spesso sento dentro duro cuoio di stivale e persino dentro il letto sono spinto a farti male sfogo la vigliaccheria che mi lega al mio lavoro e considerarti mia mi riconferma nel mio ruolo Matrimonio oppure senza viene fuori la violenza questa vita è come un prato un poligono di Stato.
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Ma non è una malattia
Gianfranco Manfredi
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Dagli appennini alle bande Lui cercava per il mondo la famiglia e di notte lavorava alla candela difendeva sempre il nome dell’Italia e la nonna dai briganti proteggeva e saliva sopra gli alberi più alti per pigliare al volo i colpi dei nemici ragazzini come lui ce n’eran molti scalzi e laceri eppur eran felici E parlavano di lui, scrivevano di lui lo facevano più bamba e che bambino e parlavano di lui, scrivevano di lui sì ma lui rimane sempre clandestino Ora pare che il suo nome sia teppista fricchettone criminal-provocatore pare che ami travestirsi da sinistra ma sia un docile strumento del terrore e lo beccano ogni tanto che si buca o maneggia un po’ nervoso una pistola o che lancia da una moto sempre in fuga una molotov sull’uscio della scuola Ora parlano di lui e scrivono di lui sì ma lui rimane sempre clandestino E si dice: se ci fosse più lavoro se il quartiere somigliasse meno a un lager non farebbe certo il cercatore d’oro assalendo il fattorino delle paghe ma è la merce che c’è entrata nei polmoni e ci dà il sito ritmo di respirazione il lavoro non ci rende mica buoni ci fa cose che poi chiamano «persone» E se parlano di lui, se scrivono di lui è che il nostro io ci resta clandestino
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Ma non è una malattia
Zombie di tutto il mondo unitevi E attraverso i muri attraverso le porte passano i fantasmi delle persone morte passa il desiderio di zombie proletari che solo nel silenzio sanno illudersi uguali passa un sogno perduto di ricomposizione ma come ricomporre un bacio un’emozione passa un sogno suicida che dice che ha sparato a un cuore che non c’è al cuore dello Stato passa un sogno che canta l’ultima ideologia io voglio la sua testa la testa di Maria Maria che non esiste che è solo una canzone Maria che non è bella neanche come nome E attraverso il rifiuto attraverso i rifiuti abbiamo trovato asilo su mondi separati
e per comunicarci il menu di domani possiamo solamente far segni con le mani e fare le boccacce d’un linguaggio inventato che non emette suoni emette solo fiato con un po’ di paura che un intellettuale capisca anche il silenzio e lo voglia svelare e ci tolga la voglia di non capire niente vivendo come corpo anche la nostra mente sapendo che comprendere vuole dire abbracciare ma se l’abbraccio è morsa vuol dire strangolare sapendo che la morte non è così lontana siamo noi che l’amiamo non è leí che ci chiama perché siamo i fantasmi del fantasma d’Europa che di carne e di sangue ne ha conservata poca
Gianfranco Manfredi
e dice con sospiro come un basso profondo unitevi di nuovo zombie di tutto il mondo Da tutte le paludi da tutte le galere lasciando le famiglie lasciando le bandiere che vogliono bendare questi corpi straziati noi non li nascondiamo questi corpi spezzati ci si vede attraverso ci si vede lontano trasparenza assoluta che si tocca con mano trasparenza che dice che oltre questa storia ce n’è una più bella e non è la memoria e non è nostalgia che i ritratti conserva di noi quando da piccoli avevamo la barba è la storia segreta la storia parallela là dove il nostro inverno diventa primavera
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Il parco ha tante entrate chissà chi pagherà ma il parco non ha uscite il prezzo non si sa hai chiesto una risposta e il gruppo te la dà sta chiusa in un panino di bassa qualità La Giunta ci ha concesso il prato e l’acqua no la Giunta è di sinistra lo sporco non lo so e poi c’è stata tolta l’elettricità perché si va al buio la nostra estraneità E siamo tutti insieme ma ognuno sta per sé la ricomposizione si sogna ma non c’è ognuno nel suo sacco o nuda tra il letame solo come un pulcino, bagnato come un cane Il palco è come un ponte che non unisce niente ci passano i cantanti fischiati dalla gente qualcuno un po’ più furbo fa battere le mani o tira fuori il coro dei napoletani E vuoi vedere in faccia il proletariato giovanile perché è lui l’invitato che doveva venire ma senti già nell’aria una strana vibrazione che nasce dai feticci vestiti da persone È tutta una gran merda, la colpa di chi è lo Stato, il riformismo, i gruppi, il non so che la merce sta abbracciando la festa popolare ed entra dentro i corpi tra il piscio e le bandiere Si sta sfasciando tutto persino la Teoria perché il Nuovo Soggetto pare che non ci sia e se l’espropriazione significa qualcosa è che la nostra vita è diventata cosa Il desiderio grida: ecco la polizia fumo di candelotti non si sa dove sia, ma c’è sull’altro prato qualcuno che massaggia magari con Io yoga ti passa un po’ di sgaggia
Un tranquillo festival pop di paura
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Non si capisce nulla si ha voglia di fuggire la festa... quale festa? Non ci si può più stare uno col cazzo fuori sta ancora lì a cercare vuole portarsi in tenda la donna da scopare Qualcuno c’è riuscito a vincere la notte ad aspettare l’alba più avanti delle botte qualcuno c’è riuscito a entrare negli sguardi a leggersi negli occhi che non è troppo tardi Si celebra sul palco l’ultima pantomima si bruciano le buste vigliacca l’eroina ma c’è chi il suo nemico lo cerca per il prato e con lo spacciatore ti spranga lo spacciato È l’ultimo spettacolo ma non solo della festa la mia generazione che svuota la sua testa vuole vederne i pezzi e non li vuole vedere vuol leggersi nel corpo, ma anche sul giornale Le cinque di mattina suoniamo tutti insieme si balla come matti ci sembra di star bene le donne son fuggite c’è solo una modella che balla all’Africana l’ultima tarantella Ed anche qui nel rito c’è la contraddizione nella felicità la nuova repressione il parco è ormai nascosto è tutto una lattina abbiamo fatto il punto e niente e come prima
Ma non è una malattia
Gianfranco Manfredi
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Nella diversità
Ultimo mohicano Ultimo mohicano sampietrino in mano solo qui nella via e la barricata dove l’han portata? non c’è proprio più Ultimo mohicano sampietrino in mano non c’è più polizia ora a chi lo tiro? vado a fare un giro, entro in un caffè E appoggiato a ’sto bancone bevo un tè con lo spazzino lui mi chiede se il Comune pagherà ma io non so che dirti amico dai facciamoci un quartino forse un giorno questa strada sarà sporca come allora quando... Ultimo mohicano col bicchiere in mano m’han lasciato qui forse torneranno forse quest’altr’anno gli altri con me Ultimo mohicano faccio un po’ di fumo il segnale va s’alza nella notte cerca le marmotte chi le sveglia più?
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Sembra finito il nostro sogno ormai e adesso non sognamo più come profeti nel cortile noi mettiamo i carri avanti ai buoi non siamo più d’accordo non ci capiamo più... Guarda la mia diversità, guarda la tua diversità e noi diversi come i sogni non ci uniremo mai diversi come i viaggi se li percorrerai. Solo la merce è sempre uguale a sé perciò non c’interessa più brucia i ritratti vecchi degli Eroi provocatori tra di noi basta con il ricordo andiamo un po’ più in là... Ama la tua diversità, ama la mia diversità non conteremo i santi, i martiri tra noi vivi come ti senti e crepa come puoi vivi nella diversità, vivi la tua diversità diversi dal presente, ma non un’utopia diversi e senza storia, verso una storia «mia»...
Ma non è una malattia
La cicogna
I modelli Per le strade del mio sogno o per quelle del tuo sguardo so che il nostro filo regge so che non lo perdo la tua immagine è una nota il tuo volto non si plasma ti conosco e mi sei ignota amo forse il tuo fantasma Non c’è due senza tre, ma non sono solo tre sono tanti e sono belli, sono dei modelli Sono sempre un po’ stupito se ti togli la maglietta e col peso del tuo seno mi stai addosso tutta sento un senso di ridicolo e prevedo il nostro dramma non combineremo molto sento amore... per la mamma Non c’è due senza tre... Se tenendoti la nuca tocco i tuoi capelli corti e se tu raggiungi il prato coi ginocchi sporchi i tuoi occhi sono grandi il tuo seno piccolino t’amo come una ragazza o anche come... un ragazzino Non c’è due senza tre... Se ti amo come uomo come donna, o come me se ti amo come santa o come scimpanzé non lo so, ma son convinto sono sulla strada buona se ti amo come ama la persona una persona’ Non c’è due senza tre... Gianfranco Manfredi
E dormiva di giorno più vicina all’antenna con un diavolo rosso sotto ad ogni sua penna e volava di notte per tenersi nascosta per paura che un corvo le fregasse la posta Ma che razza di storia ma chi è ’sta cicogna e che cosa trasporta tra Parigi e Bologna? La cicogna s’abbassa plana sull’autostrada e da un camion di frutta ruba un po’ d’insalata la cicogna delira scrive un bel documento sta aspettando un bambino figlio del movimento Ma che razza di storia ma chi è ’sta cicogna e che cosa trasporta tra Parigi e Bologna? La cicogna volando sempre più trasversale ha attirato lo sguardo d’un fantasma invernale Majakovskij la guarda ci fa una canzone la cicogna si gloria e diventa pavone Ma che razza di storia ma chi è ’sta cicogna e che cosa trasporta tra Milano e Bologna?
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Ma non è una malattia
Romano MĂ dera
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Böllarsi Corrado Sannucci
Quando ho cominciato a scrivere canzoni c’erano molte idee in giro e molta gente che ci lavorava: chi puntava sull’alternativa, chi mirava alla costruzione di una struttura culturale unitaria della classe, chi faceva dischi come fossero volantini. Protagonisti dei circoli culturali della sinistra di classe erano allora i compagni ritenuti «destri» o troppo fragili per la politica. Accusati di psicologismo e di altre deteriori articolazioni del pensiero, vivevano il loro viaggio nella sovrastruttura con una sorta di devozione afflitta e di dipendente riverenza verso i compagni agenti sulla struttura. Più tardi, dopo il congresso di Lotta Continua a Rimini e altre cose, si sarebbero presi clamorose rivincite su chi invece allora proponeva ed esigeva canzoni e spettacoli sull’autoriduzione, la messa fuorilegge del MSI e su altre contingenze. Dall’altra parte si rispondeva con annose questioni quali il dibattito Togliatti-Vittorini, Gramsci e l’egemonia. E ancora: è il partito che ispira ai musicisti belle canzoni o sono i musicisti a fare buono un partito? A quei tempi avevo scritto una decina di canzoni e un inno. Erano storie che in genere si muovevano su due piani: lo spunto apparente era ereditato dalla sana, vecchia canzone di lotta e di denuncia, l’omicidio bianco, l’emigrazione, lo sciopero; lo sviluppo invece passava per altri temi quali la solitudine di fronte alle singole prove del dolore, l’impotenza di fronte al potere fino nei suoi più periferici rappresentanti, la felicità o l’infelicità meccaniche (l’equivalenza del gesto che carezza una guancia con quello che ritira la paga), la mancanza di piccole solidarietà come geloso possesso di surrogati di autorità. Erano storie piuttosto insolite, come il dialogo tra un Chi puntava medico e la madre di un bambino handicappato, la storia di un pendolare e del suo sogno di ricomposizione sull’alternativa, con se stesso, gli amori e la natura, la storia di un linotichi mirava alla pista con avvelenamento da piombo che comincia costruzione a sentire come timpani i verri di casa sua. I compagni erano piuttosto perplessi e applaudivano di una struttura per motivi di partito. Ma allora c’erano le mille stratificulturale unitaria cazioni di riconoscimento reciproco: compagni, lotdella classe, chi tiamo per qualcosa di comune con mezzi non molto diffaceva dischi come ferenti, e se noi due non siamo la classe operaia, le siamo vicini se non proprio adiacenti. E così io cantavo fossero volantini. in modo militante e loro ascoltavano in modo militante.
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Ma non è una malattia
Circolo dopo circolo, festa dopo festa, continuava il lavoro propagandistico E così io missionario: portavamo contenuti cantavo in modo nuovi e inusitati, indicazioni di lotta, militante e loro memorie insurrezionali a chi, tronfio nella sua ignoranza, continuava a ascoltavano in pascersi dell’odiata musica leggera. modo militante. Ma noi avevamo una teoria, una prassi, il movimento di massa avanzava (e avanzava lo sviluppo dell’industria dello spettacolo); certo ai nostri (miei) concerti non c’erano più di venti persone, ma non importava, quel che facevamo era giusto e il nemico, la DC e la Rai, già ci sembrava di sentirlo boccheggiare, e poi eravamo solo all’inizio e in fondo le canzoni di tutti erano allora a un livello qualitativamente molto alto. Lo sfaldamento di questa sovrapposizione di equivoci non è stato improvviso: 1) a Paglieta (CH) alla fine dello spettacolo mi dicono «tutto molto bello ma noi qui abbiamo solo agricoltura, che c’importa delle tue storie di fabbrica e di borgate metropolitane». Portavamo a) ma allora è vero che il ruolo della comunicazione contenuti nuovi orale della canzone è finito. Forse sono migliori in questo senso i giornali e i libri, sui giornale la pagina e inusitati, dell’agricoltura la trovi subito. Comunque, prime avviindicazioni di saglie della mancanza di una solidarietà sociale e di lotta, memorie complessità politica. 2) Taranto. Sto cantando la canzone sull’aborto a un insurrezionali a pubblico di 300 donne. Verso la fine della canzone mi chi, tronfio nella sento in un’atmosfera vagamente kafkiana. Nella migliore sua ignoranza, delle ipotesi, sto declamando la Dichiarazione dei diritti dell’uomo a una fila di disoccupati in coda all’Ufficio di continuava a collocamento. pascersi dell’odiata b) improponibilità di una rielaborazione creativa che musica leggera. non sia frutto di propria esperienza diretta e credibilità zero se chi suona non si rivolge ai propri compagni di contraddizione e di liberazione. Paradossalmente non si può, forse, che cantare d’amore o di grandi fatti generici. Al di là di questi una comprensione comune è possibile solo in una fruizione estetica. 3) Torre Angela, borgata di Roma. Un circolo culturale di compagni molto bravi. Alla fine uno mi dice: «Credevo meglio, sento che quello che fai è stantio». c) è vero: le leggi dello spettacolo sono diverse da quelle della politica. A nessuno interessa più sentire storie di salute in fabbrica, díiomicidi bianchi, neanche come topoi letterari. È ben vero che nessuno parla più in generale di salute in fabbrica. Che le leggi della politica si stiano conformando alle leggi dello spettacolo? 4) Suono gratis a un concerto di solidarietà con i baraccati. Ingresso libero, offerta a piacere. Vengo interrotto a metà da un Corrado Sannucci
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gruppo di compagni di un circolo giovanile che si «ri»appropriano del palco, della musica, della creatività, dell’improvvisazione. Il tentativo di coinvolgere il pubblico fallisce. Vanno via. Uscendo dopo lo spettacolo li incontro che stanno cantando Contessa e La locomotiva. d) creatività? improvvisazione? quale rito di disperazione è diventata la musica? è un colorante o è proprio la bevanda? Al termine di questo processo putrefattivo c’è chi ha smesso di suonare, chi è andato in Africa, chi si è tuffato nel professionismo, chi è finito nella grande multinazionale discografica e chi ha fatto tutte queste cose insieme. La mancanza di qualsiasi omogeneità anche puntiforme in chi ascolta e di referente politico e culturale per chi suona, ci riporta più che altro a vecchi temi della musica, come la concorrenza tra l’orchestra di Cinico Angelini e quella di Pippo Barsizza. Voglio dire: cantare, in un circolo giovanile, la maturazione umana e politica di un adolescente alla morte di Lo Muscio, sarà d’ora in poi ben differente dal cantare, in una festa dell’Unità, della crescita culturale di un sedicenne, all’annuncio del governo delle astensioni. Fortebraccio s’era scelto il metalmeccanico, soggetto politico qualificato e chiave di una ricerca politica e satirica di spessore. In una situazione che presenta analogie con la nostra, lo La mancanza scrittore tedesco Heinrich Böll ha scelto la via di una di qualsiasi testimonianza puntuale nei confronti dei misfatti del potere. In una situazione come la nostra, l’unica via praomogeneità anche ticabile sembra essere oggi la costruzione e l’obbedienza puntiforme a una morale individuale, che ha punti di riferimento in chi ascolta labili e discussi, rigorosa verso il «fuori» ma contraddittoria e priva di certezze e autorità verso il «dentro». e di referente ma nati per infamare» diceva qualcuno tempo fa. politico e culturale «Infami E ancora una volta «nati per infamare» i padroni ma, per chi suona. immancabilmente, «infami» tra i compagni.
Discografia I falò di maggio (Folkstudio),
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Ma non è una malattia
La macchina in seconda fila «Entri la prego presto io son così preoccupata tutta la notte ha pianto ora è calda e respira affannata sa ho telefonato per paura che fosse veramente cosa grave» capisco mi faccia passare anzi mi guidi lei alla bambina «sa ieri la febbre era alta le chiazze e bolle poi stamattina... » signora mi sta assordando con questo suo parlare a valanga voglion sapere già tutto ed han lasciato appena ieri la vanga ma dove son capitato tra questi stracci e questa confusione la borsa per ora non serve vorrei solo dell’acqua e sapone e una sedia meno scassata, oddio ma com’è sporca ’sta casa e questi muri bui e anneriti che non si vede niente non è possibile lavorare qui in un modo decente «sa noi qui siamo in sei a dormire e di più non possiam pagare» ma che giornata storta ma perché mi sono alzato stamattina diamo un’occhiata un po’ a questa maledetta ragazzina Signora son meravigliato perché lei mi ha chiamato si vede a prima vista ci vuol lo specialista non mi dica che in due mesi lei non le ha guardato gli occhi certe cose le capiscon anche gli sciocchi ma come signora non lo sa certe cose non si fan quando si è vecchi «Ma scusi dottore che cosa vuoi dire lei è qui e la bambina sta male» signora io debbo scappare ho tanta gente altro da visitare «si fermi un istante mi spieghi mi faccia capire mi aiuti» ma cosa si sta a preoccupare ci sono in giro così tanti istituti e data la situazione faccio per lei un prezzo di tremila paghi in fretta sa che ho la macchina in seconda fila
Corrado Sannucci
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Piombo La mattina è sempre peggio ad alzarsi ad ogni costo ed aspettar che nuovamente ogni cosa mi salti addosso e coi gomiti sul tavolo e gli occhi gonfi e stanchi non riuscire che a fissar la lampadina lì davanti e strofinar la mano sulla guancia mal rasata e poi il freddo liscio e scabro della tovaglia di tela cerata E in cucina dove tutto ha il suo posto e il suo colore io sto qui a rimuginare e a ciondolarmi ore e ore ma sto stretto sulla sedia e mi agito nervoso e vorrei fermarmi dentro quel tremore silenzioso è un brusio senza contorni come echi dalla strada che non sai più decifrare ed aspetti che poi cada E mi trovo a fare gesti come a seguir l’istinto come con un temperino in fronte a un muro vecchio e stinto e il latte ha un gusto strano di un benessere un po’ spoglio e il sapor di medicine che non prendo e che non voglio e il cucchiaio sa di metalli e di schegge di rottami me lo passo sulla lingua come il medico domani Ma so già che mi dirà «cosa vai a pensare Bruno tu stai bene e il piombo sai non fa male più a nessuno» e lo guarderò pensando che mi sta prendendo in giro e io lo so perché non parla e dice ch’è poi vero che poi l’osso divien molle e il sangue cambia in nero io non so ma stamattina non mi va via ’sto pensiero
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Ma non è una malattia
Dialetti Ieri ho sognato l’uomo grande con la barba e m’ha detto «guarda cosa m’hanno fatto quanta gente che m’ha preso e poi m’ha rigirato consumato digerito come un surgelato e scusa se ho il cappotto ma a Londra fa fresco» mi parlò in inglese come lo parla un tedesco Poi è venuto l’uomo con il pizzo e fronte ampia «sessant’anni dopo guarda un po’ che scempio io sto qui in bacheca e milioni di persone mi passano davanti per vedermi bene mi conoscon pochi e nessuno bussa» mi parlò italiano con inflessione russa Poi è venuto l’uomo piccolo e deforme quanti anni spesi per trovare le mie orme «ora voi» m’ha detto «m’avete eletto santo ma non per parlarmi ma solo per rimpianto ora dormo a Roma, vado ch’è già tardi» mi lasciò sul tavolo dei dolcetti sardi Poi è venuto l’uomo biondo con gli occhiali «la burocrazia» ripete «è fonte d’ogni male a me a poco a poco s’annebbia la vista sai è dal ’40 che c’ho il mal di testa scherzo un po’ pesante di un amico mio georgiano» e mi volle parlare per gioco in messicano Poi è venuta lei e ha detto «forse è tempo che anche in Italia io faccia il mio avvento credo anche stavolta il sardo parlerò» forse è giusto ho detto ma guarda che però sbagli ad imparare una lingua solamente ma venti e più dialetti parlerai correntemente Corrado Sannucci
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Il vestito vecchio e brutto
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E ho messo il vestito vecchio e brutto perché spesso esce sangue e sporca tutto e m’han detto si dà nell’occhio se si è in tanti perciò vai sola e cerca di non far pianti e ho preso il tram fin oltre la stazione li dove ferma tra case in costruzione son scesa li a guardar palazzi venir su e una voglia dentro di buttarmi giù e m’han detto che sarei fortunata se quel giorno lei le mani s’è lavata se il tavolo grigio lì in cucina non è sporco e non c’è odore di latrina e ho bussato a una porta senza forza poi una nebbia è scesa come luce che si smorza e non capivo più cosa succedeva lei che mi toccava lei che mi stendeva e non capivo più cosa stavo a fare ma ero troppo stanca troppo per reagire E la gente chiede se è giusto o no ma il giusto cosa c’entra io non lo so io so soltanto a casa non c’è posto non c’è posto per un altro letto né soldi per riempire un altro piatto e tutti quelli che parlan di vita che tiran fuori storie di morale venite a veder quanto vale ’sta vita che mi porto dietro io non posso neanche sceglier un figlio mio Mi scuoto e un dolore che mi stringe lei che caccia lo spillone dentro e spinge e ho urlato urlato nell’ovatta che m’ha messo in bocca per star zitta
Ma non è una malattia
Corrado Sannucci
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La morte comincia così
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La morte comincia così gli occhi abbottati di sonno e di freddo le gambe molli e i piedi pesanti giù verso il treno e la pensilina dentro la nebbia di prima mattina La morte comincia cosi la gioia impastata di sigarette il bavero alzato e le spalle strette in cappuccino al caldo del bar poi fuori di corsa dai forza ch’è tardi Ma manca solo un anno e dopo me ne andrò e me lo dicon tutti se no ci morirò e quando verrà il giorno voglio vestirmi bene avervi tutti intorno bere e parlare insieme e prenderò le canne gli stivaloni e gli ami e voglio andare al fiume dove ci son quei rami E quel giorno il fiume sarà calmo e poi gonfio e azzurro come non è mai sceglierò una pietra liscia e bianca dove preparare esca e lenza scorderò tutti quanti i malanni e sarà come andare indietro di vent’anni aspetterò che poi qualcosa abbocchi e avrò voglie di mirtilli e bacche e per la prima volta mangerò di gusto senza tutto quel fracasso e quel trambusto via la giubba voglio stare al sole fino a quando dietro al colle muore e a sera mi raggiungerete al fiume e sarà festa festa ancora festa eccome mangeremo pesci cotti a brace e canteremo quello che ci piace e il vino non dovrà bastare mai di ballare non ci stancheremo mai e la festa non dovrà finire mai e la festa non dovrà finire mai... Ma la morte comincia così quando si sogna già il paradiso e nella nebbia ti nasce un sorriso mentre cammini e sei troppo stanco lei d’improvviso ti appare di fianco La morte ti coglie così fa la tua strada lì fino al capanno tu che le parli come a un vecchio compagno fa una battuta e ci ridi anche tu strada e stazione non ci sono più
Ma non è una malattia
Sette paia di scarpe Sette paia di scarpe ho consumate sette verghe di ferro ho logorate quante paia di scarpe ho lavorate per aiutarmi in questo mio campare e sette fiasche di lacrime ho colmate sette mesi di sofferenze amare ora dormo alle tue grida disperate e il gallo canta e non mi puoi svegliar Uno, il mio lavoro è uno, lavorare la tomaia e col mastice incollare ragazzina a quindici anni è ora che ti dai da fare non c’è niente da aspettare, due i mesi che son stata là poi cominciano i dolori dice è colpa dei vapori ragazzina a sedicianni già ti tremano la mani come crescerai domani, tre svenimenti che c’ho avuto prima che qualcuno dica ma che patimenti ’sta ragazza che fatica ragazzina e le gambe già non me le sento più e i dolori salgon su, quattro ospedali che ho girato per cercare nuove cure sempre stesse facce scure ragazzina e i dolori già mi fiaccano le braccia già mi bruciano la faccia, cinque dottori in veste bianca che scuotono la testa e il male non s’arresta diciott’anni disperati sul lettino inanimati muti e paralizzati Sette paia di scarpe ho consumate sette verghe di ferro ho logorate quante paia di scarpe ho lavorate per aiutarmi in questo mio campare e sette fiasche di lacrime ho colmate sette mesi di sofferenze amare ora dormo alle tue grida disperate e il gallo canta e non mi puoi svegliar
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I falò di maggio Mia moglie ha gli occhi duri e il viso ancor di più e quando ha quella faccia vuol dir ch’è proprio giù bisogna starle dietro e forse parlerà insistere un pochino ed ecco sbotta già Dai Corrado non lo vedi non ci stiamo a contar balle non lo vedi ch’è un macello tra me e te ormai è così nulla è scritto nulla è detto se lo pensi non lo dici e poi perché parlare per poi dir non siam felici ma tu forse ancora aspetti e io ti chiedo quando smetti io ti chiedo se tu hai voglie ti rispondo non hai moglie questi anni son passati tutto è stato in un momento e il ricordo si fa vuoto e il dolore è un passatempo poi si lotta e si combatte e sappiamo questo è giusto e non provo molto gusto a chiederti se tu pensi ancora che quel mondo che faremo nel futuro vorrà dir meno fatica un lavoro meno duro Mia moglie ora ha finito e adesso aspetta me e io so dire e non so dire e son problemi che ti toccano dovunque che cosa riuscirai volere cosa come adesso quando o mai donna donna io ti capisco anch’io spesso penso questo e non ci sono formulette ma risposte chiare e nette e io non voglio darti fede né speranze a buon mercato raccontarti solamente cosa vedo che ho pensato Vedi quel che dobbiam fare non sarà solo niente morti sul cantiere non sarà solo cambiar tabella oraria non sarà solo la riforma sanitaria non sarà solo mai più emigrazione non solo mai più disoccupazione non solo case scuole libri per ognuno non solo mai più fame e ignoranza per nessuno Ma verrà primavera e scenderemo giù nella città in festa rideremo e tu col figlio grande in braccio col gelato in bocca e l’altro a terra che mi tirerà la giacca e come non pensarci per il corso noi a passi lenti noi e le vetrine e poi ti comprerai un vestito rosso di ricami mi porterai dei fiori e mi dirai che m’ami
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e d’improvviso noi c’accorgeremo che la gente che cammina insieme a noi è li guarderemo è gente come noi che ha voglia e quello accanto a me canta e mangia una sfoglia e dice finalmente è finita la miseria de ’sta vita parla a un uomo in divisa lui ha la camicia lisa stanno li a fumare su dove cominciare e le idee son tante e c’è tanto da parlare su cose, state anni li a covare ora esplodon come razzi come fuochi in mille gesti e mille giochi corse con le borse a ciondolare frasi perse in gioie sussurrate in grida di mercato in fiori mazzi di ginestre e di colori e gente alle finestre che saluta gente sconosciuta che s’allaccia che s’abbraccia come per un ballo intorno ad un falò di maggio come per un girotondo intorno a un faggio e tra i capannelli di motivi e spiegazioni urla ognuno la sua storia piena di ragioni con i volantini in mano come fazzoletti tra le sciarpe ed i maglioni volano progetti e nessuno vuole andare via e la piazza è come per un bambino una pozzanghera e ci sguazza passa un camion sfiora una lambretta e come una staffetta va sotto balconi strombazza nei portoni e poi corre lungo i viali e si unisce agli altri carri luccicanti come inchiostri ora sono nostri ora sono nostri e su quei volti allora noi ritroveremo che quel che abbiam sperato e quel che credevamo e come non veder nelle felicità che nasca naturale un’altra società e mentre noi saremo li a passeggiare moglie ti abbraccerò e ti vorrò baciare io riprendo un volantino e come un canto io ripeto ha vinto íl popolo ha vinto ha vinto ha vinto il popolo ha vinto
Corrado Sannucci
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Anna, la terra e l’acqua
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Anna la terra e l’acqua vivi se le conosci Franco il carbone e il ferro vivi se non ti schiaccia la casa ed il lavoro vive chi non te lo dà la terra uccide e beve l’acqua che passerà E l’hanno trovati che stavano abbracciati e la baracca più non c’era e il letto era sfonnato e si quarcuno dice che il fango ha sporcato er vestito che c’aveva lei tu nun je crede’ lui la strigneva forte e je voleva bene e c’è quarcuno poi che giura che strigneva forte lei e che so’ morti come du’ antichi romani come quelle statue a fango che poi vede’ nei musei gente a bocca aperta come quanno cominciò a piove l’eruzione del settantanove Guardava Anna i cumuli di macchine sfasciate ed i recinti ed i rintocchi delle martellate e Franco ha il braccio duro e se può lui ride forte garzone della vita che vive nella sorte guardava Anna il viottolo e le fabbriche distanti le moto la mattina che vanno li davanti e Franco oggi è stanco e lì più non ci torna una 600 è venuta giù a mezzogiorno e crolla tutto e il campo è già un pantano se il fiume sale e l’acqua cresce nera Anna non guardare più lontano non andar tranquilla nella sera che l’argine è terra morta e terra senza semi vive delle impronte che lasciano i cani ma Anna guarda il viottolo e le fabbriche distanti e i campi di cicoria che vi facevan stanchi ed il trifoglio che restava in mano coriandoli che tiri a chi ti lega ti fanno un poco cieca un poco allegra ti fanno un poco cieca un poco allegra E l’hanno ritrovati e c’è chi non parlava la moto riprendeva e via se ne riandava le fabbriche la sera come fattucchiere che mischiano gli amori nell’aria senza luce col legno ch’è rimasto non ha saputo altro che mettere una croce
Ma non è una malattia
Biglietto di ritorno Senza neanche metter le sirene son venuti poliziotti calabresi lavoravano e parlavano insieme e il cronista già impaginava una storia misteriosa di follia isolana la città isolava la follia nella sua cronaca cittadina con in braccio una bambina una vicina raccontava con in braccio una bambina una vicina raccontava E tornato a casa come avesse già il biglietto di ritorno salì le scale come fosse la sua sosta a mezzogiorno con i conti in tasca a rigirare come una commessa stanca licenziato ancora e si sedette piano sulla panca mandò via la donna con una fragile scusa e una frase dolce come preparasse una sorpresa abbracciò i figli come fosse il loro compleanno li lavòi alla bacinella come se aspettassero il nonno due camicie bianche e li vestì come la prima comunione preparò una cena con gli avanzi della colazione e giocò con loro con la palla e con la borsa da spesa e li addormentò facendo il verso della cornamusa e pulì dal tavolo una macchia di latte rappresa chiuse la finestra con il gesto esatto alla fresa e piegò il vestito nero quello della processione si distese a terra nudo sopra un letto di cartone aspettò tranquillo fuori che Milano annerisse il giorno e apri il gas come fosse il suo biglietto di ritorno
Corrado Sannucci
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Zuppa di Gemona La leggenda popolare già ce lo racconta la prima scossa fu feroce come un’onda ma la seconda scossa cominciò a tremare quando l’elicottero da Roma volle atterrare L’elicottero mandava ordini precisi i lostalgie del Carso, nostalgie del fronte e i suoi dispacci eran secchi ma concisi il fuochista dorma pure ma le macchine sian pronte» L’elicottero chiamava le gru dalle rimesse le piastre inossidate i magli delle presse i contatori bip i macchinari chic i cingoli d’acciaio e le lamiere spesse L’elicottero diceva nei campi la gente è brava ha l’osso del collo rotto ma guarda se la cava l’elicottero diceva nei campi la gente è buona e la mensa regalava due minestre per persona L’elicottero scaricò roba dalla prima sera invece di cuscini tanti cuscinetti a sfera invece di coperte tanti copertoni invece delle radio tanti radiatori L’elicottero diceva e ricordava sempre alle case noi tendiamo e invece dava tende l’elicottero diceva e ricordava sempre settembre tutti a casa ma un vecchio vide il mare per la prima volta un giorno di dicembre Ma come salvar ’sti paesi e quei montanari rudi e orgogliosi io un’idea ce l’avrei (ma va!) diceva un’alta autorità il turismo ci salverà qualcosa che piaccia ai tedeschi qualcosa che tiri i turisti cucina paesana! cucina friulana! una gastronomica specialità la guida Michelin ci aiuterà E allora se nei campi la minestra è buona forza trombettiere il rancio suona chi non mangerà la zuppa di Gemona chi non mangerà la zuppa di Gemona...
Corrado Sannucci
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A casa, a casa A casa, a casa 6.30 esatte a casa, a casa via dalla notte e la notte è già luce del bagno un sapone di calce e stagno e la calce è già muro in cucina la cucina si squaglia nel latte ed il latte è gia sveglia profonda lei ti guarda sembra nasconda la tua casa e poi, dietro, la porta dov’è che finisce la porta dov’è che comincia la strada dov’è che la strada dovunque essa vada che poi ridiventa portone dov’è che il portone si sdraia a scalino e le scale s’allargano a stanze dov’è nella stanza la sedia che siedi dov’è che poi appoggi i tuoi piedi e i piedi diventano tavolo e foglio e il foglio diventa rumore dov’è che il rumore diventa una voce e tremore diventa scrittura e la scrittura diventa una macchia la macchia s’allarga col tempo dov’è che il tuo tempo diventa un’attesa la stessa che imbocca le scale e la scala si drizza a portone e il portone si sdraia per strada dov’è che la strada dovunque essa vada che poi ridiventa la porta dov’è che finisce la porta, e sei
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Ma non è una malattia
ancora a casa, ancora a casa la casa diventa una donna, la donna spalanca la bocca la bocca diventa una mano, la mano che stringe la brocca e gratti gratti piatto e forchetta prima che nasca una frase prima che una domanda cada come un’accetta e ogni sguardo sia promessa disdetta prima che ancora qualcuno si lagni ma già il giornale è un tappeto di ragni e il discorso diventa una treccia una freccia che ti sfiocca in testa e la testa si squaglia nel fumo di una cicca affilata a rasoio e il rasoio già si gonfia nel viso e il viso si schiaccia allo specchio e lo specchio si schiaccia nel letto e il letto è già nero di sonno e mentre il sonno comincia a dormire tu riesci solo a pensare che sei ancora a casa, ancora a casa ancora a casa
Ambulanza L’ambulanza che ronza che avanza stavolta ti scansa il telo sdrucito che copre che scopre un corpo d’avanzo una sbronza una danza fidanzati presto che muori attrappito la forza che scappa impara qual è la tua mappa ancora un reparto uno scarto un infarto ancora una rete un magnete un diabete vivete e aspirate vinile e cloruro fate le code di rospo e mercurio stringiti forte la donna-scongiuro e poi tracannate il vino-spergiuro dal primo bicchiere alla pozza nel muro fate tarocchi sul vostro futuro ancora padrone pallone pensione ancora una scocca Rocca biccocca sabato chiacchiera e poi partitina la brillantina e dopo schedina schedala in fredda la festa che aspetta schedala che poi lunedì la gente che stringe che spinge che allarga le braccia la marcia la caccia e va nello scontro nel forno d’intorno e corre da chi gli inventa il suo giorno e corre s’affretta e poi s’arrabatta impara qual è la sua tratta ancora barriera corriera carriera ancora una latta cataratta ciabatta e poi il sonno che frega ti sfregia da strega stanchezza t’imbratta ti tratta da matto tua moglie che scatta che accatta una cena che attacca una scena che volta la schiena che tace che pensa che ascolta impara qual è la sua multa ancora calzone passione finzione ancora addosso più spesso dappresso levati lavati vattene via ma levati lavati resta distante ruba un brillante picchia un passante pensane una fra tante e poi grida da scemo da freno da astemio grida da scemo da freno da astemio...
Corrado Sannucci
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La dialettica (l’è un gran malanno) E ho sempre il fiato grosso a salire le tue scale ma oggi me ne accorgo c’è qualcosa d’anormale prendi una sigaretta poi t’appoggi al davanzale ma sì l’ho già capito tu m’hai fatto il funerale «sai caro noi non fummo mai felici prendimi un po’ di burro e alici sai caro noí non fummo mai contenti per Dio non trovo lo stuzzicadenti» Per un po’ sto lì a guardarti maneggiare lo stecchino poi mi cresce dentro un senso di violenza bruta faccio dietrofront vado allo sgabuzzino prendo gli strumenti e m’infilo anche la tuta «sai cara io ho un mio temperamento» affilo il coltello in un momento «sai cara sarei triste a stare solo» son pronti il cacciavite e il punteruolo E il medico legale per un po’ non dice niente poi alza il sopracciglio e dice forse ancora vive «sergente scriva presto il corpo contundente un martello dato trenta volte lì sulle gengive» «e poi vorrei una cosa fosse chiara quelli non sono denti ma è dentiera vorrei che fosse messo anche a verbale, le rate ero io a dover pagare» Ma è così che noi dentisti siam vituperati è cosi che noi dentisti siamo maltrattati E si che io prendo la gengiva un po’ infiammata io ve la rendo rosa vellutata io prendo un dente con un ascesso, anestetizzo questo processo e se ne trovo qualch’altro compromesso, so come fare per farvelo passare io son la pietra molare del momento sovrastrutturale il mio lavoro ovvio è incisivo vi fo ingoiare il boccone più cattivo io sono l’omaso, sono l’abomaso sono il prezzemolo e il rosmarino io sono il cuoco e poi v’ingozzo son la forchetta e il gargarozzo perché perché perché perché perché perché digerire è fondamentale vabbè vabbè vabbè e vabbè
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Ma non è una malattia
rimuginare vabbè ma deglutire sono il bicarbonato dei bocconi amari delle impiombature sono il campari sono il rabarbaro perché in quella zucca capiate è giusto quello che vi tocca sono il rabarbaro perché in quella zucca capiate è giusto quello che vi tocca Dottore! ma io mi sveglio e a colazione appena alzata mi mangio pane e burro ma è malata la nazione, la televisione annuncia la stangata niente oro incenso e m’apro quella birra, mentre aspetto lo spaghetto pian pianino con l’olio l’aglio e poi quel peperoncino e la nostra è una bandiera a tre colori bianco rosso e l’altro che si perde anche ai semafori son tre verde giallo e l’altro a più non posso aspetto fino a che, aspetto fino a che la caria arriva all’osso Sbagliato! sbagliato! sbagliato! e questo il dentista che ha parlato noi che al futuro siam protesi e molto socialmente presi al nostro congresso deontologico abbiam deciso com’era logico che ai padroni della dentiera gliela faremo pagare nera che ai padroni della dentiera gliela faremo pagare nera che ai padroni della dentiera gliela faremo pagare nera e il nostro motto certo sarà anche se solo in via di ipotesi Tesi antitesi e protesi!
Corrado Sannucci
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Tanto per cambiare E allora torna a casa e la famiglia è un fatto pensa a come vivono e questo è un altro fatto li manda a dormire come fosse un caporale finisce di mangiare e poi cambia canale E poi apre una stanza la stanza di una figlia le spara alla tempia sotto la foto di famiglia una ragazza a modo ma occhi e naso neanche belli lui le cambia bocca l’espressione ed i capelli E poi alla bambina spara con più fretta alle elementari non ti danno retta chi si accorgerà di te che non dici una parola lui le cambia classe sezione e poi la scuola E la polvere da sparo ha il suo strano aroma ecco cambia stanza e spara al suo diploma al figlio militare spara in un lampo lo cambia da soldato a eroe morto sul campo E alla moglie spara su su nella schiena le spara col ricordo fresco di una cena di quando la portava in giro per metterla in mostra adesso lui le cambia la schiena in una lastra E ancora cambia mira e adesso cambia mano e piegando il braccio si spara da lontano e il colpo che parte cambia traiettoria e questo veramente cambia la sua storia E il colpo che parte cambia traiettoria e questo veramente cambia la sua storia adesso è lì sul letto e gli cambiano reparto l’uomo che voleva cambiare: è vivo e non è morto
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Ma non è una malattia
Corrado Sannucci
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Ma non è una malattia
Romano MĂ dera
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«Una milano stralunata ma, come suol dirsi, “civile” e vagamente giacobina» Stormy Six
Un critico di «Libération» (foglio francese goscista) ha recentemente scritto che gli Stormy Six (un gruppo «più o meno pop») fanno «una musica molto particolare, ispirata un po’ a Zappa, un po’ a certe correnti contemporanee e un po’ alla canzone militante»; e tutto questo nonostante il loro nome «ringard». «Ringard» — sostantivo, non contemplato come aggettivo — viene tradotto da un vecchio vocabolario con «asta di ferro per attizzare il fuoco». Questo per i francesi. Ma per gli italiani, chi sono gli Stormy Six? La biennale di Venezia li chiama a suonare al Conservatorio all’interno delle iniziative su Hans Eisler, a Forlimpopoli si cerca di usarli come orchestrina di liscio; per l’autunno musicale di Corno suonano assieme a Henry Cow, in Calabria fanno da spalla a Claudio Villa. Ma cosa suonano? Nel 1975 per Un biglietto del tram, il primo disco uscito per la Cooperativa l’Orchestra, viene forgiato il termine «zdanov rock», che, abbinato all’attizzatoio di cui sopra, potrebbe rinforzare quell’immagine un po’ truculenta, stile «nucleo d’acciaio», che del resto è ancora oggi accreditata presso una fetta di pubblico. Ma allora come la mettiamo col nome inglese un po’ scoppiato, col sesto stormo, coi tempestosi sei? Non passa concerto senza che qualcuno, alla fine, si avvicini a un membro del gruppo per chiedere spiegazioni su questo intruglio, ed è l’occasione, quasi sempre, per parlare dell’altro intruglio, quello grosso, con dentro le festine studentesche degli anni Sessanta, il provincialismo canzonettaro, e poi il sessantotto, i gruppi musicali militanti, i festival pop, le feste dell’«Unità», la prima cooperativa di musicisti in Italia, le scuole di musica... Ma allora come Anno dopo anno la formazione degli Stormy Six ha la mettiamo subito scossoni politici, musicali, sociologici e addiritcol nome inglese tura etnici, ultimamente, con l’entrata di due sardi (Pino Martini e Salvatore Garau) al basso e alla batteria, un po’ scoppiato, ma questi cambiamenti, invece di indebolirla, hanno col sesto stormo, rinforzato la linea del gruppo, una linea aperta ed elacoi tempestosi sei? stica, verificata da alcuni anni fuori e contro l’industria
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Ma non è una malattia
Rivendicazione di una larga autonomia espressiva alla canzone politica, di un maggiore spessore musicale, di un uso più pertinente e meno ammiccante della parola.
culturale e i suoi meccanismi, ignorata o quasi dai grandi mezzi di comunicazione e vissuta a contatto diretto con la gente (gli Stormy Six producono autonomamente i loro dischi e gestiscono in proprio i concerti). Poco spazio, o nessuno, per i compromessi, compresi quelli con la «formula che funziona», con l’etichetta che distingue («zdanov rock»?): proprio mentre Stalingrado cominciava a circolare come una canzone popolare tra i compagni che cantavano in coro anche le parti dei violini) il gruppo strombettava, sviolinava e stamburava con Guido Mazzon e Tony Rusconi sui Cliché, in un disco difficilmente classificabile dove ai titoli pacchianamente politici rispondeva lo sberleffo musicale, in polemica con la «canzone di sinistra» affiorante, su ben altra scala, al mercato. Infine L’apprendista (1977) segnava la tappa decisiva per i sei nella rivendicazione di una larga autonomia espressiva alla canzone politica, di un maggiore spessore musicale, di un uso più pertinente e meno ammiccante della parola. Quanto spazio ha la parola nel lavoro degli Stormy Six? Certamente più che in quello di altri gruppi, dove il testo è tradizionalmente subordinato alla musica, costruito per assecondare un’idea musicale, per ornarla di parole, e spesso è poco più di un titolo: qui il peso delle parole è in tutto equivalente a quello delle note, e questo è ancora più vero, paradossalmente, nell’Apprendista, dove la musica si è notevolmente allargata rispetto a Un biglietto del tram. I testi raccolti in queste pagine (1971-1977) appartengono a diversi momenti della «poetica» degli Stormy Six: si va dalle vignette ingenue di Garibaldi, che si servono di un’epica da cantastorie, alla Manifestazione (una delle prime canzoni nell’area della musica leggera a riferirsi esplicitamente alla cronaca violenta degli anni «caldi»), dal realismo socialista di Stalingrado all’amarezza del Labirinto. Quello che vogliamo caratterizzi le nostre canzoni è un forte senso della storia, il bisogno di collegare i dati del presente ad altri più lontani; e la scelta di questi dati storici è «classica», cade sui nodi del Quello che Risorgimento e della Resistenza, della vogliamo «questione meridionale» e della «lococaratterizzi le motiva» operaia settentrionale. In questo, gli Stormy Six sono un nostre canzoni gruppo «ortodosso», potremmo dire, è un forte senso se l’aggettivo non suonasse un po’ rigido (e magari offensivo), ma sono della storia, soprattutto un gruppo che vuole legarsi il bisogno alla realtà italiana, lontani dal cosmo- di collegare i dati politismo rock anche nell’uso del linguaggio, oltre che nella scelta degli del presente ad argomenti e dei centri di interesse. altri più lontani. Stormy Six
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Gli Stormy Six intendono continuare a dare parole e musica alla Milano del movimento degli studenti e dell’antifascismo militante.
Se Ivan della Mea è stato ed è l’interprete della Milano popolare, quella dei navigli, delle sezioni del PCI, della «ringhiera», gli Stormy Six intendono continuare a dare — non certo da soli — parole e musica alla Milano del movimento degli studenti e dell’antifascismo militante; una Milano a volte un po’ stralunata e gelida, ma, come suol dirsi, «civile» e vagamente giacobina. Questo soprattutto nel Biglietto del tram; nell’Apprendista all’epica da cantastorie e al realismo a volte un po’ oleografico si sostituisce la stilizzazione, l’ombra cinese (si veda L’apprendista), e l’ortodossia storicista lascia il posto all’autoironia e all’autocritica (si veda Cuore), mentre i «tenentini» rivedono l’Italia con gli occhi del «militare di truppa» (nel Barbiere) e cercano, senza schemi precostituiti, di nuovo il bandolo della storia, difficile da trovare, nel presente di «un’Italia scassata e feroce / senza più forma e senza voce».
Discografia L’unità (Ariston) Un biglietto del tram (L’orchesstra) Cliché (L’orchestra) L’apprendista (L’orchestra)
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Ma non è una malattia
Garibaldi E parliamo di Garibaldi e dei suoi Garibaldini, venuti per far giustizia a noi poveri contadini. Arriva Garibaldi e i baroni fa tremare, la gente per le strade si sente già cantare: Garibaldi ma chi è? E più forte e bello dello Re! Garibaldi cosa fa? Porterà giustizia e libertà. È arrivato Garibaldi e i Borboni son scappati, son scappati nella notte per non essere ammazzati; ma il quattordici di maggio il barone gli fa omaggio, e il notaro Rosolino già lo chiama Don Peppino. Garibaldi... Se ne e andato Garibaldi con i suoi Garibaldini, se ne è andato con il pane di noi poveri contadini, e il notaro Rosolino all’uscita del paese ha brindato a Garibaldi col buon vino piemontese. Garibaldi...
Stormy Six
La manifestazione Sulla strada, alla manifestazione, e gridando con la forza di chi ha ragione camminavi sotto l’ombra di una bandiera e gridavi «Viva la rivoluzione,. Ma lontano, uno squillo di tromba, una pietra che vola e la strada è già vuota. Ho lasciato la mano di due compagni, ho cercato il rifugio in un portone. In un attimo, senza il tempo di pensare ho vissuto ciò che to più non vivrai. Cento strade per tornare verso casa, tanto fumo, ma soltanto per piangere. Stamattina, rileggendo sul giornale, non capivo, mi sembrava un’altra storia. Ma qualcosa era là sul marciapiede: una giacca ed un fazzoletto rosso. Più nessuno che ricordi la tua voce, i miei occhi son soltanto per piangere.
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Stalingrado Fame e macerie sotto i mortai, Come l’acciaio resiste la città. Strade di Stalingrado, di sangue siete lastricate, Ride una donna di granite su mille barricade. Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa: D’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città. L’orchestra fa ballare gli ufficiali nei caffè, L’inverno mette il gelo nelle ossa, ma dentro le prigioni l’aria brucia, come se cantasse il coro dell’armata rossa. La radio al buio e sette operai, sette bicchieri che brindano a Lenìn. E Stalingrado arriva nella cascina e nel fienile, vola un berretta, un uomo ride e prepara il suo fucile. Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa: d’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città.
8 settembre Sulle rotaie, vestito in borghese, cammina e canta piano una canzone per calmar la confusione che ha in testa. Un soldato, un ufficiale dentro quel pigiama grigio quanta vale? Sulla sua testa risplende tranquilla la luna,e in cielo cantano le stelle: «Pensa solo a salvare la tua pelle. Una vita, un mese, un anno, resta chiuso nel tuo buco come un ragno». In un paese è passata in divisa la morte. La gente in cerchio sul sagrato, nella piazza sale un grido soffocato. Ammazzati come cani, un cartello appeso al collo: «Partigiani»
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Ma non è una malattia
Stormy Six
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Dante di Nanni Nel traffico del centro pedala sopra il suo triciclo, e fischia forte, alla garibaldina. II carico che piega le sue gambe e l’ingiustizia, la vita è dura per Dante Di Nanni. All’alba prende il treno e c’è odore di porcile sui marciapiedi della sua pazienza, nella testa pesano volumi di bugie. La sera studierà, Dante Di Nanni. Trent’anni son passati da quel giorno che i fascisti ci si son messi in cento ad ammazzarlo, e cento volte l’hanno ucciso, ma to lo puoi vedere: gira per la città, Dante Di Nanni. L’ho vista una mattina sulla metropolitana, e sanguinava forte, e sorrideva. Su molte facce intorno c’era il dubbio e la stanchezza, ma non su quella di Dante Di Nanni. Trent’anni son passati da quel giorno che i fascisti ci si son messi in cento ad ammazzarlo, e ancora non si sentono tranquilli, perchè sanno che gira per la città, Dante Di Nanni. II mese di Aprile fra tutti è crudele: sui morti fiorisce il lillà. L’inverno ha sepolto la loro memoria lasciando soltanto pietà, e adesso una vita è una faccia ingiallita, è solo una fotografia, la morte non vale nemmeno il giornale che leggi, e che poi butti via. In mezzo al biliardo tre morti ammazzati: tu segni otto punti per te, continui a parlare di cronaca nera che leggi bevendo il caffè. «Nel sessantaquattro era tutto più bello, ma quello era l’anno del boom, guidavo nel vento una seicento e i morti restavano giù». ln mezzo alla gente che sfila al mattino sotto l’insegna del tram ho riconosciuto un nostro vicino che gioca a biliardo nel bar: «Quel corpo che tiene sepolto in giardino di fiori, ne dà o non ne dà? Tenga lontano il suo cagnolino se scava lo ritroverà».
La sepoltura dei morti
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Ma non è una malattia
Arrivano gli americani Le statue sudano sangue, parlano dentro le chiese, annunciano un grande miracolo dall’aldilà gli arcangeli sopra le spiagge cominciano il loro safari coi cuochi, le donne, i gregari e gli sciuscià: Arrivano gli Americani, garibaldini marziani! (Vergine Santa, hai sentito le nostre preghiere!) Dai carrion, tra fiori e bandiere mentre battiarno le mani lanciano tavolette di libertà. Si accendono insegne giganti sulle macerie fumanti. lumini sopra le tombe delle città. Nella campagna bruciata arrivano suoni lontani! abbaiano i cani, risponde soltanto un juke-box. Arrivano gli Americani... In un paese c’è un uomo con un megafono in mano: se parla italiano nessuno lo capirà. Adesso la piazza è deserta, ma una finestra si è aperta e una signora non vuole carmbiare il suo Dash. Arrivano gli Americani...
Stormy Six
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Un biglietto del tram In Corso Buenos Aires tutto il giorno ci passano i filobus e ci passano i carri blindati coi prigionieri ammanettati che guardano e non vedono. Povero Fogagnolo, che non era un attore del cinema: si presenta, ti da un’occasione, mormora il suo cognome e nome da elenco delle vittime. E mi ha fatto un regalo, un biglietto del tram per tornare in Piazzale Loreto. Esposito ai giardini sta leggendo gli annunci economici, e lo vedi su mille panchine o in coda a file senza fine chiede giustizia, e subito. A Poletti hanno dato sette lettere sopra una lapide, e la gente che passa e vede fa un po’ i suoi conti e poi si chiede: «Non è una spesa inutile? Non bastava un biglietto, un biglietto del tram per tornare in Piazzale Loreto?»
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Ma non è una malattia
Stormy Six
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L’apprendista Nell’anno della truffa sotto una stella grama veniva al monde urlando come se fosse il primo, e invece risultava dai timbri e dalle carte l’ultimo della lista. (Non l’uomo: l’apprendista), Le scarpe belle lustre, la giacca ereditata, e dentro la cartella il pane e la frittata, compiuti tredici anni svezzato e vaccinato entrava nella pista. (Non l’Uomo: l’apprendista). E corri, corri, corri, è subito arrivato: lavora il ferro al tornio in un seminterrato, Così si chiude il cerchio, gli mettono il coperchio, la vita l’ha già vista. (Non l’Uomo: l’apprendista). Piazza, Bella piazza, passa la lepre pazza, se l’indice la vede il pollice l’ammazza. Il mignolo col medio si aggiustano il colletto, gli gridano teppista all’uomo, all’ apprendista.
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Buon lavoro Ogni mattina l’orchestra radiofonica se la spassa e ti dà di gomito, la tromba strepita un ritornello magico mentre i violini salutano. La folla scatta, sorpassa gli orologi, lascia partire le raffiche dei suoi passetti precisi in bianco e nero che si sgranano sotto i semafori. Buon la_vorol Ii cielo è nero, Il giorno nasce in città. « Buon lavoro! » cantano i muri « ognuno avrà quel che dà » . Dentro la fabbrica continua lo spettacolo dei giorni che si rincorrono: in sei nel cerchio galoppano per mordere la coda della domenica. Hanno le orbite quadrate come scatole, quando non li vedi ti guardano, hanno tre bocche e trentatre nastri magnetici e mentre corrono cantano: « Buon lavoro! » … Quando sui viali la pioggia resta sola la luce dell’ora elettrica misura il sonno di piombo della gente che vende la vita per vivere. « Buon lavoro! » …
Ma non è una malattia
Il labirinto D’estate, lungo l’autostrada, sotto le tettoie che scottano ci ferrniamo un attimo mentre i camion vanno verso il sud. La campagna è un nome sotto il sole, la campagna è la campagna, è logico, segna il doppio limite di questa striscia di città. Sei come un topo nella ruota nel percorso profumato di plastica dei prodotti rustici murati dentro l’autogrill, e sbagli strada, e perdi il filo, e ti senti come uno svizzero, ti butti nei vicoli e ti resta in tasca un souvenir. La palla di vetro si rovescia, sul Golfo di Napoli nevica: metti un po’ di musicae fili leggero dentro il film. Verso la terra di nessuno il cervello comincia a friggere, la tua lingua zoppica, non ti ricordi più chi sei, e sbagli strada, e perdi il filo, Carmine, lui faceva il barbiere, ti ritrovi a urlare «Geronimo!» il muratore, il contrabbandiere. dentro il campo profughiLunedì era senza lavoro, acchiappacitrulli-kinderheim. venerdì steso sotto una gru, D’estate, lungo l’autostrada la domenica con un mazzo siamo soli e siamo un esercito, di fiori all’angolo seduti allo svincolo, Carmine, lui sapeva cantare; ognuno in petto la sua star, per un po’ si faceva pregare, sopravvisuti alle stagioni, quando poi la chitarra attaccava ogni anno sempre più giovani lui si voltava a prendere il la, (forse nonn ci siamo più, poi cantava e di nuovo forse non ci siamo mai stati) noi eravamo un popolo. Carmine inventava parole lucide come trottole al sole. Quando tu non riuscivi a capire lui ti portava a bere un caffè, ti spingeva, ti stuzzicava per farti ridere. Parlami, attraverso quel muro: Ci riconosco in mezzo al rumore. Ora che siamo insieme a lottare posso parlarti chiaro, perchè mcntre Carmine canta noi slamo ancora un popolo.
Carmine
Stormy Six
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Il barbiere Elementare misura d’igiene, norma di disciplina. Sotto it bavaglio mi tengo le mani, cerco la cartolina mentre iI barbiere, baffetti e basette, racconta quattro barzellette unte di brillantina. Mentre il barbiere ripassa il rasoio sulla striscia di cuoio stringo piu forte il cavallo argentato, il mio cranio rasato moltiplicato per mille stasera dal collo in su nella specchiera, mezzo ghigliottinato. «Sotto a chi tocca, it signore è .servito», e il pennello s’inzuppa. Compiuto il rito, io sono sparito militare di truppa in un’Italia scassata e feroce senza più forma e senza voce tiro su la mia zuppa. Mentre l’Italia si gratta la scabbia urla in sette dialetti noi dividiamo il silenzio e la rabbia, il leninismo e i fumetti, tutti a cantare tra il muro e le brande, quaranta merli, piume c mutande dentro la stessa gabbia. Tre per politica sono a Gaeta, quattro han preso la tisi, cinque un rimorchio a settembre li ha uccisi, e un sardo, un analfabeta, duro di testa e pesante di mano ha ringraziato il capitano con due pugni precisi. Elementare misura d’igiene, dormice per non pensare. Solo qualcuno si taglia le vene, gli altri sanno aspettare. Dodici mesi: tutti presenti, fermi, coprirsi, stringere i denti, capirsi senza parlare.
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Ma non è una malattia
Rosso Guarda sull’Unità: stanotte è morto Mao-tse-tung, e io mi sento scricchiolare dentro il mio nome, la mia età: anni — non so per te — che un clackson secco dietro un tram era una tromba dell’apocalisse, un segnale di pietà, anni di polizia, mesate di macelleria. Le sentivamo dure sulla testa, libertà e democrazia. C’era la gioventù sul marciapiede a faccia in giù sotto una pioggia fitta, sassaiola, i tamburi, la tribù. Anni che erano miei, me ne ha vissuti la metà, tanto che non so più se sto parlando o se parla la città, ma qui, nella città che non è né tua né mia (nemmeno un posto, ma una foto storta senza la didascalia) cerco la tua allegria, colore della compagnia, con la canzone che non ti consola, senza ritmo né armonia.
Cuore Patria delle vedette, dei tamburini sardi, calabresini, ciechini e zoppi, nel tuo salotto buono c’erano troppi galatuomini, fabbri, muratorini. Affogarti era in fondo un gioco truccato, lo sapevo che un giorno tornavi a galla (ho sentito it tuo fiato sulla mia spalla ogni volta che ho detto «proletariato »). Eravamo già pronti, i tuoi tenentini, con le tue maestrine di penna rossa, quando da chissa dove arriva la scossa e noi giù a quattro zampe come bambini. E la testa sprizzava come una miccia, e la lingua gridava la vita dura, ma di letteratura in letteratura tornavamo al tuo cuore di pappa e ciccia. «Forse per noi ci vuole almeno la fame, non un brodo così, nè carne nè pesce. Masticando acqua fresca forse ci riesce di rifare il sorriso di quell’ infame» Mentre parli ai comizi più edificanti te lo leggo negli occhi che non sai dire nè a te stesso nè a chi ti resta a sentire se noi siamo gli Enrichi o se siamo i Franti.
L’orchestra dei fischietti Quando meno to l’aspetti è scoppiata la realtà, è l’orchestra dei fischietti che dà la sveglia alla città, dà la sveglia coi tamburi, e nessuno dormirà, scrive in rosso supra muri, spacca it rnondo in due metà. Non è un coro di cherubini sul tapis-roulant: salta e fischia con la forza del sogno e con la semplicità del bisogno. Niente resta uguale a se stesso: la contraddizione muove tutto. Stormy Six
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Ma non è una malattia
Armonizzazioni
Nel pubblicare, come e consuetudine di questa collana, gli accordi Belle canzoni, riteniamo necessario un chiarimento. Abbiamo evitato la pubblicazione di accordi e armonie dei brani di alcuni musicisti qui antologizzati perché in certi casi (Stormy Six ad esempio) sarebbe stato limitativo riportare soltanto gli spunti di un lavoro compositivo lungo e complesso, e in altri (Area) è risultato difficile tradurre in accordi; una musica che va al di là di una concezione tradizionale dell’armonia e assume l’improvvisazione come elemento costitutivo della composizione stessa. Abbiamo ritenuto opportuno, ad ogni modo, che chi possiede un interesse anche musicale per queste canzoni e non e in grado di trovare da solo i loro accordi, abbia a disposizione, pur nei limiti di uno spazio ridotto, questa piccola «guida musicale»; essa ha, è bone ripeterlo, soltanto valore di indicazione. Armonizzazioni
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Eugenio Finardi Caramba (mi + ) Hai 22 anni come me / ma (re + ) chi to (la + ) lo fa (mi + ) fare / il gioco di chi si serve di te / per conti(re + )nuare la (la + ) repres(mi + )sione. Afghanistan (sol + ) Tu predichi la (la + ) pace della (re + ) coscienza / (sol + ) ma la tua (la + ) pace è solo (re + ) indifferenza. Saluteremo il signor padrone Salute(mi + )remo il signor Pa(si + )drone / per lt male che ci ha (mi + ) fatto / che ci ha sempre deru(si + )bato / fino all’ultimo de(mi + )nar. Quando stai per cominciare (do + ) A vent’anni (fa + ) sembra (sol + ) molto (do + ) strano / non (fa + ) esser (sol + ) più bam(do + )bino / (fa + ) e (sol + ) quasi un (do + fa + sol + ) uomo. Musica ribelle (si + ) Anna ha diciott’(mi + )anni e si (la + ) sente tanto (mi + ) sola / (si + ) ha la faccia (mi + ) triste e non (la + ) dice una pa(mi + )rola / (si + ) tanto è si(mi + )cura che nes(la + )suno capi(mi + )rebbe e anche se ca(mi + )pisse, di (la + ) certo la tradi(mi + )rebbe. Voglio Da (re + ) piccoli ci (sol + ) hanno inse(do + )gnato / che (sol + ) l’erba (re + ) voglio non (sol + ) cresce nem(do + )meno nel (sol + ) prato. La radio (re + ) Quando son (la + ) solo in ca(si — la + )sa / e (sol + ) solo (la + ) devo re(re + )sta (la + )re / (re + ) per fi(la + )nire un la(si — )vo(la + )ro / o (sol + ) perché ho il raffre(la + )ddore. Oggi ho imparato a volare (mi + ) Oggi ho impa(si + )rato a vo(la + )lare (mi + )sembra (si + ) strano, ma è (la + ) vero, / (mi + ) ci ho pen(si + )sato... mi son sen(la + )tito sollevare / (mi +) come da uno strano capo(si + )giro.
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Ma non è una malattia
Tutto subito Non (sol + ) sen(re + )ti gri(sol + )da(re + )re per le (sol + ) strade del(la + )la ci(re + )ttà: / (la + ) tutto subito ( sol + ) voglio a(re + )ver / (la + ) e tutto subito mi (sol + ) devi (re + ) dare.
Ricky Gianco Sei rimasta sola (mi + ) Ora (la) sei rimasta (mi) sola / (la) piangi e non ricordi (si7) nulla / (la) scende una lacrima sul tuo bel (mi) viso / lenta(la)mente (si7) lenta(mi)mente. / (mi)Ma domani chi(la)ssà, / se (si7) to mi pense(mi)rai / al(do-diesis)lora capi(fa-d.)rai / che(si7) tutto il mondo (mi)eri tu / la tua vita co(la)sì, / a (si7) niente servi(mi)rà / (do-d.) tutto intorno a (fa-d.) te / più triste sembra(si7)rà. Tu vedrai (do) Tu vedrai (la—) to vedrai (fa) tu vedr(sol7)ai / (do) la luce ver(la—)rà / la luce ver(fa)rà / dall’alto del (sol) ciel / o no no non dispe(do)rar. / (do) Tu non ti perderai (la—) / perché nel suo immenso amor (fa) / la mano ti porgerà (sol) / la mano ti porgerà (do) etc. II vento dell’est (re) Quando il vento dell’est / mi porte(la)rà / il profumo dei capelli (re) suoi / (re) io guarderò, verso il vento dell’(la)est, / e mi ricorderò, / che lei è andata di (re) là. / (re) E fa che i suoi ca(sol)pelli / (la)siano sempre più (re) lunghi, / perché solo co(mi)sì / è più bella che (sol) mai / (la) io piange(re)rò ecc. Armonizzazioni
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Rock della ricostruzione (la) Metti la bandiera, / festa della libertà (re) / è finita la paura (la) / rifiorisce la città (mi) / tanta gente (re) per la strada (mi) / e mattone (re) su mattone (mi) / cento mani (re) mille mani (mi) / viva la ricostruzione (la) / (re) Solo uno (la) sforzo (mi) / per la produt(re)tivi(re)tà (re) / l’ultimo (la) sforzo (si7) e poi ci si ripose(mi)rà. Davanti al nastro che corre (la—) Davanti al nastro che corre, / dove (do) corre chi lo sa / (re) corre il pensiero mi toglie, / presto il (fa) ritmo aumenterà, / cin(la—)quanta pezzi al minute / di(do)roba che non è mia, / chi (re) dice viva il lavoro, / no non (fa) sa che cosa sia / la (re) mia testa / i (fa) miei polmoni / ed il mio (la—) sesso, / io (re) non li sento, io (fa) no non sono / più lo (la—) stesso. Questa casa non la mollerò (la) Son qui per buttarci (mi) fuori di ci(la)ttà, / son tutti in fila per sei, però non sono mica amici (mi) miei, / sono ve(re)nuti tutti qui per (mi) noi, ma guarda (la) che adunata di cow (re) boys, / di (la) qui non uscirò, questa (mi) casa non la molle(la)rò. Un amore (sol) Una giovane sign(re)ora, un’a(do)mica affasci(sol)nante, / una donna stra(re)na con un (do) viso interes(sol)sante, / un po’ per aiut(re)armi, un po’ per (do) essere tran(sol)quilla, / con la propria co(re)scienza casa(do)linga progres(sol)sista, / che è sensibile all’a(re)more all’am(do)ore di un bel (sol) fiore / (mi—) Un amo(re)re che non (la—) sai, (do) forse non (sol) hai saputo (re) mai, / (mi—) il do(re)lore che mi (la—) dai, (do) quando ti (sol) amo e non lo (re) sai,
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Ma non è una malattia
Campo minato (la) La lancetta del potere ha una forma appuntita / e gi(re)rando cancella la (la) vita / il cassetto della mente troppo pieno di carte / riempi(re)remo con terra di (la) Marte / (la) Va più in là, dei con(re)fini del prato / (la) la realtà star sul(re) campo minato / (la) vieni qui (re) fai due passi, / fai due passi con (la) me. Ospedale militare (re) Ma perché il mio letto devo farlo così, / ma perché non posso andare a fare pipì, / ma perché la luce la spegnamo alle nove, / ma di che commedia stiam facendo le prove / (la) io voglio scap(sol)pare me ne voglio an(re)dare / (la) oltre questo muro d’ospedale militare, / non voglio più vedere colonnelli e vecchie suore (si) suore / (do) malato ecc. (coro) / (mi) Ma guarda un po’ che roba ecc.., / (fa-d.) Guardi che io la denuncio ecc. Nel mio giardino (sol) Nel mio giar(re)dino, in (do)vece dei (sol) fiori, / ci sono se(re)mafori (do) gialli / in(sol)vece degl’(re)alberi ho (do) messo la(sol)mpioni / e il prato è di (re) sassi (do) scuri, / le (sol) siepi son fatte di filo di ferro / la (do) vasca dei (la—) pesci è un bi(sol)done(re) / (do) direte un giardino dav(mi—7)vero un po’ strano, / in(la—)fatti lo chiamo Mi(sol)lano (re) Io (do) chiamo Mi(sol)lano. Fango (sol) Fango (do) ebbe un padre (re) negro ed una madre pelle(sol)rossa, / l’uno e (do) l’altro lo la(re)sciarono davanti ad un po(mi—)rtone / era (do) l’università di (soI) Heidelberg (do) o forse di (sol) Jena / e un le(do)ggio ebbe per (re) culla ed un libro per la (sol) cena. A Nervi nel ’92 (sol) Un cappello un po’ bizzarro / ed un (mi—) sigaro toscano, / un ba(do)stone nella (la—) mano era (re) lei, / qualche (sol) anno sulla pelle / occhi (mi—) dolci e luminosi / una (do) smorfia e poi un sor(la—)riso era (re) lei / e un o(sol)mino un po’ pelato / rosso in (mi—) viso alcolizzato col cap(do)potto Armonizzazioni
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un po’ scu(la—)cito era (re) lui, / la guar(sol)dava incantato / e in si(mi—)lenzio si sedeva / ma pa(do)rlava ma par(re)lava solo (sol) lui. (inciso) A (re) Nervi nel Novanta(do)due, / su una panchina (la—) scolo(re)rita (sol) / A (re) Nervi nel Novanta(do)due, / le raccontava (la—) la sua (sol) vi(mi—)ta, / le (do) raccontava (re) la sua (sol) vita. Io voglio stare bene (re) II mio male non co(sol)nosco / (la) qui mi sento fuori (sol) posto / (re) un oggetto da cu(sol)rare / (la) meglio dire sorve(sol)gliare / (re) m’hanno dato un ospedale / (sol) io voglio (mi) stare (la) bene etc. / (sol) Ma cos’è poi la sa(re)lute, / (sol) chi ce l’ha chi la de(la)cide / il dot(re)tore il tribunale / forse il (sol) capo del personale / un es(la)perto in psichiatria / l’altro in (sot) ginecologia tutto (re) questo (sol-la-sol) è mala(re)ttia. Compagno si, compagno no, compagno un cazzo (sol) Sto facendo il notiziario cambogiano da una (do) radio libera per (sol) chi? / Il microfono e un po’ fallico però / il po(re)tere non ce l’ho no, no / circon(sol)dato dai massmedia sulla sedia / io la(do)voro sempre gratis (sol) ma / c’è Antonietta che mi ama e che mi aspetta tutta (re) notte lei mi ascolte(sol)rà / (inciso) (do) Compagno si, compagno no com(sol)pagno un cazzo. La lettera (re) Eran belle le strade con il vento tagliente, e noi / (re) coi turisti Maria Teresa girava a Schonbrunn, e noi / (re) comandati da un cicerone colonnello / che amava i pavimenti del castello / e la carrozza cancellava la realtà (inciso) (re) Come un (mi—) male che non (sol) puoi cu(re)rare / come una (mi—) cancrena (sol) hai deciso (re) tu / ampu(mi—)tare e meglio e razionale un (sol) taglio netto (la) certo basterà (si—) forse a sal(mi—)vare (sol) la sua e la (la) tua felici(re) tà / (si—) è facile mo(mi—)rire (sol) è più dif(la)ficiIe ca(re)pire.
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Ma non è una malattia
Claudio Lolli Compagni a venire Potrò mai perdo(sol—)nare a te che giri (mi b + ) casa / con la vestaglia unta di macchie di do(fa—)lore / di avermi alla(si b + )ttato al fiume del tuo (sol—) male / stampandomi sul (si b + ) viso (la—7) l’angoscia e il suo co(mi b + ) lore. Aspettando Godot (re + ) Nacqui un giorno di marzo o d’(sol + )aprile non (re + ) so / mia madre che mi allatta è un ri(sol + )cordo che (re + ) ho/ ma (si—) credo che già in quel (sol + ) giorno pe(re + )rò / in(sol + )vece di pop(re + )pare io aspet(la + )tassi Go(re + )dot. Io ti racconto (re + ) to ti racconto (si—) lo squallore / (re + ) di una vita vis(si—)suta a ore / (mi—) di gente che non (sol + ) sa più far l’a(la + )more. / (sol + ) io it racconto (la + 7) la mia vita / (fa—) il mio passato il (si + ) mio presente (mi—) anche se a te lo (la + ) so non importa (re + ) niente. Ho vista degli zingari felici (do + ) È vero che dalle finestre (do 7 + ) non riusciamo a vedere la luce / (do + 7 ) perché la notte vince sempre sul giorno / (fa + ) e la notte sangue non ne produce / (sol—) è vero che la nostra aria (re—) diventa sempre piu ragazzina (si b + 7) e si fa correre dietro lungo (sol + ) strade senza uscita. La morte della mosca (do) Oggi è morta una (do 5—) mosca / (do) dopo avere vo(la—)lato / (re—7) tanti anni da (sol7) sola / (re—7) bassa (sol7) bassa / su un (do) prato (do5—) / (do) un prato non è mai abba(do5—)stanza grande / per(do)ché una mosca ci si (la—) perda, / (re—7) ritrova sempre il suo ces(sol7)puglio, / (re—7) il suo dolce (sol7) odore di me(do)rda. / (la—) Le mosche procurano (mi—) noia / se (la—) volano a schiera u(mi—)nita, / (re—7) da sole non danno fas(la—)tidio / (re—7) si schiacciano dentro due (mi7) dita.
Armonizzazioni
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Alba meccanica (fa-d.—) L’alba s’inventa una ruo(si—)ta a Tori(fa-d. +)no / (fa-d.—) l’alba s’inventa una ruo(si—)ta a Mila(fa-d. + )no / (fa-d.—) l’alba s’inventa una ruo(si—)ta a Bolo(fa-d. + )gna / (fa-d.—) l’alba s’inventa una ruo(si—)ta a Berli(fa-d. + )no / (fa-d.—) l’alba s’inventa una ruo(si—)ta a Na(fa-d. + )poli / (fa-d.—) l’alba s’inventa una ruo(si—)ta a Ro(fa-d. + )ma / (fa-d.—) meccanicamente all’arri(si—)vo del so(fa-d. + )le / (fa-d.—) cominciano tu(si—)tte a girare (fa-d.—). Incubo numero zero (fa-d.—) Il giorno di solito comincia sporco / come l’inchiostro del nostro giornale (fa-d.—) scritto sui bianchi muri delle prigioni della repubblica (mi—) federale / (fa-d.—) che giorno per giorno avanzando tranquille / son quasi davanti alla tua finestra (fa—) con un corteo / di stelle e scintille, i tamburini, la banda, / (mi—) l’orchestra (fa-d.—) spegnete la lu(si—)ce, pensava Ulri(fa-d.—)ke / che la fo(mi—)resta più nera è vici(fa-d.—)na, / ma oggi la lu(si—)na ha una faccia da stre(fa-d.—)ga e il sole ha lascia(si—)to i suoi raggi in canti(fa-d.—)na (mi 7) / spegne(la—)te la lu(re—)ce pensava Ulri(la—)ke / che la fore(re—)sta più nera è vici(fa + )na / ma un jumbo jet (do + ) scrive «vi(do7)va il lavo(fa + )ro» / col sangue nel cie(mi—)lo di questa matti(do + )na. (...) (fa-d.—) Disoccupate le strade dai sogni, (sol-d.—) / per contenerli in un modo migliore possiamo forni(la—)rvi fotocopie d’assegni / un portamonete, un falso diploma, una ventiquattro(sol-d.—)re ecc. (fa-d.—). La socialdemocrazia (mi—) La socialdemocrazia è un (Ia—) mostro senza te(si7)sta / (mi—) la socialdemocrazia è un (la—) gallo senza cre(si7)sta / ma (mi +) che nebbia ma (mi7) che confusione che (la—) vento di tempe(re )sta (si7) / (mi—) Ia socialdemocrazia e quel (la—) nano che ti arre(si7)sta (mi—). Analfabetizzazione (si—) La mia madre l’ho chiamata sa(do-d. dim.)sso / (do 5—) perche fosse duratura si, ma non vi(si—)va, / (mi—) i miei amici li ho chiamati pie(re7)di / (do7 + ) perche ere felice solo quando si parti(si 5 + )va.
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Attenzione (do + ) Attenzione: lo so che questa casa e aperta a tutti / è sempre pie(mi—)na di cornpagni, che i fio(do + )ri che dipinge la tua mano / sono belli e tan (mi—)to colorati, / per (do) ci si affeziona anche alla propria fantasia / alla propria confusio(si-b.—)ne / al proprio essere per(mi—)so in mezzo al mare, / e le re(do—)ti le vele le prigioni sono cal(si-b.)de ci danno sicurezza proprio / come dei san(mi—)ti incorniciati; / attenzio(do dim.)ne che non ci si risvegli una matti(sol + )na / con qualche co(do dim.)sa da salvare. Canzone dell’amore, o della precarieta (mi—) Precarieta (fa-d.—) ci punta un di(si7)to sulla schie(mi—)na, / il suo rico(fa-d.—)rdo ci addolo(si7)ra / in sua prese(mi—)nza ci spaventa / e se le ma(la—)ni si toccano sen(do6—)za comprensi(mi—)one / il gioco vi(fa-d.—)nce dieci vol(si7)te, perde for(la—)za / e l’immaginazione sal(do 6)ta di palo in frasca tra not due (mi—). Canzone scritta su un muro (mi9) Salve ragazzo che passi il giorno / al(la—)la finestra del(re7 + )la tua stanza, / (mi—9) finche tristezza, insieme alla sera, / acce(la7)nde finestre in (re7 + ) lontananza, / gua(do—)rdi le spalle di (sol) chi lavora da(la—)vanti a te, / un cor(do)po di uotno sca(sol)ricacasse chi(la—)ssa perche (si7) / (mi—9) Quando vorrai buttarti di sotto / e fa(la7)re i conti con la (fa-d. dim) tua insapie(sol)nza / (mi—9) e accenderai la (si7) sigaretta di cui (do) di cui il tuo condanna(la—)to / non pub fare sen(si7)za: / (mi—) Questa canzone scri(si7)tta sul muro / ti (do) arrivera ne so(la—)no sicuro, / (re) con le sue povere scar(sol)ne paro(do)le, / (fa) libere co(sol)me ra(re)gazze so(sol)le; / (mi—) questa canzone scri(si7)tta di niente, / sce(do)glierà te tra tu(la—)tta la gente / per l’ul(re)timo brindisi l’ul(sol)timo addio (do), / l’ul(fa)tima ca(sol)ra beste(re)mmia per Dio. Autobiografia industriale Il primo gio(la—)rno che ho messo un pie(re—)de alla EMI / mi hanno guarda(mi7)to, sembravano tu(la—)tti un po’ scemi, / qualcuno dice(sol)va ch’ero forse it garzo(do)ne del bar / Armonizzazioni
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che aveva lascia(la7)to it caffè sulle sca (re—)le / qua(mi7)lcuno dice(la—)va che non ero norma(re—)Ie / e qualcuno ride(mi7)va, rideva... / (re—) autobiografi(mi7)a industria(la—)le, / viva l’amo(sol)re con l’industri(sol7)a cultura(la—)le, / amore ero(la7 + )tico e soddisface(fa-d.—)nte, / ma in definiti(mi7)va un po’ troppo esaurie (la—) nte. Da zero e dintorni (mi—) Ti vi(sol)ene mai compagna / la voglia di rinascere / su un camioncino diretto (espresso o accelera(re)to) / ve(mi—)rso la sua puma o ve(re)rso le Eo(mi—)lie o Lipari, / (do) con un sole scenograficamente corretto e anche puli(re)to. I giornali di marzo (fa7 + ) I giornali di marzo, / I giornali di marzo hanno spiega(la)to; / (fa7 + ) i giornali di marzo, / i giornali di marzo hanno racconta(la)to, / (fa7 + ) è quello di cercare un accordo un colloquio, / (la—) (e sfuggito per miracolo al linciaggio) / (fa 7 + ) (il più preoccupante per i medici è un carabiniere) / (la—) (ha inoltre fatto un esame esterno del cadavere) / (do7) senza sapere dove andare, / senza sapere che direzione prendere / (fa4/7 + ) (inginocchiarsi prendere la mira e sparare) / (si-b.7) solo la pasticceria memore della recente ferita è serrata (mi—7) / (nel primissimo pomeriggio con II cielo ancora parzialmente sereno).
Gianfranco Manfredi La crisi La (do + ) crisi è struttu(do + 7)rale è (fa + ) nata col capi(do +)tale / riformismo (sol + 7) non sarà una soluzione / la (do + ) crisi è già ma(do + 7)tura / e (fa + ) Marx non si è sba(do + )gliato / quando che ci ha insegnato a (sol + 7) prendere lo sta(do + )to. La proletarizzazione (do + ) La proletarizzazione è una gamma ameri(sol + 7)cana / l’allunghi l’accorci come fosse una so(do +)ttana / la tiri la molli, come più ti fa pia(fa + )cere /
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Avanguardo Avan(do + )guardo, avan(la—)guardo oltre i (fa + ) muri va il tuo (sol + ) sguardo / avan(do + )guardo avan(la—)guardo nel do(fa + )mani (sol + 7) sai ve(do + )der. Nonsipà (do + ) All’ingresso del metro / (sol + ) c’è un cartello con un no / (do + ) dice che non pagherò... oh (sol + ) no / (do + ) lo sportello è aperto (do + 7) già / (fa + ) tutti quanti si entrerà / e (do + ) non si (sol + ) paghe(do + )rà... oh no. La famiglia Quanti (mi + ) sposi ben ve(la + )stiti / s’inginocchia(si + )no all’alta(mi + )re / sono in(la + ) festa in (si + ) una (mi +) nicchia (la + ) / gli angeli (si + ) con la ma(mi + )donna / l’uomo (la b + 7) spera che sia (re-b.—) vergine quella (fa—d. +) notte la sua (si + ) donna. Dagli Appennini alle bande Lui cer(la + )cava per il mondo la famiglia e di (fa-d.—) notte lavorava alla candela / e sa (la-b.—)liva sopra gli alberi più (si + ) alti / per pi(fa-d. + ) gliare al volo i colpi dei ne(re-b.—)mici / (si + )e parlavano di (la + ) lui scrivevano di (mi + ) lui / lo facevano più bamba che bam(si + )bino. Un tranquillo festival pop di paura (mi + ) Il parco ha tante entrate chissà chi paghe(fa-d.—)rà / (si + ) ma iI parco non ha uscite il prezzo (mi + ) non si sa / hai chiesto una ri(re-b. + 7)sposta e il gruppo (fa-d.—) te la dà / sta chiusa in (mi + ) un panino (si + ) di bassa quali(mi + )tà. Ultimo mohicano (do + ) Ultimo mohicano (do7 + ) / sampietrino in mano (do + 7) / solo qui nella (fa + ) via / (sol + ) e la barricata (re—7) dove l’han portata? (do + ) non c’è (mi—) proprio (sal + ) più. I modelli Per le strade del mio (do + ) sogno / a per quelle del tuo (sol + 7) sguardo / so che il nostro filo regge / Armonizzazioni
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so che non lo (do + ) perdo / la tua immagine è una nota / il tuo (la + 7) volto non si (re—) plasma / ti conosco e mi sei (do + ) ignota / amo (sol + ) forse il tuo (do + ) fantasma. / Non c’è due (fa + ) senza tre (sol + ) / ma non sono (do +) solo tre (la + ) / sono tanti e (re—) sono belli (sol + ) sono dei mo(do + )delli. Nella diversità (sol + ) Guar(re + )da la mia diversi(mi—)tà, (sol + ) guar(re + )da (mi—) la tua diversi(re + )tà / e noi (do + ) diversi (re + ) come i (si—) so(mi—)gni (do + ) / non ci uni(re + )rerno (sol + ) mai (sol + 7) / (do + ) diversi (re + ) come i (si—) viag(mi—)gi / (do +) se li per(la + )corre (re + )rai.
Corrado Sannucci Macchina in seconda fila E una se(fa + )dia me(mi + )no scassa(la + )ta od(fa + )dio ma com’è spo(mi + )rca ’sta ca(la + )sa / e que(re + )sti muri bui e anneri(la + )ti che no(fad—)n si vede ni(si—)ente / non è possi(mi + )bile lavora(re + )re qui in un mo(re + )do dece(la + )nte / signo(re + )ra son mera(la + )viglia(mi + )to / perché (re + ) lei mi ha(la + ) chiama(mi + )to / si vede a prima vi(la + )sta (re + ) ci vuo(mi + )l lo speciali(la + )sta (re +) non mi di(mi + )ca che in due me(la + )si lei non le ha (dod—) guardato gli o(fad—)cchi / certe co(si7)se le capiscon anche gli scio(mi + )cchi / ma co(re + )me signora non lo sa(mi + ) certe co(re + )se non si fa(mi + )n quando si è ve(la + )cchi. Piombo La ma(mi—)ttina è sempre peggio ad al(la + )zarsi ad ogni costo / e aspetta(re+ )r che nuovame(si7)nte ogni co(do7)sa mi salti addo(sol—)sso / e coi go(si—)miti sul tavolo e gli (mi—) occhi gonfi e stanchi / non riusci(la + )re che a fissar la lampadi(fad7)na li davanti / e stro(si—)finar la ma(sol + )no sulla gua(sol6)ncia mal rasa(la + )ta /
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e poi il fre(dod7)ddo liscio e scabro della tova(fad + )glia di tela cerata. La morte comincia così La mo(fad + )rte comincia co(si—)sì, / (la7) gli occhi abbottati di so(re + )nno e di freddo / (la7) le gambe molli e i (re + ) piedi pesanti / (si7) giù versa il treno e la (mi—) pensilina / (la7) verso la nebbia di (re + ) prima mattina / E (fad + ) quando verrà il gio(si—)rno (fad + ) voglio vestirmi be(si—)ne / (la7) avervi tutti into(re + )rno (la7) bere e parlare in(re + )sieme. Il vestito vecchio e brutto E ho me(re—)sso il vesti(fa + )to vecchio e brutto / perché spe(sol—)sso esce san(do7)gue e sporca tu(fa + )tto / e (do + ) ho preso il tra(sol + )m fin oltre la stazio(do + )ne / lì dove fer(sol + )ma tra case in costruzio(do + )ne / (do7) son scesa a guarda(fa + )r pa(sol + )lazzi venir (do + ) su / e una voglia ma(sol + )tta di buttarli (do + ) giù / e (do + ) ho bussa(sol7)to a una porta senza for(do + )za / poi una nebbia è sce(sol7)sa come luce che si smor(do + )za / e (do7) non capivo (fa + ) più (sol + ) cosa succede(do + )va / lei che mi par(sol + )lava lei che mi stende(do + )va / e (do7) non capivo (fa + ) più (sol + ) cosa stavo a fa(do + )re / (do7) ma era troppo sta(fa + )nca (sib + ) troppo per rea(do + )gire / e la gen(sol—)te chiede se è giusto o (do7) no / ma il giu(fa + )sto cosa c’entra io non lo (sib) so / (do7) io so soltanto a ca(sib)sa non c’è po(fa + )sto / (do7) non c’è pasta per (sib) un altro let(fa + )to / (la7) né soldi per riempire un altro pia(re—)tto / e tu(fa + )tti quelli che (do7) parlan di vi(fa + )ta / che tiran fuori sta(do7)rie di mora(sol—)le / (do7) venite a vedere quanto va(fa + )le / (la7) ’sta vita che mi porto dietro (re—) io / (sol7) non posso neanche sceglier un figlio (do + ) mio. Sette paia di scarpe (re + ) Sette paia di scar(la7)pe ho consuma(re + )te / sette verghe di ferro ho logo(la7)rate, / quante (sol + ) paia di scarpe ho lavo(re + )rate / per aiutarmi in questo mio cam(la7)pare, / e set(re + )te fiasche di la(la7)crime ho col(re + )mate, / sette mesi di sofferenze a(la7)mare / ora do(sol + )rmo alle tue grida dispe(re + )rate / e il gallo ca(la7)nta e non mi puoi sve(re + )gliare / (re + ) uno, il mio lavoro è uno, lavorare la tomaia e col mastice incolla(la7)re / Armonizzazioni
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(sol + ) ragazzina a diciott’anni (re + ) è ora che ti dai da fa(Ia7)re / non c’è niente da aspetta(re + )re. Dialetti (do + ) Ieri ho incon(mi + 7)trato l’uomo gran (fa + )de con la bar(sol + )ba, / (do + ) e m’ha detto (mi + 7) guarda co(fa + )sa m’hanno fa(sol + )tto, / quanta gente (mi—7) che m’ha preso e poi m’ha (fa + ) rigira(sol + )to, / (do + ) consumato (mi—7) digerito (fa +) come un surgela(sol + )to, / e scu(fa + )sa se ho il cappo(do + )tto ma (re7) a Londra fa fre(sol7)sco / e (do + ) mi parlò in in(sol + )glese come lo (fa + ) parla un tede(sol + )sco, / (do + ) mi parla in in(sol + )glese come (fa + ) lo parla(sol + ) un tede(do + )sco. I falò di maggio Mia mo(re + )glie ha gli occhi du(mi—7)ri / e il vi (la7)so ancor di (re +) più / e quando ha quella fa(mi—7)ccia / vuol di(la7)r ch’è proprio (re—) giù (re7) / bisogna starle die(sol + )tro e for(la7)se parle(re + )rà / insistere un po(mi—7)chino ed ec(la7)co sbotta (re + ) già / (re + ) dai Corrado non lo vedi non ci sti(mi—7)amo a contar balle / non lo ve(sol + )di che è un macello tra me e (la7) te ormai è cosi / e in non vo(fad + )glio darti fe(si—)de né spera(sol + )nze a buon merca(re + )to / nulla è (fad + ) scritto nulla è de(si—)tto / se lo pe(sol + )nsi non lo (re +) dici / e poi perché parla(mi—7)re per poi di(la7)r non siam felici / ma ve(la + )di (la7 + ) quel (la + ) che do(la7 + )bbiam fa(re + )re / non sarà so(la + )lo niente mo(Ia7 + )rti sul ca(re + )ntiere / non sarà so(mi7)lo cambiar tabella ora(la + )ria / non sarà so(mi7)lo la riforma sanita(la + )ria / (do + ) ma verrà pri(sol + )mavera e scendere(do + )mo giù / nella città (sol + )in festa ridere(do + )mo e tu / col figlio gra(sol + )nde in braccio col gela(do + )to in bocca / e l’altro a te(sol + )rra che ti tirerà (do + ) la giacca / e come non (la7) pensarci per il co(re—)rso noi / a passi le(do + )nti noi e le ve(sol + )trine poi / ti comprera(la 7)i un vestito rosso di (re—) ricami / mi portera(do + )i dei fiori e mi di(sol + )rai che m’ami / (do + ) ora sono no(la7)stri o(re7)ra sono no(sol + )stri / o(la7)ra sono no(re7)stri o(sol + )ra sono no(do + )stri.
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Stormy Six La sepoltura dei morti Il (mi—) mese di aprile fra (la—) tutti è crudele: / sui (si—) morti fiorisce il lil(la—)là. / L’in(mi—)verno ha sepolto la (la—) loro memoria / lasci(re + )ando soltanto pie(si—)tà / e a(mi+ )desso una vita e una (la9) faccia ingiallita / è (mi + ) solo una fotogra(re + )fia. Dante di Nanni Nel (mi—) traffico del (mi7/9) centro / pe(la9)dala sopra il suo triciclo / e (la7/9) fischia forte, alla Garibal(mi—)dina. Stalingrado (do + ) Fame e ma(re + )cerie sotto i mor(mi—)tai. / (mi—) Strade di (do + ) Stalingrado (re + ) / di sangue siete lastri(mi—)cate (mi—) / sulla sua (la + ) strada ge(sol + )lata / la (la + ) croce uncinata lo (mi—) sa. Un biglietto del tram (do + ) In corso Buenos Aires / tutto il (mi + ) giorno ci passano i (do + ) filobus / e ci (mi + ) passano i carri blin(re + )dati / coi prigionieri amma(mi + )nettati / che guardano e non (do + ) vedono. Garibaldi (re + ) E parliamo di Gari(sol + )baldi / e dei (re + ) suoi garibal(sol + )dini / ve(re + )nuti per far giu(sol)stizia / a noi (la + ) poveri contadini. / Gari(sol + )baldi / ma chi (mi—) è? (la + 7) È piu forte e bello dello (re +) re. La manifestazione Sulla (la—) strada, (sol + ) / (re + ) alla (fa + ) mani(sol + )festa(la—)zione / ma lon(la—)tano (do + ) uno (sol + ) squillo di (la—) tromba / (do + ) una (sol + ) pietra che (la—) vola.
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I motivi di una polemica Simone Dessì
Quando il libro C’era una volta una gatta fu stampato, io che ne ero coautore, trovandomi a Milano pensai di telefonare a Bruno Lauzi. Per curiosità. Avevo appena sentito quel suo scellerato Io canterò politico, ricavandone un’impressione — a dir poco — penosa. La banalità del discorso là contenuto mi appariva sconfortante, se confrontato coi suoi testi del primo periodo che (senza essere, certo, dei capolavori) dimostravano una qualche sensibilità e originalità. Quanto Lauzi mi disse al telefono — pur se contraddittorio e pasticciato mi sembrò utile a sviluppare un dibattito, anche violento, sul «fenomeno cantautori». Da qui la mia lettera a Lauzi che — ovviamente — non smentiva quanto, di molto critico e negativo, avevo scritto sul suo canto in C’era una volta una gatta 1 e quanto avevo ricavato dall’ascolto di Io canterò politico. Un giudizio sintetizzabile, alla resa dei conti, in una formula: banalità + qualunquismo. Dopo di che, la situazione precipitò: Lauzi cominciò a farsi intervistare dalla stampa della destra democristiana come «Gente» e come «Il giornale» e a mostrarsi per quello che realmente è (e probabilmente è sempre stato): un fior di reazionario. A questo punto, per quanta mi riguarda il discorso è chiuso: il mio pluralismo non si spinge fino al punto di considerare un interlocutore, poliUn giudizio tico o culturale, chi si riconosce in Massimo De Carolis e ne assume i toni, il linguaggio, gli argornenti, la «visione del sintetizzabile, mondo».Prerogativa dei reazionari è quella di essere somalla resa dei mamente presuntuosi. Luogo comune dei reazionari italiani conti, in una è quello di presumere se stessi colti e gli altri ignoranti. Luogo comune dei reazionari italiani alla Bruno Lauzi formula: è quello di fare battute tipo: «voi rivoluzionari volete rivolubanalità + zionare anche la grammatica» (pare che ogni volta che sente qualunquismo. questa battuta Indro Montanelli si pisci sotto dal gran 1. «L'immagine finale che risulta è poi, francamente, quella di una singolare superficialità della sua opera complessiva di musicista e paroliere»; «totale subalternità al mercato musicale, alle sue mode, alle sue leggi»; «alcuni dei più terribili pasticci mai prodotti dall'industria canzonettiera nazionale: tutto ciò in C'era una volta una gatta di G. Borgna e S.Dessì, Savelli, l. 1.800.
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ridere). Accecato dall’humor, Bruno Lauzi ha fatto uno strafalcione madornale. Siccome gli hanno riferito che le sinistre vogliono abolire definitivamente i1 latino dalle scuole, lui — che, come si è visto, di sinistra non è — lo usa a ogni pie’ sospinto, come i farmacisti di paese o, meglio, (per non insultare nessuno) come il professore Aristogitone; e mi accusa di lesa consecutio temporum. Ma la consecutio temporum sbadatone di un Lauzi — c’entra come i cavoli a merenda a proposito del presunto errore da me commesso: è regola che attiene a tutt’altra questione. E, comunque, l’errore è solo presunto: leggiamo, infatti, nel Migliorini (Lingua e stile, Le Monnier) che «pur essendo i concetti più d’uno il predicato verbale può rimanere singolare accordandosi col termine più vicino»; e nel Rubrichi (La sintassi latina, Longo e Zoppelli): «talvolta con due o più soggetti si può avere il La banalità del predicato anche al singolare: questo avviene specialdiscorso là contenuto mente: a) quando i soggetti sono tanto intimamente collegati fra di lora da formare un unico concetto. [...]», mi appariva Come nel caso del mio brano, appunto. (E faccio riferisconfortante, mento anche a una regola della sintassi latina perché questo, agli occhi di Lauzi, immagino che sia il masse confrontato coi simo dell’autorità, come il presidente della Repubblica: suoi testi o come Luigi Veronelli in fatto di vini). del primo periodo che Due errori in un colpo solo. Mi dispiace, Lauzi, non è abbastanza preparato, ripassi a settembre. (Come si dimostravano una diceva una volta: quando le scuole funzionavano, non qualche sensibilità c’erano le femministe e gli operai lavoravano sodo ed e originalità. erano contenti).
Simone Dessì
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Io, uno di quei liberal-socialisti europei Bruno Lauzi
«Non disprezzare la sensibilità di nessuno. La sensibilità di ognuno e il suo genio». (Baudelaire) «Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che certe cose accadano, si trova pace fabbricando scaffali». (P.P. Pasolini) È sempre curioso quando l’autore di un pamphlet che parla male di te sente il bisogno, dopo, di telefonarti perché «ti deve una spiegazione». Ti verrebbe spontaneo di pensare che, se ti avesse telefonato prima, se ci si fosse spiegati a sue tempo, certe cose non si sarebbero scritte. Insomma, sa di pressappochismo e di coda di paglia. Eppure ciò è quanto è accaduto a Simone Dessì, dopo la pubblicazione di C’era una volta una gatta. Morale: mi sono meritato una piacevole conversazione telefonica e una lettera che dice testualmente: «In tempi nei quali — come tu dici — il conformismo è soffocante, la nettezza e la schiettezza dei giudizi e delle posizioni è comunque utile perché il dibattito non risulti sclerotizzato. Attendo il tuo contributo-replica-invettiva». Io sono un tranquillo, e inizierei con un rilievo di natura grammaticale, per cui, data la consecutio temporum (o è sorpassata dal progresso?), la nettezza e la schiettezza sono ecc. ecc… Esiste Poi passerei ai rilievi più seri, di contenuto: se mi si dà un conformismo credito di essere netto, schietto e anticonformista (Dessì dice testualmente nel libro: «il solo Bruno Lauzi, della coerenza inopinatamente e eccentricamente, pare essere un seche l’artista ha il guace di Bucalossi»), perché dà così fastidio la mia condovere di ignorare, traddittorietà»? Esiste un conformismo della coerenza se è artisticamente, che l’artista ha il dovere di ignorare, se è artisticamente, non politicamente, necessario. O meglio, l’arte è l’unica non politicamente, possibile politica per un artista. necessario. Analizziamo con ordine: intanto, facciamo giustizia
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della mia posizione politica. Io ho avuto una sola tessera di partito: quella della Gioventù liberale. Deluso dal partito non ho più rinnovato tessere, ed ho creduto in un certo momento di fare operazione pragmatica (aiutare il repubblicano Bogi a fare piazza pulita del malgoverno RAI-TV) nell’affiancarmi come indipendente (e quanto!) al PRI. Errore di cui ancora mi vergogno. Non sono mai stato quindi repubblicano, né tampoco «bucalossiano». Sarei, se si potesse, ed io nel mio piccolo ci provo, uno di quei liberal-socialisti europei che in Italia finirono cosi male (ricordate i fratelli Rosselli e lo stesso Gobetti?) e che nuovamente rischiano, in codesto odierno pateracchio governativo DC-PCI, di pagare, e salato, per tutti, isolato, quindi, e orgoglioso di esserlo, visto che la Questo in breve storia odierna di questo paese sottosviluppato non mi consente la gioia di essere uno dei tanti; credetemi che sono io/politico. farei volentieri a meno di quella che può sembrarvi Ha ragione Dessì: spocchia aristocratica, visto che amo il barbera forse più eccentrico. di Guccini. Non vincente politicamente, dunque, anzi, rischiando di beccarmi del «qualunquista» per non saper Anzi bizzarro, sfruttare il vento caldo e rassicurante dei circuiti ARCI, un pazzo, in parole dei festival di partito, di protezioni influenti. povere, un cretino. Stupido per quanto mi espongo: sono stato l’unico a sfidare Mamma RAI e a presentare un controrecital alla famosa Tele-Biella perseguita per legge; non ho incontrato nessuno dei fanatici dell’«alternatività» negli studi di Tele Biella, quando farlo significava molto di più che sfondare oggi porte aperte da Sacchi e Tortora (guardacaso, due liberali!). Quel controrecital fu trasmesso sulle piazze di S. Remo in alternativa al Festival, da un pulmino pirata. Ma non faceva notizia: il pulmino non era progressista, l’autista non era un «militante», nessuno ci ha fatto propaganda a colpi di spray. Così vigliacco da andare, da solo (sono inguaribile!) alle Settembrate dell’Unità degli anni ’50, con cucito sul petto il motto «Stalin assassino» quando le gigantografie del Nostro erano alte come case, e nessuno ancora (Amendola per primo) era stato sconvolto dalle «rivelazioni» del XX Congresso. Insomma, lo sapevo io, e non lo sapeva Togliatti. Pensa che genio! Aggredito nel ’70 dai fascisti di S. Babila perché «cantavo Bandiera rossa ai festival dell’Unità». Mi pare logico: il summit dell’intelligenza nazionale è ancora vigile. All’erta sto! Ah, ho avuto un figlio che non ho battezzato, per non farlo schedare dai preti. Questo in breve sono io/politico. Ha ragione Dessì: eccentrico. Anzi bizzarro, un pazzo, in parole povere, un cretino. E cretino anche commercialmente, perché questa linea non rende certo molto: le vendite dei miei dischi lo provano. Solo i bambini, che non hanno complessi e non leggono la stampa alternativa, mi hanno premiato. E cosa curiosa, sono gli unici ad avere premiato anche Endrigo e De Moraes che da sempre sono «schizzati» dai giovani Bruno Lauzi
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adulti. Il fatto è che ai bambini non interessano né tessere, né logiche contorte, né mode musicali; puoi dare ai bambini una samba o un valzer, è lo stesso: basta si faccia cantare. E la storia sia robusta e stia in piedi come vogliono loro. Già il pubblico, popolo sovrano. Se ne parla tanto, ma se poi preferisce Claudio Villa o la Berti di Io, tu e le rose, allora non è più popolo, massa in marcia verso il progresso, va controllato, educato, guidato, sorretto, punito se è il caso con il proprio suicidio. Non avremo per caso cambiato solo ordine religioso, e nel Callegio Italia abbiamo scacciato i Padri Scolopi e li abbiamo sostituiti con I’ «Associazione genitori Mi pare che democratici»?Mi pare che si persegua, e il libro di Borsi persegua, e il libro gna e Dessì lo sta a dimostrare, una politica di «acculturamento» più che una ricerca culturale. Io sarò forse di Borgna e Dessì antico, ma mi pare che la cultura sia in prima luogo lo sta a dimostrare, rispetto per le culture altrui, e non terrorismo ideologico per cui Cultura = Progresso = Sinistra; altrimenti una politica di Montale, Gadda, Flaiano, Longanesi, Piovene, Buzzati, «acculturamento» e migliaia di altri non sono nessuno perchè servono alla più che una ricerca costruzione della nuova società, e commettono quindi quel «delitto» (in questo caso di lesa maestà marxista) culturale. cui accennava Pasolini nell’intervista pasta ad epigrafe di questo mio scritto, intervista per ironia del caso rilasciata poche ore prima della sua tragica morte. Eppoi, è una menzogna credere che gli avversari ideologici non servano. L’unica cosa che non serve è non sapere fare bene il proprio mestiere. Come quel Luzzato Fegiz che scrive un’autobiografia di Tenco senza risalire alle fonti dirette, tutte viventi e ben disposte (tra gli altri, Paoli ed io). Come Dessì e Borgna che possono scrivere del rifiuto della cravatta da parte di Tenco come piccolo segno di rivolta, e non sanno quel che Paoli sa, che Luigi si obbligava con dei bigliettini appuntati al muro a ricordarsi di mettersela tutti i giorni; che ignorano che Tenco si dava degli pseudonimi quando frequentava l’università perché, a mia domanda, rispondeva: «Se un domani il professore mi chiede, durante l’esame: — È lei quel buffone che canta le canzonette? — io posso rispondergli di no!»; che non si sono informati che Tenco minacciò di querela Giorgio Calabrese che sul giornale «Il musichiere» aveva scritto scherzosamente «Tenco di sera, ritmo di barbera» scoprendo cosi la sua «vergogna», l’origine popolare e contadina. E che infine, possono definire «versi scarni... bilancio lucido, amaro che è in grado di far risaltare il rigore e la serietà... di Bindi», i miei versi di Io e la musica e parlano del «barocchismo… laicismo… concezione panteistica» del mio testo Io e il mare fino a concludere: «comprenderemo allora che anche quello di Bindi è un modo per rovesciare l’impianto aulico, pseudo-letterario e mistificatorio della musica leggera italiana». Insomma, che per parlare bene di me, devono credere di parlare d’un altro! Che decidono che io aspiro alla satira,
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ovviarnente senza riuscirvi, quando Di qua i buoni, invece perseguo l’ironia, punto e basta. i cantautori Ma cosa interessa a Borgna, e Dessì, ai loro lettori, di conoscere e di sapere intelligenti veramente? Tanto, non era già tutto e politici nella previsto, preventivato, catalogato? Gli direzione giusta, scaffali pasoliniani erano già kafkianamente operanti: di qua i buoni, i di là gli eccentrici cantautori intelligenti e politici nella e i qualunquisti. direzione giusta, di là gli eccentrici e i qualunquisti. Per cui si arriva al punto che si etichettano come «politiche» canzoni di Gino, intimiste al massimo, come Bozzoliana e Chopin, ma non si citano le mie La fretta, e Gli acrobati o la mia traduzione di Bret Quella gente là, anche se la prima figura addirittura sulla Enciclopedia Garzanti dello spettacolo! Ma a cosa serve un non-marxista? Ah, già, dimenticavo: al pluralismo. E già oggi, a pochi anni di distanza, quali canzoni di Tenco pensate si stiano consolidando: Cara maestra o Lontano lontano, Giornali femminili o Mi sono innamorato di te? E per Endrigo Il treno che viene dal Sud o Aria di neve? E per Paoli, Il manichino a Senza fine? Per quanta poi riguarda la «mediocrità» delle mie composizioni, mi fa piacere far sapere che tali non sembrano a Paul Simon, Rod Mc Kuen, Toquinho e Vinicius De Moraes, Michel Legrand, Quincy Jones, Serge Reggiani, Moustaki. Gli ultimi due sono, rispettivamente, comunista e anarchico. Che io stia migliorando? Quello che voglio dire, per concludere questa parte di intervento è questo: i giochi sono già fatti, il destino, come scriveva già Longanesi nel ’48, ha cambiato cavallo, e gli italiani corronocome sempre, Flaiano docet, in soccorso del vincitore. «E se ci diranno», diceva Luigi. Sono io convinto che il suo no sarebbe stato uguale al mio. Ma forse mi illudo: se fosse stato come me, sarebbe ancora vivo e vegeto, alla faccia di tutti... Forse è stato la prima vittima della crisi della sinistra che sarà lunge e difficile. Ma Insomma, che per sono discorsi provinciali, i nostri, e mentre disputiamo parlare bene di me, e bruciamo il sapere e le università, fuori il vero Sapere muove ogni giorno passi da gigante e ci ricaccia nella devono credere Preistoria. E noi troviamo repressive le tabelline! di parlare d’un E noi troviamo repressive le canzoni «non impegnate». altro! Che decidono Rino Gaetano vale due Frank Sinatra e Battiato si mangia Bing Crosby. Avevamo una musica nazionale, popoche io aspiro alla lare e melodica, e l’abbiamo barattata per le sgrammatisatira, ovviarnente cature di Bob Dylan e la monotonia di Cohen, con l’unico risultato di essere ignorati da tutti e non cantati da senza riuscirvi, noi stessi. Perché la canzone dev’essere progressista, quando invece poco importa se poi il garzone di fornaio capirà: la rivoperseguo l’ironia, luzione è un mestiere che rende, in discoteca e nei salotti. Dico questo perchè quando la gente non mi punto e basta. Bruno Lauzi
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E sui cantautori prosperano gli odiati padroni, i discografici, i demoni di sempre, quelli di S. Remo e di Canzonissima.
canta, a me dispiace. Che sia malato? Eppoi ci siamo ammalati di «cantautorite». Oggi se uno non è cantautore non è nessuno. Abbiamo riscoperto l’autarchia, la masturbazione intellettuale: orgasmo col dito, orgasmo garantito. Basta con lo scambio di informazioni culturali, la teoria dei vasi comunicanti è superata, io ho un messaggio lasciatemi passare! Che importa se tu lo diresti meglio di me, se io lo musicherei meglio di te: non fa niente, non fa fino, non fa personaggio. Tutti sul balcone, mascella protesa, a dettare legge. Fascisti, niente altro che fascistelli alla Starace. Nuovi balilla, avanguardisti da strapazzo di una sinistra sempre più nazionalistica, austera, perbenistica. E sui cantautori prosperano gli odiati padroni, i discografici, i demoni di sempre, quelli di S. Remo e di Canzonissima. E noi, senza potere contrattuale, riandiamo al generoso tentativo del settembre ’67, quando Bongusto, Endrigo, Gaber, Lauzi, Paoli tentarono di fare un sindacato di questi nevrotici saltimbanchi della musica leggera, perché avessero una dignità pari almeno a quella dei calciatori di serie D. Ma no, allora non ci capirono, oggi si combatte meglio dai circuiti «fuori», alternativi! Dalle radio libere in mano ai «compagni»! Risultato: di italiani si trasmettono solo i cantautori, si è forzato il mercato in una strettoia, «acculturando» i giovani su un solo tipo di acquisto nazionale, aiutando i discografici a polverizzare qualsiasi discorso contrattuale, poiché ogni cantautore è un’isola sempre pericolante, si tratta in genere di ragazzi in «parcheggio» prima dell’impiego serio, non c’è nulla che diventi di retroguardia più in fretta dell’avanguardia, che faranno a 40 anni come me e Paoli i vari Bennato, il sullodato Gaetano, lo stesso De Gregori se non esce dal linguaggio liceale? De André è al penultimo disco prima di chiudere per sempre. È difficile fare il cantautore generazionale e poi sopravvivere a se stessi. Sembrano tanti Vincenzo Monti: ve lo ricordate? Arriva Napoleone, viva Napoleone, se ne va, abbasso, ecc. ecc. Qui è lo stesso: Vietnam, Cile, Seveso: è un sacrificio assicurato da parte dell’artista di protesta, e meritevole di stima e rispetto, data che, passando nell’oblio l’argomento, la creazione stessa votata alla stessa fine, il che non è lo scopo naturale per cui un’opera si crea; ma la stima e il rispetto sono velati da un sospetto: per quanto tempo questo tipo di «proteste» verbali, fatte al caldo e al sicuro dalle tasse (notorio il fatto che ai Festival di partito non si facciano fatture e d’altra parte, senza È difficile fare repertorio acconcio non si può pre- il cantautore tendere neanche di venir scritturati) generazionale e hanno reso a chi le fa? Per questo il mio Io canterò politico poi sopravvivere dell’ultimo LP Persone che pur essen- a se stessi.
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do stato citato nelle discografie del libro in questione, e stato bellamente «saltato» dal Dessì per non doversi accorgere che la mia «eccentricità» aveva molto del buon senso di tutti gli uomini capaci di intendere e di volere. Ma una canzone contro il compromesso storico a chi giova, se non viene dall’extra-sinistra? Una canzone contro i miei «finti colleghi», seduti sopra pacchi di autentici milioni, protestatari in ville in Sardegna (De André), due ville collegate da un campo da tennis (Venditti) era «contraddittoria»? Non direi, visto che io, da buon borghese liberale, ho la buona educazione di non sputare nel piatto dove mangio benissimo. Quello che voglio Quello che voglio dire è che ognuno è libero di fare e di scrivere ciò che vuole, ma non può pretendere di dare dire è che ognuno alle proprie azioni motivazioni che fanno a pugni con la è libero di fare realtà. Scrivi su Seveso? Invia l’incasso all’Istituto che si e di scrivere ciò sta occupando della studio della diossina. Da parte mia, ho devoluto gli incassi di Io canterò politico ad Amnesty che vuole, ma non International, per la campagna dell’anno del prigioniero può pretendere politico. Mi bastano, per vivere, i denari delle canzoni di dare alle proprie «commerciali». E non si può usare della libertà di pensiero senza finire poi nall’inevitabile libertà economica, azioni motivazioni perchè una cosa tira l’altra. Le giustificazioni degli artiche fanno a pugni sti marxisti in questo campo sono penose, quando con la realtà. vengono bloccati alla frontiera, come Guttuso, mentre stanno espatriando col gruzzolo. Quando voi vi lamentate per i problemi dell’editoria di sinistra e della sua credibilità siete forse sinceri. Ma se Porci con le ali o un altro vostro libro (speriamo questo) avesse venduto o venderà 25.000.000 di esemplari (come, credo, Via col vento) oggi voi sareste miliardari e con le coscienze a pezzi. E avreste dato il vostro contributo definitivo ad affossare la pretesa schizofrenica di piegare la realtà economica ai propri principi, visto che non ne vuole proprio sapere di piegarvisi da sola. A proposito, retribuirete questo mio intervento? Concludendo, chiacchierate, chiacchierate. Male non ne fate poi molto.
Bruno Lauzi
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