INDIA INCREDIBLE MUMBAI
l’ultimo caffè Rashid Irani gestisce il Brabourne, uno dei più antichi locali iraniani della città. Prima di lui, a partire dal 1934, era stato il padre, in fuga dalla povertà, a offrire birra e dal fry. Oggi questi ritrovi sono minacciati dalle mire dei costruttori e dalla corruzione dilagante
testo di Gioia Guerzoni foto di Adeel Halim
Il ristorante B. Merwan & Co., con il Sassanian, il Kyani, il Britannia e il Piccadilly è uno dei più importanti caffè iraniani di Mumbai. Nella pagina accanto, in alto, Rashid Irani del caffè Brabourne; sotto, la sala da pranzo del B. Merwan.
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irra, tramezzini alla frittata, dal fry, kheema: è il menù, semplice ma delizioso, che si può gustare in uno dei più antichi bar iraniani di Mumbai. Mobili in teak birmano, placidi ventilatori, dipinti su vetro ormai sbiaditi e pubblicità della Coca-Cola anni Cinquanta: il tempo si è fermato al Brabourne restaurant and beer bar, a poca distanza dal glorioso Metro Cinema, una delle tante zone che si sta trasformando velocemente in questa megalopoli da diciotto milioni di abitanti. Anche Rashid Irani, uno dei soci che gestisce il caffè, sembra un personaggio d’altri tempi, con il suo perfetto Queen’s English e gli impeccabili modi da gentiluomo. Rashid è nato nel 1947 in quella che, prima della disgraziata scalata al potere del Shiv Shena, l’estrema destra nazionalista indù, si chiamava Bombay. Come tanti altri zoroastriani che intrapresero il lungo e avventuroso viaggio dall’Iran all’India negli anni Venti, il padre di Rashid arrivò nel 1932 dalla piccola provincia di Yazd, agricola e così povera da costringere molti abitanti a emigrare. Lavorò per qualche tempo in altri caffè gestiti da iraniani - allora prevalentemente tea houses - finché nel 1934, con alcuni soci, decise di prendere in gestione il Brabourne, chiamato così dal nome di uno dei viceré di Bombay. All’epoca del Raj il caffè era un deposito per le carrozze a cavallo. Erano i tempi in cui Bombay non era invasa da trecentocinquanta nuove auto al giorno. Ora, con la “democratica” Nano, ultimo gioiello
del gigante Tata, la situazione peggiorerà di certo. Meno famigliole abbarbicate sul sellino di uno scooter e strade più intasate. Ma torniamo al Brabourne. Da giovane Rashid Irani trascorreva molto tempo nel caffè del padre, dato che abitava a poca distanza. Frequentò il prestigioso St. Xavier College di Mumbai e, fresco di diploma, lavorò come contabile in una compagnia navale. Poi, nel 1985, dopo la morte del padre, decise di gestire il Brabourne con alcuni soci. Da allora passa buona parte delle sue giornate ai tavoli del caffè a discutere di poesia, letteratura e cinema con vecchi amici, altri eccentrici gentiluomini e intellettuali. Rashid è un cinefilo così colto e appassionato («Renoir, superb! And your Rossellini, and Visconti! Fellini! And the early Tarantino!») che da anni scrive recensioni di film sui maggiori quotidiani locali, tra cui l’«Hindustan Times», e su alcune riviste di settore. Dice di aver imparato l’inglese soprattutto leggendo i sottotitoli di migliaia di pellicole: la qualità del cinema d’essai a Mumbai è decisamente superiore a quella di qualsiasi metropoli europea. Ebbene sì, non c’è soltanto Bollywood. Purtroppo però le cose stanno cambiando: nel giro di qualche settimana, il Brabourne scomparirà, inghiottito dall’ennesimo shopping mall o da una mostruosa torre di uffici. I terreni a Mumbai valgono oro, e soprattutto in questa zona i cinici developer offrono cifre da capogiro per convincere i proprietari a vendere e gli affittuari ad andarsene.
Boman Kohinoor, proprietario del Britannia Restaurant aperto novant’anni fa a Mumbai, prende le ordinazioni al tavolo.
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L’altro problema è la licenza: Brabourne può vendere solo mild alcohol, cioè birra, e per avere un full permit, la licenza per i superalcolici, che permetterebbe ai quattro soci di guadagnare abbastanza per coprire le spese, ci vogliono molti soldi e molti anni. Perché spese significa, soprattutto, tangenti. Funziona così: si fa richiesta riempiendo infiniti moduli in molti uffici al cospetto di decine di funzionari, e si cominciano a pagare tangenti ai vari incaricati. La licenza in sé costa quattro lakh, cioè circa settemila euro. «Ma quello - spiega Rashid - sarebbe il meno. Il problema è che bisogna sganciarne altrettanti in bustarelle alla complessa gerarchia di burocrati, che spesso vengono trasferiti e quindi spariscono con i soldi costringendo i malcapitati a ricominciare la trafila. Non si ha alcuna garanzia di ottenere la licenza alla fine del calvario, che può durare anni». Altro problema quotidiano è il pizzo (hafta), estorto dagli stessi funzionari, senza nemmeno l’ausilio di qualche intermediario. «Due o tre esattori passano una volta al mese, ufficialmente per controllare i libri contabili. Anche se non c’è una virgola fuori posto, il pizzo va versato: circa 1.500 rupie al mese (più o meno venticinque euro, ndr)». La somma viene spartita tra gli incaricati. Va poi aggiunto l’affitto del locale, uno spazio di 120 metri quadrati, una cifra ridicola, dato che il contratto risale a oltre cinquant’anni fa. «I pubblici ufficiali - prosegue Rashid - hanno perfino una dettagliata lista del pizzo, con nomi
e cognomi dei “contribuenti”, la cifra da versare e gli aumenti. Se qualcuno osa ribellarsi, loro si presentano ogni giorno, impedendo lo svolgimento del lavoro. Il danno economico risulta pari alla somma da versare, quindi meglio seguire le “regole”». Ma spesso i funzionari, che hanno pagato a caro prezzo (sempre a colpi di bustarelle) il loro posto di lavoro, aumentano il pizzo a tal punto da costringere i proprietari dei locali a chiudere. La speculazione edilizia fa il resto. Nella zona chic di Bandra il prezzo per l’affitto di un ufficio è di un centinaio di euro al metro quadrato, mentre a Colaba, la parte più affascinante di South Mumbai, prevalentemente residenziale, un monolocale decente - arredamento kitsch, poca luce e impavide famiglie di ratti appena fuori dalla porta - si affitta a un minimo di trecentocinquanta euro, con un deposito di circa duemila euro. Ecco perché i magnifici caffè iraniani (resistono altri locali simili: tra gli altri il Sassanian, il Kyani, il Britannia e il Piccadilly), così come molti locali storici, saranno ben presto costretti a chiudere i battenti, per la gioia di costruttori e consumatori, o meglio dei pochi membri della upper class che si possono permettere il lusso di consumare. Certo, vent’anni fa bisognava aspettarne dieci per ottenere la linea telefonica in casa. Ora basta un giorno per la broadband. L’India cambia troppo in fretta e in molti casi non è per niente shining o incredible. Incredibile, semmai, è la corruzione dilagante e il divario tra nuovi ricchi e i soliti poveri. l
Un angolo del Brabourne. Per sopravvivere il locale dovrebbe comprare la licenza per i superalcolici. Ma acquisirla, a forza di bustarelle, costa troppo.
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avanzata letteraria
Il 2007 è stato un anno d’oro. Agenti ed editori non hanno più bisogno di muoversi: ora sono gli occidentali a venire qui a caccia di novità.
ELEFANTI DA BIBLIOTECA Si moltiplicano i festival e le fiere, emergono giovani autori, si affermano le case editrici indipendenti. Per Gioia Guerzoni è una vivacissima girandola, che mescola alta cultura ed esotici cliché. Foto di Adrian Fisk
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ue elefanti, uno di fronte all’altro, all’entrata di un palazzo principesco di Jaipur, capitale del Rajasthan. Pachidermi con sgargianti decorazioni su muso e proboscide, e mahout in groppa. Antiquati esotismi per attirare turisti naïf? Un’icona evergreen ripescata per pubblicizzare Incredible India? Siamo davanti al Raj Palace Hotel, di proprietà di un maharajah locale. Strano no? Con tutti gli sforzi che fanno gli scrittori per evitare i cliché... È il banchetto finale, il writers ball (solo su invito, dress formal, black & gold) del Jaipur literature festival, che si svolge da tre anni con crescente successo e sponsor sempre più danarosi, tra cui Tata, British Airways, Air India, Ds Constructions (edilizia), Cobra (birra), Penguin, British Council. Dopo i salamelecchi d’obbligo con gli organizzatori e il maharajah in persona - che ha pensato di fornire sciarpette nere stampate oro per gli sconsiderati che non avevano avuto l’accortezza di mettere in valigia qualche capo in quelle tonalità - veniamo scortati in un palazzo da mille e una notte. i m m a g i n i r e a l i z z a t e p e r « V e n t i q u a t t r o » a m u m b a i d a l 2 2 a l 2 4 f e bb r a i o 2 0 0 8
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Dall’alto, in senso orario,SoniaFaleiro, nata a Goa nel 1977; Altaf Tyrewala, suo coetaneo, di cui Feltrinelli ha pubblicato nel 2007 Nessun dio in vista; Sampurna Chatterjee,poetessa nata nel 1978.
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Una sala di lettura della David Sassoon Library di Mumbai, che ospita il Kala Ghoda Arts Festival della città: con reading, concerti e proiezioni di documentari.
Il ballo, che poi è una cena, è allietato dai concerti di vari virtuosi locali, ma ben pochi tra i delegates ascoltano, tutti presi come sono dal ricco buffet, dal vortice di bicchieri di vino che vengono continuamente offerti da camerieri in livrea (e turbante, ovvio) e dal tentativo di riscaldarsi appostandosi vicino ai bracieri che ardono qua e là. Si mangia all’aperto, la temperatura si aggira intorno ai quattro gradi. Il robusto vino rosso - Sula, prodotto nei vigneti di Nasik, a meno di trecento chilometri da Mumbai - è una manna dal cielo nonostante sia tenuto nei cestelli del ghiaccio. Un gigantesco logo di «Vogue» danza sulla leggiadra facciata del palazzo settecentesco. Meglio non pensarci. Altro Sula, please. Gli eventi - interviste, reading, dibattiti, concerti, anteprime - si svolgono in un altro edificio in stile tipicamente rajasthano, il Diggi Palace, meno glamour ma ugualmente pittoresco. Purtroppo è riscaldata solo una sala sfarzosamente decorata che ospita gli incontri più gettonati. Tutto il resto all’addiaccio. Di pomeriggio un sole incerto
riscalda i due praticelli in cui si svolgono i concerti e alcuni reading. Ai bordi dei lawns alcuni stand espongono le novità - poco interessanti visto che si possono trovare in qualsiasi libreria - delle maggiori case editrici indiane. Per fortuna ci sono anche due chicche: lo stand di «Tehelka» (www.tehelka.com), settimanale indipendente di politica e cultura che in pochi anni è passato da Internet alla carta stampata con crescente successo, e quello di Tara Books (www.tarabooks.com), gruppo editoriale di geniali scrittori e illustratori che da Chennai, la vecchia Madras, sfornano libri (molti titoli di letteratura per l’infanzia e poi cultura popolare, fiction e non fiction) di altissima qualità. Alcuni sono stampati a mano e il procedimento viene pazientemente illustrato per la gioia dei pochi bambini e dei numerosi adulti. Schizofrenico e bulimico l’elenco degli autori invitati: qualche star della letteratura - Ian McEwan e Gore Vidal (che poi ha dato forfait irritato dalle domande di alcuni giornalisti indiani durante il festival della
letteratura in Sri Lanka, pochi giorni prima) - e del cinema, Christopher Hampton, sceneggiatore di Espiazione e Relazioni pericolose; Dev Anand, icona della vecchia Bollywood e autore di un’autobiografia, e Aamir Khan, volto della nuova Bollywood, che attira folle eccitate e reporter televisivi, nonché le critiche di alcuni puristi curiosi di sapere cosa c’entri un personaggio del cinema in un contesto simile. Oltre alle star, molti nomi noti, Nayantara Sahgal, Bulbul Sharma, Manil Suri, Anita Nair, William Dalrymple, nel doppio ruolo di testimonial e organizzatore, Donna Tartt, John Berendt, Indra Sinha. Interessanti le voci dal Pakistan e quelle di chi scrive in lingue vernacolari, Chirtra Mudgal, Chandra Prakash Dewal, Salma, e quelle più nuove, Sampurna Chatterjee, Sonia Faleiro, Indrajit Hazra (caustico e geniale columnist dell’«Hindustan Times»), Anushka Ravishankar (autrice di libri per bambini), Kamila Shamsie, Sirish Rao, Tishani Doshi, Jeet Tahil, Namita Devidayal, Kunal Basu, Sarnath Banerjee (il primo
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La biblioteca ottocentesca è situata in uno dei quartieri più antichi di Mumbai.
graphic novelist indiano). Ormai gli scrittori fanno a gara per partecipare ai festival, e gli organizzatori per accaparrarseli. Dopo Jaipur si è aperta la grande fiera del libro di Delhi, che si tiene ogni due anni. A Mumbai si svolge invece il Kala Ghoda Arts Festival, ricco di appuntamenti letterari, concerti e proiezioni di documentari. Quest’anno, a inizio febbraio, ha attirato una folla attenta nella cornice dei giardini della David Sassoon Library, biblioteca ottocentesca nel cuore di Kala Ghoda, uno dei quartieri più antichi della città. A fine mese, il Kitab Festival, il festival del libro, ha segnato la conclusione della stagione culturale e l’inizio dell’estate. Il 2007 è stato un anno d’oro per la letteratura indiana: agenti e editori, abituati a rivolgersi alle controparti occidentali per mostrare manoscritti di autori indiani, stanno tornando in patria. Grazie al boom economico - che ha influenzato alcuni ambiti della cultura ma ben poco a livello sociale, perché di certo l’India non è ancora così shining come molti vogliono far credere - gli agenti sono pronti a chiedere anticipi in dollari con cinque o sei zeri, paragonabili a quelli europei o inglesi. Fino a un anno fa,
Maharajah, musicisti e star del cinema internazionale animano gli incontri con gli scrittori. I cui manoscritti sono contesi a suon di anticipi milionari gli editori indiani big erano Penguin, Rupa, e Harper Collins; ora stanno crescendo piccole e agguerrite case editrici indipendenti, come la Tranquebar di Delhi, che dovevano aspettare la fiera di Francoforte o di Londra per sperare di vendere, o meglio svendere, i diritti di indiani inediti. Ora hanno almeno cinque o sei richieste al mese da agenti e editori stranieri, di cui almeno due finiscono per trasformarsi in vere aste. Gli editori indiani non cercano più la conferma dall’Occidente prima di decidere se vogliono comprare o meno un libro. I festival letterari sono veri e propri happening. A Jaipur, tra un reading e l’altro, si poteva incontrare Swami Agnivesh, uno dei più interessanti attivisti e pensatori del nostro secolo. E poi tanta musica: sul palco la talentuosa Susheela Raman, londinese tamil, che ha creato un’interessante commistione di jazz, funky e strumenti locali, o anche Paban Das Baul, noto per aver fatto conoscere al mondo la musica dei Baul, comunità di cantori mistici itineranti del Bengala, la cui origine si fa risalire al Medioevo indiano. Pur essendo induisti, i Baul non riconoscono il sistema delle caste e professano l’eguaglianza tra le fedi. E fumano notevoli quantità di ganja, per raggiungere uno stato di semi trance utile al miglioramento della performance sul palco. Può capitare di tutto al festival di Jaipur: puoi ritrovarti in una nuvola di ganja a ballare o a mangiare con McEwan a poca distanza. Oppure ti può succedere di scambiare per un tassista il misterioso gentiluomo al volante della jeep diretta al palazzo del maharajah. Poi scopri che anche lui è un maharajah. b
Gioia Guerzoni , 39 anni, quando non è in viaggio vive a Torino. Ha tradotto in italiano autori come Paula Fox, Colm Toíbín, Rachel Trezise e gli indiani LavanyaSankaraneAltafTyrewala.Pressol’editore Isbn esce oggi l’antologia da lei curata e tradotta India. Sei racconti, cinque reportage, tre fumetti. V e n t i q u at t r o
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INDIA senza tetto né legge
SOLO POSTI IN PIEDI Trovare casa a Mumbai è una missione quasi impossibile. E non solo per i prezzi proibitivi, tra i più alti al mondo. A pesare sono anche i requisiti religiosi, di casta, linguistici e alimentari. Su tutto impera un esercito di agenti immobiliari
testo di Gioia Guerzoni foto di Alice Fiorilli
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recento persone al giorno», dichiara il chaivala, il venditore di tè, con un gran sorriso, allungando un bicchierino di liquido bollente. Lo dice con orgoglio misto a preoccupazione, ma sempre con quel fatalismo scanzonato tipicamente indiano, e ancor più tipico di chi abita in questa megalopoli. Ogni giorno trecento aspiranti mumbaikar, abitanti di Mumbai, approdano da tutta l’India al Chhatrapati Shivaji Terminus, la stazione ferroviaria principale della città, dove passano quotidianamente due milioni di persone. Nonostante i giorni neri degli attacchi terroristici del 26 novembre 2008, la megalopoli indiana, con i suoi venti milioni di abitanti, rimane la Mecca del cinema, la capitale del commercio, il sogno di chi voglia tentare la fortuna.
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ottomila euro al metro
Anche se i prezzi degli immobili sono in calo da quasi due anni, Mumbai continua a essere una delle città più care al mondo. Secondo la Global Property Guide, il prezzo di un metro quadro in un condominio di South Mumbai oscilla tra i 6.130 e gli 8.700 euro, a seconda della metratura. Un appartamento da 70 metri quadri sfiora i 430mila euro. Anche gli affitti sono alti: un alloggio da 180 metri quadri costa oltre 4.500 euro al mese. Anche se lo scoppio della bolla immobiliare, nel 2007, aveva fatto scendere i prezzi degli immobili indiani, la mancanza cronica di spazio di Mumbai e il continuo boom demografico hanno tenuto alte le quotazioni nella città più popolosa del Subcontinente. Nel secondo semestre dell’anno scorso, secondo la National Housing Bank, il calo a Mumbai è stato di appena il 2 per cento in termini reali, ben lontano per esempio dal crollo di Bangalore (-31,2 per cento). Il contraccolpo degli attentati del novembre 2008, assieme al taglio dei costi delle sedi deciso dalle multinazionali per far fronte alla crisi, dovrebbe però contribuire alla discesa dei prezzi anche nel secondo semestre 2009, come prevedono tra l’altro gli studi di Colliers International.
Le foto di queste pagine sono state scattate da Alice Fiorilli nelle agenzie immobiliari di Mumbai, dal quartiere di Santa Cruz, nell’area settentrionale della città, alla zona di Colaba.
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Il problema degli spazi - legato a quello dell’immigrazione - è stato tra gli argomenti più dibattuti dell’ultima campagna elettorale. Mentre Mukesh Ambani, nababbo della petrolchimica Reliance, uno degli uomini più ricchi del mondo, sta per trasferirsi nel suo grattacielo di ventisette piani - costato due miliardi di dollari: con palestre, cinema, elipad, giardini pensili, campi da tennis, sei piani di parcheggi e seicento dipendenti per sole sei persone - l’impiegato medio fatica persino a trovare un appartamento. Nella città più cosmopolita del Subcontinente non bisogna fare i conti soltanto con gli spazi, ma anche con la ghettizzazione delle caste e l’islamofobia, che si è acuita dopo gli attentati di novembre. Anche per gli scrittori trovare casa è un problema: il primo a parlarne è stato Suketu Mehta nel suo Maximum City (Einaudi 2006): «Vengo da New York e a Bombay sono un poveraccio. L’affitto medio per un appartamento carino, con due camere da letto, a South Bombay, dove sono cresciuto, è di tremila dollari al mese». Ma gli ostacoli non sono solo di natura economica: Aravind Adiga, vincitore del Booker Prize con il romanzo La tigre bianca (Einaudi 2008), ha descritto in un articolo pubblicato sul Guardian le sue peripezie per trasferirsi a Mumbai. «Ho scoperto che esistono tre tipi di scapolo: il company bachelor, che lavora per qualche multinazionale e quindi sfoggia una ricca busta paga, il married bachelor, che vive da solo ma ha una moglie in Canada o in Inghilterra, o perlomeno così dichiara. Poi, all’ultimo gradino, c’è il single bachelor, niente moglie, né busta paga». Se in più sei uno scrittore non hai speranze: nessun padrone di casa vede di buon occhio chi passa la giornata al computer invece di cercar moglie. E infatti Adiga ha dovuto accontentarsi di una zona popolare a un paio d’ore dal centro, raggiungibile con i temibilissimi treni locali dove, nelle ore di punta, ci si può ritrovare in dieci in un metro quadro. Altaf Tyrewala, altro giovane prodigio della letteratura indiana (Nessun dio in vista, Feltrinelli 2007), ha un problema ancora più grave: è musulmano. La sua esperienza è così kafkiana che un regista di Mumbai ha deciso di registrare le sue telefonate alle varie agenzie. Le conversazioni, per le quali l’autore ha usato uno pseudonimo musulmano, confluiranno poi in un documentario sulla città. Come nel caso di Adiga, il fatto che Tyrewala sia uno scrittore non l’ha aiutato per nulla, tanto che sta valutando seriamente l’ipotesi di tornare a New York.
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musulmani e non vegetariani sono tra i più penalizzati nella caccia all’alloggio. la ricerca dello scrittore altaf tyrewala, rientrato da new york, è stata così kafkiana che le sue telefonate alle agenzie sono finite in un documentario
Quando si supera l’esame del nome di famiglia, si può chiedere al broker se il palazzo o il caseggiato - in India si parla di society o colony - è cosmopolitan, in questo caso sinonimo di multireligioso. Tutte le grandi città del Subcontinente sono di fatto mappate in base alle religioni, a caste e sottocaste, alla lingua e allo Stato di provenienza, e anche alle abitudini alimentari. Per quanto possa sembrare assurdo, spesso è proprio il pretesto del vegetarianesimo a fungere da elemento discriminante. Una delle comunità più potenti e numerose di Mumbai è per esempio quella dei Gujarati, che hanno colonizzato alcune delle zone più ricche della città, escludendo del tutto l’accesso ai non vegetariani. Per divorziati e single la ricerca di una casa diventa una missione impossibile: spesso finiscono per condividere un bilocale in tre o quattro, o prendono in affitto una camera presso una famiglia, oppure, se ne hanno diritto, optano per gli spartani ostelli dei lavoratori. Il controllo sociale è talmente capillare da aver frenato la diffusione della ricerca di case sul web. Sono quasi tutti i liberi professionisti a essere discriminati: artisti, fotografi, operatori cinematografici e ovviamente le ballerine (versione indiana delle nostre cubiste) che, dalla chiusura dei dance bar nel 2006, si sono ritrovate senza casa, oltre che disoccupate. Ma torniamo alla ricerca vera e propria: individuato il quartiere adatto alle proprie possibilità economiche, in una colony idonea ai requisiti religiosi, castali, linguistici e alimentari, si devono presentare le proprie referenze, con una modulistica ben precisa e una trafila che parte dal broker e finisce - a colpi di mazzette - al vaglio della polizia, per il controllo finale. Il deposito è carissimo, fino a un anno di affitto, e non garantisce nemmeno di arrivare alla scadenza del contratto. Di conseguenza, quello dell’agente immobiliare è un lavoro ambitissimo e delicato, specialmente a Mumbai. I broker fanno una preselezione della clientela, ecco perché si trovano a ogni angolo della città: sono circa 15mila nella sola Bandra East, lussuosa zona residenziale prediletta dalle star di Bollywood. Gli agenti immobiliari hanno un’enorme influenza sul futuro dei mumbaikar. Impensabile affittare, acquistare e in alcuni casi persino edificare senza di loro: prendono contatti con i costruttori - attori fondamentali nello sviluppo urbano della città - quando non è ancora stata posata la prima pietra e, assieme a loro e ai proprietari, stabiliscono i prezzi di vendita e di affitto. Come quasi tutti i mestieri in India, anche quello dell’agente immobiliare si tramanda di padre in figlio. Mumbai continua a espandersi verso nord, mangiandosi grosse porzioni di foresta, senza alcun rispetto per piani regolatori o condizioni igieniche e architettoniche degli edifici. Il problema era stato affrontato già negli anni Settanta con la costruzione di Navi Mumbai, nuova Mumbai, la città gemella nata per combattere i letali imbottigliamenti della metropoli. Lì il nostro impiegato avrebbe potuto permettersi un appartamento decoroso, o almeno così si sperava. Ma il problema degli spostamenti ha frenato lo sviluppo di Navi Mumbai, che dista almeno due ore di treno dal centro. Solo da quando sono stati aperti call center, multiplex e grandi magazzini, che offrono svaghi ma soprattutto posti di lavoro, i grattacieli hanno iniziato a popolarsi. I prezzi qui sono di certo inferiori rispetto al resto della città, ma anche le attrattive scarseggiano. L’alternativa, per chi non vuole arrendersi alle periferie, viene dai nuovi piani regolatori che consentono di costruire palazzi sempre più alti. Chissà che Mumbai, di questo passo, non finisca per essere la prima città al mondo a lottizzare porzioni di spazio aereo. l
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7 SHELF LIFE BETWEEN THE COVERS
SATURDAY, JUNE 12, 2010
PHOTOS: GIANFRANCO MURA
Gokarna in Karnataka has great beaches, ganja at bargain prices and a sea so blue it can hurt your eyes. But those are not its only USPs. By year-end, it will have one of the biggest private libraries in south India and a buzzing cultural centre, thanks to two French tourists who have made this seaside town their home
house and show you his prized possessions. Descended from one of the town’s bestknown Brahmin families, Vedeswhar is an extraordinary hoarder. He began collecting books when only ten. The Study Circle itself dates back to 1945. It’s a wonder how the library has survived the vicissitudes of time and the ravages of weather. Part of it is just luck. But, part of the credit goes to two French nationals, Daphné Piquet and Elias Tabet, who happened to visit the town over four years ago. Daphne is an actress and Elias a drama teacher. Though they first came to Gokarna as tourists, they now live in the town. Their inspirational passion for books and their perseverance to find the necessary funds for the upkeep of Vedeshwar’s library have produced visible results. Daphne and Elias first fought to get governmental clearance for setting up a cultural organisation and permission for a new library on the land belonging to Vedeshwar. From French associations and organisations, they collected some 20,000 euros. All of it has gone towards the maintenance of the books and the development of the insti-
Books by THE SEA GIOIA GUERZONI
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oa. Sugar white beaches. Deep blue sea. Men with Rasta hairdos and colourful, billowing trousers. Women in summer skirts and silver anklets. Tourists and travellers of all shapes and ages out to have the time of their lives. All of it is still happening, except that the scene seems to have shifted to Gokarna since the government clamp-down on drugs and raves in Goa in the wake of 26/11. Gokarna is less than two hundred kilometres farther to the south, in the state of Karnataka. This town of some 25,000 souls, though, is not just one of the many beaches on the subcontinent where you can vegetate on white sand, gaze out over the sea, or smoke first-rate ganja at knockdown prices. It is also a spiritual place. Gokarna, meaning “cow’s ear”, is an ancient, sacred site of Hindus, and a traditional dwelling-place of Brahmin families, settled there, as the myth would have it, by Parashuram. Gokarna is invaded every year in mid-February by over 50,000 pilgrims during the festival of Shivratri.
Daphné Piquet, an actress, and Elias Tabet, a drama teacher, have raised 20,000 euros to give 79-year-old Vedeshwar’s huge collection of rare books a new and less dusty home
LIMITED EDITION: Vedeshwar, who started collecting books when he was 10, now has some 100,000 volumes
But there is more to this littoral town than sea and spirit. While picking your way down the chaotic high street of the town and constantly side-stepping manholes, if you happen to look up at the right place — over the heads of random cows and tourists and piligrims — you may catch sight of a curious inscription: “Study Circle”. The sign, hidden among many creative ones such as ‘vegiterian resturent’, ‘suitings and shirtings’, ‘jarman bekery’, ‘visit against’, is fixed to the second floor of one of the traditional timber buildings that line
the town’s main drag. And the Study Circle has a story to tell, one not normally associated with a laidback tourist site. Once you reach the second floor, after climbing a flight of wooden stairs, you’ll enter a scholar’s nightmare-cum-dream: one of the largest but most chaotic libraries in all of south India, with a stock of approximately 100,000 volumes in 40 languages, from litho-repros to palm-leaf books, with a hundred and fifty commentaries on the Bhagavad Gita, as well as an extraordinary collection of stamps from across the world, historic coinage, currency and photo-
graphs. A pocket museum, in short. The creator of this mind-boggling collection, almost buried beneath a thick layer of dust — save for a few volumes preserved in small wall cupboards, full to the gunwales and on the brink of collapse — is a crusty gentleman of 79, with a few good teeth and very sharp eyes, who loves to chat with the occasional visitor. The library does not keep regular hours. But once you make friends with the owner, Sri Ganapati Vedeshwar, everything becomes a lot easier and he will be only too delighted to throw open the doors to his
tution into an arts centre. The centre will cater to scholars, translators, writers, and researchers, as well as readers of all ages and will work with local schools to become a flagship cultural venue for activities such as readings, theatre, dance, and cinema. With support from experts from the locality and abroad, work in earnest began last year. The library is scheduled to open at the end of 2010, and is certain to add to the USP of Gokarna. ! THE WRITER IS AN ITALIAN TRANSLATOR OF CONTEMPORARY FICTION FROM INDIA
sfide
india svelata
Cosa c’è oltre il technicolor degli stereotipi e la don n e di questo pa ese delle mer av iglie e
reazione feroce a una femminilità libera(ta)? cinque degli orrori provano a spiegarcelo. con amore di Marta Cervino e Gioia Guerzoni foto Laura El-Tantawy/VII Mentor Program
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sfide globali
le ragazze sono più aperte (e arrabbiate) delle loro madri
stati di coscienza «Mumbai, molto orientata al lavoro, È una città che,
tutto sommato, percepisco sicura. qui la gente è impegnata a costruirsi un futuro e le donne sono più considerate che a new delhi», dice Aparna Jayakumar.
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sfide globali
Le foto di queste pagine ci portano
in un mondo dove sete sgargianti e dettagli intravisti tessono un’ode al femminile. Perché nell’India speziata, il luogo che nell’immaginario è ancora una cartolina da tour dell’anima, il velo - al di là della religione - è un elemento di seduzione che esalta il corpo senza ostentarlo. Eppure, dietro la vernice scintillante e la femminilità, il paese del boom economico (nel terzo trimestre del 2012 il Pil è cresciuto del 5,3%), delle megalopoli, del lusso estremo e della miseria nera, è un universo contraddittorio che non ama le donne. Nel 2011 ci sono stati 24.206 stupri, un numero che conta solo le denunce, quindi irrisorio in una nazione di oltre un miliardo e 200 mila persone. Altrettanto si dica per gli aborti ai danni di figlie femmine: 12 milioni in tre decenni. E tutto questo senza affrontare il tema delle spose bambine. La percezione di questo inferno sembra essere esplosa soltanto negli ultimi mesi, quando un feroce stupro di gruppo a New Delhi ha portato nelle piazze, sui giornali e sui social network la middle class urbana decisa a chiedere giustizia. Che è arrivata, ma nella forma estrema della pena capitale, la cui applicabilità solo in alcuni casi, lascia molti perplessi e non ha spento la rabbia dei familiari delle vittime. Ma che cosa sta succedendo in India? Lo abbiamo chiesto a cinque donne informate dei fatti. Parlano di libertà, sguardi, vigilantes in sari e di futuro possibile. connessioni solidali I social network hanno contribuito a diffondere la protesta contro la violenza sulle donne.
la middle class porta i tabù nei talk show e ne discute. i politici puntano il dito sul makeup 86 mc
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Tishani Doshi è nATA A Chennai
nel ’75. poetessa e danzatrice, ha scritto “Il piacere non può aspettare” (feltrinelli) I fatti degli ultimi mesi hanno mostrato un aspetto dell’India di cui non eravamo consapevoli. Tutta questa violenza contro le donne è un fenomeno recente o esiste da sempre? E come mai se ne parla solo ora? Purtrop-
po questo è un problema antico, endemico e diffuso, ma non è che non se ne sia parlato. Direi piuttosto che non ha mai ricevuto dai media l’attenzione che ha ora. Nel 2004 per esempio, nel Nordest del paese, una ragazza è stata violentata e uccisa da un gruppo di militari e l’episodio ha scatenato una protesta incredibile: 40 donne hanno manifestato nude reggendo striscioni con la scritta «l’esercito ci stupra» - usando i loro corpi come armi contro crimini che riguardavano appunto il corpo. Le forti reazioni che ci sono state - le proteste, le manifestazioni - sono il segno che qualcosa sta cambiando? Sono un indicatore: i
giovani, uomini e donne, scendono in strada per mostrare la loro rabbia contro il sistema. Chiedono trasparenza. Ma il cambiamento ha due livelli: uno che parte dal basso e uno di carattere legislativo e non è bene mischiare i piani. Se i legislatori si facessero influenzare da quello che vuole la gente, non credo si muoverebbero nella giusta direzione. La prima legge che farebbe per le donne? Mi occuperei dei diritti delle bambine. L’aborto selettivo e l’infanticidio femminile sono in aumento e la proporzione maschi/femmine nel paese è la più alterata dal 1947.
Aparna Jayakumar,
è una fotografa 29enne di mumbai che spesso punta il suo obbiettivo sulle donne Al centro della cronaca c’è soprattutto New Delhi. La situazione è diversa a Mumbai?
Io a Mumbai ci sono cresciuta. Sono una fotografa e sono sempre andata in giro nelle ore più strane, ma tutto sommato la percepisco come una città “sicura”. È una metropoli molto costosa e molto orientata al lavoro. La 88 mc
mia teoria è che qui le persone siano troppo impegnate a tentare di sopravvivere per mettersi nei guai. E poi le donne sono rispettate. New Delhi è una realtà diversa: ci sono molti immigrati che arrivano dal nord del paese dove il livello di istruzione è bassismo, la mentalità conservatrice e patriacale e il rispetto per le donne è scarso. Ma la realtà è che molte zone dell’India non sono sicure. È libera di vestirsi come vuole? E sua madre lo era? No, perché ti senti addosso sempre lo sguardo degli uomini. Ma rispetto a mia madre io e le ragazze della mia generazione siamo molto più aperte. Cos’è la femminilità? Per me è poter apprezzare il mio corpo, la mia sessualità, il mio essere donna, senza rendere conto a nessuno. Quando si è sentita discriminata? Ogni volta che non posso mettermi quello che voglio o andare dove mi pare. E quando al lavoro mi imbatto in uomini che reagiscono più al mio essere donna che alle mie capacità professionali. La prima legge che farebbe per le donne? Mi occuperei di educare la società: vorrei davvero che maschi e femmine fossero trattati in modo uguale.
Amruta Patil classe ’79, scrive
e illustra graphic novel. in italia è uscito “nel cuoredi smog city” (metropoli d’asia) Come mai di questa situazione si parla soprattutto adesso? Le storie di violenza sono una costante. Ma l’at-
tenzione dei media e la rabbia della gente comune non ha precedenti, e questo è un fattore rincuorante. Un altro punto fondamentale è che la violenza urbana ha coinvolto la middle class, “persone come noi” e l’episodio ha
La legge? L’annuncio della pena capitale non ha calmato gli animi
sfide globali
dati preoccupanti per la bbc, in india c’è uno stupro ogni 21 minuti. Ma (almeno a ne w delhi) aumentano le denunce.
Intanto, ed è la cosa più importante, hanno inziato a vedere il loro ruolo nell’ecosistema della società e non solo nella relazione con marito-figli-cucina-casa. Possono scegliere di stare da sole invece che invischiarsi in legami familiari che non vogliono. Il prossimo passo? Ho sempre pensato che ci sia bisogno di un “post-femminismo”: riuscire a superare la lotta di genere e concentrarsi sugli interessi dell’umanità.
maggiore consapevolezza nelle donne indiane?
avuto molta più risonanza di storie simili che arrivano dal cuore dell’India. Queste proteste sono un segno di reale cambiamento? C’è stata un’onda che ha attraversato il mondo dalla primavera araba, un’onda che ha trovato anche nei social network un modo per manifestare, per esprimere la rabbia. Ora speriamo che non ci si fermi alle proteste e che ci sia una fase costruttiva. Che ruolo gioca la corruzione dei politici e della polizia? Enorme. Continuano ad arrivare notizie inquietanti. Le autorità chiudono un occhio troppo spesso e le leggi hanno maglie così larghe che ci può passare una balena... Si sente libera di vestirsi come vuole? Secondo me è una questione di intelligenza. Certo puoi anche lottare per il diritto di metterti un tanga nel centro di Kabul ma la domanda vera è perché mai dovresti farlo. Ci sono battaglie molto più importanti da combattere per la libertà senza dimenticare che l’altro lato di essere una “persona libera” è essere “una persona responsabile”. Essere sensibile al contesto in cui ci si trova non è sempre una cosa negativa, è un segno di maturità, l’abilità di capire l’altro invece di forzare una situazione a nostro piacere. A Parigi, Londra, Roma si veste e si comporta come in India? No, mi vesto e mi comporto in modo diverso. Un po’ fa parte della capacità di vivere una seconda vita. E comunque no, a Roma, Parigi e Londra non faccio le stesse cose che faccio a Varanasi e New Delhi. Gli esseri umani si arricchiscono confrontandosi con realtà diverse. Oggi, per lei, c’è una 90 mc
Sonia Faleiro,
nata nel ’77 è giornalista e scrittrice. un estratto del suo libro inchiesta “Beautiful thing” è apparso nell’antologia “india” (isbn) San Francisco, New Delhi, Mumbai. In quale città si sente più libera di vestirsi come vuole? Vivo a San Fran-
cisco ma quello che indosso è ancora influenzato dagli anni che ho passato a New Delhi: infatti non porto niente che sia corto o aderente. La mia repulsione per questa città si è attenuata, ma anche adesso quando ci vado, non uso i mezzi pubblici e non esco la sera. Mumbai ha un’atmosfera diversa. È libera e cosmopolita anche perché qui ci sono l’industria della moda e del cinema. Ho potuto andare in giro in piena notte e raggiungere le periferie per intervistare prostitute e incontrare transessuali. Non avrei potuto scrivere il mio libro (un’indagine sul mondo delle ballerine da bar di Mumbai, ndr), se avessi vissuto a New Delhi.
sfide globali
Amana Fontanella-Khan
nata nell’84, giornalista e scrittrice, ha passato anni in india. ad agosto Esce “pink sari revolution”, sul movimento di donne vigilantes in sari rosa Crede che nel paese qualcosa stia davvero cambiando?
Credo che la rabbia sia un segno del fatto che i cittadini, una nuova generazione di indiani, vogliono un governo che combatte questa violenza di genere. Una middle class che rompe i tabù, porta questi argomenti nelle case con i talk show e ne discute. Un grande contributo è arrivato anche dai social network, Facebook e Twitter. Ma ci vorrà tempo prima di un effettivo cambio di passo. I politici continuano ad attribuire la responsabilità alle donne, puntano il dito sugli abiti corti, il trucco, le mode occidentali. L’avvocato difensore di alcuni degli uomini accusati di aver violentato la studentessa di New Delhi (nel dicembre scorso, ndr) ha detto: «Finora non ho mai visto un caso di stupro che coinvolgesse una donna rispettabile». Quanto è diffusa la corruzione? La maggior parte della gente non ha fiducia nella giustizia anche perché è normale che i poliziotti intaschino mazzette per chiudere un occhio su aggressioni, stupri, omicidi. E infatti la lotta alla corruzione è una delle battaglie più importanti della Gu-
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labi Gang, un movimento che coinvolge più di 20mila attiviste (con sari rosa e bastone, ndr). Lei se ne è molto occupata: la Pink Gang ha segnato una svolta? Fondamentale. Ha dimostrato l’importanza di lottare insieme e che anche l’India rurale può cambiare le cose, non solo la middle class urbana. Donne analfabete, povere e delle caste più basse sono riuscite a lottare contro mariti violenti, politici corrotti e poliziotti disonesti. L’obiettivo più importante? L’emancipazione femminile. Sampat Pal Devi, la fondatrice, spesso dice che nonostante l’India abbia ottenuto l’indipendenza nel 1947, le indiane ancora non hanno assaggiato la libertà. La prima legge che farebbe per le donne? Una norma per i casi di stupro. Al momento le vittime possono essere umiliate da medici e avvocati. I dottori le visitano e se appurano che una donna non sposata ha regolari rapporti sessuali viene descritta come “facile” e queste opinioni entrano nei tribunali. Il prossimo passo? Continuare a lottare, non stare in silenzio. Le indiane si sono rese conto che devono essere responsabili della propria sicurezza. Dopo il caso di New Delhi la richiesta di porto d’armi da parte delle donne nella capitale è passata dal 25 al 35%. Ma la soluzione non è una pistola. Ci vuole un movimento di massa per fare sì che il sistema - polizia, politici, tribunali - sia tenuto a rispondere. o Queste immagini fanno parte di The Veil, un progetto sul velo e la femminilità che la fotografa Laura El-Tantawy ha dedicato a sua madre.
Nuove frontiere
Vorrei vivere
@ MUMBAI
È una della città più care del mondo, dove però è impossibile annoiarsi. e, grazie all’arte di arrangiarsi, si può vivere molto bene
TESTO gioia guerzoni foto chiara goia
Affittare una casa
È una delle città più care al mondo. La mancanza di spazio e il perenne boom demografico rendono difficile trovare una casa. Un monolocale non di lusso in una society (cooperativa di proprietari, situazione comune per sveltire la burocrazia) costa 1.000 euro al mese, più altri 1.000 di deposito più la commissione (in contanti) tra i 1.000 e i 2.000 all’agente. Assicurarsi che ci siano impianti, fognature in regola e l’acqua (il broker non lo dice). Un alloggio di lusso (100 metri quadri in zona residenziale) costa intorno ai 4.500 euro al mese.
Comprare una casa
Lasciate perdere. Non è solo questione di prezzo (tra gli 8 e i 15mila euro al metro quadro): solo gli indiani possono acquistare. Bisogna avere un partner locale, molti soldi e, soprattutto, moltissima pazienza. Per curiosità, il gruppo di real estate Lodha sta costruendo in centro il più alto grattacielo residenziale al mondo, progettato da Pei Cobb Freed & Partners e con il design d’interni di Giorgio Armani (prezzi appartamenti a partire da 3 milioni di dollari www.theworldtowers.com).
Stare in albergo
Sono stata più volte per parecchi mesi all’Hotel Carlton di cui occupavo una piccola camera, pulita ma con i bagni in comune (20 euro a notte la doppia). Il più rispettabile, pulito e che non costi una fortuna è il Bentley’s: camere ariose e vintage (40/50 a notte) da prenotare con mesi di anticipo.
Burocrazia
Vi fa orrore quella italiana? In India è peggio. Richiedere visti, comprare una Sim per internet
oppure ordinare la bombola del gas: tutto lento e macchinoso, con vari avanti e indietro a collezionare documenti e timbri. Con un visto business è più facile. Per chiarirvi meglio le idee leggete Maximum City di Suketu Mehta (Einaudi).
Quanto costa muoversi
I taxi costano poco. Dal centro all’aeroporto (un’ora senza traffico) non più di 400/500 rupie (100 sono un euro e mezzo). Per i temerari ci sono i local train – primordiale metropolitana di superficie funzionano bene e c’è la carrozza per sole donne. Si spendono 12/20 rupie a seconda del percorso. Occhio a non sbagliare l’ora: in quelle di punta c’è il rischio di trovarsi in 12 persone a metro quadro. Autobus ottimi (3/6 rupie a seconda del tragitto) con servizio capillare, ma bisogna saper leggere i numeri in hindi (basta un poco di impegno).
Opportunità di lavoro
Scarse e vincolate a gincane burocratiche. I settori legati a lusso, ristorazione e tecnologia sono in espansione, ma ci sono parecchi talenti locali, quindi bisogna prepararsi a una forte concorrenza. Aprire una società è complesso, ma si può fare (con le conoscenze giuste). Il made in Italy va ancora forte: moda, design e cibo hanno una presa notevole sull’immaginario.
Lingua
Tutti parlano inglese più o meno bene. La cosa fantastica degli indiani è che sono plurilingue: come minimo, delle 22 ufficiali del subcontinente ne sanno due o tre. L’hindi non è difficile da imparare. Magari con i tassisti non usate il Queen’s English. Se siete in ritardo “Station fast please” detto
Skyline Pescatori sistemano le reti nella baia di fronte alla moschea di Haji Ali, sullo sfondo una visione panoramica di Mumbai.
Nuove frontiere
con vigore funziona meglio di “Sir, could you kindly take me to the station, I’m in a hurry!”.
Sicurezza
Mumbai è una delle città più sicure e piacevoli di tutta l’India, anche per donne sole. Meglio comunque evitare look appariscenti o scoperti, soprattutto se usate i mezzi pubblici. Se andate in un locale chic con l’autista, potete vestirvi come vi pare. Girare di notte non è un problema: la densità della popolazione fa sì che ci sia sempre gente. I casi di violenza che si registrano a Delhi qui sono molto più rari.
PRENDERE L’ARTE
L’arte contemporanea ruota intorno a Colaba che è L’East Village di Mumbai: negozi, caffè, mare su due lati. E una decina di gallerie di livello internazionale. Difficili da trovare perché nascoste e mal indicate. Project 88, Maskara, Volte, le più innovative.
MANGIARE E BERE
Il cibo costa poco: delizioso nei ristorantini e nelle innumerevoli bancarelle sui marciapiedi (ma aspettate di farvi gli anticorpi). Per i ristoranti chic meglio prenotare: l’Olive a Bandra e l’Indigo Colaba, i più famosi. Aperitivo costoso (10 euro per una birra e 15 per un calice di vino) e panorama mozzafiato al Dome, ultimo piano dell’Intercontinental Hotel, su Marine Drive. Il mio preferito è Bayview, sul tetto del mediocre Hotel Harbour View, su Apollo Bandar: vista incredibile e, soprattutto, bevi tre paghi due. Da non perdere i caffè Irani: locali storici fondati dalla comunità zoroastriana.
COMPRARE
La via che taglia Colaba, quartiere sul mare, è il paradiso dello shopping: sandali, orecchini, bracciali, vestiti da 1 a 20 euro. Poi ci sono i negozi chic con gli stilisti indiani più trendy: Bombay Electric 1 Reay House, Best Marg, Colaba, India Sajana 5/5 Grants Building, 1st Floor, Arthur Bunder Road. Il mercato più bello per frutta, verdura, carne e pesce è Crawford Market. Infine, Chor Bazar, il mercato dei ladri, famoso per gadget e memorabilia di Bollywood. ●
Dentro la città In alto, a sinistra, un murales dell’attore indiano Amitabh Bachchan, nel quartiere di Bandra. Sotto, un negozio di arredamento in zona Colaba. Qui accanto, donne in un compartimento a loro riservato a bordo di un treno locale. A destra, venditori di mango al Crawford Market.
Nuove frontiere
10 PAROLE
Bombay
Qui tutti la chiamano ancora così.
Padmini
Taxi gialli e neri, le vecchie Fiat 1100. Stanno scomparendo.
Jugaad
L’arte di arrangiarsi, di trovare soluzioni, scorciatoie. Vi ricorda un altro popolo?
Chaat
Spuntini che vendono in strada, fritti, salati, ma anche frutta fresca o secca. Deliziosi.
Achcha
Va bene, ho capito: si dice sempre anche quando non si capisce. Da imitare.
Bhelpuri
Snack superstar: riso soffiato, lenticchie fritte, tamarindo, spezie.
Bollywood Big B Amitabh Bachchan è la vera superstar.
Koi baat nahi
No problem: la frase più usata in tutta l’India.
Mumbaikar
Se vi chiamano così siete diventati indiani.
Movies/talkies
I cinematografi storici, tutti Art Nouveau. Ma il vero divertimento è godersi il pubblico rumorosissimo.
Gioia Guerzoni Gioia Guerzoni, 44 anni, da 20 vive anni tra Milano e Mumbai (dove sta sempre meno perché diventa ogni giorno più cara). Collabora come scout di letterature del Sud Est Asiatico per la casa editrice il Saggiatore e traduce narrativa dall’inglese (Teju Cole, Ben Marcus, Jonathan Lethem, Siri Hustvedt, Paula Fox, Colm Tóibín). Ha curato India. Cinque racconti, sei reportage, tre fumetti antologia di autori indiani under 40 appena ristampata dalla casa editrice ISBN.
Vita notturna In alto, a sinistra, aperitivo al Dome, bar all’ultimo piano dell’Hotel Intercontinental. Sotto, una delle viuzze piene di locali alle spalle della baia. Qui accanto, un tassista sull’auto Padmini. A destra, murales tratto dal film Anarkali, uno dei cult di Bollywood.
BOOK REVIEW
Jhumpa Lahiri’s new book is about being reinvented through language, and it’s in Italian Gioia Guerzoni Jun 20, 2015 · 04:30 pm An English-to-Italian translator explains why she loves Lahiri’s ‘In Other Words’.
Image credit: Carlo Benini / Wikimedia Commons
When I'm asked to write something – an article, a review, or something about myself or my work – the first reaction, at least in my head, is a big loud no. Because I am a translator, I prefer being a host. My job is to make somebody's words comfortable in my own language. To write is a completely different act, and yet, so similar, nearly identical. Home, for those original words, is the white page, a empty house. Then the translator comes and opens the door and lets the writing find its new voice, in a new language. “Hospitality seems to me to be an incredibly important human capacity. And the first rule of hospitality is to accept the presence of somebody and exchange”, John Berger said. Obviously, I agree.
I am the host. I am there to serve the writer, and readers in my language. I am also the lover, mystic and engineer. Of a text, the critic is only the fleeting wooer, the author is father and husband, while the translator is the lover. […] The translator is like someone who professionally cracks safes. No shaking hands. Detachment and passion are both crucial. The translator has to be mystic and engineer at the same time. (My translation)
Di un testo il critico è solamente il corteggiatore volante, l'autore il padre e marito, mentre il traduttore è l'amante. […] Il traduttore è come uno scassinatore di casseforti. Guai se gli tremano le mani. Freddezza e passione, dunque, ci vogliono entrambe. Il traduttore deve essere insieme mistico e ingegnere. - G. Bufalino, Il malpensante, lunario dell'anno che fu, Bompiani, Milano 1987
Why this long preamble? Because Jumpha Lahiri's book In altre parole, (In Other Words) written in Italian, her “new” language, is certainly about languages – and the complex, scary, humbling feelings that accompany the act of learning, discovering and handling them. It is also a rivetting account of translation, of translating one's life – on the shapes our identity takes according to how we use our words. It's a memoir, a love story with a language: “I realised there was a space inside me where it – la lingua in Italian is feminine – could be comfortable.“ The whole book resonates with thoughts on writing and translation that were only half formed in my mind. For this, and much more, I am grateful to Jhumpa. A third language? When I was asked to write something, I immediately thought, ‘No’. Then I said a bright, happy, ‘Yes’ when I realised I can – or have to – write in English. But for Jhumpa, this third language, besides English and Bengali, both unreliable “mother and step-mother” tongues, is not necessary, as it is for me. Learning Italian for her is a passion, an obsession, and also apparently useless. There is an idiom she uses often: “come una pazza”, like a mad woman, when she talks about her struggle to memorise, to give a sentence the right scaffolding (there's a whole chapter on this, “impalcature”), to get out of the comfort zone of a familiar language. Italian gives her identity a new shape. “The arrival of Italian, the third station of my linguistic
journey, creates a triangle. It creates a form, instead of a straight line... I am the daughter of those two woeful dots, but the third doesn't originate from them, it is born out of my desire, my struggle. It is born out of me.” (My translation) And sometimes, it gives her freedom. “Maybe because in Italian I am free to be imperfect”. So when I read this sentence I understood why I prefer to write in English. I knew it, but it was a shapeless thought. The freedom to fail. And when one thinks about it, writing, and even more so, translating, is a constant battle with failure, and its ultimate recognition and acceptance.
Failure always wins. But we can turn a failure in an art, The art of losing, as Elisabeth Bishop put it. Why write at all? And when Jhumpa questions herself about why she writes, she gives many answers: to tolerate herself, to investigate the mystery of existence, and also to absorb and to “arrange life”. She uses the word “sistemare”, which, thanks to my layers of identity and to my mother’s (and grandmother’s and cousins' and aunts' and uncles’ and relatives’) tongue, resonates with humble acts, like tidying up, organising, giving shape. It makes me think of manual, housewifely labour. One of the best translators we had in Italy, Angelo Morino, who promoted many unknown authors and translated Gabriel Garcia Márquez, Mario Vargas Llosa, Roberto Bolaño, Osvaldo Soriano, Manuel Puig and many others, was convinced that translation and domestic work have something in common: invisibility, the fact of being paid very little despite being indispensable, and the common aim of creating harmony and dispelling chaos. Translators, according to him, are like “housewives or househusbands of literature”, who “mess around“ with signifier and significance, or, rather, carry out the activities of tidying up, sometimes of refurbishment, as craftsmen of language.” It is this humility and this tenacity in Jhumpa Lahiri's narration that strike a chord in me, as I am sure it will in many readers of this little gem of a book . There's nothing grand or pompous about learning a language. There is frustration, struggle, humiliation, but also a constant sense of stupefaction: “Every new construction seems a wonder to me. Every new word looks like a jewel.” And then new feelings, and ultimately, subtle personal changes. Languages do shape us. They give us a new home.
That is why I read Jhumpa from the very beginning of her writing career. I had the feeling she was somebody looking for her home. Just like me, but for different reasons. I found mine in the in-between land which is translation. Jhumpa says about translation – and I am sure she has read Italo Calvino's very similar words on the subject – “I believe translating is the most intimate way to read something. Translation is a wonderful, dynamic encounter of two languages, two texts, two writings. It implies a doubling, a renewal.” The serendipitous bonus to Jhumpa's story about her relationship with Italian is that she was introduced to me by a dear friend, an Italian who writes in English, Francesca Marciano. Hers is another masterful love story (a collection of short stories) with language, called, aptly, The Other Language. She has been translated into Italian by another common good friend. Thanks to Francesca, I had the most lively and interesting discussion about translation with Jhumpa in Rome, in the precise ghetto which she describes beautifully in this book, with white wine and mortadella. Yes, clichés, amazing historical places, good food, etc. But after escaping Italy (for India, mostly) for such a long time, I am starting to consider it home. And to my surprise – even if it is just an impression – I felt Jhumpa was really different from the writer I had seen on stage in many festivals before I had met her. Before she looked aloof,
algida, as I would say in Italian. When we shared a robust aperitivo together, in her new language, she was, as she says many times in In altre parole, vulnerable. Warmer, and completely different. Language does the magic, then. (The translations of Lahiri's passages and Bufalino's quote are mine. I only translate into my mother tongue, but in this case I had to make an exception.)
Gioia Guerzoni translates modern and classic fiction from English to Italian.
© 2016 Scroll.in
Ventimila topi sotto i piedi - Altri animali
11/05/16 20:15
Ventimila topi sotto i piedi Il mio rapporto coi topi si è sviluppato di pari passo a quello con l’India – per molti una grande madre, per me un Fidanzato amatissimo, tanto complesso quanto esilarante, a tratti insopportabile, con cui la convivenza è praticamente impossibile. Ogni anno pensavo di lasciarlo. Non verrò mai più. Non so bene perché – certo, andavo a caccia di autori indiani da tradurre, però avrei potuto farlo in 10, 15 giorni, non 10, 15 settimane – ma ho passato quasi sette anni della mia vita nel subcontinente, spalmati nei mesi invernali in circa venticinque anni. Però non ho mai pensato di viverci. Per moltissime ragioni. Per esempio, i topi. Praticamente tutti sanno che il topo è veicolo di Ganesh, il dio elefante, e gli sta sempre letteralmente tra i piedi. In India le divinità sono tantissime, pare trentatré milioni. Trovo la mitologia locale del tutto soporifera, ma mi eccito sempre davanti a divinità assurde tipo scimmie, tori gibbosi, capre, motociclette, falli giganti, e soprattutto davanti a gente all’apparenza normale – grasse casalinghe in sari, impiegati in camicia e cravatta, scarni tassisti, tronfi commercianti – che si butta con foga ai piedi di scimmie, motociclette, cazzi eccetera, proprio come da noi con San Gennaro o Padre Pio. Uno spasso. Non che mi diano fastidio, i topi, ma in ogni casa e albergo in cui ho soggiornato dovevo necessariamente superare il battesimo dei roditori, i veri padroni di casa.
http://www.altrianimali.it/2016/04/01/4143/
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Ventimila topi sotto i piedi - Altri animali
11/05/16 20:15
Foto di Gioia Guerzoni Topi minuscoli da appartamento, color talpa, tre quattro centimetri. Carini ma non quando ti mangiano le mutande o il giornale infilato sotto la porta. O i corn flakes. Topi giganti da esterno, le famigerate pantegane grandi quanto un gatto. In un alberghetto di Bombay avevo implorato pateticamente i boys di usare le trappole (senza ucciderli, per carità) e/o di togliere la monnezza con più regolarità. Risultato: i boys mi bussavano alla porta due o tre volte al giorno – mentre ero lì tutta concentrata a tradurre o a leggere manoscritti – per mostrarmi orgogliosi le grasse prede. All’inizio facevo la dura, alla terza volta mi sono messa a ridere e quindi niente, hanno vinto i topi. Scorrazzavano e si rotolavano giocosi nell’altrimenti gradevole dehors dell’albergo. Gli amici indiani mi guardavano come una povera pazza. Ci ho messo qualche inverno per cambiare albergo (quindi avevano ragione loro). http://www.altrianimali.it/2016/04/01/4143/
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Ventimila topi sotto i piedi - Altri animali
11/05/16 20:15
Topi medi da interno: schifosetti, grigi, coda lunga. In una stamberga dell’Orissa, lo stato con gli alberghi più squallidi mai visti in India, arrivo a mezzanotte e trovo il receptionist sedicenne sdraiato sul bancone della reception. Tipico. Una cosa che mi fa sempre ridere. Chiedo la camera migliore. «DeLuxe Madam?».«Of course!», 10 euro, ottimo. È una camera orribile e puzzolente, ma quello c’è. «Scusi, c’è molta puzza di toilette», dico. «Don’t worry Madam», dice lui, serio serio. «Every room is the same toilet smell!». Va be’. Metto giù la borsa e vedo un topo medio che corre sull’onnipresente luce al neon. Dico: «Bara chua!». Grande topo. Non mi viene altro da dire, che idiota. E lui, tutto gioviale, «Madam, we are near nature, it’s natural!». E apre una porta scorrevole con vista su campi di erba stitica punteggiati di rifiuti e un fiumiciattolo prosciugato e maleodorante. Il topo sfreccia verso la finestra e io mi addormento pensando che sono una povera pazza. Il mattino dopo visito templi meravigliosi e penso che ne valeva la pena. Forse. Amo questo Fidanzato India, un po’ stranino ma lo amo. Quest’anno sono volata da Lui pensando: è finita, è una relazione ormai consumata, stanca, è l’ultima volta che ci vediamo. Ma ci torno con un lavoro nuovo, dicendo basta stamberghe, basta topi e topaie, quest’anno tutto pagato e alberghi a cinque stelle. Vedrò il mio Amato con occhi diversi. Una settimana prima della partenza scopro che alla mia squadra (in pratica faccio da vaga consulente per un format televisivo, con tre troupe da dieci persone che vagano per tutta l’India) è stato assegnato il celeberrimo tempio dei topi nel villaggio di Deshnoke, in Rajasthan. Karni Mata. Ventimila topi che zampettano grassi e felici in poche centinaia di metri quadri. Secondo la leggenda, nel 1400, Karni Mata, incarnazione di Durga, chiese al dio della morte, Yoma, di riportare in vita il figlio di un cantastorie disperato. Quando Yoma si rifiutò, Karni Mata promise che tutti i cantastorie (maschi ovviamente) si sarebbero reincarnati come topi nel suo tempio. Un po’ noioso, sì, ma il fatto che da allora pellegrini e devoti arrivino a migliaia da tutta l’india per spupazzarsi i topi chiamandoli kaba, cioè piccoli figli, è abbastanza stupefacente, in effetti. Incredible India!
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Foto di Gioa Guerzoni A vent’anni avevo visitato il tempio di Karni Mata, con un fidanzato che ci era già stato e mi aveva convinto che sarebbe stata un’esperienza memorabile. Io dico quasi sempre di sì alle novità, e poi ovviamente gli credevo. Il tempio in sé era bruttino e per dieci minuti avevamo zampettato sul marmo bianco del tempio mentre i topi ci zampettavano tra i piedi («Porta fortuna!»). Un posto assurdo, ma avevo vent’anni e tutto mi sembrava eccitante e meraviglioso. Ero innamorata del fidanzato e soprattutto follemente innamorata di quel paese, che visitavo per la seconda volta. Ormai era una droga, non potevo più farne a meno. Che belli tutti questi topini, che meraviglia, tutti li imboccano e cercano di carezzarli. Che popolo meraviglioso! Amo gli indiani! Dieci minuti dada, surreali. Era il 1989.
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Ventimila topi sotto i piedi - Altri animali
11/05/16 20:15
Stacco. Febbraio 2016. La troupe non è proprio entusiasta di questa nostra nuova magica avventura (ci aspettavano tante avventure nel magico Punjab, che ignari). Io ho un vago ricordo di quegli elettrizzanti dieci minuti. Vedremo. Eccoci qua, appena fuori dal tempio: gli operatori girano una prima scena con il cast davanti al banchetto dei souvenir: collanine con l’immagine della dea circondata dai topi, orologi con la dea e i topi, soprammobili con i topi, dolcetti da offrire ai topi. Il banchetto pullula di topi veri. Un po’ di disgusto ma fin qui ce la si può fare. Arriva il tragico momento di togliere le scarpe. Obbligatorio. Per fortuna si possono tenere le calze. Qualcuno comincia a dire parolacce. L’autrice del format indossa tre paia di calze (che butterà con gesto teatrale), più i soprascarpe da ospedale/aeroporto. Geniale! Ci ha pensato fin da casa. Massimo rispetto e venerazione. Un operatore ha addobbato le calze con il nastro adesivo verde fosforescente, che forma una specie di suola. Che efficienza, che ingegno! D’altronde, è salernitano e si sa, i cliché, ecc. La producer ha le scarpette giapponesi da operaio, i jikatabi, che passano per calze. Fortunella! Tutti gli altri tapini, inclusa me, entrano con le calzette. Orrore: una gigantesca pozzanghera all’entrata. E no, non si può saltare. E cosa ci sarà in quell’acqua torbida visto che siamo circondati da ventimila topi saltellanti? Parecchie parolacce. E poi via entriamo: Salerno e io come apripista verso l’altare. Madò!, sento. Ma non ci si può credere. So’ pazzi. Risate nervose. Allora un conto è stare nel tempio per dieci minuti dada a vent’anni, un conto per mezz’ora, che poi diventano due ore, in età molto più avanzata. La puzza! Il brulichio peloso. Stare attenti a non pestarli che porta tantissimo sfortuna. E devi ripagare il tempio con un ratto in oro massiccio. Meglio di no. Devoti che si prostrano verso la dea mentre i topini zampettano sopra di loro. Vecchiette che stanno sedute a chiacchierare tra i topi come se fossero al bar a prendere un tè. Ciotolone piene di latte bordate di topi che si abbeverano. Pujari, i sacerdoti, che li imboccano con piccoli pezzi di banane. Hanno letteralmente decine di topi eccitati in braccio. Musicanti che cantano nenie tristissime con il fruscio delle zampette in sottofondo. Discepoli che addentano offerte mangiucchiate dai topi («Altamente propizio e benefico!»). Mo vomito. Aiuto. Sono pazzi. Nervosismo in aumento. Parolacce in aumento. La troupe entra, fonico operatori reporter cast producer tutti dentro. Tutti che http://www.altrianimali.it/2016/04/01/4143/
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Ventimila topi sotto i piedi - Altri animali
11/05/16 20:15
smadonnano. Si gira. Facciamo in fretta eh. Oh, ma non è che puoi tagliare quella scena? Non si respira. No dai non rifacciamo questa. Sono fuori di testa. La religione è l’oppio… Madonna guarda quella cicciona che accarezza il topo. Non ci posso credere. Non ci voglio credere. Un piccione mi ha cagato in testa! Lo schifo!. Il cast che si fa i selfie con i topi. Io sono mediamente schifata. Però quando c’è da mettersi davanti a una specie di grande gabbia con dentro migliaia di topi per vedere se anch’io riesco a vedere il topo albino che porta tantissima fortuna («È la dea stessa!») corro e rimango con il fiato sospeso. Lo vedo. Il topo bianco. Ecco. Che felicità. Adesso basta. Ciao Fidanzato India, grazie, è stato bello. Addio.
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