Afghanistan book

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AND SO, WHAT THE ARTIST DOES. WITH PENCILS

can be a form of co-option of art, of its political subordination to celebrating and illustrating power, just as much as it can be the opposite—an undermining of one’s military hosts (who surely did not know Alÿs also filmed and drew the Taliban, crossing the boundaries between them as only an artist (or a mad person) might be able to envision). Furthermore, the artist’s apparently innocuous gesture of pulling out his paper and colored pencils and drawing within the military compound surely created a context within which to strike up a conversation with the soldiers— a “lighter” and more amiable way to eavesdrop on the everyday life of individuals in extraordinary historical situations. Exposing the banality of their daily lives there might even undo the logic of war by inserting a virus of something as apparently innocuous as drawing and coloring. It also reminds us of Hannah Arendt’s disquieting yet pointy analysis of the banality of evil, of evil as a consequence of thoughtlessness and stupidity rather than a product of a clever and evil mastermind, which she wrote after witnessing the banality of Adolf Eichmann’s statements during his trial in 1961. Furthermore, it occurs to me, from a feminine perspective, that there is a delicacy and lightness in Alÿs’s small drawings and paintings made while embedded in Afghanistan or shortly before and after—a shifting of the logic of “boys with toys” by playing and un-playing, or rather by deploying and un-ploying weapons that once transformed into pencils and paintbrushes cause signs to circulate and to transform themselves. This creates a space within which a weapon’s use is redirected to another form of purposelessness (to evoke Kant’s definition of art as an intentional creation of a purposeless imitation of something naturally beautiful and purposeful) that magically might perform a re-enchantment of its technology (Alfred Gell’s anthropological definition of art-making as enchanted technology ), transforming its body into a disarticulated and rearticulated body that shoots/unshoots itself and its multifarious signifiers. Alÿs’s colored pencils, in the military camp, represent a bold act of ignoring the logic of war; they are thin, long, and colored and suggest a world of personal pleasures, or grand tours with one’s sketchbook at hand, and they exist in the condition of

E COSÌ, QUELLO CHE L’ARTISTA FA. CON LE MATITE

vissuto a lungo in Belgio, il paese d’origine di Alÿs (e quindi presumibilmente a lui ben noto) ma anche i grafici colorati di Gerhard Richter e le varie correnti di pittura astratta sviluppatesi in America latina (dove attualmente Alÿs vive) che hanno svolto un ruolo particolarmente importante nei paesi in cui le leggi sulla censura rendevano pericolosa la pratica della pittura figurativa – si pensi, ad esempio, a esponenti argentini e brasiliani della pittura astratta, radicale e modernista come Carlos Cruz-Diez ed Hélio Oiticica. Se il fare può essere disfare e il disfare può essere fare, come suggerisce Alÿs, allora essere “embedded” in un esercito può essere una forma di pervertimento dell’arte, di subordinazione politica volta alla celebrazione e all’illustrazione del potere, così come il suo contrario – un tentativo di insidiare i militari che lo ospitavano (e che sicuramente non sapevano che Alÿs avrebbe filmato e ritratto anche i talebani, attraversando la linea di confine tra i due schieramenti con il coraggio di cui può dar prova solo un artista, o un pazzo). Inoltre, il gesto apparentemente innocuo di tirar fuori carta e matite colorate per mettersi a disegnare all’interno del compound militare ha certamente creato un’atmosfera propizia alla conversazione – un modo “più leggero” e gradevole di carpire i dettagli della vita quotidiana di individui che si trovano a vivere in situazioni storiche straordinarie. Il semplice fatto di mostrare la banalità di queste vite quotidiane potrebbe perfino disfare la logica della guerra, inoculando il virus di un’azione apparentemente innocua come quella di disegnare e colorare. Ciò ci riporta anche all’analisi inquietante ma acuta della banalità del male, del male come conseguenza della sconsideratezza e della stupidità più che come prodotto di una mente lucida e malvagia che Hannah Arendt scrisse dopo aver ascoltato le banalità proferite da Adolf Eichmann durante il processo che lo vedeva imputato nel 1961. Inoltre, posso dire che, da una prospettiva femminile, nei piccoli disegni e dipinti eseguiti da Alÿs durante il soggiorno tra i militari in Afghanistan o poco dopo, ci sono una leggerezza e una delicatezza – una discontinuità con la logica dei “giocattoli da maschi” ottenuta mediante il giocare e il non-giocare con, o piuttosto schierando e riponendo armi che, una volta trasformate in matite e pennelli, permettono ai segni di circolare e di trasformarsi. Ciò crea uno spazio in cui l’uso di un’arma è dirottato verso un’altra forma di inutilità (per


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