E quindi uscimmo a riveder le stelle. L'approdo

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Galleria San Fedele Via Hoepli 3 a-b 20121 Milano

Premio Arti Visive San Fedele 2012/2013 22 maggio - 5 luglio 2013 mostra a cura di Andrea Dall’Asta SJ Daniele Astrologo, Ilaria Bignotti, Chiara Canali, Matteo Galbiati, Chiara Gatti, Massimo Marchetti, Kevin McManus, Michele Tavola giovani artisti Afran, Francesco Arecco, auroraMeccanica, Claudia Caldara, Maurizio Cogliandro, Massimiliano Gatti, Gaspare, Isabella Mara, Alessandro Mason, Fabio Romano, Mario Scudeletti, Serena Zanardi

giuria Premio Arti Visive San Fedele Giovani Artisti 2012/13 Cristina Chiavarino, Andrea Dall’Asta SJ, Roberto Diodato, Giacinto Di Pietrantonio, Volker W. Feierabend, Paolo Lamberti, Giuseppina Panza di Biumo, Hidetoshi Nagasawa, Luisa Somaini, Maurizio Zuccari e Daniele Astrologo, Ilaria Bignotti, Chiara Canali, Matteo Galbiati, Chiara Gatti, Massimo Marchetti, Kevin McManus, Michele Tavola giuria Premio Paolo Rigamonti 2012/13 Giorgio Braghieri, Riccardo Crespi, Andrea Dall’Asta SJ, Gabriele Caccia Dominioni, Manuela Gandini, Giovanni Pelloso, Giovanni e Aline Radice Fossati, Emilio, Maria Teresa e Michele Rigamonti organizzazione mostra e redazione catalogo M. Chiara Cardini testi in catalogo di Daniele Astrologo, Ilaria Bignotti, Chiara Canali, Andrea Dall’Asta SJ, Matteo Galbiati, Chiara Gatti, Massimo Marchetti, Kevin McManus, Michele Tavola conferenze di Giovanni Chiaramonte, Adriano Guarnieri, Silvano Petrosino, Roberto Del Riccio SJ progetto grafico Donatello Occhibianco allestimento Umberto Dirai ringraziamenti Famiglia Rigamonti


“E QUINDI USCIMMO A RIVEDER LE STELLE”

L’APPRODO



L’approdo della vita

In un mondo che rischia sempre più di vivere senza punti di riferimento dal punto di vista politico, sociale e religioso, proporre a giovani artisti un tema sull’approdo, sul significato di una meta verso la quale orientare il proprio sguardo, è una vera e propria sfida. Infatti, si è trattato per loro di riflettere sul senso più profondo della vita, di domandarsi quale direzione prendere per comunicare un’esperienza ricca di senso. Parlare di approdo significa infatti cercare di immaginarsi il termine di un viaggio, capire dove il percorso compiuto ti ha portato. In questo senso, il Premio San Fedele 2012/2103, concludendo il ciclo triennale “E quindi uscim-

Andrea Dall’Asta SJ

mo a riveder le stelle” è stato un’occasione per offrire un momento di riflessione, per interrogarsi su alcune

Direttore Galleria San Fedele

domande fondamentali. La mostra è a cura di Andrea Dall’Asta SJ, e di Daniele Astrologo, Ilaria Bignotti, Chiara Canali, Matteo Galbiati, Chiara Gatti, Kevin Mc Manus, Massimo Marchetti e Michele Tavola. Con l’installazione Trentatré 1942-1975, Serena Zanardi riflette sul tema della memoria. Riprendendo le vecchie fototessere dimenticate di una donna sconosciuta nell’arco di trent’anni realizza in terracotta dipinta i suoi ritratti. È come se in questo modo le fotografie riprendessero vita. La donna si presenta davanti a noi, col suo sguardo, il suo sorriso. Le foto si trasformano nelle mani della giovane autrice in piccole statue che rivelano il trascorrere del tempo di una persona, attraverso il ritratto. L’approdo diventa così il sottrarre all’oblio quanto era stato abbandonato e forse perduto per sempre. E la vita di quella donna rinasce, entrando nella nostra memoria. Sempre sull’idea della memoria si ispira il lavoro di Isabella Mara. Con Citazioni, la giovane autrice parte dall’idea secondo la quale ogni libro – letto, vissuto e sottolineato - dischiude un mondo, in cui è possibile entrare per soggiornarvi e dimorarvi. L’approdo consiste in questo abitare nella memoria, perché questa diventi un’ancora, un luogo sicuro. Nella sua installazione, i libri si trasformano in una città, in cui tessere trame di vita, una molteplicità di relazioni e di connessioni. Si tratta forse della critica a un mondo in cui tutto scorre così rapidamente che rischiamo di perdere la nostra identità, nell’assenza di una “memoria” individuale e collettiva? Con Senza Titolo, Mario Scudeletti presenta una sedia e un banco, il cui piano opaco ha una lunghezza inusuale che si sviluppa verso l’alto. Quale è la meta? La condizione umana – suggerisce il giovane autore - non può fare a meno di sollevare il proprio sguardo verso l’alto. Certo, il banco è simbolo di quell’apprendere umano che non si compie mai una volta per tutte. È un compito infinito. Tuttavia, il banco non costituisce l’approdo, ma indica semplicemente la direzione verso la quale contemplare la meta della vita, per potersene meravigliare: le stelle. Con Brancusi alla radio, Alessandro Mason ci trasporta in uno scenario in cui il mare diventa protagonista. Anche se come memoria. Il giovane autore concepisce una “macchina”, costituita da uno stelo verticale in metallo con due “pale”. Sono elementi orizzontali in azione collocati nel mare e sono composti da un sistema di lame costantemente sollecitate da acqua e aria. Sono dunque continuamente oscillanti, ruotanti, vibranti. L’approdo è il raggiungere un equilibrio perché poi la macchina, portata in uno spazio espositivo, riveli sulla propria “pelle” le tracce del tempo. Una storia è così raccontata attraverso segni, ossidazioni, incrostazioni saline. E come un reperto, suggerisce quei paesaggi “vissuti” nella mente di chi la osserva.


Molto diversa è l’intuizione di Francesco Arecco che presenta una scultura in legno dal titolo ‘Omphalos (ombelico). Su suggestione degli antichi ‘omphaloi conservati a Delfi - uno era di epoca classica, l’altro del periodo ellenistico - attraverso una serie di lame di legno di pioppo e abete rosso di risonanza, costruisce un ombelico, punto di arrivo e al tempo stesso di partenza, in quanto segna l’inizio della vita autonoma del bambino. Al tempo stesso, Arecco allude al bocciolo di un fiore, che sta per aprirsi. Nella sua forma pressoché sferica simboleggia un modello dell’universo. E la sua forma ricorda una cassa armonica da cui risuona il fruscio dei movimenti del cosmo. Con Lampedusa o dell’esteso deserto, Massimiliano Gatti ci riporta agli sbarchi di immigrati a Lampedusa. Tuttavia, le sue foto non ritraggono “persone”, quanto piuttosto i loro oggetti personali che, persi durante l’approdo, il mare ha raccolto e restituito. Una teiera, un bicchiere da te, un pezzo di stoffa… Sono piccoli oggetti che tuttavia sprigionano un alto valore simbolico, in quanto ridanno dignità ai loro possessori. Immersi in uno sfondo bianco, quasi che il giovane artista abbia cercato di mettersi il più possibile da parte, pongono interrogativi sulle persone che non hanno potuto riprenderli con sé. Dove sono? Quale approdo avranno raggiunto? Saranno sopravvissuti? Ben diverso è il lavoro di Gaspare che, con Untitled (Library) 2013, presenta 100 fotografie istantanee che ritraggono una “distesa di cenere” ottenuta dopo aver bruciato 100 libri della sua biblioteca. Se per il giovane autore distruggere è ricreare, l’opera sembra non condurci ad alcun approdo, quanto suggerirci un continuo ripetersi delle vicende del mondo, in una ciclicità che non conosce sosta. Molto interessante è poi il lavoro di Maurizio Cogliandro che presenta un libro d’artista, Tree. Attraverso una serie di 14 fotografie di un bosco, siamo accompagnati in un viaggio verso una luce che tutto dissolve, in un bagliore metafisico. Ironica e divertente è la performance L’Approdo di un giovane di origine africana, Afran che, continuando a dipingere e ridipingere sulla stessa tela soggetti sempre nuovi, evoca un approdo intriso di sensazioni di inutilità, di vuoto, proprio quando si è giunti alla meta. Se Fabio Romano con Fallout propone un’installazione costituita dal depositarsi delle polveri sulle strutture di oggetti trovati, componendo delle micro città distrutte da eventi naturali o dalla mano dell’uomo – l’approdo è qui forse un annientamento totale della vita? – il gruppo auroraMeccanica, con Esigue dipendenze, indaga sul rapporto tra immagine e pubblico. Toccando l’acqua contenuta in una vaschetta lo spettatore crea una rielaborazione digitale proiettata sul muro. L’approdo diventa qui la possibilità di creare infinite immagini in relazione tra loro. Infine, Claudia Caldara per l’installazione Alla luce del giorno fotografa una villa abbandonata nei campi pugliesi e la proietta nel cuore della notte in luoghi di passaggio frequentati prima che sorga il sole, come stazioni ferroviarie. L’immagine scompare con la luce del giorno. Si perde nella luce. È forse anche questo un modo per indicare un approdo?


La donna che visse “enne” volte

A metà strada fra il Ritratto di Dorian Gray e la serie dei Dètails di Roman Opalka. Un po’ sublime, nel senso romantico del termine, misto cioè di piacere e orrore alla maniera di Oscar Wilde, e un po’ concettuale, inteso come analisi logica dello svolgersi del tempo, memore proprio dell’opera del grande artista polacco. È lo scorrere della vita, lento e inesorabile, registrato dalle pieghe del volto e dal mutare delle stagioni negli occhi, ad aver attratto la riflessione di Serena Zanardi nella sua lettura dell’approdo come termine ultimo della nostra esistenza. Che lei, autrice delicata, interprete di un piccolo mondo antico ispirato alle fotografie d’epoca, gruppi di famiglia, vecchi dagherrotipi dai toni seppia e gli angoli sdruciti, restituisce nella terra cruda, argilla frizionata fra

Chiara Gatti

le dita quasi fosse di burro, dando corpo, plastico e sodo nello spazio, a personaggi sbiaditi nella memoria. Salvati

Critico d’arte

dall’oblio, i suoi antenati, strizzati in corpetti di seta o in marsine d’inizio secolo, riaffiorano all’improvviso dal passato, identità-fantasma cui Serena restituisce una storia, un nome, una vita. Come nel caso di Berta, figura sorridente e sottile nata nella Belle Époque, cresciuta durante il Ventennio, signora borghese del dopoguerra, elegante e alla moda negli anni Sessanta. Ogni cosa ci parla di lei in un vecchio album di ritratti emerso per caso fra i bauli di un antiquario. Lì, dove Serena l’ha trovato, scartabellando fra cornici antiche e libri illustrati, il suo cuore pulsava ancora dietro decine di scatti rubati ogni anno al trascorrere del tempo, al maturare lento delle sue forme, al fiorire e sfiorire della bellezza sul suo viso mai stanco, sempre in posa davanti a un obiettivo anonimo cui ha consegnato con determinazione, in un vero e proprio progetto di vita, la sua vicenda quotidiana, le sue trasformazioni, il suo destino. A Serena, il compito – come è prassi costante nel suo mestiere di scultrice della ceramica affascinata dai segreti di esistenze lontane – di traghettare in una nuova dimensione spazio-temporale le metamorfosi di Berta, fermi-immagine della sua storia per ritratti, affidati alla materia in una sequenza altrettanto fitta di espressioni, gesti, cambiamenti. Storia di una donna che ha vissuto tante volte quante si fece immortalare in ogni istante della sua esperienza; come se, ogni volto celasse una vita a sé, un episodio diverso. La necessità di non perdere nulla nel carpire il tempo ha portato Berta a realizzare – a sua insaputa – un’azione d’arte concettuale ante litteram. Serena Zanardi, dal canto suo, complice una rara perizia tecnica, ha nutrito tale concetto di sapienza artigianale, di cura nel modellare la terra, strizzando un occhio alle leggi della figurazione, ma sublimando la realtà in una dimensione assoluta di senso. È così che anche l’attenzione nella resa dei dettagli, che raccontano, in ogni piccolo busto a misura d’album, capitoli di un secolo di stile, gusto, moda e buone maniere, sposa il tema eterno della vanitas, trascrizione attuale dell’iconografia classica del memento mori; ma che, al posto dei fiori recisi, trova ora il viso allegro di Berta. Occhi scuri, sopracciglia disegnate, porta i capelli con grandi onde negli anni Venti, scivolate su un tubino nero in jersey di cotone. Nel decennio seguente, il taglio s’accorcia in un riccio più composto su un tailleur grigio, rischiarato presto da una camicia bianca e una collana di perle, signorile e raffinata nel new-look postbellico alla Dior. Berta, occhi in macchina e riso sincero, parla insomma di sé e del suo viaggio attraverso epoche e stagioni. Specchio di una crescita e di un divenire che non è più una questione privata, ma l’allegoria della vita di tutti. Non stupirebbe però che, a questo punto, Serena Zanardi, forte dell’ironia che la distingue, decidesse di invertirne le sorti. E, come nella novella di Francis Scott Fitzgerald Il curioso caso di Benjamin Button, ribaltasse la sequenza degli scatti e degli eventi, trasformando l’approdo in un punto di partenza, la fine come il principio di un nuovo viaggio, di una nuova esistenza.



I luoghi della mente di Isabella Mara

Che cos’è un luogo? Sulla definizione di questo concetto si è esercitata la riflessione di numerosi ambiti del sapere contemporaneo, e al di là delle differenze e dei distinguo necessari è possibile individuare alcuni elementi comuni: innanzitutto, il luogo non è necessariamente un “posto”, ossia una delimitazione strettamente geografica. Possiamo definirlo, piuttosto, come una porzione di spazio – sia esso fisico, mentale, rappresentato o virtuale – caratterizzata da una coerente, intima dimensione di senso, e da un’espressione sensibile di tale dimensione. In termini linguistici, insomma, se il posto è definito in modo meramente oppositivo, come parte di un “tutto” che altro non esprime se non la propria differenza rispetto alle altre parti, il luogo esprime invece

Kevin McManus

un’ontologia, una natura intima.

Critico d’arte

Questa considerazione iniziale ha due enormi conseguenze: innanzitutto il luogo non esiste a priori, ma è creato e percepito da un essere capace di concepire il senso, è una categoria umana. In secondo, luogo, esso non necessita di ampi spazi reali, di grandi capitali di denaro o di importanti decisioni politiche: ha invece la gratuità dei sentimenti, dei pensieri e dei sogni. Purché chi lo crea sappia individuarne un centro, un’unità di senso caratterizzante. Isabella Mara sceglie come suoi luoghi personali i libri, ritagliati fino ad assumere la forma archetipica della casa-architettura: come l’architettura costituisce un luogo nello spazio fisico, selezionando uno spazio preciso e separandolo dallo spazio circostante, così un libro costituisce un luogo nello spazio della mente, è un’architettura del pensiero, e dell’architettura conserva l’articolazione, la profondità e la dimensione poetica. Ma c’è qualcosa in più: Isabella Mara non sceglie libri presi appositamente dagli scaffali di una libreria, oppure ordinati tramite il web. Sceglie libri che lei stessa ha letto, e che conservano le tracce delle sue dita, del suo sudore, i segni delle sue matite e dei suoi evidenziatori, forse anche le macchie di ciò che ha mangiato e bevuto mentre leggeva. Il luogo che l’artista sceglie per sé è casa. La maggior parte dei nostri viaggi, in fin dei conti, ha come approdo la soglia familiare di casa nostra, e come nella lettura di un libro non è la meta a contare, ma ciò che abbiamo raccolto durante il viaggio. Casa, qui, è l’insieme dei pensieri, delle parole e delle immagini che hanno costellato il viaggio, quella cultura che ci rende umani e che ci segue ovunque andiamo.


Non è solo una bella scultura, l’opera con la quale Mario Scudeletti si è classificato al secondo posto; è anche

Approdar_si

metafora di un altissimo messaggio, fondamentale soprattutto di questi tempi: riconosce il valore della formazione culturale dell’uomo. Ancora più interessante il fatto che questo lavoro si sia posizionato ex aequo con quello realizzato da Isabella Mara: entrambi hanno chiuso con un messaggio positivo l’ultima tappa di questa edizione triennale del Premio Arti Visive San Fedele. Si iniziò a chiedere agli artisti da dove partissero, per poi interrogarli sul senso del loro viaggio; infine, ecco il difficile quesito: dove approderete? Tanto l’opera di Scudeletti quanto quella di Mara, diversamente, hanno risposto: “al sapere, allo studio”. Bisogna ricominciare a leggere. A leggersi. A voler leggere l’altro, “mistero affascinante e spaventoso: da qui nasce il mio essere visionario”, precisa Scudeletti. La sua sensibilità poetica lo ha spesso portato a scegliere oggetti comuni e quotidiani, “che tutti conoscono e hanno davanti agli occhi”, precisa l’artista, per esprimere concetti di profonda complessità: noto il ciclo di opere create a partire da assemblage dei volumi dell’enciclopedia “Conoscere”. Luogo in cui il bambino inizia ad apprendere nozioni e dati che sarebbero ben poca e sterile cosa senza la spiritualità e la consapevolezza raggiunte nel processo di crescita e di maturazione, il vecchio, conosciuto, amato e temuto banco di scuola è un elemento che ritorna nella ricerca di Scudeletti: su di esso l’artistabambino può esprimere la propria creatività irrequieta incidendone la superficie, trasformandolo in mappa misteriosa e labirintica, suggerivano alcune opere realizzate qualche tempo fa. Oggi il banco di scuola diventa approdo e al contempo punto di partenza di un nuovo viaggio; rampa di lancio dalla quale ogni essere umano potrà spiccare il volo verso l’elevazione dell’anima e della mente. Ecco allora il curvarsi del tavolo e il suo innalzarsi, slanciandosi sino al soffitto, e forse anche oltre. Così l’opera, che unisce alla leggerezza plastica un forte impatto visuale, dialoga con la più ampia produzione dell’artista, caratterizzata frequentemente da trasformazioni e distorsioni delle immagini e degli oggetti attraverso operazioni di collage o di modificazione dei materiali compositivi. Quale oggetto quotidiano ripensato e trasformato da una energia dirompente e visionaria, il banco di scuola di Scudeletti si colloca poi lungo gli itinerari tracciati dai linguaggi dada-surrealisti, transitando attraverso le poetiche poveriste e ricordando gli insegnamenti trasmessi dai più vicini riferimenti, tra i quali Eva Marisaldi, Robert Gober e Damien Hirst. Linguaggi che l’artista impara a conoscere, per trasformare e stravolgere, sul banco di scuola. E della vita.

Ilaria Bignotti Critico d’arte




Tra acqua e cielo l’approdo infinito

Alessandro Mason è un ideatore di sculture dal carattere peculiare: l’artista vuole che funzionino come macchine – lui stesso le qualifica spesso in questo modo – intendendole come veri e propri strumenti che intercettano, con il loro funzionare reale, le dinamiche dell’ambiente naturale in cui, delicatamente, si inseriscono. La sua scultura supera la sua canonica staticità e, acquisendo una certa delicatezza musicale che fu di Melotti e quella sintesi e semplicità formale di Brancusi, danza, risuona, fluttua e vibra negli elementi dell’ambiente, riportando l’attenzione dell’uomo alla coscienza degli invisibili e imperturbabili equilibri della natura. Le superfici lisce dell’ottone – materiale prezioso e lucente, certamente un simbolo – carezzano il vento,

Matteo Galbiati

sfiorano l’acqua, cullano il paesaggio. Come poetici parafulmini catalizzano e accentrano su di sé gli aspetti di

Critico d’arte

un dialogo e un rapporto troppo spesso dimenticati. Mason, con l’opera presentata in quest’occasione, guarda al mare e all’orizzonte, cercando quel paesaggio da sempre indelebilmente inalterato allo sguardo dell’uomo. Il mare, il cielo e l’orizzonte a dividerli. Uguali nei millenni. Uno sguardo da artista romantico che trova, nel pieno della nostra contemporaneità rutilante, la forza di convincere lo spirito e la mente a rallentare, a fermarsi e ad osservare la poesia e la spiritualità accesa nella natura. Mason ci riporta alla conoscenza di quello che attorno a noi è sempre esistito e che rappresenta – e ha rappresentato – il luogo del nostro essere e scoprire. Danza quindi quest’opera nel mare e lambisce, con le sue braccia fluttuanti, ora l’acqua salata, ora il vento veloce. Vive la scultura la sua esperienza nel luogo reale, raccogliendone tracce con cui testimonierà di esserci stata, indossando questi segni – quasi cicatrici – a testimonianza delle proprie vicissitudini. Racconta il suo essere stata fisicamente nel mondo. Narra di averlo toccato. L’opera s’intende quindi sempre divisa tra due piani distinti eppure tanto legati: uno materiale con l’inserimento fisico e dinamico nella natura e l’altro spirituale, con la voglia di elevarsi ad una condizione di libertà superiore. Ruota, si agita questa scultura nel punto in cui cielo e acqua arrivano alla terra. Continua a farlo nel luogo asettico della sua esposizione, vivendo quegli istanti nell’immaginazione di chi osserva. Vive la scultura sempre là dove la tensione della ricerca anela alla calma del proprio approdo attraverso il viaggio di scoperta, lì dove è stata e là nell’altrove della sua presenza. Un viaggio il cui termine quindi resta sempre lontano, tanto prossimo quanto distante da quella riva che viene solo lambita. Oscilla la scultura, torna e ritorna tra il ribollire dell’acqua, che lambisce il cielo diventando vento, e l’aria, che s’increspa come bruma salata sulla superficie del mare. Un ciclo continuo, inalienabile, tra presente, passato e immaginazione. Il naturale approdo infinito di quel viaggio di scoperta che il pensiero dell’uomo fa cominciare là dove pareva averlo appena terminato.



Omphalos Francesco Arecco

L’ombelico accoglie, esattamente come l’Arca, altra opera presentata alla Galleria San Fedele da Francesco Arecco in un passato recente. Che si tratti di accogliere una vita ancora in attesa di nascere o l’umanità intera, in fondo è un dettaglio. L’essenziale è il gesto di ospitalità verso l’altro, l’essenziale è proteggere ciò a cui più si tiene al mondo. Omphalos, esattamente come Arca, ha una forma tondeggiante, semplice e ancestrale. Esattamente come Arca rimanda a concetti presenti in culture antiche, sulle quali si fonda e dalle quali discende la nostra, e contenuti in testi che convenzionalmente definiamo classici, per quanto spesso conservino un’attualità impressionante.

Michele Tavola

La ricerca di Arecco, negli ultimi anni, ha dimostrato notevole rigore e ha saputo riflettere, con costanza, su

Critico d’arte

alcuni concetti che gravitano intorno al tema del Sacro e, più in generale, al senso della vita dell’uomo. Il titolo e le forme dell’opera rimandano esplicitamente all’Omphalos di Delfi, l’antica pietra scolpita, dal grande valore simbolico, che si trovava nel Tempio di Apollo e che rivendicava quel luogo come l’ombelico del mondo. Ma, rispetto al modello, fonte di ispirazione dichiarata, questa scultura non è un semplice omaggio e presenta sue peculiarità formali e di senso. Innanzitutto cambia il materiale: invece della pietra il legno, organico, caldo e flessibile. Più adatto per un organismo che sembra in procinto di dischiudersi, di generare qualcosa e, in ogni caso, certo di non voler rimanere rigidamente chiuso in se stesso. Di conseguenza cambia anche il suo significato. Più che un approdo, come di fatto era l’Omphalos delfico, la creazione di Arecco appare piuttosto come un punto di partenza, nascita di qualcosa che certamente non ha ancora trovato la sua dimora: emblema dell’uomo moderno, in continua ricerca e teso verso una dimensione che trascenda quella del quotidiano, dell’oggi, del qui e ora, ma non ancora giunto a trovarla né a comprenderla.


Restano cose, oggetti senza soggetto che possano garantirne l’appartenenza. Cose andate perse e ritrovate da mani che non sono in grado di riparare la vita offesa, di ricostruirne l’identità. Sono destinate a rimanere

Il grado zero delle cose Massimiliano Gatti

anonime, senza proprietario, eppure sono oggetti riconoscibili e come tali rientrano in una certa categoria: una teiera, un bicchiere da tè, un pezzo di stoffa , sono esistiti, in uso presso una certa civiltà, con un loro vissuto che dà sapore alla materia di cui sono fatti. La loro iscrizione temporale conferisce carattere ad oggetti altrimenti asettici, un portato culturale che evoca un racconto, la storia di persone andate perse. Le fotografie di Massimiliano Gatti seguono il corso di questa lettura. La loro attenzione per la fissità sospesa dell’oggetto, senza ambientazione e referente umano, ne accentuano la rilevanza fisica, i connotati estetici,

Daniele Astrologo

indispensabili per sviluppare un senso del racconto. Nessuna interferenza da parte dell’artista. L’anonimia va

Critico d’arte

preservata così come il distacco dalla dimensione emotiva. L’oggetto reca già il proprio dramma, quello dei migranti e dei profughi sbarcati a Lampedusa, uomini degni di attenzione e di rispetto di cui si sono perse le tracce. La storia va raccontata senza ricorrere alla retorica del volto esotico o del paesaggio deserto, con la sola presenza dell’oggetto. La sua forza ostensiva, fisica e metafisica ad un tempo, conferisce dei significati che sconfinano nel simbolico e conducono il lettore ad un approdo senza spiaggia. La presa di coscienza di una realtà drammatica condensata nella bellezza dell’oggetto fotografato dà dignità estetica a quella cosa, a quel vissuto e, di riflesso, getta luce sull’individuo che ha maneggiato la teiera.


Rigenerazione

Nel disordine contemporaneo in cui ci sentiamo immersi, dove ogni punto di riferimento sembra mutevole e quindi inservibile, anche le parole subiscono un processo di trasformazione sempre più rapido, e non indolore, che ne altera l’identità e la riconoscibilità. Linguaggi si sommano a linguaggi, segni sbocciano imprevisti senza che sappiamo attribuire loro un significato. Uno sconvolgimento così polverizzato da diventare rumore bianco. Cento fotografie monocrome grigie documentano la cenere che resta dopo che altrettanti libri sono stati sacrificati dall’autore a una specie di rito che sembra una certificazione di realtà siglata dal marchio della caduta. Il nostro sguardo non può evitare di esplorare questa sequenza muta alla ricerca di indizi impossibili,

Massimo Marchetti

segni che in un qualche modo riflettano un frammento della forma in cui prima del trauma carta e inchiostro

Critico d’arte

avevano trovato il proprio equilibrio. La griglia di polaroid cerca di restituire ordine e stabilità a ciò che è sul punto di svanire, una struttura attraverso cui leggere nell’opacità. Il rogo di libri è un’immagine con cui diamo abitualmente una forma incisiva a situazioni di intolleranza e di integralismo, ma d’altra parte sotto quel deposito inerte si intravvede una metafora biblica. Il Mercoledì delle Ceneri, principio del periodo quaresimale che prelude alla Pasqua, non rappresenta forse l’inizio di un cammino di rinascita? La materia ridotta in cenere, leggera appena meno del fumo da cui è stata sciolta, è giunta al grado finale della propria visibilità. Visibilità, non vita. Il passo successivo sarà quello della dispersione, ma da lì comincerà l’infiltrazione ad arricchire altri corpi e ristabilire convivenze. Nella cenere si è esaurito il fuoco, ma dalla cenere si ricomincia.



Interconnessioni tra micro e macro: l’approdo di auroraMeccanica

auroraMeccanica è un gruppo artistico attivo dal 2007 che realizza videoinstallazioni interattive per generare significati di “responsabilità” su temi di riflessione universali. Il pubblico è chiamato in gioco attraverso l’interazione gestuale con elementi materiali, tangibili, tappa fondamentale per il completamento concettuale dell’opera immateriale e visuale. Per il Premio Artivisive San Fedele auroraMeccanica presenta un lavoro intitolato Esigue dipendenze costituito da una proiezione antistante una vasca d’acqua che nasconde sul fondo un sensore capacitivo. Quando lo spettatore sfiora con le dita l’acqua, il sensore rileva la presenza della mano e manda un segnale al computer

Chiara Canali

attivando il video da proiettare.

Critico d’arte

Con questo lavoro gli artisti hanno inteso riflettere sul percorso di avvicinamento, indagine e conoscenza che l’uomo attua sulle cose del mondo. Questa indagine, nella storia dell’umanità, è sempre avvenuta attraverso la via percettiva del tatto. Anche secondo Bruno Munari la conoscenza del mondo, già dall’infanzia, è di tipo plurisensoriale, e tra tutti i sensi il tatto è quello maggiormente usato. Per auroraMeccanica il tatto è principio e approdo di questa esplorazione e l’acqua costituisce il conduttore tra il tocco della mano e il sensore capacitivo. In meteorologia, infatti, con “approdo” si intende il giungere a terra di un ciclone tropicale o di una tromba marina dopo essere stato sull’acqua. In Esigue dipendenze il contatto diretto con l’acqua è richiesto allo spettatore e diventa condizione indispensabile per fare esperienza delle cose, prima ancora di vederle. La reazione al gesto dello spettatore è la visione luminosa di una sorta di macrofotografia molecolare dell’acqua che appare come il firmamento del cielo. L’ingrandimento ottico delle gocce d’acqua, rielaborate al computer tramite microscopio digitale, diventa testimonianza dei collegamenti fisici e psichici che sussistono tra cielo e terra, tra astri ed esseri umani. Una rete di relazioni che si rivela metafora delle plurime interconnessioni tra micro e macro, tra i meccanismi naturali e i processi umani, tra i fenomeni di un ecosistema e le relazioni esistenti nell’universo. L’uomo è il microcosmo che contiene in sé qualcosa di tutte le creature che esistono nell’universo (macrocosmo). Con Esigue dipendenze auroraMeccanica ci dimostra paradossalmente quali e quante dipendenze sussistono tra micro e macrocosmo e che la conoscenza materiale e spirituale sia della natura visibile che di quella invisibile deve essere acquisita con la percezione attiva e l’esperienza pratica.


PREMIO ARTI VISIVE SAN FEDELE STATUETTA REALIZZATA DA LUCIO FONTANA NEL 1951 PER I PREMI DEL CENTRO CULTURALE SAN FEDELE GIURIA PREMIO GIOVANI ARTISTI 2012/2013 CRISTINA CHIAVARINO ANDREA DALL’ASTA SJ ROBERTO DIODATO GIACINTO DI PIETRANTONIO VOLKER W. FEIERABEND PAOLO LAMBERTI GIUSEPPINA PANZA DI BIUMO HIDETOSHI NAGASAWA LUISA SOMAINI MAURIZIO ZUCCARI DANIELE ASTROLOGO ILARIA BIGNOTTI CHIARA CANALI MATTEO GALBIATI CHIARA GATTI MASSIMO MARCHETTI KEVIN MCMANUS MICHELE TAVOLA


vincitori 1. SERENA ZANARDI 2. ISABELLA MARA E MARIO SCUDELETTI 3. ALESSANDRO MASON

menzione speciale MASSIMILIANO GATTI E GASPARE


SERENA ZANARDI

TRENTATRÉ 1942-1975 2013 terracotta dipinta con tempera, cenere e ruggine, fotografie d’epoca 10 busti di 20x13x10 cm cad installazione variabile





ISABELLA MARA

CITAZIONI 2013 installazione, libri e carta pergamenata 250x70 cm



MARIO SCUDELETTI

SENZA TITOLO 2013 banco scolastico modificato, lamina plastica, profilo in legno tinteggiato a gommalacca 350x70x90 cm



ALESSANDRO MASON

BRANCUSI ALLA RADIO 2013 ferro e ottone 310x50x190 cm Foto Alessio Guarino



MASSIMILIANO GATTI

LAMPEDUSA O DELL’ESTESO DESERTO #2 LAMPEDUSA O DELL’ESTESO DESERTO #4 LAMPEDUSA O DELL’ESTESO DESERTO #5 2013 stampa fine art Giclée su carta cotone Photo Rag con cornice 70x70 cm



GASPARE

UNTITLED (LIBRARY) 2013 100 fotografie istantanee installazione ambientale 10,8x8,6 cm cad



PREMIO PAOLO RIGAMONTI STATUETTA REALIZZATA DA HIDETOSHI NAGASAWA NEL 2008 PER IL PREMIO PAOLO RIGAMONTI DELLA GALLERIA SAN FEDELE GIURIA PREMIO PAOLO RIGAMONTI 2012/2013 GIORGIO BRAGHIERI RICCARDO CRESPI ANDREA DALL’ASTA SJ GABRIELE CACCIA DOMINIONI MANUELA GANDINI GIOVANNI PELLOSO GIOVANNI E ALINE RADICE FOSSATI EMILIO, MARIA TERESA E MICHELE RIGAMONTI


premio paolo rigamonti FRANCESCO ARECCO


FRANCESCO ARECCO

ÒMPHALOS 2012 pioppo e abete rosso di risonanza, cera d’api 90x80x80 cm




selezionati AFRAN AURORA MECCANICA CALDARA COGLIANDRO ROMANO


AFRAN

L’APPRODO 2013 performance video 8‘52”



AURORAMECCANICA

ESIGUE DIPENDENZE 2013 videoporiettore, vaschetta, acqua, computer, sensore capacitivo installazione



CLAUDIA CALDARA

ALLA LUCE DEL GIORNO 2013 video-installazione 50’ ca



MAURIZIO COGLIANDRO

TREE 2013 libro d’artista legno e carta matt colour gr. 170 chiuso: 25x19x3 cm, aperto: 25x25x3 cm



FABIO ROMANO

FALLOUT 2013 calce su materiali di recupero installazione ambientale




Biografie degli artisti

Afran,

e collettive dal 2010. Vive e lavora tra

memoria, cercando un connubio tra

(Francis Nathan Abiamba)

Gavi e Milano.

arte e scienza.

Dopo aver frequentato l’Istituto di

auroraMeccanica

Maurizio Cogliandro

Formazione Artistica di Mbalmayo,

Nasce Pisa nel 2007. Nel 2008

Nasce a Bracciano (Roma) nel 1979.

si diploma in ceramica. Coltiva la

aurora si trasferisce a Torino dove

Studia fotografia presso il Leeds

pittura, sua grande passione, presso

apre, insieme ad altri artisti, l’Ohne

College of Art & Design di Leeds

gli atelier dei più grandi pittori

Titel Lab, laboratorio indipendente

e presso la Scuola Romana

camerunesi e congolesi. Nel 2006 si

di ricerca artistica sito nel cuore del

di Fotografia di Roma. Le sue

apre all’arte contemporanea grazie

quartiere San Salvario. L’estetica e la

foto esprimono un’attenzione

a Salvatore Falci, professore di arti

poetica si esprimono attraverso una

verso la realtà attraverso uno

visive all’Accademia di Belle Arti di

partecipazione attiva del pubblico,

sguardo intimista. Riceve diversi

Nasce a Bidjap, in Camerun nel 1987.

Carrara (Bg). Dopo numerosi concorsi stupore e coinvolgimento emotivo

riconoscimenti nazionali ed

ed esposizioni collettive, nel 2008

non sono il fine ultimo dei lavori

internazionali. Tra i premi vinti:

presenta la sua prima personale al

ma diventano chiavi di lettura

Attenzione Talento Fotografico FNAC

Centro Culturale Spagnolo di Bata, in

per una profonda riflessione etica

2009, Premio Pesaresi 2006 e Premio

Guinea Equatoriale, terra nella quale

prima che estetica del lavoro. Il

Canon 2005. I suoi lavori sono stati

si reca alla ricerca delle sue radici.

gruppo è composto da Fabio Alvino

esposti in diverse mostre personali

Questa mostra apre la porta a tutta

(1988), Roberto Bella (1983), Carlo

e collettive tra Italia, Francia,

una serie di esposizioni personali

Riccobono (1982), un foggiano, uno

Inghilterra, Germania, Austria,

e collettive tra Guinea Equatoriale,

spezzino e un milanese.

Polonia e Turchia. Nel 2010 pubblica il libro monografico Lidia, il cielo cade

Camerun, Spagna e in Italia, dove ora risiede. Attento alle problematiche

Claudia Caldara

(Postcart Edizioni), un diario intimo e

ambientali e alla tutela dell’identità

Nasce a Canosa di Puglia nel 1989,

privato sugli ultimi anni di vita della

culturale, usa il linguaggio delle

ha vissuto a Cerignola (FG) dove

madre. Vive e lavora a Roma.

opere pubbliche, quali murales e

ha conseguito la maturità classica.

installazioni, per rendere l’arte alla

Dal 2007 vive e lavora a Milano, ha

Gaspare (Gaspare Luigi Marcone)

portata di tutti.

frequentato il triennio di Pittura e

Nasce a Terlizzi (Bari) nel 1983.

Arti Visive in NABA conseguendo il

Si laurea nel 2006 in Storia e Critica

Francesco Arecco

diploma accademico di primo livello.

dell’Arte all’Università degli Studi

Nasce a Gavi, Alessandria, nel 1977.

Attualmente frequenta il biennio

di Milano, dove vive e lavora.

Compie studi classici e artistici,

specialistico in Arti Visive e Studi

La sua ricerca indaga il rapporto

giuridici, naturalistici. È avvocato

Curatoriali. La sua ricerca si basa

ciclico di distruzione e rigenerazione,

e autore in materia di energia ed

sull’analisi di esperienze che vanno

attraverso il fuoco, la cenere,

ambiente. Espone in mostre personali dal concetto di violenza a quello di

la scrittura e le stratificazioni di


materiali eterogenei. Principali mostre la propria riflessione personale.

pneumatici, elettrici e meccanici.

di Klee, Giacometti e De Dominicis.

personali: Gaspare Opera Prima,

Partecipa a numerose mostre

Collabora con NABA, Nuova

La modifica e l’intervento sul

(Lakeside Art Gallery, Verbania, 2010),

personali e collettive.

Accademia di Belle Arti,

“reale” sono state le caratteristiche

di Milano e partecipa a progetti

principali della sua opera. Mentre

Gaspare Logos, (Raffaella De Chirico Galleria d’Arte, Torino, 2012), Gaspare

Isabella Mara

artistici singoli e di gruppo.

mantiene costante il lavoro sui

Works/Words 2008/2012 (Galleria

Nasce nel 1977. Vive e lavora a

Ha lavorato per/collaborato con

libri, soprattutto sulle enciclopedie,

Melesi, Lecco, 2012). Principali

Milano. Ha frequentato l’Università

Antony Gormley, Sou Fujimoto,

ha trovato una via di espressione

mostre collettive: Superfici Attive,

Statale, Facoltà di Lettere a Milano,

Aldo Cibic, Marco Ferreri.

efficace attraverso il collage e le carte

(Galleria Spaziotemporaneo, Milano,

la Kunstiakadeemia a Tallinn e si

2011), Linea Mentis. Irma Blank-Eva

è laureata all’Accademia di Brera

Fabio Romano

a un video e a una performance che

Sørensen-Gaspare, (Raffaella De

a Milano. La sua ricerca parte da

Nasce a Gela nel 1978, vive e lavora

ruotano attorno all’idea di alter-ego.

Chirico Galleria d’Arte, Torino, 2011),

tematiche sociali ed indaga la

a Bologna dove si è diplomato presso

Dall’ultimo anno accademico inizia la

WOP! - Works on paper, (Fabbri

complessa relazione che l’uomo

l’Accademia di Belle Arti nel 2012.

sua esperienza espositiva.

Contemporary Art, Milano, 2012).

ha con le immagini e con la

La prima mostra Sinestesie è nel

percezione ordinaria del quotidiano.

2007 al Palazzo delle esposizioni di

Serena Zanardi

Massimiliano Gatti

I suoi interventi si sviluppano

Faenza. Nel 2008 inizia a lavorare

Nasce a Genova nel 1978.

Nasce a Voghera, Pavia. Laureato in

principalmente con il disegno, il

come assistente per la oTTo Gallery

Dopo essersi diplomata all’Accademia

Farmacia e diplomato in Fotografia

collage e le installazioni. I suoi

dove conosce e collabora con artisti

di Belle Arti di Carrara frequenta

al Cfp R. Bauer di Milano, da diverso

progetti passati includono due

quali: Urs Luthi, Marco Tirelli, Piero

il corso di specializzazione in

tempo porta avanti numerose

residenze in Olanda (Oostereiland

Pizzi Cannella, Arcangelo. Nello stesso tecnologie e linguaggi del progetto

ricerche fotografiche sul territorio

Prison, Hotel MariaKapel – Hoorn,

anno diventa assistente per l’artista

fotografico contemporaneo

medio orientale. Fotografo al

2008), Giornateicontatè, (in

Luca Caccioni. Nel 2009 è presente

presso il CPFR Bauer di Milano.

seguito di missioni archeologiche in

collaborazione con Comune di Biella

alla mostra Open12 al Festival del

Da fine anni novanta espone in

Medio Oriente (dal 2008 al 2011 a

e Cittadellarte-Fondazione Pistoletto,

cinema di Venezia e nel 2013 a

mostre e concorsi in Italia e all’estero

Qatna, Siria e dal 2012 nel progetto

2010), Pass-Home (dal 2010), Estratto

Londra presso la Hanmy Gallery per

portando avanti la ricerca sul

PARTeN nel Kurdistan iracheno) ha

di Racconto Romano (Cantieri d’Arte,

Accademy Now.

rapporto tra fotografia, scultura

modo di vivere e approfondire la

Viterbo, 2012), Pipe City (Eu-Pa

conoscenza di quelle terre ricche di

Project, Jesolo, 2012-13).

ritagliate. Attualmente sta lavorando

e memoria. Mario Scudeletti Nasce nel 1980. Conclusi gli studi al

Storia e di storie. Con un approccio documentaristico ma lontano dal

Alessandro Mason

Liceo Artistico si iscrive all’Accademia

reportage, la sua ricerca spazia

Nasce nel 1983 a Treviso. Durante gli

Carrara di Belle Arti di Bergamo dove

dall’esplorazione del passato, dei

studi in architettura porta avanti una

frequenta il corso di Arti Visive con

resti e delle rovine degli antichi,

ricerca personale nell’arte, che ancora

Adrian Paci e poi con Eva Marisaldi. Si

fino all’osservazione della poliedrica

oggi continua. Realizza le sue prime

laurea con Umberto Cavenago e Elio

realtà contemporanea, suggerendo

macchine nel 2005, con movimenti

Grazioli scrivendo una tesi sull’opera



Altre opere Giovani artisti

Claudio Beorchia

Alex Bombardieri

Ottavia Castellina

WELCOME

SPIRA

(L)ENDING LINES

2013

2013

2012

video HD

piombo e cenere su tavola, marmo bianco di Afyon, lampade

34 libri rilegati a mano, contenenti ognuno una fotografia fine

audio mono

fluorescenti

art Giclée stampata su carta cotone con scritta a mano, sonoro

14’55’’

160x100x6 cm

a tre voci 23,5x15,5x1 cm cad, installazione

Margherita Cesaretti

Federico Comelli Ferrari

Tiziana Contino

SENZA TITOLO, dalla serie L’ultimo presente

IL MANZONI

ICONICOANICONICOANICONICO

2013

2013

2013

2 stampe giclée su carta fotografica

elaborazione fotografica, stampa flatbed su pvc

video

60x90 cm

200x170cm

10’,44’’


Davide Corona

Ettore Frani

12 GENNAIO

APPENA UN’AURORA

E IL SOLE È SEMPRE PUNTUALE TUTTI I GIORNI

2013

2013

2013

olio su tela

olio su tavola laccata

legno di salice, lana nera, cera d’api

20x30 cm

polittico

260x120x80 cm

Valentina Garbagnati

233x285 cm

Asako Hishiki

Silvi Inselvini

Martina Jelo

RECIPIENTE DELLE MEMORIE

MAPPA

ALL’ORIGINE UN FILO DI LUCE

2013

2013

2013

matita e china acquerellata su tessuto

punteruolo su carta

olio su tela

85x70 cm

diametro 170 cm

180x234 cm


Marco La Rosa

Lorenzo Manenti

Allegra Martin

SENZA TITOLO (0-13)

QUANDO SARETE INNANZI A DIO

PIM

2013

2013

2013

cemento armato e cera liquida

nastri di carta, nastri isolanti e vernice su tavola

inkjet print su carta

dittico, 50x50 cm cad.

214,4x214,4 cm

50x40 cm

Alice Pedroletti

Michele Pierpaoli

Giulia Roncucci

DERIVO 90 VOLTE

KORPER

L’ORIZZONTE

2013

2013

2012

90 frames/stills da video su tavole

tecnica mista su carta

fotografia digitale

stampa digitale su carta elettrostatica

70x100 cm

30x45 cm cad




Premio Arti Visive San Fedele 2012/2013

“E QUINDI USCIMMO A RIVEDER LE STELLE” L’APPRODO

Interventi di: Giovanni Chiaramonte Adriano Guarnieri Silvano Petrosino Roberto Del Riccio SJ

Durante il Premio si è svolto un ciclo di conferenze per approfondire il tema proposto. Alcuni testi che compaiono in catalogo sono trascrizioni degli interventi, non riviste dagli autori se non per l’apporto delle note.


Cos’è capace di fondare il canone occidentale nella visione italiana, nella sua terra e lingua? Tenterò di indicare una via, un metodo concretissimo per chi lavora tra cinema, fotografia e musica. Mi ha sempre colpito l’avventura di Francesca Woodman: è una delle più importanti fotografe americane della generazione successiva alla mia. Lei fu condotta dai suoi genitori, dal Colorado a Firenze, all’età di sei anni, e lì fece i primi cinque anni di scuola. I suoi genitori avevano grandi aspettative; speravano che diventasse una grande artista e in questa speranza le fecero trascorrere il tempo decisivo dell’infanzia, quando si impara a leggere e scrivere, a Firenze. Lei ci ha lasciato troppo giovani ma la lezione della sua vita è straordinaria: a volte sopravvivere a quello che si comprende del mondo è davvero difficile. Oltre a Francesca Woodman mi permetto di dedicare questa brevissima testimonianza a Hans Zimmer. Ritengo la sua opera una grande lezione per chiunque debba affrontare il tema della navigazione nell’occidente. L’approdo è un termine legato alla marineria e normalmente l’approdo è il punto di arrivo di una navigazione. Quindi abbiamo questi due punti: Hans Zimmer, che è erede della cultura musicale tedesca e va in America, e Francesca Woodman che fa il processo opposto, dall’America viene in Europa, a Firenze, e all’interno di questa via comprende le ragioni del canone occidentale. Riprendo il percorso là dove Silvano Petrosino mi dice averlo lasciato, ed è il rapporto tra il vedere le stelle e la

grande avventura dello sguardo umano che esce a vedere le stelle, perché esce dalla condizione animale pur rimanendo un corpo - sangue, muscoli, nervi, respiro - con uno sguardo che però è totalmente altro. Cercherò di spiegare cos’è la dimensione straordinaria di questa macchina, che può essere una macchina fotografica, una telecamera, una cinepresa, e che è dentro il canone occidentale. Io parto da quello che si vede. Prima ancora della macchina il suo strumento primo è un cerchio, come i nostri occhi. Il problema è dentro il cerchio, dalla cui comprensione si può arrivare al canone occidentale: dentro questa figura che è il cerchio dell’occhio, del sole, della luna piena, esiste una proporzione matematica. Il canone occidentale nasce quando nel mondo greco si comprende che la forma del mondo, la figura, sono dentro questa proporzione. Vale per la musica, la visione, il suono, l’immagine e l’ascolto. Il canone occidentale scopre una fondamentale unità senza la quale non esisterebbe l’arte occidentale. La nota musicale nasce da una misura precisa di sette corde. È un grande mistero. L’uomo da una tartaruga o dal cadavere di un vivente estrapola dei muscoli, ne predispone sette in una misura metrica e questa poi diventa armonia sonora. Silvano Petrosino diceva che questa misura l’uomo la vede nelle stelle, e che è dentro il mondo. Mondo che la classicità greca chiama con la parola “cosmo”, ordine. I giapponesi hanno voluto fabbricare le

macchine fotografiche. Ma com’è oggi Tokyo? Una città occidentale. Esistono i samurai, le geishe, ma sono costumi e folclore. In realtà il perno della vita giapponese è occidentale. La Cina vuol fare cinema? La Cina vuol realizzare macchine fotografiche o produrre quelle della Apple? La Cina è diventata l’occidente. Questo canone va studiato e solo chi lo studia lo può usare. Oggi con le videocamere presenti sul mercato, tutti possono realizzare un video di alta definizione. Tecnicamente, se voi comprate l’ultima Nikon o l’ultima Canon, avete a disposizione una macchina capace di fare un video della stessa qualità, tecnica, delle fiction americane. Però qual è la differenza tra me e chi realizza il grande film Sherlock Holmes a Londra? Il fatto che il regista del film su certe cose ha compreso il canone occidentale meglio di me. Se negli Stati Uniti d’America traducono la Divina Commedia, non è solo un omaggio alla cultura poetica. È che l’America vuole, giustamente o ingiustamente, dipende dai punti di vista, l’egemonia. E solo chi ha questo strumento ha l’egemonia. Dante vede le stelle. Mosso dall’esperienza dell’amore, e dall’esperienza del tradimento del proprio amore, comprende che l’approdo della sua vita, cioè incontrare l’oggetto del suo desiderio e l’amore che l’ha mosso, vuol dire attraversare una peripezia drammatica. Nell’esperienza dell’umano alla luce corrisponde il buio. Lì nel crepuscolo, tra luce e buio, Dante incontra Virgilio. Ma Virgilio è la figura del mondo

L’APPRODO

Giovanni Chiaramonte Fotografo e storico della fotografia


antico, l’arte antica. Il mondo greco e quello romano capiscono che il mondo ha un ordine assoluto. Il problema non risolto dal mondo antico è la consistenza dell’io: se “io” rispetto a questa misura oggettiva, eterna, sono qualcuno o se il mio “io” è un’effimera escrescenza di questa oggettiva misura. Come posso usare le sette note che sono uguali per tutti, il Canone di Policleto, il Canone dell’architettura, la stessa macchina fotografica del mio amico Lorenzo ed io, la stessa Hasselblad, la stessa pellicola, e pretendere di avere un destino personale? È una domanda fondamentale. Il mondo greco romano conosce la tragedia. E in questa vicenda il libro Mimesis di Auerbach è fondamentale. A Hollywood, Auerbach lo fanno studiare a tutti, in tutte le scuole di eccellenza americana. Com’è che Alec Soth è diventato a quarant’anni un fotografo così famoso? Ha studiato in un college che costava settantacinque mila dollari l’anno e lì si studia Auerbach. Il canone occidentale si basa sull’esperienza dell’ordine, perché quest’ordine viene compreso e ripreso da ciò che vedete dentro la macchina fotografica, lo specchio. Magari Francesca Woodman, portata dai suoi genitori a Firenze, non ha avuto bisogno della mia lezione, per fortuna, perché lei passeggiando, andando a scuola passava ogni mattina in Piazza della Signoria e vedeva la statua di un famoso scultore, Benvenuto Cellini, che ha fatto una bella fusione di Perseo e della Medusa. Perché il problema dello

specchio nella tradizione occidentale è che tu riesci a comprendere quello che c’è dentro il cosmo, dentro la forma, la misura nella rappresentazione, nel disegno, nel calcolo. La tragedia antica nei rapporti tra i personaggi disegna e svela il percorso oggettivo delle azioni umane. I percorsi dei personaggi nelle tragedie sono matematici. L’egemonia politica del mondo greco, del mondo romano, del mondo americano, nasce dal comprendere quali sono i meccanismi, i dinamismi dell’umano; questo è anche alla base del come governi un esercito. Solo uno sguardo sulla tragedia dell’uomo -che è dentro l’uomo ma contemporaneamente al di là dell’uomo, nell’eterno e nella luce- può far comprendere e mettere in scena quello che mai l’arte dell’uomo, a parte il canone occidentale, è mai riuscita a mettere in scena: la morte. Perché dal canone greco non possiamo tirar fuori il telegiornale, dove in diretta vediamo Abu Ghraib e la morte dei soldati o dei ribelli siriani. Questo strumento, la macchina fotografica, nasce dall’esperienza di uno sguardo che da una parte è capace di rispecchiare la forma del mondo dato, la luce e l’ombra, la vita e la morte, ma dall’altra anche il cuore di chi guarda. Guardate anche quello che vide Dante nell’ultimo canto del Paradiso: Dante racconta che al culmine della sua ascesa verso le stelle vede nel cerchio misterioso di Dio un volto umano. Il canone occidentale si regge su questa ipotesi. Il fatto che io con questo strumento rappresento, faccio

presente un’esperienza, l’unica capace di spiegare l’umano, l’infinito che di per sé come nei quadri di Simpson, brucia la figura, la misura, perché l’infinito non ha misura, non ha figura. Simpson è un’artista contemporaneo che ha fatto dei quadri dove non c’è figura. La fotografia e la prospettiva nascono totalmente dentro la vicenda che si gioca in quella parte del mondo che è la Toscana tra Dante Alighieri, la cultura fiorentina, Brunelleschi che è uno dei più grandi studiosi di Dante del suo tempo, e Galileo Galilei il quale inventa l’obiettivo, con cui vediamo le stelle. C’è un libro introvabile di un grande fiorentino, Alessandro Parronchi, che descrive tutto il grande cammino che dalla visione di Dante Alighieri arriva all’invenzione dell’obiettivo da parte di Galileo. Se negli Stati Uniti d’America traducono Dante Alighieri e lo fanno studiare a chi deve fare questo mestiere, questo lavoro, è perché ne sono consapevoli. Andate a rivedere Malick, La sottile linea rossa, e come all’alba, nel combattimento decisivo, il comandante vedendo l’aurora, in greco parla ai suoi soldati. Perché a un comandante di una portaerei americana gli fanno studiare il greco e il latino. Lo strumento ottico è possibile perché questa macchina, dentro questa consapevolezza culturale, tiene presente il finito dell’umano, la sua carne, il suo sangue, e l’infinito dell’eterno, la misura eterna della sezione aurea, del Pi greco che ci rivela


la meraviglia del cerchio. La meraviglia della legge che fa nascere il mio occhio e nello stesso tempo il mio occhio personale. Perché quando io faccio una fotografia è il mio occhio che ha dentro questa misura armonica e contemporaneamente lascia la traccia di qualcosa che solo io vedo. Ecco poi la grande invenzione della fotografia: il tempo. Perché il tempo è una cosa che diviene, in maniera sempre diversa e la fotografia e il cinema genialmente, possono suggerirci ed avere dentro questa apertura al tempo. Questa macchina ha un’impronta, è scienza, matematica. Dovete studiare le proporzioni armoniche che governano il formato dell’immagine che volete usare; quindi dovete studiare le opere dei pittori, dei fotografi e dei registi che usano i diversi formati di rettangolo. Il pianoforte, la chitarra, il violino, escono da una civiltà che in questa forma, in questa misura, ci crede. Philip Glass per le esecuzioni delle sue opere chiama un grande interprete, il violinista McDuffie. E lui cosa usa? La chitarra elettrica fatta nel Kansas? No, usa un violino fatto nel 1700 in Italia! È evidente che tra una facciata della chiesa di Cremona, di un edificio di Mantova ed il violino ci sta un rapporto matematico precisissimo. Ma questa macchina la posso usare in maniera personale, unica e irripetibile, solo se ne conosco fino in fondo la sua matematica. Questo è il paradosso dell’occidente. Non credo si possa parlare di fine dell’occidente dato che tutto il mondo ormai è occidente, perché usa queste macchine, perché

l’occidente ha scoperto qualche cosa che è universale, scientifico, matematico, scritto nella materia; la matematica, la scienza, saranno stati una scoperta dell’occidente ma valgono per tutto l’universo finché c’è. L’altro giorno ho rivisto dopo anni Al di là delle nuvole, di Michelangelo Antonioni e Wim Wenders. Wenders aveva visto le foto di Ghirri. Fa un intermezzo nella riviera ferrarese e riprende la spiaggia come nelle foto di Luigi Ghirri. Nelle scene di questo film, nell’esperienza dell’apertura che si ha arrivando dalla pianura sul Mar Adriatico d’inverno, il vento comincia a muovere la sabbia, il mare e la terra sono un’onda unica con la musica degli U2. È oggettivo quello che io sperimento ed è la grandezza dell’occidente. Un’esperienza che io, venticinque anni dopo, posso rivivere: rappresentazione. Quell’opera in me arriva attraverso la conoscenza che l’artista ha. Non cadete nella menzogna romantica, direbbe René Girard. L’arte è sempre dentro una conoscenza fisica del mondo. Questa macchina, dovete davvero conoscerla, diventare tutt’uno. Il problema è comprendere come l’immagine si forma dall’obiettivo. Il problema è che tra vedere ed essere c’è un rapporto. Un rapporto che è quasi un’identità. E allora il percorso che ognuno di voi dovrà fare è quello di Dante, di Ghirri, quello di tutti i fotografi. Io vi suggerisco di approfondire in maniera fondamentale Alfred Stieglitz, la sua teoria dell’equivalente, Minor White che spiega bene cos’è questo equivalente fino ad arrivare a Wim Wenders.

La pellicola ed il digitale sono in mezzo tra il mondo e l’infinito che sono io. Stieglitz ci dice che la fotografia è un equivalente perché rispecchia il mondo e rispecchia me. E i due punti, il mondo ed io, siamo infiniti. Il problema è che se tu non hai dentro un modo per mettere a fuoco la luce, come la macchina, la tua immagine non c’è. All’inizio del mio lavoro Francesca Woodman era ancora viva, non aveva ancora saltato da quello specchio che è la finestra, ma quella fine l’aveva fatta una grande fotografa, Diane Arbus. Ricordo che Diane Arbus lavorava con l’Hasselblad quindi usava il formato quadrato. Il problema fu che lei da un certo momento in avanti vedeva solo il buio del mondo, il lato mostruoso, mortale. Non riuscì, Diane Arbus, a vedere più l’infinito, perché l’infinito si regge solo se è connesso ad una cosa che si chiama eternità. Se io fotografo il mio volto, il tuo volto, Susan Sontag direbbe “che grande menzogna che hai fatto”. È perché tra cent’anni saremo polvere. Sontag dice “la fotografia è la più grande menzogna” perché là dove sono la fotografia, e il cinema, la vita dissolve tutto. Il grande reporter Kevin Carter è morto suicida anche lui perché ad un certo momento riflettendo sul suo lavoro e sulle sue immagini e sui proiettili che uccidevano le persone che fotografava, comprende che lui era come quel proiettile. Non ha retto. Perché lui coincideva con quell’atto omicida. La vicenda di Carter ci fa capire perché in Grecia il canone della tragedia antica vietava di mettere in scena l’atto


di dare la morte. Perché se no tu ne diventi prigioniero e schiavo. Ci muori anche tu. Noi possiamo fare quell’atto, come dice Auerbach, perché c’è stato un racconto, quello della passione e morte di Cristo, dove il dare la morte non è l’ultima parola sull’uomo. È un problema del canone occidentale. Perché vuol dire che il punto di vista su cui tu guardi il mondo è quello della memoria eterna. Solo quella distanza infinita permette di mettere a fuoco l’atto del dare la morte. Io posso credere o no, non è un problema di fede. Così si può reggere un’opera come The Pacific, di Spielberg e Tom Hanks, persone vive, che mettono in scena tutta la guerra del pacifico. Questo è permesso proprio perché queste persone vive hanno superato la morte, non hanno coinciso con l’atto di dare la morte, quindi attraverso il loro racconto, Tom Hanks e Spielberg hanno potuto metterla in scena. Ognuno di voi per usare questa macchina dentro di sé, nella sua vita, deve affrontare questo problema. La vicenda dell’artista è drammatica, durissima. Ma non solo perché per scrivere la Divina Commedia, per scrivere tutte le canzoni di Morrison, c’è voluto del tempo. Ma cosa ci hanno messo gli U2 per fare le loro canzoni? E cosa ci vuole perché Dylan possa cantare quello che ha cantato e canta? Vuol dire che devi conoscere la musica, la fotografia, avere la tecnica talmente dentro che non esiste più apparentemente. E poi nella tua vita aver messo il mondo a fuoco. Mettere a fuoco, bellissima parola, fantastica:

forse non è un caso che la parola messa a fuoco indica esattamente questo punto, dove lì quando è a fuoco si accende la luce dell’amore, perché quando io metto a fuoco il suo volto io lo vedo quel volto perché gli voglio bene, e faccio clic. Sono molte le menzogne che raccontano sui libri riguardo la messa a fuoco, la profondità di campo; sono dentro un problema di comunicazione. Se Olivo Barbieri sfuoca, magari è perché non crede più alla forma del mondo; se il giapponese che ha fatto delle foto in quel modo, sfuoca i bordi per mettere a fuoco un punto di questo pianeta dove due si stanno dando un bacio, vuol dire che pur avendo una lingua assolutamente identica, Olivo Barbieri e questo giapponese hanno un percorso opposto. Quindi la tecnica è dentro un sistema che usa una macchina. E questa macchina, che abbiamo detto essere uno specchio, ci costringe a diventare persone che guardano il mondo attraverso la luce, e per questo lo possono mettere a fuoco senza morirci. Alla fine, il male che c’è nel mondo, questo obiettivo, che è uno strumento galileiano, te lo fa vedere davvero. Richard Avedon nasce a New York ma nella sua autobiografia “fotografo” si fa nascere a Palermo. Avedon non mette come prime immagini della sua autobiografia le fotografie che lui fa alla sua famiglia ricca, ma Palermo, la Cripta dei cappuccini, la festa di Santa Rosalia… Il rapporto con la morte che ha la cattolicità barocca.

La grande scena. Ed Avedon in tutta la sua autobiografia ogni venti foto mette sempre una foto fatta alla Cripta dei cappuccini di Palermo. Quartultima foto, un cadavere, poi un ritratto di Ezra Pound, il grande nemico poiché lui è ebreo e Pound fu fascista fino all’ultimo, poi ancora il ritratto del padre Isaac, Isacco. Il problema è che questa macchina necessita di risolvere dentro il nostro cuore la grande domanda tra luce e ombra, tra bene e male. Avedon è riuscito a mettere vicino, nella sua autobiografia, il ritratto del poeta che è il suo nemico per eccellenza, il fascista Ezra Pound, ed il padre. Gli americani quando hanno occupato il nord Italia, hanno messo Pound in un pollaio nel Camp Derby a Pisa, e lui lì ci scrisse i famosi Canti pisani, e poi gli han dato l’ergastolo. Pound è uscito solo perché alcuni importantissimi premi Nobel per la letteratura hanno convinto le autorità che Pound era pazzo; ed è il problema dell’occidente. Era pazzo Pound? Pound aveva fatto una scelta sbagliata, una scelta per il buio. Perché non si ha il coraggio di dirlo? Pound invece nel ritratto di Avedon è questa scelta, e Avedon che sta dalle parte della luce è in grado di fotografare ciò che è più lontano da lui, infinito rispetto a lui, il contrario, e lo mette accanto a suo padre, perché la sua realtà -che è la grandezza della fotografia e del cinema quando finalmente si fa per quello che è- è tutto questo, il bene e il male, la luce e il buio; ma questa realtà la devi vedere dalla luce. E allora sei davvero dentro la realtà.


Auguro a tutti di poter usare la macchina fotografica, il video, la cinepresa come l’hanno usata negli anni i grandi maestri, perché allora sarete davvero dentro la realtà e a partire dalla realtà che siete voi e questa è un cosa straordinaria. Sicuramente, non solo la mia origine siciliana per parte di famiglia, padre e madre, ma anche la vicenda di Richard Avedon, che è nella genealogia di Stieglitz fino in fondo, mi hanno potuto far fotografare per quest’opera, L’Altro Nei volti nei luoghi, uno degli miei ultimi lavori. Io ho fatto quello che ho potuto, l’approdo per chi fa la fotografia è quel punto nello spazio e nel tempo in cui avviene lo scatto, in cui l’infinito che è davanti e l’infinito che è dietro si congiungono per fare un’immagine. Questa immagine è un approdo perché è tra i due infiniti vivi. L’approdo è esattamente questa apertura all’infinito, ma che avviene attraverso quella finitezza che sono io, che non è annullata; il tempo e lo spazio della fotografia, del cinema, del video sono straordinari perché non cancellano l’atomo del tempo e dello spazio che lì sono immagine. Perché l’immagine ci sia, però, ci deve essere questa costante apertura ai due infiniti, se no c’è il simulacro, la copia. Non c’è più Marilyn Monroe come ritrae Avedon, non c’è più Pound come ritrae Avedon, c’è solo una donna nuda, pornografia, o un uomo vecchio, un cadavere. L’Altro parte da Palermo perché mi son detto che se anche Avedon, che

è il fotografo più pagato del mondo, parte da Palermo, alla fine della mia vita un lavoretto a Palermo forse lo dovevo fare anche io. L’Altro è il volto, come dice Wallace Stevens: “alzarsi al mattino, vedersi allo specchio, e capire che l’uomo vero non sei tu, ma l’immagine allo specchio”. Guardiamo davvero un volto? Quante poche volte nella vita succede? È difficile fare un ritratto. Nessuna macchina automatica è in grado di dare un ritratto, perché io davanti all’obiettivo non riesco normalmente a vedermi per quello che sono, solo l’Altro permette a me di vedermi. Attenzione a questo punto. Solo l’Altro. Per questo, tutta la parabola di Dante Alighieri, come dicono i commentatori americani, è un poema della visione. Per questo lo studiano negli Stati Uniti, perché l’occhio viene liberato dal volto di Beatrice. È l’amore che concretamente ti illumina e che permette la commedia, non la tragedia. Volto vuol dire facciata: ciò che insegna sicuramente la cultura siciliana del paesaggio è la facciata. Barocca. Wallace Stevens direbbe “finzione suprema”. E quindi in questa prima immagine c’è tutta la chiave, credo, del mio lavoro. Sapere che un’immagine, se c’è, ne contiene un’altra, e poi ancora un’altra. Mi sono consolato perché in Al di là delle nuvole la frase finale è proprio questa. L’immagine in immagine. Antonioni e Wenders dicono “immagine vera”, che nessuno vedrà mai. Questa complessità dell’umano, io non sono riuscito a risolverla come Avedon; forse sarò un barocco. Mi sono

sentito di declinarla solo in quattro immagini. Quattro immagini per ogni persona che ho incontrato, che dialogano tra di loro e restituiscono la loro “realtà”. Per ogni persona c’è un esterno come veduta urbana di zone della città dove abitano. Poi, siccome credo in quella cosa che si chiama libro, nello sfogliare le pagine ho riprodotto l’atto di aprire una porta, come un saluto, che dà spazio ad un trittico che a sua volta mostra un’altra apertura -nell’associazione dell’immagine del volto, al centro del trittico, con gli spazi delle loro abitazioni- e solo lì comprendere come un uomo è imprescindibilmente anche il suo mondo: i suoi oggetti, il modo con cui questi oggetti sono disposti e che formano l’alfabeto di una lingua sconosciuta che noi fotografi dobbiamo saper decifrare. In questo lavoro, per la prima volta in maniera consapevole, ho usato il controluce. Se c’è una debolezza nei miei lavori precedenti è il fatto che ho sempre rifiutato un canone hollywoodiano. Sapete che a Hollywood quattro inquadrature su cinque sono sempre in controluce leggero. Insomma c’è una grande sapienza. In questa immagine la luce scende su questo volto di uomo, e dove cade questo uomo nero è più bianco di me, è il punto più bianco, più luminoso di tutta l’immagine; e quando l’ho vista ho detto “ma pensa che cretino sono stato per anni”… E forse la luce della fotografia ha una ragione proprio in questo mettersi, tra virgolette, con il sole davanti, in alto in maniera tale che ogni cosa si disegni


sulla luce. È un’immagine quadrata, e se vedete e fate la diagonale, noterete che gli occhi di questa persona sono sulle diagonali. Nel momento in cui si usa lo strumento dell’occidente, che sia il quadrato, il rettangolo, le linee di forza devono stare sulle diagonali; il problema che tutto questo voi lo dovete giocare nel tempo reale, davanti ad un uomo che si muove, che sta fermo, che respira. Quindi lo schermo di visione deve diventare parte di voi. La lingua italiana, proprio perché ha per maestro Dante, ed io dico come anche l’inglese oggi, è una lingua che ha un rapporto profondo, intrinseco con l’atto dell’immaginazione. Da anni lavoro con un poeta che per altro è anche un musicista, Umberto Fiori, che fu il leader del complesso rock Stormy Six, che ad un certo momento passa dalla musica, non abbandonandola per sempre, alla poesia come forma primaria d’espressione. Il fatto è che Umberto Fiori in questo passaggio decisivo alla fine degli anni Settanta, inizio anni Ottanta, per tre quattro anni girò per Milano a piedi o in bicicletta con una Polaroid. L’atto dell’invenzione poetica, in lui musicista, nasce da un accordo con il mondo datogli dalla macchina fotografica polaroid a sviluppo istantaneo. Laddove la Polaroid è davvero una traccia del mio rapporto con il mondo perché in sessanta secondi quello sguardo istantaneo diventa un oggetto, uno specchio, un figlio del mio amore con la realtà. Umberto Fiori dice in una poesia:

“Con il suo volo di zagaglie, l’ombra si avventa a capofitto sull’incrocio, contro gli ultimi spigoli del vicolo, ancora canditi lassù da una lebbra di gloria. È immobile la battaglia, ferma nell’ambra d’oro della memoria, con tutta la salvezza, con tutto il pericolo”. Su quest’altra immagine, su questo trittico Umberto scrive: “Carichi di gazzelle, di là, nella savana di cerniere, fibbie e maniglie, neri come sportelli di apoteca, due cacciatori fiutano l’ora, il momento, il secolo. Ritta su un orologio una bimba di zucchero di qua, monta la guardia ad un idolo capovolto. Al centro sul suo trono il re dei continenti, dei saluti, dei calendari, delle foglie: il volto”. Su questa immagine, sul trittico che segue, Umberto Fiori dice: “Verremo su come ciuffi di erba, saliremo per i mattoni nudi, su in alto, fino alle scale di calcare e di granito che vanno senza ripari di vuoto in vuoto, d’aria in aria, su, su fino alla nostra patria di cobalto”. Ho ritratto una donna che non è bella, ma credo e spero che questa immagine le doni la bellezza che ho sentito in lei, il suo coraggio, l’aver attraversato continenti, i mari e abitare in una terra straniera, in una lingua che conosce poco, sapendo appunto che la patria di tutti è in alto, nel blu del cielo. Un grande tema, e lo sarà sempre, della visione ottica, di chi usa fotografia, cinema o televisione è il rapporto tra la macchina e l’uomo che la usa, la capacità di esprimere un’emozione o tendere alla neutralità, ed in questo la capacità di mettere in scena la morte. Pensiamo ad un film di culto come

L’occhio che uccide; o più facilmente 2001: Odissea nello spazio. È il grande tema. Interrogando uno dei protagonisti della Düsseldorf Schule, l’editore Lothar Schirmer, che sta pubblicando da anni tutta l’opera dai Becher fino a Struth, gli ho chiesto: “Lothar perché il successo mondiale di questi autori?”. Lui mi guarda e poi dice: “They are unemotional”. Sicuramente, dentro la cultura contemporanea c’è il mito della macchina, dell’uomo non come corpo ma come macchina, basti pensare figure come il cyborg o alla rete. È un discorso pericolosissimo, perché secondo me ed altri fotografi come Joel Meyerowitz, Robert Frank e Lee Friedlander, l’uomo non è una macchina. 2001 spiega bene tutto questo. Vi ricordo che Kubrick visse a New York vicino ad Avedon, nello stesso quartiere, e anche Kubrick diventò fotografo praticamente negli anni in cui Avedon comincia a fare il fotografo. Kubrick nasce fotografo e in 2001 ci racconta del calcolatore elettronico che vede l’uomo attraverso l’obiettivo. Il calcolatore e la macchina è come se mettessero in scena solo l’esterno del mondo, quindi il calcolo. Il sentimento non esiste. Non credo essere giusta la direzione ed il senso del fare duecentocinquanta foto dove per duecentocinquanta volte la distanza e l’organizzazione dell’inquadratura è sempre identica. Io dico che, in questo caso, c’è l’abolizione dell’uomo. La fotografia, nella mia esperienza, e dico anche nell’esperienza di alcuni fotografi che ho citato, parte invece dal complesso rapporto che


c’è tra l’uomo e il mondo attraverso la macchina, dove il sentimento non è mai sentimentalismo perché se si usa la macchina per quello che è, e quindi nell’esperienza che l’immagine è un atto di giustizia tra la misura del mondo e la misura che sei tu, allora il sentimento fa si che la fotografia che viene alla luce è unica e irripetibile. Misteriosamente, quando l’arte c’è davvero, c’è tutta la conoscenza dell’artista, la sua tecnica, cioè la legge matematica. Eppure l’opera trascende: misteriosamente è un dono per l’artista. La nostra esperienza è sempre dentro anche questo atto sentimentale, perché è quello che permette lo stupore, cioè il fatto che quella foto lì come ogni opera è un miracolo, è una cosa che è talmente unica che ti fermi a guardarla. Da giovane andai da Robert Doisneau, già grande maestro, con Ghirri e Claude Nori, perché volevamo fargli un libro. E allora nel discutere del titolo, lui guardandomi dice “Trois secondes d’éternité”, tre secondi di eternità. Ed io che ero proprio stupido, nella mia giovinezza, nel mio francese terrificante chiesi “pourquoi?”. La comprensione nella sua risposta: “Qui ci sono trecento foto, c’è tutta la mia vita di fotografo, facendo il conto del tempo sono tre secondi”. Io sono rimasto agghiacciato. Questa si chiama sapienza che passa di generazione in generazione. Mi ha fatto capire che se io avessi voluto fare il fotografo, avrei dovuto accettare di vivere, come fotografo, tre secondi e basta tutta la vita. Perché è così, e non c’è alcuna via d’uscita. Il problema della temporalità nella

fotografia lo stanno difendendo in America solo i fotografi di genealogia ebraica, comprendendo che la questione del tempo è decisiva. Kubrick in 2001 ci fa vedere che laddove il calcolatore con l’obiettivo elabora, non riesce a prevedere e calcolare che l’umano per vivere è disposto anche a morire; il calcolatore non calcola che l’astronauta cercherà di entrare, trattenendo il respiro per tre secondi, anche se il tempo di espulsione dell’aria può essere insufficiente a sopravvivere. Il film è straordinario perché racconta la nostra vicenda di fotografi. Chiaramente è difficilissimo fare i fotografi in questo modo, però è il problema della vita. Se vedo certi quadri, certe canzoni, fotografie o film, capisco esattamente l’approdo, cioè il mio io che è questa relazione viva con un infinito. Nel concetto di “unemotional” io sento esserci il grande punto oggi. Per questo Ghirri oggi lo compri sul mercato reale a cinquemila euro, settemila euro se ti va male. Il mio primo collezionista ha raccolto la sua collezione, dove c’è tutta la fotografia italiana del secondo dopoguerra, con un piccolo residuo della cifra ottenuta vendendo una sola foto di Thomas Struth. Io credo che il fotografo rispetto ad artisti come Richard Long deve avere un percorso necessario di trasfigurazione dove il tempo è fondamentale. Onestamente, tutti i fotografi che ho conosciuto conoscono i libri di Elémire Zolla o di Gustav Jung sull’alchimia, o i bellissimi libri di Arturo Schwarz, grande collezionista, storico

dell’arte del Novecento. Perché c’è il mistero del tempo, del cuore umano che è sempre un “io” irriducibile, unico, individuale, il quale attraversa attimi di tempo e luoghi che sono tutti diversi. Come nell’esperienza di Robert Adams che passa dall’oceano, alla pozza d’acqua senza rimanere fisso alla pozza d’acqua, un artista deve rispecchiare il mondo e viverlo. Abbiamo uno strumento che è quello di Galileo con il quale possiamo fotografare, cioè attraversare tutto: ma per far questo ti devi innamorare; perché il problema è lì. I volti puoi riprenderli se cominci ad amarli. Per questo dico che cineasti come Malick o Spielberg o musicisti come Zimmer ci dicono molto. Sento Hans Zimmer quando vedo il primo Sherlock Holmes: sono lì seduto, ho il mio dolby surround: il primo minuto e mezzo sui titoli d’inizio del film di Guy Ritchie con la colonna sonora mi fa impazzire. Lo vedo e lo rivedo perché intanto, anche lì, passi da un’immagine fissa sulla strada e ti trovi a correre con dei cavalli dentro la Londra di fine Ottocento, e il tuo cuore, si allarga in questa corsa, perché la musica ti sostiene in una maniera incredibile, e son sempre le sette note di Bach, le sette note di Stravinskij, le sette note degli U2. È fondamentale comprendere questo punto.



E uscimmo a rivedere le stelle sono le parole che chiudono la prima cantica di Dante. Perché Dante, dopo questo

sue creature”. Per questo è possibile contemplare la bellezza dell’universo e del cielo. Gli artisti lo fanno a modo

oggi però è la scienza stessa a porsi questo tipo di domande. Non esistono ancora tutte le risposte, però da un

viaggio negli inferi, ci comunica questa frase? Evidentemente il firmamento evoca qualcosa che trascende ognuno di noi. È un richiamo all’infinito, a qualcosa di straordinariamente bello, da ammirare, qualcosa che bisogna provare a conoscere. Anche nella Bibbia, nel Salmo 19 troviamo: “I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento”. La bellezza del creato, il firmamento e le stelle del cielo ci chiamano a una duplice riflessione. Una è propria degli artisti mentre un’altra appartiene alla scienza. È un concetto espresso nel Catechismo della Chiesa Cattolica del quale ricorre il ventennale: “Nel sostenere la capacità che la ragione umana ha di conoscere Dio, la Chiesa esprime la sua fiducia nella possibilità di parlare di Dio a tutti gli uomini e con tutti gli uomini. Questa convinzione sta alla base del suo dialogo con le altre religioni, con la filosofia e le scienze, come pure con i non credenti e gli atei. Essendo la nostra conoscenza di Dio limitata, lo è anche il nostro linguaggio su Dio. Non possiamo parlare di Dio che a partire dalle creature e secondo il nostro modo umano, limitato, di conoscere e di pensare. Le creature hanno tutte una certa somiglianza con Dio, in modo particolarissimo l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Le molteplici perfezioni delle creature (la loro verità, bontà, bellezza) riflettono

loro infatti l’arte è piena di cieli, in particolare penso quello del Mausoleo di Galla Placidia. L’arte, come la scienza, ha un suo linguaggio.

punto di vista scientifico qualcosa si può abbozzare, anche senza entrare in discorsi metafisici.

dunque la perfezione infinita di Dio. Di conseguenza, noi possiamo parlare di Dio a partire dalle perfezioni delle

Nel corso del mio intervento cercherò di fornire una piccola idea di quello che è l’universo nelle sue forme portanti, nello spazio e nel tempo, secondo il linguaggio della scienza. È una via attraverso il quale il creato, l’universo, ci narra le sue bellezze, ciò che è. Lo spazio e il tempo nella pittura sono molto diversi da quelli dell’astrofisica. Ciò che evoca Piranesi, il tempo che consuma tutto, o gli orologi di Dalì, o il cagnolino di Balla che si avvicina a una concezione cinematica del tempo sono distinti da quello che comunica il linguaggio scientifico. La scienza si fa con i numeri, “con i pesi e le misure” come diceva Galileo: ciò che non si misura con i numeri del reale resta un esercizio della fantasia. Comunque il cielo, al di là di questo, non lo sentiamo come qualcosa di estraneo. Il cielo ci pone delle domande. Per esempio: perché l’universo è fatto così? Poteva essere diverso? Possono esistere altri universi? L’universo ha in sé delle proprietà che rendono inevitabile la vita oppure la vita è un puro caso, un puro accidente comparso in un ambiente che con la vita non aveva nulla a che fare? E perché esiste una vita intelligente che può pensare un universo? Questi quesiti ci toccano dentro. Decenni fa domande come queste sembravano strane da un punto di vista scientifico,

Dopo 46 anni di osservazione al telescopio posso dire che il cielo è più bello a occhio nudo. L’occhio ci consente una visione splendida di metà sfera celeste. Il cielo visto a occhio nudo ci dà il senso dello spazio e del tempo. Il cielo non ci dà soltanto la sensazione di una spazio infinito ma anche di un tempo che ci sovrasta. È un fascino che è a disposizione di tutti, per chi ha pazienza di osservare la volta celeste. La nostra esperienza umana non ci aiuta a comprendere le dimensioni dell’universo però possiamo comprendere il significato delle dimensioni della terra. La terra è una sfera che ha circa 6.400 km di raggio. Possiamo comprendere anche la distanza che ci separa dalla luna, 380.000 km, cioè dieci volte la lunghezza dell’equatore terrestre. È una grande distanza ma è ancora un numero abbordabile. Facciamo invece più fatica a comprendere la distanza tra la terra e il sole: 150 milioni di chilometri. Quindi quanto è grande questo universo che ci contiene? Per comprendere meglio possiamo ridurre le dimensioni facendo un processo di riduzione di scala. Immaginiamo di ridurre la nostra terra con 13.000 km di diametro a una biglia di 1 cm. In questa scala l’uomo sarebbe ridotto a 1 milionesimo di millimetro. Se riduciamo

Le stelle

Adriano Guarnieri astrofisico


l’intero universo a questa scala, quanto dovrebbero essere grandi le dimensioni del nostro foglio di carta? Per

Le misure dell’universo osservabile si racchiudono nella cifra di un 11 seguito da 23 zeri e misurato in chilometri. È una cifra che non si riesce a pronunciare. Per questo gli astrofisici usano le potenze per definire le dimensioni dell’universo. Questo numero si scrive così: 1023. Queste sono le dimensioni dell’universo osservabili, e sono colossali. Che cosa c’è dentro questo spazio immenso? Di che cosa è popolato? In questo spazio c’è della materia e la scienza è in grado di misurarla: è 1078 atomi e 1088 fotoni, particelle di luce che pervadono l’universo. La materia però non è diffusa in maniera omogenea. Si raggruppa in agglomerati di stelle che sono le galassie. La Via Lattea ad esempio è la nostra galassia e contiene almeno 300 miliardi di stelle. Il contenuto di stelle è questo, ma la nostra galassia non esaurisce l’universo

nostro e ognuno contiene dai 10 ai 100 o 1.000 miliardi di stelle. Siccome sappiamo pesare le stelle, possiamo dire quanta materia c’è: 1054 grammi. Misurare in grammi o tonnellate non cambia il risultato, sempre si parla di numeri molto grandi. La materia osservabile è appena il 4% mentre il 96% della materia che c’è nell’universo resta un mistero. Per questo si parla di materia oscura. In senso reale perché non fa luce e inoltre perché non si ha idea di cosa si tratti. L’energia oscura, la cui rivelazione è un risultato recente, è ciò che fa accelerare l’espansione dell’universo. L’energia, secondo Einstein, è equivalente alla massa. Noi vediamo soltanto il 4% della materia però possiamo calcolare il comportamento gravitazionale delle stelle dalla dimensione della materia oscura. L’universo è così grande che la materia è distribuita in una densità media molto bassa. In un metro cubo di spazio c’è in media un solo atomo. Questa enorme rarefazione è di grandissima importanza perché dalla densità dell’universo dipende l’evoluzione futura dell’universo. L’universo si espande e questa espansione continuerà per sempre o terminerà in qualche modo. L’espansione quindi dipende dalla densità dell’universo. Recentemente si è scoperto che l’universo non è né aperto né chiuso, ma è piatto. Il fatto della piattezza è importante, perché se l’universo avesse una densità di appena il 10% un po’ più grande di quella che

Nell’universo ci sono 10183 luoghi diversi. Ma anche il tempo nell’universo non è infinito. L’universo ha avuto origine in un tempo determinato che l’astrofisica di oggi riesce a valutare. È il frutto di un’esplosione avvenuta 14 miliardi di anni fa, il cosiddetto Big Bang. Però il dove e il quando della nascita dell’universo sono domande prive di senso. Perché lo spazio e il tempo nascono con l’universo. Anzi, forse lo spazio e il tempo sono l’unico relitto rimasto dell’universo primordiale, dei primissimi istanti. Noi siamo sulla terra da 23 milioni di anni, ed è un periodo molto breve, e siamo a un livello di sviluppo tecnologico nel quale è possibile prevedere che tra 1 o 2 secoli saremo in grado di costruire la macchina di Von Neumann; un astronave che, partendo dalla terra, sarà in grado di arrivare alla stella più vicina, lontana 3 anni luce. Questa astronave sarà poi in grado di costruirne una fotocopia e colonizzare in 300 mila anni la galassia. Siccome nessuna astronave è arrivata qui da noi sappiamo che nel resto della galassia

osservabile. Osservando con il più potente telescopio si possono vedere altre galassie, altri sistemi come il

è, l’universo non sarebbe piatto, sarebbe aperto o chiuso. Se l’universo fosse aperto o chiuso sarebbe impossibile la

non c’è nessun altro oltre a noi. Inoltre le altre galassie sono troppo lontane. L’universo si espande rapidamente e

rappresentare l’universo in questa scala ridotta, non basterebbero le dimensioni di un foglio grande come il sistema solare con i suoi 5.000 miliardi di chilometri di raggio, ce ne vorrebbe uno 200 volte più grande, di 1 milione di miliardi di chilometri. Sono dei numeri che sfuggono alla nostra percezione. Io non so se abbiamo bene la percezione di cosa sia la cifra di un miliardo. Per contare fino a 1 miliardo ci vuole del tempo, esattamente 750 anni.

vita. Quindi, in qualche modo, questo valore della densità è determinato dalla nostra presenza. Nel macrocosmo lo spazio è abbondante ma nel microcosmo lo è ancora di più. In una densità di questo tipo domina il vuoto, però lo spazio è finito, viviamo in un universo finito, in uno spazio che va espandendosi però finito.


la materia si allontana l’una dall’altra creando lo spazio. L’universo cresce e si raffredda, ed è fatto di luce, è costituito

da un progenitore del sole. Per la nostra esistenza c’è bisogno di un processo cosmico. Quindi la vita sulla terra non

presenza è dovuta al caso. In genere gli scienziati sono fautori del caso perché ammettere un progetto significa

da un’enorme quantità di radiazione che interagisce con la materia. Dopo l’istante luminoso iniziale, l’universo diventa buio e freddo. E dopo circa mezzo miliardo di anni, il cielo torna a risplendere e si riformano le stelle. Le stelle infatti nascono e muoiono, i buchi neri rappresentano la fase discendente delle stelle. Ogni stella è un reattore nucleare a fusione e l’energia si forma al centro: nel suo interno si forma la materia pesante. L’idrogeno e l’elio sono dei residui del Big Bang, ma noi siamo fatti di materia pesante, anche di idrogeno però combinato con altri elementi. Questi elementi da dove vengono? Sono costruiti dentro le stelle: sono le stelle che fabbricano i mattoni essenziali per la vita e la nostra esistenza. Quando una stella ha terminato la sua esistenza prendendo l’idrogeno e creato gli elementi più importanti, non ha più energia da consumare e collassa in una spaventosa esplosione. La stragrande maggioranza delle stelle nel cielo sono doppie e legate gravitazionalmente. Il sole è un’eccezione perché è una stella singola. Quando nasce un buco nero, vengono scagliati nello spazio gli elementi della materia pesante, e questi elementi possono aggregarsi e dare origine ad altre stelle. C’è bisogno della nascita e della morte di diverse stelle perché nasca la vita. La materia che abbiamo dentro è nata dal

può essere nata in un momento casuale della storia dell’universo, visto che ci sono un numero finito di istanti e di posti. L’era delle stelle durerà ancora 1000 miliardi di anni. Però sappiamo che la vita è apparsa immediatamente, non appena poteva apparire ma non prima di un certo tempo e nemmeno dopo perché non sarebbe stata possibile. Esistono una serie di coincidenze cosmiche e dei dati che appaiono stupefacenti. Se si varia una quantità infinitesima della materia la vita non è possibile.

ammettere un progettista. E qui entriamo nell’ambito della metafisica. Da un certo punto di vista potremmo evitare il progettista se postuliamo l’esistenza di altri universi. Però questo tipo di ragionamento è anch’esso metafisico, magari di una metafisica laica, perché postulare l’esistenza di infiniti universi con i quali poter venire in contatto è ancora qualcosa che si sottrae all’indagine scientifica.

cuore di alcune stelle. In questo senso siamo polvere di stelle. La materia di cui siamo fatti non viene dal sole ma

riflessione ci porta a due conclusioni. O l’universo è frutto di un progetto teso affinché esista la vita oppure la nostra

Vedere l’universo significa inoltre fare un viaggio nel tempo. L’unica galassia visibile a occhio nudo, la galassia di Andromeda, dista 2 milioni di anni luce. Con un telescopio progettato a questo scopo e posto sulle Ande dove c’è un importante centro astronomico, il mio gruppo ed io abbiamo assistito alla nascita di un buco nero che ha dato un lampo di luce per circa un minuto e poco più. La nascita di questo buco nero è avvenuta 7 miliardi e mezzo di anni fa. Noi siamo stati in grado di studiare il comportamento della luce e questo fenomeno si è originato quando il sole e la terra non esistevano ancora, ed è giunto a noi solo adesso. Quindi da un lato siamo polvere di stelle e dall’altro la nostra stessa storia è consegnata all’universo… Questa



Vorrei partire dalle stelle, dall’«uscimmo a rivedere le stelle». A proposito di quest’ultime, e più precisamente della

non è mai un semplice annichilire, non può essere interpretato come un semplice annichilire, poiché esso non

«là» costituisce un nesso strutturale che non può in alcun modo essere sciolto: certo, tutto inizia da un «qui», eppure

volta celeste come casa delle stelle, l’antropologo J. Ries ha scritto:

solo supera ed eccede, ma anche situa e colloca: la misura dell’uomo non può certamente misurare la dismisura della volta celeste, ma quest’ultima non è mai indifferente alla prima poiché, anzi, è proprio essa che la istituisce come tale. Di conseguenza bisogna affermare che l’uomo esperisce la propria misura, esperisce una misura propriamente umana, solo di fronte a ciò che gli si impone come eccedente ogni misura, cioè solo all’interno di un’esperienza che al tempo stesso è – ecco la cifra dell’umano che non si può e non si deve mai misconoscere – quella di un limite e di un’eccedenza. Da questo punto di vista ciò che si impone all’interno del «simbolismo primordiale della volta celeste» (Eliade) è soprattutto una configurazione topologica: l’uomo, come ogni altro esistente e vivente, esiste e vive sempre nel limite di un «qui», sulla terra, ma una simile condizione diventa esperienza umana solo in rapporto all’illimite di un «là», di un cielo, che sempre lo sovrasta ed irriducibilmente lo eccede; si potrebbe anche dire che il soggetto fa esperienza e così «riceve» il suo essere «qui» (primo passo verso il suo dire/pensare come «sé», verso il suo dirsi/pensarsi come «sé») solo a partire da un «là», solo all’interno dell’esposizione all’alterità di un «là» la cui percezione è ad un tempo rivelatrice di un limite (angoscia di fronte al proprio essere finito e mortale) e di un’eccedenza

quest’ultimo si rivela nella sua misura solo a partire da un «là» che lo eccede ma così anche lo individua, come se il soggetto, che da sempre è «qui», iniziasse un’esperienza del suo «qui» solo a partire dall’apertura a quel «là» che lo sovrasta come la dismisura ch’egli non è mai in grado di misurare. L’esperienza umana (che è sempre di sé-e-dell’altro) si costituisce nel contraccolpo che si produce all’interno dell’imbattersi in un’alterità che il soggetto non è mai in grado né di evitare né di dominare. Questo imbattersi è un legame, è la religio che precede ogni religione, è l’intreccio originario che inquieta ogni supposta identità soggettiva. Il fenomeno dello stupore è da questo punto di vista di un estremo interesse; non c’è dubbio, infatti, che il senso aurorale e generativo dell’eccedenza/alterità rinvii essenzialmente a quel senso del limite (esperienza dell’eccedenza/alterità ed esperienza del limite si co-appartengono) che non è mai del tutto separabile dal sentimento della paura e talvolta perfino dall’emergere della più tragica angoscia (la visione della volta celeste intimorisce). Tuttavia non si può affermare, così almeno a me sembra, che stupore e paura coincidano, e che anzi addirittura quest’ultima sia l’origine del primo, dato che semmai si tratta esattamente del contrario. Un esempio emblematico di simile dinamica può

(stupore di fronte all’infinito del cielo). Di conseguenza, nell’ambito dell’esperienza del soggetto, il rapporto tra il «qui» ed il

forse essere riconosciuto nell’esperienza dell’amore; l’amante non decide di amare l’amato/a ma si trova ad amarlo/a, egli/

Senza avere tutti i dati di cui disponiamo oggi [1989], già una ventina di anni fa Mircea Eliade formulava un’ipotesi geniale: la scoperta della trascendenza da parte dell’uomo arcaico contemplando la volta celeste (...) [L’uomo] è il solo animale eretto, in piedi, che collega simbolicamente l’alto, il cielo, e il basso, la terra. Gli altri animali sono fissi sullo spazio terrestre (...) Precisiamo il pensiero di Eliade. L’uomo eretto, dritto sui suoi piedi, non solo ha liberato le sue mani per munirle di attrezzi capaci di permettergli di creare i primi elementi della cultura, ma i suoi occhi si elevano verso il cielo. L’Homo erectus, già symbolicus e sapiens, contempla la volta celeste (...) Nella volta celeste c’è un simbolismo della Trascendenza, della Forza e della Sacralità. L’Homo erectus ha preso coscienza di questo simbolismo, un dato immediato della coscienza totale dell’uomo1.

Seppure brevemente, soffermiamoci su questo passaggio. L’uomo guadagna la posizione eretta; così facendo egli allarga sorprendentemente la propria prospettiva orizzontale liberando due arti che gli permettono di afferrare strumenti in grado di trasformare profondamente l’ambiente circostante; ma al tempo stesso, alzando lo sguardo al cielo, egli si trova anche subito preso, rapito, all’interno di una dimensione verticale inimmaginabile per gli altri animali fissi sul terreno. La terra è sotto il cielo, la volta celeste sovrasta tutto ciò che esiste sulla terra; eppure un tale sovrastare 1 J. Ries, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità, vol. II dell’Opera omnia, Jaca Book, Milano 2007, p. 322.

L’approdo è alle stelle

Silvano Petrosino Professore Associato di Semiotica, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Università Cattolica di Milano


certi aspetti condannato ad un’alterità ella viene raggiunto/a dal sovrappiù e inassumibile: egli non può non tenere dalla sorpresa (non c’è stupore senza conto di ciò che sfugge ad ogni conto, sorpresa) di questa esperienza (l’amore non può evitare di venire alle mani con appartiene all’ordine dell’evento: ciò che sfugge ad ogni presa. In termini non si inventa, non si immagina, rigorosi si deve dunque affermare che ma soprattutto non si programma) l’uomo «abita», e non semplicemente all’interno della quale ci si trova esposti esiste e vive, in quanto e perché ad un’eccedenza/alterità che in nessun egli stesso è «abitato», o anche che modo si riesce a dominare; tale sorpresa l’esperienza umana dell’«abitare» non può è quella di un gioia incontenibile, che mai prescindere dal fatto che il soggetto tuttavia sempre si accompagna – ne è stesso, l’abitante, è a sua volta abitato il suo più immediato risvolto – con una sorta di sottile e altrettanto incontenibile da ciò che lo investe, dall’inquietudine di timore: l’amore può finire, l’amato/a può un’eccedenza/alterità ch’egli in nessun modo è in grado di numerare, ordinare e allontanarsi e non tornare più. Gioia porre sotto controllo. Se dunque l’uomo, e timore qui, ma forse non solo qui, come vuole Heidegger, esiste in quanto procedono sempre insieme; ecco perché bisognerebbe evitare di considerare come abita, allora egli abita in quanto è a sua volta abitato: l’uomo - ecco ciò che a del tutto evidente e naturale il primato me sembra imporsi come una condizione della paura. essenziale del suo proprio modo di essere L’approdo è un’uscita, è un trovarsi - è sempre un abitante e un abitato, un aperto, all’aperto. Questo trovarsi abitante che è tale proprio perché al all’aperto, questo trovarsi sempre in tempo stesso abita ed è abitato. cammino, è il tratto più specifico del modo d’essere di quel vivente particolare In termini puramente astratti (in verità nel vivere concreto si è sempre in che è l’uomo. Nell’aprirsi-a, nell’uscire presenza di un intreccio, di un «misto») verso le stelle, l’uomo inizia a fare la formula «l’uomo è un abitante abitato» un’esperienza della vita che non è più può declinarsi secondo tre distinte risolvibile nelle sole attività del nutrirsi modalità2: si potrebbe immaginare un e del riprodursi. Ora ci sono anche le stelle, ora le stelle (che sono in cielo) soggetto che abita senza prestare alcuna intervengono nel vivere stesso dell’uomo attenzione al fatto di essere abitato (che è sulla terra). L’uomo non può più (è solo un abitante; forse qualcosa di vivere come se le stelle non esistessero: simile è riconoscibile in quell’attività egli è approdato alle stelle e il suo modo frenetica e superficiale che caratterizza di vivere non può restare indifferente la vita quotidiana: si è distratti dalle a questo destino. Forse il verbo che urgenze della «vita» e così si finisce per meglio esprime questo modo di esistere diventare vittime di esse); ci potrebbe poi dell’uomo è «abitare». L’uomo abita, e essere un soggetto che abita subendo non semplicemente esiste e vive, proprio 2 Riprendo a tale riguardo alcune analisi che ho cercato di perché all’interno del suo stesso esistere sviluppare più ampiamente in Abitare l’arte. Heidegger, la e vivere egli è legato, destinato e per Bibbia, Rothko, Interlinea Edizioni, Novara 2011.

totalmente il fatto di essere abitato (è solo un abitato; forse qualcosa di simile, l’essere posseduti o occupati dall’altro, è riconoscibile in alcune esperienze mistiche e in alcune paranoie gravi) ; si potrebbe poi postulare l’esistenza di un soggetto che, proprio perché vive con intensità l’essere abitato, tenta con insistenza e lucidità di abitare il suo stesso essere abitato. Ora, a me sembra che la grande arte o più correttamente l’arte autentica (anche quella che non ha mercato e non viene celebrata/idolatrata nei musei o mercificata nelle gallerie d’asta) sia uno dei luoghi per eccellenza all’interno del quale il soggetto vive con intensità, ma non necessariamente in modo paranoico, l’esperienza dell’essere abitato da un’alterità irriducibile, luogo in cui egli non censura o misconosce ciò che non domina; in questo senso l’arte è ciò che si oppone con la massima decisione ad ogni forma di superficialità e di indifferenza poiché essa vive con intensità, quasi fosse una condanna, l’inquietudine dell’essere abitato, del trovarsi in lotta con un’alterità irriducibile. L’artista, quello autentico (anche senza mercato o gallerista), non sogna o immagina, e neppure solo pensa o guarda, ma essenzialmente opera o meglio: il sogno e l’immaginazione, il pensiero e lo sguardo dell’artista lo conducono puntualmente di fronte ad una stessa urgenza, quella dell’operare. L’artista non può quindi esimersi dall’agire, operare, costruire, coltivare; in questo preciso senso egli è caparbiamente un abitante: neppure per un istante il suo agire può essere inteso come un’evasione dalla realtà, essendo


piuttosto in tutti i modi impegnato ad abitarla. Lo si è sempre saputo, sebbene ancora oggi molti fanno di tutto per non riconoscerlo: l’alzare lo sguardo al cielo, l’approdare alle stelle, non è mai una fuga dalla terra ma l’unico modo per abitarla da uomini. Ogni singola opera d’arte non fa che ricordarcelo.


L’approdo: accogliersi nella propria auto-in-sufficienza

Roberto Del Riccio SJ Rettore del Pontificio seminario campano interregionale

Considerare riflessivamente l’approdo da un punto di vista religioso significa confrontarsi con l’assoluto, nella misura

racconto (Genesi 1,1-2,4) si chiude con Dio che nel settimo giorno conclusa la sua opera si riposa, avendo già

in cui la religione consiste nell’adesione ad una realtà considerata assoluta, che dà senso alla vita. Assoluto è qualcosa che non dipende da qualcosa d’altro per definirsi, è qualcosa di svincolato, di auto-sufficiente. Assoluto, dunque, si oppone a condizionato, a dipendente. Nella riflessione che propongo, vorrei mostrare come nel percorso che ci conduce all’approdo, è necessario fare i conti con ciò che noi siamo, cioè non-assoluti o, prendendo a prestito un’espressione secondo me particolarmente efficace, auto-insufficienti1.

creato l’essere umano (adam) al sesto relazione con lui, non trova qualcuno giorno2. Il secondo racconto, invece, di fronte a cui porsi, se non appunto sembra ripartire da zero, raccontando Dio stesso. Di conseguenza, Dio una seconda creazione dell’uomo, separa l’essere umano indifferenziato, totalmente differente da quella già prendendone un lato, da cui “fa” la narrata3. Insieme all’essere umano è donna. Ordinariamente nelle traduzioni creata un’oasi, un giardino. È un luogo italiane si legge che la donna è fatta bello, abitabile, gradevole. In questo dalla costola dell’uomo. In realtà giardino è posto l’essere umano. A nell’ebraico il termine utilizzato, sèl ’, differenza del primo racconto, però, in non è mai usato per indicare la costola, cui è detto che Dio creò l’essere umano bensì il lato di qualcosa o uno dei due maschio e femmina, qui l’essere umano battenti di una porta, così che la donna è indifferenziato. A tal proposito il è secondo il racconto un “lato”, una testo sembra suggerire la mancanza per “parte” dell’essere umano indifferenziato. l’essere umano di una adeguata alterità, Qui si dice già qualcosa di importante laddove si legge che «l’essere umano nella comprensione dell’approdo, del non trovò un aiuto che gli fosse simile», punto finale, della meta, cioè che nonostante Dio abbia plasmato «dal uomo e donna sono due parti di un suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutto: questo dice già mancanza, dice tutti gli uccelli del cielo» conducendoli già rinvio, dice già necessità di una all’essere umano, per dargli «un relazione. aiuto che gli sia simile», poiché «non Una seconda cosa da ricordare è è bene che l’essere umano sia solo» che nel mettere l’essere umano nel (Genesi 2,18-20). Allora, di fronte giardino, affidandoglielo, Dio gli dà un all’essere umano nella sua mancanza comando4, composto da due “regole” e di un’adeguata alterità, Dio prova una una sanzione, sulla quale, per altro, non strana sensazione, come se qualcosa mi soffermerò. Il comando è dato prima della “separazione” dell’essere umano 2 « Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di e, dunque, vale anche per l’uomo e Dio lo creò; maschio e femmina li creò. […] Dio vide la donna, quando “compariranno”. La quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu prima regola è formulata in positivo in sera e fu mattina: sesto giorno. […]Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. forma di permesso: l’essere umano può Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro mangiare di tutti gli alberi che sono che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo nel giardino. Stando alla regola, egli lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli può mangiare anche di quell’albero

Un approccio narrativo al tema Ho scelto di sviluppare le mie riflessioni nel confronto con la seconda parte di uno dei due racconti delle origini che si trovano all’inizio della Bibbia, cioè nel libro della Genesi, il primo libro di tutta la Bibbia. Per essere compreso, il racconto che farà da sfondo alla riflessione è da inquadrare all’interno del contesto narrativo più ampio, in cui esso è inserito. Richiamo in breve alcuni elementi. Il primo elemento da ricordare è che questo racconto è strettamente collegato ad un altro famoso racconto, al quale segue: quello in cui è narrata la creazione del mondo in sei giorni. Apparentemente i due racconti sono in contraddizione. Infatti, il primo 1

S. Bongiovanni, Affidati a noi stessi. Lo spirituale

nell’esperienza umana, Fede e vita, Padova 2012, in cui l’Autore sostiene che nel «[…] processo spirituale il primo passo dell’umanizzazione dell’uomo è nel riconoscersi «[…] insufficiente a sé stesso (si potrebbe dire: auto-insufficiente)» p. 51.

non funzionasse, perché questo “essere singolo” non trova qualcuno che sia realmente adeguato all’entrare in

creando aveva fatto. Queste le origini del cielo e della terra, quando vennero creati» (Genesi 1,27-31; 2, 1-4).

3 «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato» (Genesi 2,7-8).

4 «Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”» (Genesi 2,16-17).


che sta al centro del giardino, l’albero della vita, del quale il racconto aveva già fatto cenno5. Infatti, nella logica del

il bene e il male non è da tradurre in termini di innocenza “ignorante”, in termini di una innocenza fondata sul

farai l’esperienza del male sulla tua pelle, nella tua carne. Affiora, però, una domanda: esiste uno spazio all’interno

racconto, l’essere umano non potrebbe vivere senza mangiare di quest’albero: c’è qualcosa da cui egli trae vita. Anche qui, mi pare ci sia un riferimento interessante al rapporto con l’assoluto, perché ancora una volta c’è un rimando all’auto-in-sufficienza dell’essere umano, il rimando ad una dipendenza da qualcosa che è fuori da lui. È come se si cominciasse a suggerire ciò di cui tutti noi facciamo esperienza: non possiamo dare a noi stessi ciò che ci occorre per vivere, lo dobbiamo ricevere da fuori. Dunque, ci sono già due elementi che dicono rinvio a qualcosa che è fuori di noi e dai quali dipendiamo radicalmente. Il primo elemento di rinvio è l’albero della vita, presentando come necessaria per vivere la dipendenza da qualcosa che non siamo noi. Il secondo elemento è la separazione dall’unico essere umano in due esseri, l’uomo e la donna, che si rinviano l’uno all’altra per trovare senso, suggerendo che per vivere umanamente, si deve dipendere da qualcuno che non siamo noi. Nel proseguire il commento del racconto metteremo sempre meglio a fuoco questa dipendenza radicale. Una terza cosa da ricordare la suggerisce la seconda regola che Dio consegna all’uomo, formulata come divieto: «dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare» (Genesi 2,17). Ora questo conoscere

non sapere distinguere il bene dal male. Ciò che qui si vieta non è la possibilità di acquisire la conoscenza teorica del bene e male, quasi a dire che per essere buono l’uomo debba rimanere ignorante, uno che non sappia la differenza tra la destra e la sinistra. Infatti, il verbo conoscere qui utilizzato rinvia ad una conoscenza che ha a che fare con l’esperienza, è lo stesso verbo che si usa anche per indicare l’avere un rapporto sessuale “conoscere uomo”, “conoscere donna”. Secondo il significato del verbo usato, la malattia, ad esempio, può essere conosciuta a vari livelli. Lo studente di medicina conosce una malattia grave e rara, perché l’ha studiata e gli è stato insegnato cosa è e come riconoscerla. Diventato medico, questo stesso studente, la incontra nei pazienti, con una conoscenza più esperienziale. Infine, secondo il significato del verbo “conoscere” che il racconto usa, lo stesso studente diventato medico conosce quella malattia rara e particolare, perché ce l’ha lui. Perché ci si ammala di una malattia, si conosce la malattia, secondo ciò che il racconto biblico intende per “conoscenza” del bene e del male. In tal senso, conoscere il bene e il male vuole dire fare esperienza del male, non solo sapere che il male esiste e potrebbe “mordermi”, ma soprattutto provarlo sulla propria carne, con tutte le conseguenze che questo comporta.

del quale non si prova il male, non si fa esperienza del male? In che luogo del mondo è mai esistito un posto simile? Ecco, questo racconto sta parlando di un luogo che non c’è. Perché allora parlarne? Perché confrontarsi con un racconto che narra di qualcosa che non c’è, un luogo, in cui il male non si sperimenta sulla propria pelle, un luogo inesistente? Perché sia chi ha scritto questo racconto, sia chi, raccontandolo, lo ha poi proposto e lo propone alla coscienza di altri, ha come intenzione quella di indicare una meta. A causa di questa intenzione io penso che il secondo racconto biblico della creazione sia particolarmente adatto a provocarci sul tema dell’approdo. Attraverso di esso si vuole indicare appunto un possibile punto di approdo, un possibile luogo da raggiungere, e, contemporaneamente, descrivere ciò che sperimenta chi come noi tende all’assoluto, pur essendo, e, aggiungerei, restando per sempre, auto-in-sufficienti. Continuiamo allora in questo percorso, consapevoli che alcuni elementi del racconto, con i quali ci confronteremo, sono proposti come prospettiva, come senso, come meta, come possibile approdo. Ora, ripresento velocemente la prima parte del racconto, per poi confrontarci con la scena, da cui io vorrei partire. Dio, la figura dell’assoluto, la figura di ciò che è sciolto da ogni vincolo, crea il giardino, luogo

5 «Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male» (Genesi 2,9).

Allora è come dire che in questo luogo creato per fare esperienza solo del bene, se tu uomo mangerai del frutto dell’albero proibito, improvvisamente

bellissimo, che abbiamo scoperto essere irreale, perché senza dolore, senza male, senza limiti negativi. Eppure il giardino è realissimo, perché in questo


luogo bellissimo e irreale Dio pone qualcuno che è estremamente reale: noi, cioè l’uomo. Laddove l’uomo non

il volto è al tempo stesso il rapporto con l’assolutamente debole, il rapporto con ciò che è assolutamente esposto,

è uno, bensì due, che sono uno di fronte all’altro. All’uomo e alla donna Dio dà la possibilità di fare qualsiasi cosa all’interno di questo giardino, vieta, però, di mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, per evitare loro l’esperienza del male.

nudo e denudato, è il rapporto con il denudamento e, di conseguenza, con ciò che è solo e che può subire l’isolamento supremo che si chiama morte, dove la morte, in questo caso, non è solo la morte nel senso di fine della vita ma è l’annullamento di chi io sono»6. Si pensi a tutte le volte che regimi dittatoriali o gruppi che hanno il potere di farlo utilizzano l’annullamento, facendo diventare tutti quanti uguali nell’anonimato, riducendo ciascuno ad un numero, magari marchiato sulla pelle. Anche nella nostra esperienza quotidiana questa è un’esperienza che facciamo spessissimo e con la quale ci misuriamo costantemente: ciò che io sono viene negato. In questo passaggio del racconto viene descritta una situazione paradisiaca; si descrive una situazione, di cui nessuno ha mai fatto esperienza, qualcosa che non troviamo nella nostra realtà quotidiana. Ancora una volta la descrizione è un segnale che, come abbiamo già visto prima, rinvia ad un approdo, stranamente, posto alle spalle. E’ un approdo, perché così non è mai stato, non è mai esistito. Chi ha scritto questo racconto non sta cercando di descrivere una situazione esistita, sta indicando un approdo. Mettendo, però, all’inizio qualcosa di mai realizzato e mai esistito nella realtà, esso diventa una possibilità, un compito, una proposta, un obiettivo, una meta.

apertura di sé, di fronte allo sguardo dell’altro non si ha vergogna. Si sta dicendo che nella “situazione iniziale” lo sguardo dell’altro è vissuto come uno sguardo che mi accoglie, che mi riconosce, che mi afferma; esso mi dice che sono significativo, importante; mi dice che valgo, che esisto come entità personale. Il racconto afferma che nella “situazione iniziale”, nel luogo che non esiste e che non è mai esistito, l’uomo e la donna vivono senza vergogna di fronte allo sguardo dell’altro tutto ciò che sono, ognuno in tutto ciò che è. In termini di meta, di ideale, di approdo, è qualcosa che portiamo addirittura nascosta nel profondo di noi stessi: l’aspirazione di approdare ad un porto tranquillo. Riuscire a vivere così in alcuni ambiti della nostra storia personale, chi l’ha provato lo sa, è un’esperienza talmente liberante che diventa contagiosa per altri pezzi della nostra vita, per altri momenti della nostra esistenza. Le relazioni in cui riceviamo uno sguardo che ci consente di vivere senza aver vergogna di ciò che siamo, soprattutto il lato oscuro di ciò che siamo, o che a noi pare scuro, sono relazioni che ci danno una forza particolare. E’ quella forza, che permette a ciascuno di noi di affrontare situazioni in cui lo sguardo dell’altro è, invece, giudicante, escludente, castrante, condannante. Se riusciamo

6 Intervista a E. levinas in Aut-Aut, 209/210 (1985) 3-18.

a vincere questa negatività dello sguardo dell’altro è solo in forza di quei momenti in cui abbiamo avuto in dono

La “situazione iniziale” Giungiamo, così, al primo dei quattro quadri, in cui strutturo il resto del racconto attraverso lo schema che cercherò di seguire da ora in poi. Il primo quadro è la “situazione iniziale”, quella in cui si è nella pace, nella serenità di essere quello che si è. Nella “situazione iniziale” cosa sono l’uomo e la donna? Sono due, uno di fronte all’altro. Il racconto dice così: «Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Genesi 2, 25). Anche qui, per evitare di lasciarci condizionare da possibili false precomprensioni, sia la nudità, sia quello che accadrà nel racconto non hanno niente a che vedere con il sesso, come troppo spesso nella storia della teologia e della dottrina cristiana, non solo cattolica, questa situazione è stata interpretata. La nudità dice altro, la nudità dice che tutto di me è esposto allo sguardo dell’altro, tutto. Nulla è escluso dallo sguardo dell’altro. Permettetemi di citare una frase di Emmanuel Lévinas che ha elaborato e riflettuto su questo sguardo a partire dal volto dell’altro, come volto di fronte a noi. «La relazione con il volto – scrive Lévinas - la relazione con

Secondo il racconto, dunque, la meta, la situazione paradisiaca, idilliaca, ideale che mai si è data, è che nella totale


uno sguardo che ci ha consentito di non vergognarci di ciò che siamo. Certo è vero che l’umanità, e noi in essa, non è mai stata in una simile “situazione iniziale”. Però è anche vero che qualcosa di questa situazione potremmo averlo vissuto, pur non nella sua totalità, non nella sua definitività, e proprio per questo l’esperienza dello sguardo dell’altro che non provoca vergogna è posto all’origine. Essa è un approdo sensato, perché non è qualcosa di esterno a noi stessi, ha a che fare con un desiderio che possediamo e che, in alcune circostanze, magari, abbiamo addirittura sperimentato come soddisfatto. Farei, ora, una esplicitazione. La nudità descritta dal racconto, la dipendenza totale dallo sguardo dell’altro, è, di fatto, quella che io chiamerei “debolezza radicale”. Noi siamo radicalmente deboli, non perché abbiamo dei difetti, non perché abbiamo dei limiti, ma perché, per vivere, dipendiamo da questo sguardo, dal riconoscimento che l’altro ci dona: è da questo sguardo che riceviamo ciò di cui abbiamo bisogno per vivere. L’esperienza affettiva di ciascuno di noi ce lo attesta. La relazione affettiva che ci dà veramente ciò che per noi è vita, quella che ci consente di vivere è la relazione affettiva che non abbiamo avuto necessità di conquistare, che non abbiamo avuto necessità di guadagnare, che non ci siamo pagati, che non ci siamo meritati. Quante volte ci capita di pensare: sì, mi apprezza; sì, mi riconosce; sì, mi accoglie; sì, mi stima; se sapesse, però, come sono in realtà o, ancora di più, se io non

avessi fatto quella determinata cosa, mi apprezzerebbe, mi stimerebbe, mi accoglierebbe ancora? Laddove,

essere strano, si adopera per impedirne il raggiungimento, perché Dio non interviene? Perché Dio non si dà da fare,

invece, siamo sicuri di essere accolti e riconosciuti non solo per ciò che appare o non solo per le nostre prestazioni, ma proprio per quello che siamo, ecco questo ci dà vita. Lo vedremo meglio nella situazione reale all’interno della quale ora stiamo per entrare.

per impedire o quantomeno contrastare l’azione malevole del serpente? Dio non interviene, perché, secondo il racconto, egli ci affida a noi stessi. Si badi bene, non tanto e non solo mi affida a me stesso, bensì ci affida a noi stessi. Ciò è da intendersi nel senso che Dio affida ciascuno di noi a qualcun altro, a quel qualcuno, dal cui sguardo noi dipendiamo, perché io di fatto dipendo dal riconoscimento che mi può venire. Qui il racconto smette di rinviare ad una “situazione iniziale” fuori dal tempo e della storia, per entrare nella situazione reale, quella che conosciamo, l’unica di cui da sempre abbiamo fatto esperienza: non siamo auto-sufficienti, non bastiamo a noi stessi, qualcuno ci deve dare quello che ci serve per vivere. Non c’è speranza, posso dire quello che voglio, ma l’esperienza insegna che ammettere e accettare questo è un passaggio fondamentale. Senza questa ammissione io non diventerò pienamente umano. Sarò uno zombie, un morto vivente. In questa scena ci sono l’uomo e la donna che dipendono dallo sguardo dell’altro e sta per succedere l’irreparabile, perché nel racconto voler diventare come Dio non significa solo voler “prendere il posto di Dio”, ma anche e soprattutto voler essere quello che non si è. Nel racconto si vede il serpente che fa un invito e, accettando l’invito, l’uomo e la donna praticamente

Volere l’impossibile Siamo giunti al passaggio dal primo al secondo quadro, in cui il racconto esprime la volontà di essere assoluti, di voler essere auto-sufficienti attraverso l’immagine del “voler essere come Dio”. Dio è l’assoluto, la realtà che non dipende da altro per esistere. Al contrario, creati e posti da Dio nel giardino, l’uomo e la donna dipendono dall’albero della vita per vivere, così come per farlo sensatamente e in pienezza, essi dipendono l’uno dallo sguardo dell’altro. Nel racconto a questo punto compare un particolare personaggio, il serpente, sul quale non mi soffermo, perché amplierebbe troppo il discorso. Farò riferimento al serpente solo nella misura, in cui ciò aiuta a comprendere la dinamica narrativa che il racconto mette in atto: voler essere come Dio cioè assoluti, auto-sufficienti, negando, quindi, esistenzialmente ciò che si è. L’uomo e la donna in questo momento decidono di ascoltare il consiglio di qualcuno che gli dice “diventa quello che non sei”. Ciononostante Dio improvvisamente tace e scompare. In tutta questa scena Dio non c’è. Se la posta in gioco è l’approdo finale e il serpente, questo

dicono che vogliono diventare qualcuno che non sono, che non ha bisogno dello sguardo dell’altro per vivere, che non


ha bisogno di ciò che l’altro può dargli per vivere, di qualcuno che basta a se stesso. Cosa succede, quando questo

nella nuova situazione, conseguente all’aver accettato l’invito di voler essere indipendenti dallo sguardo dell’altro

accade? Si vuole l’impossibile, perché noi siamo auto-in-sufficienti, noi dipendiamo dallo sguardo dell’altro, da quel riconoscimento di cui parlavamo prima.

e ognuno bastare a se stesso, la loro devi mangiare di …”, l’uomo adesso ha prima reazione è quella di vergognarsi paura. È ragionevole. L’uomo e la donna e di nascondere la propria nudità. hanno fatto quello che gli era stato Improvvisamente, ciò che essi sono comandato di non fare, contravvenendo diventa qualcosa da nascondere: alla regola. È effettivamente così? si vergognano di essere auto-inRealmente, essi hanno paura, perché sufficienti. hanno disobbedito? Perché non hanno Il racconto mette, così, in evidenza, rispettato la regola? Se fosse in questo che improvvisamente quello che c’era modo, avrebbero ragione di avere paura. non c’è più, l’uomo e la donna non Sarebbe sensato. L’uomo, però, spiega in sostengono più lo sguardo dell’altro che un’altra maniera la sua paura, dicendo diventa qualcosa di pericoloso, qualcosa «ho avuto paura perché sono nudo e da evitare, da cui scappare. Quando, mi sono nascosto» (Genesi 3, 10). La poi, non si può scappare, ciò che sono disubbidienza al comando di Dio non va nascosto con qualunque qualcosa è percepita come causa della paura. La sia a portata di mano. Adesso rientra ragione della paura è un’altra. Di fronte in scena Dio e ricompare a cose fatte. a Dio che viene a cercarlo, l’uomo si Perché Dio viene? Dio viene nell’oasi, nasconde, perché ha paura di essere perché è questo il luogo che ha creato, “visto” per quello che è. Di più, l’uomo affinché l’uomo e la donna potessero accusa implicitamente Dio, come se vivere bene insieme ed egli li potesse gli dicesse “ho sentito il Tuo passo nel incontrare alla brezza del giorno, cioè giardino e mi sono nascosto, perché ho in un momento bello della giornata, avuto paura di essere quello che sono; gradevole; è come se il racconto volesse ho avuto paura di essere come tu mi dire che Dio viene nel giardino, quando hai fatto”. Riepilogando, possiamo dire che la soffia la brezza, per stare con l’uomo e la donna. Dio viene tutti i giorni e non “debolezza radicale” diviene causa di vergogna, quando non voglio dipendere soltanto oggi, come se venisse, solo dallo sguardo dell’altro per ricevere il quando si tratta di sanzionare l’uomo riconoscimento che mi dà vita e cerco e la donna per la loro inadempienza, illusoriamente di darmelo da me stesso. punendoli con la pena prevista. No, il Signore Dio non viene per punire, tant’è Allora ciò che sono, cioè auto-insufficiente, diventa causa di vergogna, che è presentato come non sapesse di disagio e “sento” di dover nascondere cosa è successo. Infatti, si dice che ciò che sono. Accanto alla vergogna c’è Dio arriva nel giardino come se tutto poi la colpa causata dalla propria autofosse uguale agli altri giorni. Cerca in-sufficienza. l’uomo, dicendogli: “dove sei?”. Il senso Ecco allora l’approdo: siamo invitati del dramma è contenuto nella risposta ad accogliere ciò che siamo. L’approdo che l’uomo e la donna danno a Dio:

La situazione attuale Adesso entriamo nel terzo quadro. Ora, siamo effettivamente nella scena corrispondente alla nostra attuale esistenza. A differenza dei due precedenti quadri, abbiamo fatto e facciamo esperienza della realtà, descritta da questo terzo. Infatti, nel primo quadro è stato considerato il mondo paradisiaco, idilliaco, irreale, che rappresenta l’indicatore di una prospettiva, di un approdo. Nel secondo quadro è stato presentato l’evento che ha trasformato il tutto, ma che è al di là della nostra personale esperienza. Adesso, con il terzo quadro entriamo nella situazione in cui ci troviamo. Leggiamo il racconto: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Genesi 3,7). Appena l’uomo e la donna mangiano del frutto, dovrebbero diventare come Dio, eppure non succede nulla del genere, perché, contrariamente alle loro attese, restano dipendenti dallo sguardo dell’altro. Quando si aprono gli occhi di tutti e due e si accorgono di essere nudi, avrebbero potuto dire: che bello! Niente di tutto questo. Intrecciano foglie di fico, per farsene delle cinture e così coprirsi. Una volta che l’uomo e la donna sono entrati

«ho udito il tuo passo nel giardino e ho avuto paura» (Genesi 3, 10). Di fronte a colui che ha dato il comando “non


è poter vivere la nostra “debolezza radicale” senza sentirci colpevoli, senza sentirci egoisti, senza sentirci sbagliati

Nel linguaggio biblico maledire vuole dire mettere fuori del futuro qualcuno. Rivolgendosi in questo modo solo al

e “fatti male”, giungendo a vivere nella pace il nostro essere dipendenti dallo sguardo dell’altro, dall’accoglienza che l’altro ci offre, dal riconoscimento che l’altro ci dona. Mi appresto alla conclusione con un ultimo quadro in cui Dio torna ad essere una figura centrale del racconto. Ma quale Dio? Per coloro che hanno scritto questi racconti non c’è da discutere, se sia Dio a creare tutto, perché per l’uomo dell’epoca tutto dipende da qualcuno, che l’ha creato. La questione per gli autori biblici, la vera questione è: quale Dio ha creato il mondo, perché non tutti gli dei sono uguali. In molte religioni, comprese quelle di alcune popolazioni contemporanee ad Israele, il popolo che ha prodotto questi racconti, gli dei hanno creato gli uomini per schiavizzarli, per metterli al proprio servizio.

serpente, senza maledire l’uomo né la donna, Dio dice che il serpente non Oltre la vergogna e la colpa nel qui avrà futuro, contrariamente all’uomo e ed ora delle relazioni alla donna. Essi, però, avranno futuro Trovo che sia un’immagine molto non solo per come sono stati creati da bella che dice la possibilità di un Dio all’origine, cioè auto-in-sufficienti, approdo, che può essere raggiunto ma anche per come sono adesso, dopo nel qui ed ora delle nostre relazioni. aver accolto l’invito del serpente a L’approdo è, appunto, il poter arrivare diventare assoluti, portando in sé la a vivere ciascuno se stesso e gli altri difficoltà di vivere con vergogna e colpa in questa dinamica di “dipendenza quello che sono. Dio li accetta così, radicale”, riconoscendo che solo perché questa è la situazione con cui dall’altro possiamo ricevere ciò che Dio per primo “deve” fare i conti, non ci dà vita. Solo quando l’altro ci dona solo loro. Così, Dio cerca di mettere il proprio riconoscimento in maniera l’uomo e la donna nella condizione incondizionata, noi ci sentiamo di vivere bene la difficoltà, che per effettivamente accolti e ci sentiamo vivi. la loro nuova situazione si trovano Solo questo ci consente di affrontare ad affrontare. Dopo aver maledetto le difficoltà della nostra esistenza. il serpente e aver parlato alla donna Dobbiamo, però, fare i conti con il fatto e all’uomo, «Dio fece all’uomo e alla che, contemporaneamente, la nostra donna tuniche di pelli e li vestì» (Genesi “dipendenza radicale”, la nostra auto-in3, 21). Appare qui un Dio molto tenero sufficienza, scatena in noi sentimenti e premuroso. Egli non veste l’uomo e contrastanti che qui sono stati riassunti la donna, perché essi hanno freddo e con quelli della vergogna e della colpa. necessitano di vestiti caldi. Dio veste Allora, l’approdo che ci viene presentato l’uomo e la donna, perché le foglie, se è, nel linguaggio del racconto biblico, si staccano dagli alberi, anche quelle quello di poter “tornare” a vivere sempreverdi, si seccano e quando nudi gli uni di fronte agli altri, senza si seccano cadono, facendo trovare vergogna e senza colpa. nuovamente nudo chi ha nascosto la sua nudità dietro quelle foglie. Fuor di metafora, Dio veste l’uomo e la donna con tuniche di pelli, perché li accoglie nella loro nuova situazione di vergogna e colpa. Li accoglie, però, fornendo loro gli “strumenti”, grazie ai quali possano vivere nella relazione tra loro e con lui a partire dalla difficoltà che hanno di viverla. Dio è, infatti, preoccupato che

Un Dio premuroso Nel quarto quadro è presentata la maniera con cui Dio affronta la situazione, che si è venuta a creare, quando l’invito del serpente è stato accolto da parte dell’uomo e della donna. Così facendo, si dà di Dio una precisa immagine, ben diversa da quella di un Dio che giudica e schiavizza l’essere umano. Come leggiamo, Dio interviene, parlando al serpente, alla donna e all’uomo. Tuttavia è da notare che, rivolgendosi ai tre, Dio maledice solo il serpente, ma né la donna, né l’uomo.

si viva nella relazione con l’altro, tanto quanto è preoccupato che si viva nella relazione con lui.



Stampa a cura di Augusto Papini


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