Rivista Savej n. 2

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PRIMO LEVI E IL PIEMONTESE La lingua de «La chiave a stella» “Amo questo dialetto... è il mio, quello della mia infanzia, che mio padre usava con mia madre e mia madre con i bottegai” Primo Levi – La Stampa, 13 luglio 1986

Nel 2018 si aggiunge al catalogo Edizioni Savej la seconda edizione del volume “Primo Levi e il piemontese. La lingua de «La chiave a stella»”. Nel suo saggio Bruno Villata analizza la meravigliosa “lingua” italo-piemontese con cui Levi narra le avventure di Faussone, l’abile e giramondo operaio specializzato protagonista del suo romanzo. Una lingua di passaggio in un’Italia in evoluzione e per Levi una vera e propria dichiarazione d’amore per il proprio dialetto.

Il volume è disponibile nelle maggiori librerie e sul nostro sito e-commerce www.edizionisavej.it! Anche in versione digitale

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Sommario 2 Editoriale con Giovanni Tesio 4 Conversazione Da Primo Levi alla letteratura contemporanea // Michela Del Savio

DIRETTORE RESPONSABILE Lidia Brero

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REDAZIONE E COORDINAMENTO EDITORIALE Fondazione Enrico Eandi

Matteo Olivero Il pittore della luce // Lidia Brero Eandi

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Il Villaggio Leumann

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Maria Adriana Prolo

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Quando i piemontesi conquistarono l'Unione Sovietica

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Sognando la “Merica”

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Francesco Cirio, pomodori (e non solo) in Val Padana

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Il Cimitero Monumentale di Torino

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Il linguaggio della letteratura: specchio di una società che cambia

Una città nella città // Davide Mana

L’archeologa della settima arte // Manuela Vetrano

L’avventura di Marco Datrino, scopritore dell’arte rossa dei Soviet // Roberto Coaloa

ILLUSTRAZIONI Ginger Berry Design PROGETTO GRAFICO Fondazione Enrico Eandi STAMPA L’Artistica Savigliano s.r.l. Savigliano (CN)

Storie fortunate e non di emigrati piemontesi // Andrea Raimondi

La famosa conserva di pomodoro nasce in Piemonte // Matteo Migheli

Un museo a cielo aperto tra le vie della città dormiente // Manuela Vetrano

Da “La chiave a stella” di Levi a “La straniera” di Tawfik // Andrea Raimondi

EDITORE Fondazione Enrico Eandi Via G. B. Bricherasio 8, 10128 – Torino info@fondazioneenricoeandi.it www.fondazioneenricoeandi.it ABBONAMENTI Informazioni e modalità di abbonamento sul sito www.edizionisavej.it

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Primo Levi e il piemontese

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Guido Martina, il Disney italiano

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L’Associazione Geronimo Carbonò

La lingua de "La chiave a stella" // Michela Del Savio

Una vita da sceneggiatore per Topolino // Felice Pozzo

Il Tanaro, il cuneese (o la Tanària) // Michela Del Savio

Disponibile anche online al seguente indirizzo: www.rivistasavej.it Seguici su: FondazioneEnricoEandi fEnricoEandi

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Umberto Cagni, l'eroe di due deserti

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Amedeo VIII

L’astigiano che si avventurò nelle terre estreme del Polo Nord su una slitta // Davide Mana

Storia ‘d n’antipapa // Pino Perrone

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Luigi Menabrea e la macchina differenziale

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La lingua walser, l’antico tesoro delle Alpi

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Gli atlanti linguistici del Piemonte

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Le nostre firme

Il Primo Ministro che sognava l’informatizzazione dello Stato // Davide Mana

ISSN 2611-8335 Registrazione del Tribunale di Torino n. 55 del 13-07-2018. © 2018 Fondazione Enrico Eandi Tutti i diritti riservati.

Intervista ad Anna Maria Bacher, la poetessa in titsch // Andrea Raimondi

ALI, ATPM e ALEPO: un patrimonio da salvaguardare // Michela Del Savio

Fondazione Enrico Eandi 1


Dumse da fé Mentre stiamo chiudendo il secondo numero cartaceo di Rivista Savej, stiamo anche lavorando in parallelo alla presentazione del libro che Edizioni Savej ha ripubblicato ad aprile di quest’anno — il testo di Bruno Villata Primo Levi e il piemontese. La lingua de "La chiave a stella". Un saggio dove Villata evidenzia e spiega la chiara origine piemontese dell’italiano parlato da Libertino Faussone, inusuale figura letteraria di operaio specializzato che gira il mondo di cantiere in cantiere, “con la chiave a stella appesa alla vita, perché quella è per noi come la spada per i cavalieri di una volta”. Preparare una presentazione pubblica di un libro è anche occasione per scavargli un po’ attorno, ragionare su rimandi e riferimenti, rileggersi articoli apparsi magari cinquant’anni prima oppure — ed è questo il caso — rivedersi vecchi servizi televisivi che si pensava seppelliti nelle teche RAI. E invece… santo YouTube. Uno di questi è datato 1963, c’è Luigi Silori — anche lui ex deportato in Germania, nel campo di prigionia di Fullen — che intervista un giovane Primo Levi senza barba. Silori e Levi fanno finta (beata ingenuità televisiva di quegli anni) di incontrarsi per caso: l’intervista si apre su Levi che sta aggiustando una macchinina del figlio, e Silori chiede: “possiamo fare due chiacchiere?”. A quel tempo era da poco uscito La tregua, il secondo romanzo; Primo Levi faceva il chimico a tempo pieno e nulla era più lontano da lui dal definirsi scrittore. “Sono un impiegato”, spiega con naturalezza a Silori. Understatement piemontese. La tregua aveva appena vinto il Premio Campiello. Un altro servizio è di quasi vent’anni più tardi, del 1981: la trasmissione ha l’improbabile titolo di Very Important Piemontesi, l’ideatore è Bruno Gambarotta, negli studi RAI di Torino intervistano Primo Levi una giovane Marinella Venegoni (poi firma storica de La Stampa) e il prof. Claudio Gorlier. Con una domanda che sa un po’ di lusinga, la Venegoni chiede a Levi: “Che cos’è per lei la piemontesità?”. Risponde Levi, non senza un certo imbarazzo: “La piemontesità è un mito… almeno per due terzi”. Che è una risposta molto sabauda, molto esageruma nen, perfettamente coerente con l’altro terzo: che è fatto, dice Levi, di costanza, di serietà, di volontà nel portare a termine le imprese che si avviano ed evitare “i passi più lunghi della gamba”. Del 1978 è invece un servizio del TG2: Levi viene intervistato a casa sua, dopo la pubblicazione de La chiave a stella. Perfettamente figlio del suo tempo, il giornalista RAI chiede quasi giustificazione a Levi del perché Faussone, nonostante l’appartenenza esplicita alla classe operaia, non si faccia portatore, o almeno interprete di alcuna istanza politica: cosa inconcepibile in quegli anni, in cui pareva impossibile parlare di lavoro senza dotarlo, come per un riflesso pavloviano, di opportune connotazioni negative: lavoro alienante, lavoro schiavizzante, lavoro

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Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono. E anche: Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l'amore o rispettivamente l'odio per l'opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell'individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge. L’amore per il lavoro anche come “dato interno”, dice Levi; se ci è permesso esprimerlo in altri termini: un fattore culturale. Anche da queste vecchie interviste emerge tutta la “felice inattualità” (per dirla con le parole dell’occhialuto giornalista che chiede conto del disimpegno politico di Tino Faussone) del messaggio di Primo Levi. Costanza, serietà, volontà come antitesi culturali — e morali — all’ignoranza rivendicata con orgoglio, all’incompetenza malcelata quando non esibita, alla retorica spompa da fine (o da inizio) regime. L’umiltà contro la tracotanza. La responsabilità del proprio agire contro la ricerca globale di sempre nuovi colpevoli. La cultura del lavoro contro quella dell’assistenzialismo. Dumse da fé.

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come sfruttamento. Ma Levi se la cava egregiamente: Faussone è sempre in giro per il mondo, risponde, e quindi non ha modo nè tempo di occuparsi di politica. E poi la morale è un’altra (“una morale sommessa, non sbandierata”): “esiste pure questa possibilità, quella di trovare gratificazione nel proprio lavoro”. D’altra parte è proprio ne La chiave a stella che Levi scrive quello che è quasi un lascito morale:

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CONVERSAZIONE CON GIOVANNI TESIO Da Primo Levi alla letteratura contemporanea di Michela Del Savio Giovanni Tesio è conosciuto come critico di arte letteraria, noto da tempo per i suoi studi sulla letteratura dialettale e sugli autori emergenti in questo ambito e, più recentemente, anche come poeta e come professore universitario; ultimamente lo abbiamo letto in corsivo, come interlocutore di Primo Levi nel libro Io che vi parlo (2016) e poco tempo prima nelle righe mozze della raccolta poetica di sonetti in piemontese Stantesèt sonèt [Settantasette sonetti] (2015).

Una mattina con l’autore L’altra mattina il professor Tesio ha accettato di ricevermi in casa sua, a Torino, a due passi dal parco del Valentino. “Venga per le 11 per piacere, perché prima sarò fuori per la corsa”, leggo nella mail. Mi accoglie sulla porta e mi accompagna in una grande sala pressoché vuota di qualunque mobilio ma rivestita di libri su tutte le pareti, dal pavimento al soffitto. Si siede su una poltrona vicino alla finestra, accanto ad alcuni libri che probabilmente stava sfogliando prima di ricevermi; accanto, un tavolo tondo al quale mi accomodo io. Inizio timidamente un discorso, perché non sono una giornalista e il mio lavoro non è intervistare le persone. Sono una chiacchierona e sono una persona che legge facendosi senza sosta domande e immaginandosi di poterle porre all’autore. Avere il privilegio di incontrare gli autori è qualcosa che cambia tutto, anche il senso dei libri stessi. Non è vero che i libri vivono da soli, o meglio: i libri vivono di vita propria, godendo talvolta anche di ottima salute; ma quando un autore è presente e vigile accanto alle sue opere e può anche parlare per raccontare se stesso e il suo pensiero, là le cose sono un po’ diverse, almeno per me.

Giovanni Tesio

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Mi presento come allieva del professor Alessandro Vitale-Brovarone, filologo romanzo quasi coetaneo del professor Tesio, immaginando si conoscano. Mi conferma di sì, e noto una vena di affetto affiorare dai ricordi: mi racconta che si conoscono perché entrambi allievi, anche se con percorsi diversi, del padre gesuita Giuliano Gasca Queirazza (entrambi alla facoltà di magistero, Sandro allievo di padre Gasca da inizio a fine del suo percorso, Giovanni allievo di alcuni corsi). Giovanni ricorda padre Gasca con affetto e grandissima stima, sebbene poi lui, a differenza del padre gesuita filologo e linguista tout court, avesse deciso di imboccare la strada del critico; Gasca fu tra gli studiosi che per primi


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“dissodarono il terreno del dialetto” senza preconcetti, senza giudizi né etichette di valore. Giovanni venne propriamente allevato accademicamente, nel suo cammino di studioso della critica letteraria, dal professor Bonora: con immancabile serietà di studioso, ha avuto nei miei confronti un affetto che ha talvolta anche dimostrato, nonostante fosse molto schivo e per certi versi reticente e respingente. Il professor Gandolfo poi, vicedirettore del Centro Studi Piemontesi, uomo di fisionomia risorgimentale, mi ha avviato, in qualità di critico, agli studi piemontesistici.

Come lettore com’eri? Un lettore con la lente. Io che vi parlo, pag 82

Il piemontese come lingua madre Già, perché il prof. Tesio è di lingua madre piemontese, e per lui l’italiano è stata la lingua da imparare e da amare con gli occhi e il cuore di chi guarda qualcosa di bellissimo e nuovo e se ne innamora. A guardare le cose dalla sua posizione il fanatismo verso i dialetti non ha senso di esistere (‘dialetto’, ci tiene a dirlo, è una parola, un’etichetta e, in quanto tale, è necessaria agli studi linguistici, ma quando lui la usa non intende nascondere gerarchie, e tanto meno professare disprezzo); per Giovanni c’è l’amore per qualcosa di naturale e materno, di posseduto gratuitamente, che si dà quasi per scontato fino a quando si sente di aver corso il rischio di perderlo, come un gioiello materno che si cerca e si ritrova in un cassetto. Il professore mi cita a memoria una lettera che Pavese inviò a Cecchi dove si dice che i toscani hanno la presunzione di possedere la lingua, e dunque spesso la maltrattano, mentre per un piemontese, trattandosi di una lingua presa con passione il rispetto è maggiore. Lui l’italiano lo ha imparato in chiesa, a scuola, si tratta di un oggetto verso il quale il rispetto è grande. Ecco perché i sonetti sono in piemontese: “perché poesia è ferita che la parola deve suturare”.

Scrivere sonetti oggi A novembre 2017 è uscito il suo canzoniere, Vita dacant e da canté, 369 sonetti in piemontese che ampliano l’opera già edita nel 2015. Perché il sonetto?, gli domando: perché il sonetto ingabbia ma libera, perché trattiene l’essenziale, mi dice. Certo la padronanza tecnica non dev’essere poca, penso io, tanto più in piemontese (al quale però io penso quasi come ad una lingua straniera, mentre per Giovanni è il contrario). Il sonetto. E chi scrive ancora sonetti? Quasi nessuno, direi. Certamente non scrivono sonetti i poeti che oggi vanno per la maggiore, ed ecco che non riesco a trattenermi dal domandare al professore che cosa pensa di Guido Catalano, il fenomeno poetico torinese degli ultimi anni, recentemente assurto a fenomeno nazionale, come testimoniano le sue presenze sui canali Rai in prima serata. Con la gentilezza e la scientificità che lo contraddistinguono mi risponde, chiacchieriamo per alcuni buoni minuti, ci confrontiamo, mi mostra un programma di in-

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Copertina de “Io che vi parlo”.

contri letterari da lui pensato in cui Guido Catalano figura tra gli invitati e mi dice che… No. Non lo voglio scrivere qui, perché il pensiero è profondo e Giovanni Tesio è critico letterario per professione, poeta nell’animo, e non sarò certo io a sostituire la sua voce con la mia. Lo invito invece a scrivere, e a raccontarci Guido Catalano e il fenomeno della sua poesia. Perché no, magari qui su Rivista Savej.

L’innocenza della letteratura contemporanea Ecco che allora la nostra conversazione si sposta sulla letteratura emergente in generale, discorso che mi sta a cuore perché io, da


scribacchina appassionatissima ma amatoriale, vorrei scrivere, ma non si sarebbe accettata una tesi su Levi ma Giovanni, a partire da aluna voce mi dice sempre che non posso. Che non posso perché prima lora, scrisse molte volte a questo proposito: prima su Studi Piemontesi, di me ci sono stati Gregorio Magno, sant’Agostino, Prévert, Pedro Sapoi su Belfagor e così via. Questa raccolta di saggi renderà più facile il linas, Steinbeck, Oriana Fallaci, Márquez, Primo Levi, Dino Buzzati, e compito a chi li volesse rintracciare e leggere tutti. tutte le strade sono state tracciate con maestria assoluta: la preghiera, il dialogo filosofico, la poesia, il romanzo, la testimonianza storica, il Da autore a lettore racconto… non posso, non posso, ci sono i grandi e i grandi ci guardaIl professor Tesio smette di essere critico e diventa puro lettore e apno e i lettori non si devono e non si possono ingannare come se non passionato sui libri delle sue due figlie, che apprezza e legge come lo sapessero che i grandi sono grandi e noi siamo piccoli piccoli e il fanno altri lettori, ma sentendosi più coinvolto. Dice di non essere mai tempo dovremmo impiegarlo meglio studiando che non scrivendo. stato il maestro di letteratura o di scrittura per le sue figlie e di essere Eppure: eppure se tutti la pensassero come me non ci sarebbero più lipiacevolmente sorpreso e felice nel leggerle: “Credo di essere un padre bri nuovi. E allora il dilemma, scrivere o tacere, che per fortuna alcuni, che non ha contato niente. Non sono stato un padre che, letterariaper la gioia di tutta l’umanità, risolvono con lo scrivere. Giovanni Tesio mente, le abbia stimolate, accudite, aiutate in qualche modo”. Di Enrimi cita il vincitore del Premio Strega, Cognetti, con il romanzo Le otto ca soprattutto ama la scrittura, di Silvia la capacità di costruire storie. montagne, dicendomi che “sembra ci sia un tentativo di ridare voce a qualcosa di più sorgivo del post-moderno”. E cosa c’è di nuovo?, Ritroveremo presto anche loro in libreria. chiedo io. “L’innocenza”, mi dice Giovanni. Ci vogliono innocenza e, aggiungo, una grande dose di passione, forse anche di incoscienza. E la letteratura in dialetto? E i piemontesi e il piemontese? Il piemontese e la sua letteratura stanno bene, c’è Remigio Bertolino, c’è Bianca Dorato, ci sono stati poeti come Costa, Pacòt, Olivero, Antonio Bodrero, Gustavo Buratti e molti altri ancora dice Giovanni; Ma tu nel complesso ti giudichi una persona di natura vincente? per me ci sono anche Giovanni Tesio o Nicola Duberti, mi dico. E chissà quanti altri che non hanno ancora Mah! Io mi ritengo uno che ha combattuto parecchie battaglie. trovato qualcuno che parli di loro. Ecco allora che c’è Che ne ha perse alcune e vinte altre. Devo avere una certa forza materiale anche per i nuovi critici letterari, nella profonda, perchè sono sopravvissuto ad Auschwitz, questa speranza che li vadano a scovare, questi scrittori, e ce è una grossa battaglia. Anche come chimico ho sopportato ne parlino.

Il mestiere di scrivere per Primo Levi

L’incontro con Primo Levi Dopo la raccolta Vita dacant e da canté, uscirà anche una raccolta di saggi su Primo Levi. Sì, perché la storia degli studi che Giovanni ha dedicato a Primo non è cosa che si esaurisca in poche pagine, anzi. Quando Giovanni era studente lesse su un’antologia di testi allestita da Virginia Galante Garrone, edita da Mursia, una pagina di Se questo è un uomo. In quella pagina c’era qualcosa di diverso dal testo che lui ricordava di aver letto. Come mai? E così telefonò a Levi, componendo il numero di telefono trovato sulla guida telefonica, e Primo lo invitò presso di lui a parlarne. “Con Primo Levi s’instaurò un buon rapporto”; Giovanni ne apprezzava la precisione di linguaggio, quando scriveva ma anche quando parlava. All’epoca

sconfitte, ma ho vinto parecchie volte. Poi, come scrittore. Mi sono ritrovato a diventare uno scrittore quasi mio malgrado, ho aperto un capitolo nuovo. Mi è venuta addosso a scalini, prima in Italia poi all’estero, questa ondata di successo che mi ha squilibrato profondamente, mi ha messo nei panni di qualcuno che non sono io. Quello dello scrittore è il mestiere più pesante?

Più pesante? Sì, questa è la domanda. Come effetti senza dubbio sì. Come fatica e durata direi di no, perchè ho scritto i miei libri generalmente volentieri, in modo facile, senza sentirne il peso. Io che vi parlo, pag 69

BIBLIOGRAFIA Levi P., Io che vi parlo, Torino, Einaudi, 2016. Tesio G. (a cura di), Diffusione e conoscenza di Primo Levi nei paesi europei, Torino, Centro Studi Piemontesi, 2005. Tesio G., Stantesèt sonèt, Torino, Centro Studi Piemontesi, 2015. Tesio G., Vita dacant e da canté, Torino, Centro Studi Piemontesi, 2017. 7


MATTEO OLIVERO

IL PITTORE DELLA LUCE di Lidia Brero Eandi

Lo chiamavano "il pittore della neve", un'espressione riduttiva perché Matteo Olivero è piuttosto un pittore della luce, avendo fatto della ricerca luministica la ragione della sua arte. Certo la neve è presente in molti dei suoi quadri: la montagna rappresenterà per tutta la vita il suo rifugio perché in montagna sono le sue radici.

Gli anni della formazione Nasce nel 1879 vicino ad Acceglio, nell'Alta Valle Maira. La madre, rimasta presto vedova, decide di vendere tutti i suoi beni ad Acceglio per poter far studiare il figlio prima a Dronero e poi a Torino perché il giovane Matteo intende frequentare l'Accademia Albertina. Si rivela presto un bravo allievo di bravi maestri come Giacomo Grosso e Andrea Tavernier e non gli mancheranno le menzioni d'onore. Una borsa di studio della scuola gli consente un ambìto viaggio a Parigi in occasione della Grande Esposizione Universale del 1900. È l'affacciarsi del giovane pittore, che ancora non ha finito gli studi, sul panorama dell'arte d'oltralpe. Suggestioni e stimoli derivanti anche da questa esperienza col tempo lo aiuteranno a trovare la sua strada. È affascinato dal fenomeno della luce. La ricerca costante di una tecnica luministica sin dai primi anni dell'Accademia lo porterà verso il divisionismo. Scrive: Il divisionismo consiste nel dipingere con colori scomposti invece di mescolarli sulla tavolozza e formare la tinta voluta. […] Con questa tecnica è innegabile che si ottenga "Solitudine", 1907, olio su tela, 150 x 200 cm. maggior trasparenza dell'aria, maggior intensità di luce, maggiore verità e colore e vita specialmente nei paesaggi e negli ambienti. […] Nel paesaggio il mio occhio vede più distinsenso di pace e di sereno raccoglimento davanti alla poesia della tamente i colori scomposti specialmente nei cieli luminosi e negli natura. "Un effetto di sole sulla neve, ove superai non lievi difficoltà" effetti di sole. […] Con questa scuola e con la mia speciale tecnica dice laconico l'artista di questa sua opera. giungo maggiormente ad approssimarmi ai colori e alle luci più vibranti che ci dà la natura. Così ho ottenuto l'effetto abbaglianIn realtà ne è molto orgoglioso perché sappiamo che verrà ripetutate della neve al sole. mente esposta nelle più importanti mostre successive. Un lungo steccato che costeggia un sentiero divide la distesa dei prati sepolti da una È quanto realizza in Solitudine, il suo primo capolavoro. coltre di neve abbagliante. Oltre lo steccato, in alto, una baita che pare disabitata, lungo i pendii, esili tronchi spogli e sterpi irrigiditi dal gelo; La poesia della natura sullo sfondo, le creste dei monti lontani contro un cielo dalla luce cangiante; in basso le ombre violette dello steccato e dei lievi avvallamenti Siamo nell'inverno del 1902 e Matteo è al penultimo anno dell'Accamodellati dalla neve. Un'osservazione della natura che diventa condemia. Solitudine è un grande quadro di due metri e, nonostante templazione lirica, in un'atmosfera sospesa di silenzio e di quiete. il titolo, l'ampia distesa innevata inondata dalla luce comunica un

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"Mattino: alta Valle Macra", 1909, olio su tela, 200 x 385 cm.

Un divisionista innato È questa una prova ormai matura della tecnica divisionista dell'artista: brevi tratti di colori puri affiancati — "scomposti" — in punta di pennello che si ricompongono fondendosi in un insieme armonico di luce. "Non ebbi maestri di detta scuola" — scrive — "né cercai di imitare le tecniche di altri divisionisti". Sappiamo che tra gli "altri divisionisti" ammirava molto Segantini, cui viene paragonato proprio a proposito di Solitudine, e poi Pellizza da Volpedo, che considerò un maestro oltre che un amico. Ci è rimasto un loro carteggio molto interessante in cui l'artista più anziano, Pellizza, incoraggia quello più giovane con riflessioni e consigli specifici, e Matteo lo ricambia con affettuosa ammirazione. Del famoso Quarto Stato di Pellizza scrive che "si avanza convinto, organizzato, a testa alta, verso un avvenire di giustizia e di pace" rimarcando con convinzione l'ideologia socialista che sottende. L'affinità di origini e di interessi artistici ha sicuramente cementato quest'amicizia purtroppo destinata a finire dopo pochi anni: Pellizza nel 1907 mette fine alla sua vita in seguito alla morte della moglie. Un colpo durissimo per Matteo.

poi effettivamente realizzato come dimostrano alcune fotografie. E fu guidando questo carro che si prese una polmonite che quasi lo ridusse in fin di vita. Anche nella maschera di Rigadin, il suo alter ego carnevalesco, rivela l'aspetto allegro e burlone del suo carattere. Rigadin ha un gran cappellone da pievano, un paio di occhialini e il suo bel viso di artista con i capelli arruffati, gli occhi azzurri e la barbetta bionda. Indossa una casacca decorata da medaglie e onorificenze varie sopra un paio di pantaloni a quadri come una tovaglia ed è a quadri anche il borsone da viaggio e, visto che è in viaggio, si porta appresso anche il bastone da passeggio e l'ombrello. Le calze gli scendono a fisarmonica sugli zoccoli di legno e così zoccolando se ne va in giro improvvisando comiche orazioni che attirano capanelli di curiosi. Naturalmente questi sono giorni di solenni libagioni con gli amici e certo il vino contribuisce a rendere Rigadin ancora più brillante. Purtroppo Matteo non è sempre Rigadin: è soggetto ad alterne fasi depressive che lo rendono inquieto, dubbioso, disanimato. Il rimedio consueto allora consiste nel tornare alle radici, cioè alle sue montagne, la fonte della sua ispirazione.

Olivero-Rigadin

Le montagne come rifugio

Ormai abita a Saluzzo. Ha abbandonato Torino. Non faceva per lui quell'ambiente artistico che giudicava condizionato da invidie, rivalità e amicizie di convenienza. È troppo sincero e diretto e probabilmente anche ingenuo per riuscire a districarsi nel mondo insidioso dell'arte. Abita con la madre nella parte vecchia della città e poco lontano, su per la salita al castello, ha il suo studio in un vecchio palazzo. Si trova bene a Saluzzo, fa numerose amicizie e in tutte le manifestazioni, specie nelle feste di Carnevale, la sua presenza è insostituibile. Inventa carri fantasiosi, ad esempio un dirigibile sollevato da un enorme pesce volante con le ali al posto delle pinne, progetto prima dipinto su tela e

Mattino: alta Valle Macra (1909). Abbiamo di fronte una tela di circa 8 metri quadrati, quasi a rendere la vastità del panorama che l'artista vuole rappresentare. Bisogna effettivamente spostarsi via via davanti al quadro per riuscire ad osservarne i particolari e come questi si sviluppino nel contesto di una composizione armonica, perfettamente equilibrata. A sinistra un giro di "lose" di pietra conficcate a terra delimita una sorta di recinto (ah la fatica dei nostri vecchi!); più in alto, sotto il cielo che va illuminandosi dell'oro rosato del primo mattino, ecco un campo di grano o di orzo che già sta imbiondendo; più in basso, sul crinale di una conca ancora invasa da una nebbia azzurrina,

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