Speciale Walter

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L’articolo “SPECIALE WALTER”, di Paolo Bertacchini e Alberto Calzolari, è estratto dall’uscita della rivista Fly Line di maggio-giugno 2016.


W

speciale

alter

Paolo Bertacchini, Alberto Calzolari e, in piccola, piccolissima parte, Roberto Messori

Era il 1996 quando apparve in Fly Line una differente pagina pubblicitaria del negozio di Walter Bartellini. In essa si invitavano i lettori ad approfittare dei forti sconti in previsione della cessazione dell’attività. Quest’anno, pertanto, ricorre il 20° anniversario di quell’importante accadimento, il vero termometro della chiusura di un’epoca, di una struttura sociale, di una mentalità alieutica e di un legame col fiume che oggi possiamo solo ricordare.

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I Capitolo L’uomo e le sue mosche A cura di Paolo Bertacchini

Il negozio di Walter, come appariva nel 1996. Sopra, alcuni spider di Walter Bartellini (da “Magie immerse” di Paolo Bertacchini).

I I

n tutta sincerità non ricordo in quale circostanza mi sia capitato di vedere per la prima volta le sommerse di Walter Bartellini, ma rammento perfettamente il momento in cui potei finalmente annodarne alcuni esemplari sul mio finale. Ne ho parlato anche in Magie Immerse, nella parte in cui evidenziai i meriti del famoso costruttore torinese. Mi accadde nell’Osca, un affluente del Magra, in una giornata difficile nella quale quegli artificiali riuscirono davvero a fare la differenza. Poi, quando anni più tardi mi trasferii nelle Terre del Genovesato, le volli ripetutamente provare sulle difficili trote dell’Aveto, ed anche in tali occasioni dimostrarono il loro valore.

Excursus storico

Andando a ritroso nel tempo mi balza in mente il numero di maggio dell’anno 1969 della scomparsa rivista Caccia e Pesca, nella quale venne pubblicato Sei mosche per tutto l’anno, un articolo di Franco Alinei, figura storica dell’italica pesca con la mosca finta, in cui l’Autore analizzava alcune delle sommerse più rappresentative di Walter. Lessi quel pezzo grazie alla cortesia di un caro amico che ne conservava i numeri con grande cura, finché ancor troppo giovane dovette incamminarsi per andare a caccia nelle verdi praterie del cielo. All’epoca non esisteva tutta la tecnologia attuale, quindi ho solo alcune annotazioni di quel lavoro, ma comunque si trattava di una breve sintesi della vasta produzione del costruttore torinese. Sempre sulla medesima pubblicazione, nel mese di maggio 1977 comparve un interessante articolo di Carlo Rancati, Le mosche di Walter, una sorta di piccola intervista comprensiva persino di alcune indicazioni sulle loro varie fasi di montaggio.

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Anche la rivista Pescare ha indiscutibilmente ricoperto un ruolo importante nella divulgazione della pesca a mosca nel nostro Paese, di conseguenza in più occasioni pose anch’essa all’attenzione dei lettori le sommerse di Bartellini. Nel corso degli anni ’70, in concomitanza con l’apertura della pesca alla trota, su detta pubblicazione compariva sistematicamente un articolo a firma di Roberto Pragliola contenente una serie di consigli per affrontare al meglio tale momento stagionale, solitamente difficile. Rileggendo tali note non ravviso nulla di obsoleto nelle indicazioni all’epoca fornite, al di là di quanto possano sostenere i cultori delle ultime mode. In Insetti mosche e trote, nel paragrafo intitolato Consigli per l’apertura scrisse: “Per le sommerse usare in genere mosche quali la Greenwell’s Glory, Olive Dun, Watherhen Bloa, March Brown oppure i modelli di Walter Bartellini più volte citati”. Nell’articolo Secche & Sommerse fu ancora più dettagliato e, nel suggerire quattro specifici modelli di Bartellini, precisò: “Gli spider dovrebbero essere usati a risalire dimodoché le loro morbide barbe, sotto l’effetto della corrente, possano “lavorare” al meglio. Inoltre, anche ciò è risaputo, all’inizio di stagione i nostri artificiali dovrebbero possedere colori smorti, tenui, e via discorrendo. Ora i quattro modelli illustrati possiedono colori tutt’altro che molto tenui eppure la loro efficacia, anche in questo preciso periodo stagionale, non può essere messa in discussione”. Ed in Qualche consiglio nel paragrafo Le mosche fornì il seguente suggerimento: “Per le sommerse usate i modelli di Walter Bartellini e Partridge and Orange, Butcher, Snipe and Purple, March Brown, Snipe and Yellow, Greenwell’s Glory, Waterhen Bloa, tutte montate su ami del 12/14”. Infine in Le prime “bollate” nel paragrafo Diamo la preferenza alla sommersa suggeriva alcuni modelli di sicuro affidamento fra cui due esemplari di Walter sostenendo che: “Siccome le eccezioni sono poche e le preferenze emotive non fanno testo, la logica impone di dare la preferenza alla mosca som-

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mersa”. In definitiva, gli esempi sopracitati non assumono valenza solamente dal punto di vista prettamente storiografico, ma dimostrano chiaramente come il valore di tali artificiali sia stato riconosciuto ed apprezzato da scuole territorialmente lontane, e talvolta diverse, da quella piemontese in cui ebbe origine. Stiamo parlando, infatti, del cenacolo fiorentino degli anni 60 – 70 che, oltre al già citato Franco Alinei, annoverava personaggi quali Roberto Daveri, Fosco Torrini, Roberto Pragliola e Piero Lumini, e di quello milanese che, a sua volta, includeva Carlo Rancati, Alessandro Ghilardi e Raffaele De Rosa. Ed ovviamente le mosche di Wal-

Gli spider di Walter come vennero presentati nel libro “Attrezzatura per la pesca sportiva” di Sergio Perosino, 1967. Sono, fotograficamente, le migliori immagini reperibili di quel periodo. Nel mondo del flytying italiano solo Walter uscì a buon diritto dai nostri confini per divenire un costruttore di fama mondiale. L’altro “nostro” personaggio noto all’estero fu Mario Riccardi, ma per le sue doti di pescatore e costruttore di canne, non per le sue mosche artificiali.


ter vennero citate anche in diversi libri, fra i quali preme rammentare Attrezzatura per la pesca sportiva (1967) del torinese Sergio Perosino (1925 – 2000), che fu giornalista e consulente tecnico della Federazione Italiana Pesca Sportiva. In questo testo compaiono alcune fra le migliori e più interessanti immagini fotografiche scattate all’epoca a tali mosche, e validi sono anche i treni di artificiali suggeriti per i vari momenti stagionali, con l’indicazione del posizionamento più idoneo di ciascun modello sul finale. Persino Luciano Tosi, figura di spicco della pesca a mosca reggiana, in Pesca a mosca (1981) nell’elenco delle

imitazioni più conosciute ed usate nei fiumi italiani elencò cinque specifici esemplari delle sommerse di Bartellini. Neppure gli inglesi restarono indifferenti al fascino esercitato da tali realizzazioni, infatti W. H. Lawrie in International Trout Flies (1969) dedicò loro un intero capitolo dal titolo “Italian trout flies” e quindi, oltre a fornire le ricette di ben 40 di questi artificiali, pubblicò una tavola a colori nella quale erano raffigurati tutti quegli esemplari. Poi fu la volta di altri testi britannici, quali Fly Patterns (1986) di Taff Price, The Shotheby’s Guide to Fly-fishing for Trout (1991) di Charles Jardine e Tying and Fishing the Nymph

(1995) sempre di Taff Price, in cui l’autore parlò addirittura di “Italian spider”.

Archetipo

Al giorno d’oggi gli ami definiti comunemente grub sono piuttosto noti e vengono prodotti da parecchie ditte del settore, ma quando Bartellini iniziò a creare i propri modelli dovette farseli realizzare in esclusiva. Lawrie affermava che quelli preferiti dal costruttore italiano erano fabbricati da Edward Sealey. Per quanto concerne il materiale impiegato per la formazione del corpo e della testa dell’artificiale si utilizza la filanca 60/2, ossia composta da due capi formati da 60 filamenti ciascuno. La costruzione, poi, avviene partendo dalla realizzazione di una testina per poi proseguire con la collocazione e l’avvolgimento della piumetta con la quale si ottiene il collarino dell’artificiale. Le barbe sono avvolte in avanti, cioè esattamente al contrario di quanto solitamente avviene. Quindi si procede alla costruzione di un corpo conico ottenuto con più avvolgimenti di filanca, si formano gli eventuali anelli addominali con tinsel piatto o lamé, e si ferma infine il materiale con un nodo in prossimità della piuma avvolta. A questo punto l’addome deve essere verniciato per due volte ad ovvia distanza di tempo, ed il fatto curioso è che la seconda verniciatura ripristina il colore originale della filanca utilizzata. Queste sono, in sintesi, la fasi costruttive di una delle sue tipiche sommerse, le cui dettagliate sequenze fotografiche compaiono in Magie Immerse.

Analogie

Come evidente, si tratta di una sorta di interpretazione delle classiche moschette valsesiane, vero e grande nostro patrimonio nazionale. In comune con esse hanno la posizione conferita alle barbe della piuma rivolte in avanti al fine di evitare, per quanto possibile, che si incollino al corpo generando il cosiddetto “effetto goccia”. Questa tipologia costruttiva, infatti, viene adoperata allo scopo di rendere più pulsante la mosca a seguito delle sollecitazioni generate dall’acqua. Naturalmente tale

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soluzione rispecchia un punto di vista, oppure la volontà di presentare in un determinato momento qualcosa di diverso agli occhi del pesce. Altra analogia con le valsesiane è la numerosissima varietà di colori con i quali vengono realizzati i corpi di queste sommerse. Effettivamente è sempre stato appurato come in alcune giornate certe tinte attraggano più di altre trote e temoli, ed inoltre che in precisi periodi stagionali ne sussistano talune talmente redditizie da essere diventate dei veri e propri classici. Un chiaro esempio in tal senso lo si riscontra nella descrizione di papà Beau, uno dei vecchi pescatori del fiume Ain, fatta da Léonce de Boisset in Réhabilitation de la mouche noyée (1949). Costui iniziava sempre a pescare con una serie di cinque o sei mosche di colori diversi, che definiva “montatura di prova”. Dopo aver ingannato i primi pesci, ad esempio con una mosca di colore

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rosso, sostituiva il suo finale con un altro che aveva solo identici artificiali. Se la trota si dimostrava eclettica e le prime catture erano fatte con delle mosche di colore diverso, papà Beau borbottava, si grattava la testa, trattava le trote da “donnacce” e continuava con il suo finale di “prova”. È dunque importante avere con sé delle mosche di colori differenti che si useranno a seconda della circostanza e delle voglie del pesce. Le sommerse di Bartellini, infine, posseggono anche alcune delle caratteristiche proprie delle mosche secche di Aimé Devaux. Anche in quest’ultimo caso siamo in presenza di un’hackle spinta in avanti per evitare che si posizioni a ridosso dell’addome, di una serie di tinte davvero impressionante, di un addome reso estremamente solido, quasi indistruttibile, nonché del fatto che i vari modelli vengono semplicemente identificati mediante una breve sigla.

Peculiarità

Una delle caratteristiche salienti di questi esemplari in filanca è determinata dal fatto che molto spesso vengono utilizzati materiali in grado di far risaltare le varie componenti della mosca. Di conseguenza i corpi sono anellati con tinsel o lamé in modo tale che, pur armonizzando con l’insieme, possano fornire in modo assai efficace l’idea della segmentazione dell’insetto. La testina, Sopra, spider di Walter Bartellini clonati e fotografati da Paolo Bertacchini. A fronte: ecco, tratto dal libro “Magie immerse” il processo di montaggio che caratterizza gli spider di Walter, che lui stesso descriverà nella parte redatta da Alberto Calzolari, alcune pagine più avanti. Unica variante, preferita da Bertacchini: l’hackle legato nella rachide anziché in punta.


Tipico spider di Walter Bartellini, costruttivamente è una sorta di valsesiana particolarmente raffinata e ben caratterizzata.

1 - Si blocca il filo arancione e si realizza subito la testa.

2 - Si blocca una piuma screziata chiara di pernice.

4 - Con la filanca si fissa la piattina metallica per l’anellatura, indi si realizza un corpo moderatamente conico.

3 - Si avvolge la piuma, si fissa e taglia l’eccedenza, s’annoda e si recide il filo stesso.

6 - Si realizza il nodo con la stessa filanca cercando di pressare leggermente in avanti la barbe screziate di pernice. 5 - Ecco il corpo terminato, è il momento di anellarlo e bloccare la piattina con la stessa filanca.

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poi, è di un colore che quasi sempre spicca sull’insieme, infatti talvolta vi compaiono filati fluorescenti in tinta arancione, gialla o verde. In poche parole Walter Bartellini aveva compreso l’importanza di uno spot, ossia di un vero e proprio punto di richiamo, ben molto tempo prima delle ultime scoperte in tema di ninfe artificiali. Benché, come sinora evidenziato, la filanca avesse assunto parte preponderante nella composizione delle mosche in argomento, non si pensi che la sua creatività fosse basata esclusivamente su tale materiale, oppure circoscritta ai classici ordini di insetti. La foto con le 40 sommerse pubblicata nel citato testo di W. H. Lawrie costituisce indubbiamente una selezione assai rappresentativa e senz’altro fornita dallo stesso costruttore, visto che nel libro compaiono persino i corrispondenti dressings. Tuttavia la sua produzione, mediante gli stessi criteri, fu molto più vasta e dedicata anche specificatamente ad artificiali da temolo e da cavedano. Attualmente i medesimi esemplari sono disponibili anche su amo dritto e realizzati sempre con la medesima cura dei dettagli. Per quanto mi riguarda, tuttavia, le mie preferenze continuano ad essere rivolte ai medesimi modelli assemblati su amo grub. Si tratta semplicemente di un punto di vista che si fonda su due fattori assai soggettivi: lato estetico dell’artificiale risultante e cieca fiducia in quel determinato esemplare una volta annodato al proprio finale.

Materiali

In una mosca sommersa le piume rivestono un’importanza capitale e nella loro scelta occorre prestare la medesima cura solitamente rivolta alla costruzione dei modelli galleggianti. Quindi la lunghezza delle barbe non deve essere eccessiva ed è opportuno che quelle di gallina siano dotate di barbule ben evidenti. Le hackle impiegate da Bartellini provengono dai seguenti volatili: grouse scozzese, pernice chiara, pernice scura, fagiana, fagiano maschio, faraona, beccaccia, gallina rosso naturale, gallina furnace, gallina grigia. Per quanto concerne la filanca i colori utilizzati sono i seguenti: giallo, giallo uovo, giallo oro, giallo fluo, arancio, verde pisello, verde fluo, viola, viola chiaro, rosso, rosso fluo,

grigio, nero, blu, nocciola e bianco. Come materiale naturale per il corpo alcuni esemplari vengono ottenuti mediante herl di condor, di pavone, di pavone femmina, quill di pavone naturale, quill di pavone tinto oliva, penna tinta in rosa, calamo tinto in rosa. È ben comprensibile come, combinando i vari materiali fra loro, sia stato possibile dare origine ad una serie assai numerosa di artificiali. La cosa importante, anche in questo caso, consiste nell’operare una selezione ponderata all’interno di una miriade di esemplari elaborati dallo stesso costruttore. Che, in poche parole, corrisponde esattamente a quanto fecero nella rispettiva produzione letteraria citata Franco Alinei, Carlo Rancati, Luciano Tosi e Roberto Pragliola.

Le regole del commercio

Costruire mosche per gli altri è un’attività molto impegnativa, peraltro estremamente legata alle ferree leggi del Sopra, le 40 mosche sommerse di Walter pubblicate nell’opera di W. H. Lawrie, completate dalla descrizione dei dressing. A fronte, il capitolo dedicato a Walter da Taff Price nel suo libro “Fly Patterns An International Guide”, 1986, edizione 1997.

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nate sia dalle sue mani che, in seguito, dal morsetto. Occorre, tuttavia, evidenziare come lo spettro imitativo da lui realizzato abbia abbracciato anche forme vitali molto interessanti, quali la vespa (AC), il lepidottero Amata phegea (AT), il ragno della pietra (AY), la mosca della cacca (AF) e la falena (DT). Non potrei definire questi interessi imitativi altro che un chiaro esempio di buon senso.

Fly box

mercato. Al di là di quelle che possono essere le convinzioni personali, chi si pone al morsetto deve tener conto delle esigenze della clientela e della fame di novità che sembra perennemente pervadere la maggior parte dei pescatori. Di conseguenza anche le ditte a grande risonanza internazionale procedono annualmente a rivisitare i propri cataloghi, aggiungendo nuove serie assolutamente indispensabili od eliminando dalla produzione quei modelli che vengono sempre meno richiesti. Un esempio sintomatico in tal senso è riscontrabile nella ditta Devaux,

che non commercializza più validissimi artificiali quali le famose ninfe da temolo A.T.O. ideate da André Terrier, oppure diverse ottime mosche secche come la 960 dal collarino in beccaccia, tanto cara ad Aimé Devaux e Raymond Rocher, la quale ormai non è più che un pallido ricordo. Allo stesso modo anche la produzione artigianale di alto livello propria di Walter Bartellini nel corso del tempo dovette, ovviamente, puntare su certi modelli più che su altri, ed è pertanto estremamente problematico riuscire a passare in rassegna tutte le sommerse

Mi piace pescare a sommersa, soprattutto a risalire. Un tempo adoperavo tre imitazioni contemporaneamente, poi sono passato a due e, in determinate circostanze, mi ritrovo ad insidiare il pesce mediante un unico esemplare. Di conseguenza reco sempre con me una scatoletta contenente moschette grazie alle quali è ampiamente possibile riuscire a far giustizia di tutti i pesci insettivori del pianeta Terra. Marco Delitala Calistri, eccellente costruttore professionista di mosche della provincia di Pistoia, mi ha fatto sorridere avendole definite “uno squadrone di caccia giapponesi Zero prima di decollare alla volta di Pearl Harbor”. Già, il mio fly box contiene sommerse ampiamente selezionate e collaudate: le inglesi storiche, quelle di mio padre e le mie, talune di quelle utilizzate in val d’Aveto, diverse consigliate da altri pescatori, talvolta negozianti e, non ultime, alcune di Walter Bartellini, dal momento che è sempre vivo in me il ricordo di quella giornata di molti, veramente tanti anni fa, vissuta intensamente sulle rive dell’Osca.

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II Capitolo L’uomo e il suo tempo A cura di Alberto Calzolari

Noi siamo il nostro passato, l’unica cosa che possediamo veramente. Non dobbiamo dimenticarlo, perché è da lì che veniamo e lì si trova la nostra anima più vera. La tecnologia ed il progresso ci offrono attrezzi sempre più facili, comodi e sofisticati, ma per produrli distruggiamo quell’ambiente dove poi dovremmo utilizzarli. Lo so, sembra un non senso, ma ditemi voi se non è così. È per questo che in queste pagine viaggeremo nel passato, per non dimenticare. R.M. 70

Di quel giorno non ricordo tutto. Non ricordo come riuscii ad avere il numero di telefono di Walter Bartellini, faccio fatica pure a ricordare che anno fosse con esattezza, forse tra il 2008 e il 2009. Ricordo invece alcune cose: la prima è la location, per dirla all’inglese, e il mio stato d’animo, per dirla all’italiana. Ero in cucina e guardavo fuori dalla finestra, gli occhi posati su un inverno che pareva non volersene più andare e che con il suo grigiore non portava certo luce a quella paura che avevo dentro. Paura di disturbare un uomo che avevo silenziosamente ammirato per anni senza aver nemmeno conosciuto, se non attraverso le sue famose moschette. Mi sentivo quasi come uno di quei venditori che si preparano a telefonare a freddo a qualche cliente e che immaginano già di sentirsi appendere la famosa “cornetta” del telefono in faccia. Beh, evidentemente così non fu e oggi mi ritrovo qui a pensare al regalo che questo vecchio pescatore mi fece, e qui il termine “vecchio” è volutamente usato nella sua massima espressione di rispetto, semplicemente concedendomi parecchio del suo tempo e regalandomi un biglietto per un viaggio nei suoi ricordi. In verità, mentre componevo i numeri sul telefono, non potevo immaginare che da lì a poco mi sarei sentito trascinare dolcemente in un inatteso viaggio indietro nel tempo, in un mondo che pareva distante anni luce, e non solo qualche decennio, dal mondo che conoscevo io. In verità, un pezzetto di quel mondo, la coda, lo stra-

scico, lo avevo intravisto, sfiorato, solo lambito, avendo iniziato a pescare con la mosca verso la fine degli anni ’70. Avevo letto racconti, vecchi libri e avevo ancora dentro di me un mondo in bianco e nero e per nulla digitale. La voce di Mariuccia, la moglie di Walter, mi accolse al telefono con dolcezza, quasi fosse l’invito all’imbarco del volo su cui stavo per partire. Pochi minuti dopo stavo chiacchierando allegramente con Bartellini, quasi ci conoscessimo da una vita. Presi nota di tutto quello che mi raccontava, ma era difficile scrivere, ero completamente rapito dalla storia. Presi appunti veloci che poi unii in seguito ad alcune note che Walter mi inviò per posta insieme alla serie completa delle sue mosche. Quello che leggerete sotto è il racconto di Walter, della sua vita e delle sue mosche. “Signore e Signori, è il vostro capitano che vi parla, siamo pronti al decollo per un piccolo viaggio nel tempo. Sorvoleremo le lame del Po, vedremo temoli bollare alla luce dei lampioni, sentiremo il fruscio di sete antiche, il frustare di canne nere, e vedremo mani muoversi intorno ad un amo. Soprattutto vedremo un uomo e sua moglie, sorriderci da dietro il bancone di un negozio invitandoci ad entrare. Se vorrete seguirmi, lo spettacolo ha quasi inizio. Potete anche non allacciare le cinture, mal che vada verrete travolti dalla dolcezza di un tempo che non c’è più. A proposito, durante il volo non verrà servito alcun rinfresco...”


A valle del ponte vi era una piccola briglia, costruita per limitare l’erosione dei piloni del ponte durante le piene e lo scioglimento delle nevi; sulla briglia era stato creato uno scivolo che facilitava lo scorrimento dell’acqua e serviva anche come scala di risalita per i pesci. Proprio sotto questa briglia l’acqua, da calma e uniforme, diventava più allegra e il fiume si trasformava in un insieme di bellissime correntine, più o meno veloci, ideali proprio per pescare con delle mosche artificiali. C’erano pescatori praticamente ogni giorno e quasi a ogni ora, da primavera all’autunno, dal pomeriggio fino a notte; proprio dopo le

8 di sera, sulla sponda opposta del fiume, le luci sulla strada del grande Zoo illuminavano la superficie dell’acqua e rendevano visibili le numerose bollate delle molte trote, di temoli e cavedani. Gli orrori della Seconda Guerra Mondiale erano ancora freschi nella nostra memoria e la pesca si praticava principalmente per procurare cibo e integrare una dieta povera; poi, poco alla volta, con le migliorate condizioni economiche, iniziammo ad andare a pescare anche, o principalmente, per puro piacere e iniziammo a considerare questo passatempo come sport. Esistevano a quel tempo quattro tecniche tradizio-

WALTER BARTELLINI

Sono nato nel 1929 a Torino. Ho iniziato presto a interessarmi alla pesca con le mosche artificiali e già a 15 anni mi divertivo sulle acque del Po, che scorre nella parte bassa della città, vicino al ponte di piazza Vittorio. Qui, sulla passeggiata che segue il fiume, c’erano sempre pescatori in azione e curiosi ad osservare. Sopra, pescatori lungo il Po, anni ‘80. A destra, il tratto di Po a Torino a valle del ponte presso piazza Vittorio, teatro delle prime esperienze di Walter. Sotto, foto d’epoca di pescatori lungo il Po. nali per pescare con le mosche artificiali: la “Valsesiana”, la “Piemontese”, la “Biellese”, anche chiamata “Ossolana” e infine la tecnica con il sughero piombato. Pochissime persone pescavano a quel tempo con quello che chiamavamo tecnica all’Inglese, la pesca a mosca come la conosciamo oggi. La Valsesiana è una tecnica molto antica, usata sui fiumi montani. Si praticava usando una canna in tre pezzi, di circa 4,2 o 4,5 metri, creata con canna di Nizza (Arundo donax), leggera e flessibile, con un cimino di canna nera (Phillostachys nigra), unita e fissata con filo; la parte centrale era più corta delle altre per rendere l’insieme un po’ più rigido. Questa canna si usava in due modi differenti: quando l’acqua era limpida si

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e mezzo, dove legavano poi 3 o 4 mosche montate su ami del 12-14 per la trota e del 16-18 per temolo. Le mosche più scure e che pescavano in profondità venivano fissate in punta, in mezzo quelle di colore tenue e sui braccioli in alto quelle chiare, che erano quelle più visibili e che rimanevano vicine alla superficie. La tecnica chiamata “alla Piemontese” era usata nella maggior parte dei grandi fiumi sulle grandi piane, con molto spazio per potersi muovere con le speciali canne, lunghe tra i 6 e gli 8 metri, costruite con canna locale (Arundo donax) e un vettino robusto in canna nera. Anche sulla punta di queste canne veniva fissata una lenza di crine di cavallo, come per la Valsesiana, ma lunga tra i 15 e i 17 metri, con un finale in punta di circa un metro e mezzo e 8 o 12 mosche di diverso tipo. Per lanciare questa lunga lenza veniva usato un sistema molto simile allo Spey Cast che consentiva di raggiungere agevolmente distanze di 20 metri e di lavorare larghi tratti di fiume. Solo persone con una forza fisica notevole poteutilizzavano mosche per pescare vicino alla superficie, mentre quando era sporca si rimpiazzavano le mosche con un lungo finale con parecchi piombini e un amo nudo su cui fissare un verme o un insetto vero. Fissata in cima a questa canna vi era una lenza costruita in crini di cavallo, prelevati dalla coda di uno stallone, preferibilmente bianco, annodati e attorcigliati, di circa 3,5 m di lunghezza. Questa lenza si rastremava gradualmente fino a un terminale composto da 3-4 crini. Erano ovviamente lenze fatte a mano e si doveva porre una notevole cura nell’ammorbidire le sezioni in acqua calda prima di annodarle. Inoltre, prima di ogni pescata era obbligatorio bagnarle per almeno mezz’ora, pena la rottura. L’uso di queste lenze in crine fu così comune fino a tempi abbastanza recenti, da interessare personaggi come lo storico Dr. Andrew Herd che così scrisse sul crine: “Il crine di cavallo potrebbe apparire anacronistico ai nostri tempi, ma non sottovalutatelo, possiede delle incredibili virtù: è rigido, leggermente

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elastico, quasi trasparente e si lancia veramente bene”. In fondo a queste lenze i pescatori usavano legare un finale fatto di spezzoni di “gut”, ottenuto dalle ghiandole del baco da seta, lungo circa un metro

A destra, tratti in Gut per realizzare finali. Sotto, dopoguerra, attrezzi di pesca, museo di S. Benedetto Po. A fronte, cartolina, 1902 (collezione Tommasi Castaldo), Edizioni Borghi: pescatori lungo il Po.


vano utilizzare un’attrezzatura del genere. A causa della lunghezza della lenza i pescatori erano costretti a camminare all’indietro sulla riva del fiume per recuperare il pesce e, una volta raggiunta la riva, la canna veniva tenuta verticale e si iniziava a recuperare la lenza a mano, esattamente come si vedeva nelle illustrazioni inglesi del 18° secolo. Le altre due tecniche, la Biellese

e l’Ossolana, erano molto simili alla Valsesiana, ma usavano canne più corte, di circa 3 metri, e lenze di crine più lunghe, intorno ai 6 metri. La tecnica chiamata sughero piombato richiedeva una canna di bambù nero perfettamente stagionata, leggera, sottile e robusta, con due anelli con il cuore in agata fissati uno in punta e uno a 40 cm sotto; questi anelli riducevano l’attrito durante

il lancio e miglioravano la ferrata. A quel tempo la maggior parte dei pescatori non poteva di certo permettersi un mulinello; solo quegli inglesi e francesi erano disponibili, ma costavano un sacco di denaro. Cosicché l’unica alternativa era l’uso del cosiddetto “Quadrello”, un attrezzo formato da quattro pezzi di legno duro, lucidati e montati a formare una cornice rettangolare. Sui lati corti veniva avvolta una lenza di seta apprettata di circa 20-30 metri, chiamata Papillon e fabbricata in Francia (il nylon non era ancora stato inventato). Questa lenza veniva rilasciata durante il lancio e controllata con le dita. Il recupero era fatto con un movimento rotatorio del polso della mano che impugnava il quadrello. Un finale di 3 metri veniva fissato alla lenza e su questo veniva annodata una montatura di 5 o 7 mosche legate ad uno spezzone rigido per evitare che si attorcigliassero con la lenza principale (in quei giorni tutte le mosche erano senza occhiello e montate direttamente ad uno spezzone di gut); in fondo a questo finale veniva fissato un galleggiante

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speciale fatto di sughero appesantito da piombo. Questo permetteva lunghi lanci nelle correnti più lontane e allo stesso tempo tratteneva le mosche in superficie. Molto prima della scoperta e dell’uso del nylon, i finali e i terminali erano fatti con il Gut di seta ottenuto dalle ghiandole (sericee) del baco. L’operazione iniziava scegliendo i bachi che erano quasi pronti a imbozzolarsi e immergendoli in una soluzione di aceto bianco per ammorbidire le ghiandole. Dopo una notte intera passata nell’aceto i bachi erano appoggiati su un giornale e ognuno di loro veniva aperto e le ghiandole tirate delicatamente con le dita. Questa azione formava dei filamenti sericei di spessori diversi a secondo della forza applicata nella trazione. I gut così ottenuti venivano fatti asciugare sul giornale e raccolti poi in matasse. Era necessario un bagno in acqua tiepida per poterli ammorbidire e legare tra di loro per formare un finale. Poiché il processo era del tutto manuale, la qualità di questi spezzoni non poteva essere garantita e spesso alcuni di loro era piatti o di diametro non costante. Ma non vi era null’altro disponibile sul mercato. Anche se gut trafilati provenienti dalla Francia e dalla Gran Bretagna, più lunghi e con spessori costanti (ma opachi e tinti in colori mimetici) iniziavano a trovarsi in qualche negozio. Venivano venduti come Racine Inglese o Crine Spagnolo. I migliori erano sicuramente i “crin de Florence à la barre rouge”, sempre molto selezionati, ma con tendenza a sfrangiarsi con l’uso. In quei giorni lontani tutti gli ami erano fatti a mano dai pescatori di Torino che avevano una lunga tradizione nel lavorare il metallo. Si usava filo di acciaio ammorbidito o il wolframio (tungsteno). Dopo che la punta era stata affilata veniva inciso l’ardiglione con uno scalpello e poi il filo veniva piegato con pinze speciali. L’indurimento veniva fatto a fiamma di candela e poi l’amo era immerso velocemente in acqua fredda per raffreddarlo. Ovviamente gli ami erano ora troppo fragili ed era necessario temprarli scaldandoli leggermente per renderli flessibili. Tutti questi ami erano senza occhiello.

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Il maggior fornitore di filo d’acciaio era l’azienda Rocca di Torino, uno dei più famosi gioiellieri in città, che forniva anche attrezzi di precisione e parti di ricambio per gli orologiai. Le piume da costruzione erano prelevate da gallinacei, cacciagione e passeracei; i corpi fatti con quill di ali e coda di tacchino, oca, fagiano e pavone, che venivano tinti con tinture da stoffa e fissate con acido acetico. Un normale bozzolo di baco da seta veniva trattato e trasformato in un batuffolo di seta per poter estrarre il filo da costruzione. Questi fili si usavano sia per fissare i materiali sull’amo che per formare i corpi. Il batuffolo di seta veniva ottenuto bollendo i bozzoli in una soluzione di

acqua e soda caustica per alcuni minuti. Questo trattamento separava i filamenti e formava una sorta di agglomerato sferico molto simile a un batuffolo di cotone, che poteva poi essere tinto in vari colori. Le mosche si costruivano ancora in mano senza usare il morsetto: l’amo si stringeva tra pollice e indice della mano sinistra mentre la destra fungeva da bobinatore e pinze per hackle, in quanto questi accessori così comuni oggi non erano ancora disponibili sul mercato Italiano. Si fissava per prima cosa uno spezzone di gut lungo circa 6-7 cm sul gambo dell’amo, che veniva in seguito legato al finale. Le mosche di punta avevano uno spezzone più lungo


A fronte, immediato dopoguerra, trote pescate nella Dora Baltea, tratto libero (foto Carignani), da un’uscita della rivista “Pescare”. Sopra: donne intente alla costruzione di mosche da salmone. Anche noi possiamo vantare, stessa epoca, una grande costruttrice, Mariuccia, moglie di Walter. A destra? Il bobinatore! di quasi 30 cm. Il batuffolino di seta veniva tenuto nella mano destra e un filamento andava fissato e avvolto per formare la testa della mosca; poi si legava una piuma dalla punta e si avvolgeva a mano sull’amo; per finire si usava un colore differente di seta per formare il corpo. Questi fili di seta venivano semplicemente strappati e non tagliati con le forbici. La maggior parte di queste mosche venivano costruite dalle mogli dei pescatori o dalle loro figlie, e una parte delle mosche veniva venduta per mettere insieme un po’ di denaro per la famiglia, mentre i mariti lavoravano nelle fabbriche. Le mosche venute peggio, quelle di più bassa qualità, si vendevano ai principianti per poco denaro. Erano mosche veramente scadenti che si distruggevano solo dopo un paio di pesci. Quando diventai maggiorenne trovai un lavoro come commesso e finalmente riuscii ad avere un salario che mi permise di comprare, con i risparmi, una completa attrezzatura da pesca. Apprendere la tecnica era cosa lunga e difficile in quanto gli altri pescatori era-

no particolarmente gelosi e riservati e non volevano avere concorrenza, per cui erano molto riluttanti a rivelare i loro segreti. Alla fine trovai qualche buon’anima che mi diede un po’ di indicazioni e mi indirizzò in un posto dove poter comprare l’attrezzatura. La mia prima esperienze con la pesca a mosca fu con la tecnica del sughero piombato. Comprai la prima canna di bambù nero, in due pezzi sottili e flessibili con una lunga impugnatura in legno fatta con un bastone da scopa. Con i pochi soldi a disposizione mi procurai un quadrello, invece di un costoso mulinello. Pochi anni dopo iniziò a vedersi in giro il primo nylon. Questo filo continuo, trasparente, di differenti diametri, era l’ideale per sostituire i cordini, i finali in gut e il crine di cavallo. Era disponibile in bobine da 50 e 100 metri, era elastico e facile da annodare, ma aveva ancora qualche difetto: non era perfettamente rotondo e dopo un po’ di uso tendeva a diventare rigido. Prima di ogni uscita di pesca la maggior parte dei pescatori che usavano il quadrello

doveva ammorbidire questo nylon in acqua già dalla notte prima. Il migliore comunque era marcato Solin, fabbricato in Germania, di un colore verde scuro, di ottima qualità, ma molto costoso. Iniziai a trascorrere ogni serata, dopo cena, a costruire mosche sul tavolo della cucina, con i materiali che avevo messo insieme con grande fatica. Studiai e sviluppai diversi modelli, migliorandoli e provandoli sul fiume ogni domenica. Era così faticoso tenere quegli ami in mano che spesso ero obbligato a fermarmi per un po’, perché avevo perso completamente la sensibilità nelle punte delle dita. Ma quelli erano gli anni dove incominciai anche a essere attratto dalla pesca a mosca che chiamavamo “all’Inglese”. Poco per volta, provando e riprovando, modificai e migliorai le mie mosche usando materiali sempre migliori; lasciai perdere il batuffolo di seta e scoprii migliori alternative, come la seta Pearsall come filo da costruzione, seta floss da ricamo per formare i corpi, tinsel piatto e ovale per i rigaggi. Questi tinsel si compravano nei negozi specializzati in paramenti sacri o dove cucivano costumi per ballerine o per carnevale. Apparve inoltre il nylon floss, usato nell’industria delle corde. Iniziai a formare i corpi delle mie mosche con questo materiale che era facile da tingere, era lucente e ci si potevano applicare due mani di vernice trasparente per preservare il colore naturale e rendere i corpi più robusti. Per le mosche da trota usavo hackle prelevate da selvaggina e da galline, naturali e tinte. Mi procuravo queste piume pagando una piccola mancia alle donne che spennavano gli animali nei ristoranti. Poi trovavo code e ali di altri volatili dai guardiani dello Zoo che si trovava lungo le rive del Po e che ho descritto all’inizio. Alcune di queste piume venivano anche tinte in diverse tonalità usando tinture da stoffa e fissativo. Le hackle da selvaggina più usate erano quelle provenienti dal collo di fagiano maschio o femmina, dal collo e petto di pernice, sotto l’ala di anatra, pavone e beccaccia; queste piume erano per lo più usate su mosche da trota su ami del 10, 12 e 14. Per il temolo usava-

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mo ami più piccoli e piumette di merlo, pernice grigia, starna e fringuello. Con l’aiuto del dizionario e del poco di inglese e francese studiato a scuola, cominciai a leggere alcune riviste straniere comprate in qualche libreria. Su queste riviste trovai i nomi e gli indirizzi di aziende specializzate nella produzione e vendita di materiale da costruzione e da pesca a mosca. Finalmente, con un morsetto, pinze per hackle e bobinatori, fui in grado di velocizzare e migliorare le mie prestazioni al morsetto. Dall’inglese Veniard importai diversi colli di gallo e piume di differenti e rari uccelli (come il cul de canard e il jungle cock); dalla Mustad in Norvegia e dalla Sealey inglese comprai ami con occhiello; da Buz Buszeck in California acquistai un morsetto Thompson, oltre a eccellenti materiali da costruzione come cervo, alce, orso, scoiattolo e capriolo. Le mie mosche iniziarono un po’ alla volta ad essere richieste da diversi negozi di pesca di Torino e della provincia, oltre che da clienti privati. Nel 1960 mi licenziai così dal mio posto di lavoro e dopo un anno aprii finalmente un piccolo laboratorio in Corso

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Regina Margherita 98, a Torino, vicino ai Giardini Reali. Qui cominciai ufficialmente il mio nuovo lavoro di costruttore di mosche professionista, infettando, o meglio trascinando, mia moglie Mariuccia in questa avventura. Da quel giorno venni sempre supportato fianco a fianco da mia moglie, che era diventata nel frattempo una bravissima costruttrice. Molto presto le mie mosche diventarono conosciute e apprezzate dappertutto. Nel 1962, insieme ad altri 10 amici e clienti, fondammo il Cipm, il Club Italiano dei Pescatori a Mosca, con sede a Torino, il primo club italiano dedicato alla promozione del metodo inglese di pesca a mosca, con l’obiettivo di mantenere questa tradizione viva e diffondere la tecnica: credo, purtroppo, di essere l’ultimo dei soci originali ancora vivo. Sarò sempre grato ai miei amici Roberto Pragliola, Gianfranco Degola,

Carlo Rancati, Piero Lumini, Franco Alinei e altri che hanno contribuito, attraverso i loro bellissimi articoli sulle riviste di pesca e con lusinghiere parole, a rendere le mie mosche così conosciute in giro per l’Italia. Sono anche grato al sig. Cantoni di Milano, agente di conosciuti marchi stranieri, che fece il mio nome a Mr. Lawrie e mi permise di essere menzionato sul suo libro “International Trout Flies”, come rappresentante dei costruttori italiani nella lista dei più conosciuti costruttori di tutto il mondo. Pochi mesi dopo ricevetti da Mr. Lawrie una copia del libro contenente le foto di 40 dei miei spider complete di dressing, il tutto accompagnato da una dedica dell’autore e dai suoi complimenti. Nel famoso libro del 1986, “Fly Patterns An International Guide”, l’autore Taff Price diede spazio agli spider di Bartellini, comparandoli alle mosche usate sui Pirenei spagnoli, specialmente A sinistra in alto: Pescatore alla Valsesiana sul Mastallone al ponte della Gula, incisione, Biblioteca Civica Farinone Centa (da Pesca alla Valsesiana, R. Dionigi, 2002). Sotto: “... da Buz Buszeck in California acquistai un morsetto Thompson...”. A fronte, scorcio del negozio di Walter, metà anni ‘90. Il negozio venne rilevato ed oggi è ancora attivo.


per quello che concerne i colori delle teste. Allo stesso modo, Charles Jardine, nel 1991, descrisse alcune delle mie mosche nel suo “Sotheby’s guide to Fly Fishing for Trout”, descrivendoli come mosche che ricordano i modelli del Nord del Regno Unito. Tornando ai miei progressi nella costruzione, ci fu un momento in cui finalmente riuscii a convincere la società inglese E. Sealey a inserire tra il loro catalogo un amo di mio disegno. Era un tipo di Grub, fine e bronzato, in misure 10, 12 e 14, non disponibile sul mercato. Inoltre, sempre alla ricerca di nuovi materiali trovai un’azienda che fabbricava calzini da uomo, calze da donna, guanti e costumi da bagno. Qui scoprii un filato speciale che poteva essere adatto come filo da costruzione e per costruire corpi e sotto-corpi di mosche, trasformando così il mio modo di costruire. Si trattava di un nylon stretch, un filato sintetico composto da moltissimi fili sottili, facile da tingere e resistente. Era disponibile in due misure: 60/2, 2 capi principali composti da 60 fili ognuno, e 100/2 con 100 fili ognuno. Con questo materiale diventava facile formare velocemente un corpo proporzionato, anche su mosche piccole, gestendo solo la tensione. Penso che valga la pena descrivere la procedura di costruzione dei miei spider. Per prima cosa inizio a formare la testa della mosca (di solito nera, rossa,

verde o marrone), poi fisso una piuma dalla punta e con la parte interna rivolta verso l’occhiello. In questo modo le fibre della piuma non si attaccano sul corpo e mantengono un certo movimento in acqua; questo stile di montaggio differisce da quello classico inglese delle mosche sommerse, che suggerisce di mantenere la parte interna della piuma rivolta verso la curva dell’amo. Una volta che la piuma è avvolta e fissata, inizio a formare il corpo con differenti colori di filo, avvolgendo il nylon stretch con circa 4 giri avanti e indietro e fermandomi vicino all’hackle. Nel caso sia previsto dalla ricetta, fisso un tinsel prima di chiudere con il nodo finale. Le mie mosche non hanno code. Lavorando con il nylon stretch un solo nodo è sufficiente, perché i filamenti tendono a fare presa fra di loro e stanno in posizione senza troppi nodi. L’ultimo passaggio richiede due applicazioni di vernice trasparente per rendere la mosca brillante e robusta. Normalmente la prima passata di vernice tende a cambiare leggermente il colore del corpo che si riacquista poi con la seconda passata. Nel corso degli anni la mia produzione iniziò a includere mosche secche, ninfe, streamer e cul de canard per poter coprire le varie richieste e i bisogni dei miei clienti. Oggigiorno costruisco ancora parecchie mosche con la varietà dei materiali disponibili sul mercato, cercando sempre di seguire i miei concetti e il metodo originale; il principio

di base che cerco sempre di rispettare è di mantenere la parte della mosca sulla quale si lavora, priva di qualsiasi materiale di disturbo. Questo accorgimento aiuta moltissimo e rende il processo di costruzione più efficace. Parallelamente alla costruzione mosche, creai per lungo tempo anche finali per mosca secca e sommersa, usando un nylon bianco opaco (venduto in mazzi di pezzi da 1,2 metri in vari diametri), abbastanza rigido, ma facile da “stirare”. Erano finali molto precisi capaci di lanciare mosche anche durante un giorno ventoso con grande accuratezza ed erano apprezzati da pescatori italiani e francesi. In aggiunta ai materiali da costruzione e ai finali iniziai a importare canne, mulinelli, scarponi, borse e vestiti da pesca e poco alla volta iniziai a sentire il bisogno di avere un vero e proprio negozio. Scegliemmo un negozio situato al numero 8 dell’antica e bellissima Piazza Savoia. Correva l’anno 1978. Da quel giorno ho continuato a importare sempre nuovi prodotti e a vendere ogni sorta di attrezzatura per la pesca a mosca, ma seguendo sempre la mia filosofia di provare personalmente quello che vendevo. In poco tempo il mio negozio divenne uno dei pochi specializzati solo in pesca a mosca. Per lunghi anni il negozio di piazza Savoia rimase per me e mia moglie Mariuccia il nostro regno, ci tenne occupati per tanto tempo e ci diede la possibilità di vivere in questo bellissimo mondo che è la pesca a mosca.

Bibliographic references

BALTIERI Marco, La tradizione torinese della pesca a mosca, Fly Line Ecosistemi Fluviali. BARTELLINI Walter, Storia della pesca a mosca moderna italiana, “Fly Fishing”, 2/2004. CIPM-Club Italiano Pescatori a Mosca, Le origini del Club, June 2009, www.cipm.net HERD Andrew N. Traditional fishermen in the Italian Po Valley, May 2009, www.flyfishinghistory.com JARDINE Charles, The Sotheby’s Guide to Fly-fishing for Trout, Dorling Kindersley, London 1991. LAWRIE W. H. International Trout Flies, Muller, London 1969. PRICE Taff, Fly Patterns. An International Guide, Ward Lock, London 1986.

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