dal vivo RECENSIONI seduce tanto quanto Marianne Crebassa, Sesto ammirevole per emissione e indimenticabile per peso espressivo, anche se indecifrabile. Ma si sa che a Salisburgo l’italiano di Mozart è solo un dettaglio... Andrea Estero
Martina Franca Meyerbeer
Margherita d’Anjou G. De Blasis, A. Carbotti, A. Rositskiy direttore Fabio Luisi orchestra Internazionale d’Italia regia Alessandro Talevi teatro Palazzo Ducale interpreti
Verdi
Un giorno di regno interpreti
V. Priante, V. Miškunaité,
della Magna Grecia Giorgio Sangati luogo Masseria Palesi orchestra regia
Puccini
Gianni Schicchi interpreti D. Colaianni, C. Mattioda, N. Losán, M. Kulikova direttore Nikolas Nägele orchestra della Magna Grecia regia Davide Garattini Raimondi teatro Chiostro di San Domenico /
“Anche se - forse - è stato il solitamente bistrattato Giorno di regno di Verdi a ottenere la consacrazione critico-esecutiva più convincente”
el secondo, lungo, fine settimana di programma il N 43° Festival di Martina Franca ha fatto una sorta di celebrativa autoanalisi. Prima ripercorrendo gli anni di nascita e
didattici e “scientifici” preveggenti e messi in gioco dal calendario artistico dei suoi festival non fossero affatto superate. Il filotto di proposte ha rimarcato il profilo fieramente anomalo della rassegna. Prime moderne, riletture rivelatrici, occasioni di ripensamento esecutivo e critico. Con disinvolti sconfinamenti di genere e di secolo. I quattro giorni, e tre luoghi diversi, l’offerta tendeva un filo tra il Settecento agile e garbato, goldonianamente sorridente e moralisticamente edificante delle Donne vendicate di Piccinni (in masseria, con alcuni allievi cantanti tra cui il promettente Manuel Amati, e la messa in scena di Giorgio Santagati, col tridente formativo Accademia Celletti/ Piccolo Teatro/Accademia del Maggio Musicale Fiorentino) e Gianni Schicchi ricreato nel-
Al cuore i due titoli più attesi, per ragioni diverse rivelatori. Occhi ovviamente puntati su Margherita d’Anjou di Meyerbeer, l’oramai irrinunciabile prima teatrale moderna a Palazzo Ducale. L’opera del debutto scaligero (1820), quarta italiana del 29enne compositore, non s’era mai vista in palcoscenico dopo avere conquistato pubblici diversi e essere stata rigenerata in francese nell’Ottocento. Vicenda semiseria, partitura concepita senza soggezione seppur con evidenti debiti con i compositori di casa, Margherita d’Anjou da oggi non più un titolo solo discografico. La cura di Fabio Luisi, la buona distribuzione vocale - la confusa vicenda storico-picaresca ha bisogno di almeno quattro prime parti, e qui c’erano: Gaia Petrone, Giulia De Blasis, Anton Rositsky e Marco Filippo Romano
“Margherita d’Anjou” di Meyerbeer al Festival della Valle d’Itria
P. Kuban Sesto Quatrini orchestra Internazionale d’Italia regia Stefania Bonfadelli teatro Palazzo Ducale / direttore
Piccinni
Le donne vendicate interpreti
M. Amati, I. Iaia, C. Sgura,
B. Massaro direttore
Ferdinando Sulla
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fecondazione con la presenza dei due storici mallevadori, Alberto Zedda e Rodolfo Celletti. A quest’ultimo nel centenario della nascita è stata dedicata una due-giorni di riflessione pubblica organizzata dalla Fondazione Grassi, in segno di gratitudine non banalmente celebrativa e nella convinzione - verificata e ribadita dalle relazioni - che alcuni precetti
lo spazio cameristico (come la non felice riduzione orchestrale) in uno scatenato musical o una fulminea sit-com d’oggi da Davide Garattini: col cameo protagonistico perfidamente preciso di Domenico Colaianni - una sorta di inquietante Cetto La Qualunque - a fare da chioccia e calamita a un’altra mietitura di allievi martinesi e fiorentini.
- e la discreta tenuta complessiva (l’innesto martinese del Coro del Municipale di Piacenza è stato un bel regalo) con parti di contorno ben calibrate (Laurence Melke e Bastina Thomas Kohl) ci ha lasciato un documento musicale che apre molte prospettive critiche. Anche se - forse - è stato il solitamente bistrattato Giorno di regno di Verdi
RECENSIONI dal vivo a ottenere la consacrazione critico-esecutiva più convincente. Non tanto dal punto di vista vocale, anche se la bravura (e simpatia scenica) di Vito Priante era medagliabile e le qualità esplosive ancora acerbe del tenore Ivan Ayon Rivas andrebbero messe sotto tutela Unesco; quanto per la concertazione e direzione di Sesto Quatrini: sfavillante e vertiginosa, teatralissima e con una visione del palcoscenico sorprendente per efficacia e maturità. In grado di far capire senza tanti discorsi teorici quanto Giorno di regno non sia stato un passo falso verdiano ma una pedana elastica (collocata davanti all’asticella sbagliata, quella dell’operismo comico). Ultimo pensiero, gli spettacoli. Deliziosa l’idea di Stefania Bonfadelli di mettere il finto Stanislao del Giorno su un palcoscenico occupato di oggi (ahimé situazione comune) dove un gruppo di attori e cantanti comunque lo mettono in scena. Conturbante, realizzata bene ma con controindicazioni sul piano della drammaturgia, quella di Madeleine Boyd e Alessandro Talevi per Margherita, che
hanno tradotto, proprio nel senso di trasportato a forza, le intricate vicende dinastiche inglesi e la contesa tra York e Lancaster nel feroce mondo dell’alta moda. Angelo Foletto
Macerata Puccini Turandot
interpreti I. Theorin, R. Park, D. Rodriguez, A. Spina direttore Pier Giorgio Morandi progetto creativo Ricci / Forte regia Stefano Ricci orchestra Regionale delle Marche arena Sferisterio
Boccadoro Shi (si faccia)
interpreti S. Tangolo, R. Abbondanza, B. Taddia pianoforti A. Rebaudengo, P. Gorini ensemble di percussioni Tetraktis teatro Lauro Rossi /
“Questa Turandot è un racconto complesso che non tradisce l’essenza, il ‘cuore’, dell’intenzioni d’autore: la crudeltà, la violenza, immersa in una situazione da fiaba, irreale e magica”
era una volta una ragazzina che gioca a fare la C’ principessa perché non vuole
crescere. Ha paura dell’amore. Nel mondo della principessa di gelo tutto è congelato in enormi blocchi di giaccio: piante, fiori, uomini. Soprattutto uomini. Di qualunque età: al posto del principino di Persia viene trucidata un’intera scolaresca. Nelle favole i bambini vengono imprigionati, mangiati, violentati dai grandi. Qui sono immobilizzati sotto teca: la principessa odia la maternità. La Turandot di Ricci/Forte che ha scosso lo Sferisterio a colpi di applausi, polemiche e sold out è un fantasy contemporaneo, popolato da figure inquietanti e spaesate, estreme ma familiari. Televisive e ancestrali. Avete mai visto i loro spettacoli, disturbanti e poetici, violenti ma sognanti? Questa Turandot è una narrazione complessa ma autentica che non tradisce l’essenza, il “cuore”, dell’intenzioni d’autore: la crudeltà, la violenza, immersa in una situazione da fiaba, irreale e magica. Non importa dunque, per dire, se al posto di altri mammiferi la delfina pechinese cavalca un enorme orso polare. In quell’Antartide che è il suo cuore ci sta.
D’altra parte il linguaggio del fantasy “speculativo” sembra fatto apposta per scavare nel profondo della psiche, dare corpo ai traumi e visualizzare metamorfosi. Nella scena degli enigmi la fragile ragazzina di ferro perde la parrucca da lady perfettina, gli abiti e i gioielli da regina disneyana e affronta il disagio del suo primo ciclo. La notte in cui “nessun dorma” è un magico jardin féerique, con fiori rossi enormi e fluttuanti, da incubo. Solo quando avrà “ucciso”, lei stessa, Liù - il suo modello di donna santa e intangibile - e dopo aver celebrato il suo funerale sarà pronta per amare. “Chi ha paura muore ogni giorno”, dice lo striscione che issa insieme ai suoi coetanei ora diventati grandi: cantano Alfano, ma almeno citano Shakespeare. Il fisico matronale di Irene Teorin, certo, toglie credibilità a un tale racconto scenico, però la sua voce è indiscutibile: gli acuti sono fendenti e luminosi, e la linea di canto propone morbidezze improvvise e intenzioni liricizzanti da favola, per quanto in lingua e pronuncia indistinguibile e remota. Il Calaf di Rudy Park è più squadrato, possiede lo squillo ma non
ph. Alfredo-Tabocchini
“Turandot” di Puccini allo Sferisterio di Macerata