Erodoto108 n°13

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ERODOTO108 13 • INVERNO 2015

VIAGGIO NEGLI ABBANDONI


SOMMARIO 4 editoriale sette vite dopo l’abbandono. come un gatto di andrea semplici 6 LE FOTO CHE FARETE andrea semplici, alessandro intini 12 il racconto VIRIDIANA STA A PES ZABIJÁK di vanni santoni 20 reportage SEMU TUTTI DEVOTI...TUTTI? testo di giorgio iemmolo, foto di marina berardi e luca massini

VIAGGIO NEGLI ABBANDONI 30 I LUOGHI ORFANI le fotografie di fabio sebastiano 32 PAESI L’IMPOSIZIONE DELL’ABBANDONO testo di emmanuele curti 34 piemonte l’ultimo abitante di brondino 36 lombardia consonno, il paese dei balocchi 38 liguria borsana non esiste su wikipedia 40 toscana castelnuovo dei sabbioni, la lignite e la mortadella 42 lazio la maledizione di faleria antica 44 irpinia apice, la golosa 46 cilento roscigno. la frana non si ferma mai 48 lucania alianello. 007 nel paese fantasma 50 calabria pao ta fatti mu amendolea 52 sicilia scurati e l’invasione di natale 56 STAZIONI QUEL TRENO PER MATERA testo di pasquale doria, foto di antonio sansone 66 INDUSTRIE ‘IL PANE E MORTADELLA SAPEVA DI FERRO falck, la fabbrica che non c’è più testo di osvaldo spataro, foto di luca centola

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In copertina: Scurati, Sicilia, paese abbandonato Foto di Bruno Zanzottera / Parallelozero

• Fondatore: Marco Turini • Direttore responsabile: Andrea Semplici • Redazione Giovanni Breschi, Vittore Buzzi, Valentina Cabiale, Francesca Cappelli, Silvia La Ferrara, Massimo D’Amato, Isabella Mancini, Andrea Semplici, Letizia Sgalambro, Marco Turini • Designer Giovanni Breschi • Web designer Allegra Adani

ERODOTO108 registrata al Tribunale di Firenze Stampa Periodica al n.5738 il 28/09/2009


74 MANICOMI L’ULTIMO MATTO racconto di laura mezzanotte 76 pistoia IL PIANOFORTE DI VILLE SBERTOLI SUONA ANCORA foto di saverio 78 colorno 1969, FUORI I MATTI foto di monica mietitore 80 mombello I GHOST HUNTERS A CACCIA DI BENITO ALBINO foto di giovanni mereghetti 82 rovigo UN TEMPO I ‘MATTI’ POLESANI testo e foto di zàira mantovan 84 SANATORI ‘PRENDI IL 25, PORTA FINO AL GIGANTE’ testo di claudia mezzapesa e marco turrini 86 firenze L’EX SANATORIO BANTI testo e foto di claudia mezzapesa e marco turrini 90 lezioni di arti civiche AVETE TUTTI L’ANTITETANICA? testo e foto di francesca duca 92 IL MONDO SPOPOLATO DI PAVANA testo di sandro abruzzese, foto di fabio sebastiano 100 storie di fotografia LA BELLEZZA DI FRANCESCA testo di francesca cappelli 102 IL CONTATORE DI SAN SILVESTRO testo di arturo valle, foto di giovanni breschi LETTERA DA UNA MINIERA di silvia guideri 112 BENVENUTI A CHERNOBYL testo di fabio bertino, foto di roberta melchiorre 122 gli occhi di erodoto LA LIBERTÀ DEGLI ALBERI intervista di valentina cabiale 126 Quaderni a Quadretti GUIDO SCARABOTTOLO testo di andrea rauch 132 storie di libri I LIBRI LÀ DOVE NON SI LEGGE testo e foto di marco montanaro 134 storie di fotografia LUDOVICU È SCOMPARSO testo di mariano silletti 138 storie di musei LA BORA È UN VENTO FEMMINA TESTO di carla reschia 140 STORIE DI BICICLETTE MANTOVA, CICLOFFICINA MONDO testo di andrea semplici, foto di silvio senigalliesi PISTOIA “GONFIAGGIO RUOTE 1 EURO” testo e foto di maria di pietro 146 oroscopo di letizia sgalambro

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editoriale

sette vite dopo l’abbandono. come un gatto.

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al ce ne incolse. Colpa nostra, ma Erodoto funziona così: a fine estate, giorni per pensare al numero invernale della rivista, ci troviamo sul tavolo, per caso, il racconto attorno a un paese abbandonato in Liguria (lo ha scritto Valentina Cabiale), poi Maria di Pietro ci parla di Apice, in Campania e, quindi, quasi a incastro, Claudia Mezzapesa e Marco Turini ci dicono delle rovine di un grande sanatorio abbandonato sulle prime colline di Firenze verso l’Appennino. Così, Erodoto ci sfugge di mano: in una settimana veniamo sommersi da storie di abbandoni, ci arrivano decine di foto di paesi-fantasma (leggiamo che, in Italia, sono mille e cinquecento), i fotografi si appassionano ai materassi sfondati, alle mura scrostate, alle sedie dove nessuno siederà mai più, ai tavoli con ancora i piatti quasi ben disposti. Writers decorano pareti crepate di ogni sorta di scritte. Location manager scelgono Roscigno, Alianello, Craco come luoghi da far risorgere in pellicola (se ci fosse ancora la pellicola). Per settimane, ogni volta che dicevamo di stare lavorando a un numero sull’abbandono, ci arrivavano nuove foto, nuove descrizioni, nuove idee, nuovi suggerimenti. Un bel libro sull’abbandono finisce nelle finali del premio Campiello e la sua autrice, Carmen Pellegrino, non ha intenzione di scrollarsi di dosso la fama di abbandonologa. Sono stati organizzati concorsi radiofonici sui luoghi abbandonati e vi è chi mette su Internet una collezione pignola di paesi-fantasma.

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abbandono, in altre parole, affascina, incuriosisce, intriga. A noi è venuto in mente: è facile. E impressionante. È facile fotografarlo (ma alla fine le foto rischiano di apparire tutte simili). Ma non è per niente facile raccontarlo. Più fotografi che scrittori, in questo numero, perché le parole non sono capaci di sfuggire alla banalità. Ma siamo stati bravi e fortunati: Laura Mezzanotte ha visto l’ultimo matto, dopo sessanta anni di reclusione, abbandonare un manicomio lasciando il cancello aperto mentre l’edificio alle sue spalle cominciava a sgretolarsi. Claudia e Marco hanno incontrato migranti fra le rovine di quel sanatorio, mentre io vedevo Thomas Mann tornarvi per nostalgia della Montagna incantata. Vanni Santoni, giovane e bravo scrittore toscano, ci ha narrato di un viaggio in chiave rave verso luoghi abbandonati della Bosnia. Pasquale Doria, giornalista materano, è tornato nella stazione della sua città che mai ha accolto un treno. Sandro Abruzzese è salito a Pavana, in Appennino e, una volta tanto, non ha bussato alla porta di Guccini, ma è andato a trovare Azzurra D’Agostino, poetessa di ‘un mondo spopolato’. Fabio Bertino ci ha ricordato l’abbandono nucleare di Chernobyl. Francesca Cappelli ha raccontato di Francesca Woodman che fotografava se stessa nei luoghi dell’abbandono. Emmanuele Curti, archeologo che vive fra i Sassi di Matera, ha guardato alle foto degli abbandoni e ha sperato che quelle case si ripopolassero. Tino Mantarro è andato nei vecchi capannoni della Falck (meno di un secolo è durato il progresso industriale) per sentire rimbombare il silenzio sotto i suoi passi. Le parole si sono infiltrate nelle immagini della


solitudine. E alla fine due fotografi ci hanno sorpreso: Bruno Zanzottera ha viaggiato per l’Italia per fotografare i paesi senza più abitanti; Fabio Sebastiani, da anni, con tenacia, fotografa ‘i luoghi orfani’. Due maniere straordinarie e diverse di raccontare la solitudine senza speranza.

C

onfesso: dopo queste settimane dietro ai luoghi abbandonati, mi è venuta una gran voglia di andare a passeggiare in un centro commerciale. Ho avuto desiderio di gente, luccichii, rumore, musica, luci. In fondo i non luoghi sono diventati, a dare retta agli antropologi, dei luoghi. Ora mi piacerebbe che i fotografi dell’abbandono si confrontassero con la folla. Riceveremmo così tante immagini come per i paesi-fantasma? Un Ipercoop o un outlet (già sento storcere il naso a queste parole) sanno ispirare storie come un manicomio in rovina?

A

l solito, non so cosa voglio dire. Non so dove siamo arrivati camminando per capannoni vuoti o varcando la soglia di un casa abbandonata. Intuisco che dovremmo avere ‘cura’ di questi luoghi. So che dovremmo trovare un equilibrio fra la malinconia desolata di una chiesa crollata (ma a Roscigno vi è ancora una piccola statua di sant’Antonio sopra un altare) e lo sfavillio gelido di un centro commerciale. Erodoto è una frontiera e salta di qua e di là. E, alla fine, approda anche alle vecchie miniere di San Silvestro, a Campiglia Marittima, nell’alta Maremma toscana: là un minatore, quaranta anni fa, chiuse per l’ultima volta l’interruttore di un ascensore minerario. Fine di un’epoca breve, ancora un abbandono. Ma, anni dopo, archeologi e amministratori pubblici furono capaci di risollevare quell’interruttore: per far nascere un luogo, un parco che è vita e gente. Guardate le foto di Giovanni Breschi e leggete le parole dell’archeologa Silvia Guideri per capire il miracolo di una resurrezione. È lì, fra la bellezza della Maremma, che mi sono venuti in mente i gatti. E le loro sette vite. Ne abbiamo consumate appena una in questi paesi-fantasma. Ne abbiamo sei da vivere per ripopolare luoghi deserti. E la strada ce la indicano coloro che in questo numero ci hanno fatto doni per tirarci fuori dall’abbandono nel quale eravamo caduti: Guido Scarabottolo, uno dei disegnatori italiani più sorprendenti, ci ha regalato la bellezza delle sue scarabottole e Valentina Cabiale ha avuto il coraggio di seguire Andrea Loreni, funambolo torinese, sul filo d’acciaio teso sopra il vuoto. A guardarli, da sotto, la folla dei lettori di Erodoto.

D

imenticavo: è Natale, quest’anno Islam, cristiani cattolici e ortodossi celebrano quasi assieme il loro giorno santo. Il 2015 è stato un anno terribile. Da Charlie Hebdo all’11 novembre di Parigi, dagli studenti di Garissa alle bombe di Beirut e l’aereo russo del Sinai: è guerra alla gioventù, alla libertà, al futuro. Il fratello di Valeria, la ragazza veneziana uccisa a Parigi, ha detto: ‘Né rabbia, né paura. Lei non ce lo perdonerebbe. Non dobbiamo fermarci’. Andrea Semplici

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LE FOTO CHE FARETE mawled, anniversario della nascita del profeta, tripoli, libia. Quest’anno cadrà il 23 dicembre fotografia andrea semplici

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LE FOTO CHE FARETE natale cattolico,piazza dell’isolotto, firenze, la notte del 24 dicembre fotografia andrea semplici

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LE FOTO CHE FARETE natale ortodosso, arrivo dei pellegrini a lalibela, etiopia, 7 gennaio fotografia andrea semplici

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LE FOTO CHE FARETE carnevale di putignano, puglia fotografia di alessandro intini



il racconto di VANNI SANTONI

VIRIDIANA STA

Il muro di casse dei Desert Storm nel 1996.

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* ‘la vado a chiamare’

‘…italiana? mora? e quello ha detto chystám se vám na volání* ed è partito verso un edificio lungo e basso, e si è infilato dentro, e sei andato in là con calma, te la sei vista uscire come una madonna, senza più dreadlock e con un bambino biondo in braccio, e tutto ti è sembrato trovare una sintesi tanto matematica…’


A PES ZABIJÁK T

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rovare Viridiana è un po’ più complesso. Devi metterti in viaggio, addirittura. Persi tutti i contatti, alla fine la scovi su un forum free tekno ceco, ci scambi due messaggi, ti spiega dove sta adesso, e sta lontana, in un posto laggiù che si chiama Pes Zabiják, e se ci vai davvero è solo perché ormai vedi una spirale che si espande esponenziale, Iacopo lì accanto a te su quel divano scassato, Cleo a qualche chilometro, Viridiana a mille e più, il prossimo, la prossima, a qualche milione, perduta nel vuoto cosmico... Ma intanto devi arrivare a Viridiana, e davvero sembra maledettamente lontana, e la forza per andare fin là, rischiando un giro a vuoto, la trovi solo inserendo una festa nel viaggio, decidendo di provare questo Space Picnic, il primo teknival non autorizzato dai tempi dell’ultimo Czechtek, nel 2006. Andrai allo Space Picnic, sperando di non finire come Iacopo e il suo amico a Candasnos, ma prima a Pes Zabiják, da Viridiana. E la trovi, a Pes Zabiják, che è poi un villaggio abbandonato, Vytky si legge sul cartello arrugginito e mezzo coperto di graffiti, un posto di minatori lasciato lì e che i teknusi si son ripresi, e camper e bus e carcasse di auto ferme da chissà quanto definiscono lo spazio assieme alle casette, e c’è della musica nell’aria anche se non è techno, è Tomorrow never knows dei Beatles, e quando, dopo che hai chiesto a un ragazzino se conosce Viridiana, sai Viridiana? italiana? mora? e quello ha detto Chystám se vám na volání ed è partito verso un edificio lungo e basso, e si è infilato dentro, e sei andato in là con calma, te la sei vista uscire come una madonna, senza più dreadlock e con un bambino biondo in braccio, e tutto ti è sembrato trovare una sintesi tanto matematica da sembrare quasi troppo, anche se poi lei ti ha detto Che è quella faccia? Per il bimbo? Mica è mio, lo tengo a una. E tu hai sorriso (di sollievo? sollievo da cosa?) e lei ha continuato, non la vuoi bere una roba, dai vieni dentro, e insomma pensa un po’ te lo sei fatto davvero ‘sto viaggio, pensavo che dicessi tanto per dire, sai quanta gente dall’Italia dice un giorno vengo e poi 15 non viene mai... Che stai a fare, insomma (e dentro vi siete messi, ti sei assettato, avete fatto un caffè), insomma che vuoi. Son venuto allo Space Picnic. C’è, no? Gli altri sono stati a montare ieri. Comunque boh. Che? Con tutta la gente che c’è, sei venuto a cercare me. È che voglio sentire gente in grado di fare un discorso strutturato. Io non sono in grado di fare della mia vita un discorso strutturato. Eh dai, però le cose le sai, le sai leggere. Quindi che vuoi? Che ti spieghi le feste? Le sai già, le feste.


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Tu hai più storie. T’immagini. Se vuoi ti racconto quando Zig scivolò in un pozzo nero. Tu hai verve. Seh, quando sono sotto speed. Ma sì invece. C’hai una cultura, sei sveglia... Bah, sai quanta ce n’è di gente che va alle feste e c’ha una cultura. Non hai sentito nessun altro? Ho sentito Cleo... Mancini? Che è quella faccia? Bah. Cazzo vuoi da me insomma? Eh, farmi raccontare. Non so, il tema del viaggio... Il tema del viaggio? Ma vaffanculo... Cosa vuoi, una roba tipo Non sai cosa vuol dire viaggiare se... Se..? Se non ti ha mai preso fuoco il furgone? Puoi fare di meglio. Se non sei mai stato a fare la vendemmia in Champagne aspettando di spostarsi a Melun per il teknival del ’98 e ritrovandoti poi col furgone piantato nel fango? Se non hai mai sbagliato strada per il teknival romeno e ti sei ritrovata in mezzo a territori del tutto controllati da clan zingari e già che c’eri hai messo musica per loro? Oppure? Se non hai mai aiutato i Mutoid Waste a trasportare il Mig che si trascinavano in giro? Se non sei mai stato a cercare di esportare la tua musica fuori d’Europa e ti sei scontrato con la povertà vera, con le gang vere? Se non sei mai stato in una zona di guerra? Vedi che di cose ne hai viste. Bah. Chi hai sentito oltre alla Mancini? Iacopo.

Il camion dei Desert Storm Soundsystem in Bosnia.


Il Gorino? Eh. Mi ha detto che una volta siete andati insieme in Portogallo. Non lo so mica cosa mi prese. Però è carino Iacopo, sai che una volta ha scritto una cosa su di me? Cioè, proprio con me come personaggio. Vuoi che te la legga? Sfreccia di là senza neanche lasciarmi rispondere, la sento rovistare, torna con una specie di diario di quelli con l’elastico intorno, lo scorre tra mille foglietti mezzi stracciati che spuntano tra le pagine, Ma dove’è, stava qua... Cascano flyer e foglietti, ne pesca finalmente uno giallo, una pagina di quei quaderni di carta spessa, di pregio o riciclata o le due cose, piegata in quattro, si vedono delle scritte a lapis, fitte; lo apre, legge:

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... Viridiana intanto si era piazzata a sedere in alto, sopra l’impalcatura dei proiettori, dodici tubi innocenti montati a cubo, a sinistra del sound; non aveva diciott’anni e la free tekno, la musica che loro e altri come loro portavano in giro per l’Europa con furgoni e soundsystem e generatori fregati nei cantieri, le parve essere come la pioggia e il pane e il sale, una cosa indifferente ai riti nazionali, alle tradizioni locali, alla lingua e alla storia; pur essendo inequivocabilmente musica folk, quel suono che lì davanti a lei faceva ondeggiare tre o quattrocento persone, ucraini, russi, ceki – e scorse Renault ballare in fondo, e Jody che ondeggiava appena, a metà strada, e Isabella sotto di sé, aggrappata alle casse, con quelle braccia tutte piene di braccialetti – le apparve come una vibrazione senza frontiere, una spia dell’aria e dell’acqua, una forma archetipica, anteriore, sottostante, che riconciliava ucraini, russi e ceki, italiani e francesi e austriaci, li reincorporava a un dimenticato fuoco centrale, e precariamente, dolorosamente, li restituiva a un’origine tradita.


Un flyer del 1996

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È tipo un pastiche, un montaggio, no, di pezzi di altre cose... Però parla di quando andai coi Rolling Thunder a metter su una festa vicino Odessa, gli raccontai questa cosa e lui la scrisse, sai che voleva scrivere un romanzo sulle feste? Da lì ho cominciato. Voleva cominciare proprio da Odessa per raccontare tutta l’Europa, anche se poi non è mica in Europa... Certo che lo è. Vabbe’, fatto sta che quando avevo diciott’anni figurati se pensavo quelle cose. Il fuoco centrale... Mi sbomballavo e stavo lì ed era uno scialo ed era bello anche perché era qualcosa che nessuno di quelli a cui la portavamo aveva mai visto prima. La cosa grossa era davvero viaggiare, andare lontani, vedi la gente quanto si organizza, quando fa un viaggio quanto ne parla, e noi invece prendevamo e partivamo... Oggi gli itinerari sono fissati, ci sono le città, e i voli che collegano le città. Così come collegano i luoghi turistici, e quei luoghi selvaggi che sono anche turistici. Ma in mezzo a tutto questo c’è altro, una topografia umana ignota. Pensa al teknival in Valdarno, ricordi? Me lo ha fatto ricordare Iacopo. Sì? Pensaci: francesi, inglesi, gente di Bari, di Trieste, di Ostrava, sparsa tra Chiassaia, Monte Lori e Castiglion Fibocchi. Pensa a me un anno dopo. Mi ero imbarcata con i Kromatoid. Quei suonati erano partiti per la Bielorussia da Sassomarconi solo perché della gente di Minsk, anzi di Fanipal, aveva promesso di ospitarli e vendergli un altro furgone a duemila euro: da lì, coi due furgoni, l’idea era di passare da una festa in zona e poi di nuovo giù, per i teknival di Romania e Bulgaria. Al di là dei teknival, al di là di questi viaggi programmati in cinque minuti, dotati solo di una carta stradale che era pure vecchia di dieci anni, chi ci sarebbe mai finito, a Fanipal? A Odessa? Qui a Pes Zabiják? O anche in Francia. Lo sai dove fu il primo teknival, nel ’93? A Beauvais. Proprio il posto in cui tutti arrivano con la Ryanair quando vanno a Parigi. Una città che oggi per il mondo esiste solo come aeroporto, un posto in cui arrivano tutti


e nessuno va, perché appena atterrano prendono il bus per la capitale. E i camion delle tribe invece andarono proprio a Beauvais. Ma non è solo quello. Ti potrei raccontare di quando mi svegliai su un pagliericcio, senza riconoscere dove fossi, di giorni scollati dalla realtà lì in quelle case popolari di Fanipal, e già basterebbe. Non c’è nulla di straordinario, va bene, eppure non sono cose che puoi vedere, fare, viaggiando normalmente. Oppure quando giravamo le campagne intorno a Minsk alla ricerca di un posto buono per montare, sai, una bella conca con strade d’accesso e d’uscita alternative, avevamo conosciuto gente e c’era l’occasione di fare un’altra festa, e mentre gli altri battevano quella piana col Roadrunner avevo preso il furgone nuovo, da sola, per andare a vedere un altro paio di posti, ma mi ero persa, e non c’era un’anima che parlasse inglese, e avevo guidato a occhio, sbagliando tutto, fino a trovarmi in un’altra pianura, e lì in mezzo al niente c’era un obelisco piccolo, sai una di quelle cose da piazza di piccola città, di quelli, che ne so, per Mazzini o Cavour, e scendo per vedere meglio, e poco più in là ecco una tomba, una roba più grande del normale ma in fin dei conti modesta, una tomba da personaggio storico locale, col recinto basso, di ferro battuto dipinto di bianco, pioppi intorno, un cartello, lo trascrissi anche, guarda... Малы́ Трасцяне́ц.

VANNI SANTONI, 37 anni, scrittore nato a Montevarchi, in provincia di Firenze. Dopo l'esordio con Personaggi precari (RGB 2007, poi Voland 2013), ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), Terra ignota e Terra ignota 2 (Mondadori 2013 e 2014), Muro di casse (Laterza 2015). È fondatore di SIC-Scrittura Industriale Collettiva (In territorio nemico, minimum fax 2013). Dal 2012 dirige la narrativa di Tunué. Scrive sul Corriere della Sera e sul Corriere Fiorentino.

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lo trascrissi per andare a ricontrollare cosa fosse. E cos’era, era Maly Trostenets: niente bocca dell’inferno come ad Auschwitz, era rimasta solo una piana; Maly Trostenets, duecentomila morti ammazzati e io lì ferma, mezzo stravolta, fuori dal furgone, battuta dal vento umido dell’Europa dell’est. Sai cosa pensai quella volta? Che magari smettevo di stare in giro. Che aver raggiunto quel punto là, senza neanche cercarlo, aveva, non so, un valore simbolico. Poi? Poi mi venne in mente un’illustrazione che vidi da piccola su un libro di scuola, era una cartina d’Europa con i campi di concentramento, ogni campo un puntino, e c’erano così tanti puntini da coprire tutta la mappa. E quindi hai continuato. Be’ intanto c’era da ritrovare gli altri, da montare. Invece come hai cominciato? Come ho cominciato io? Lo avrai sentito dire... Qualcosa, in giro. Mezze leggende, mi sa. Volevi arrivare a quello? Sempre che sia vero. Eh, se è vero...


REPORTAGE

SANT’AGATA A CATANIA

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SEMU TUTTI DEVOTI TUTTI? FOTOGRAFIE DI MARINA BERARDI E LUCA MASSINI TESTO DI GIORGIO IEMMOLO


FOTO LUCA MASSINI


FOTO LUCA MASSINI

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uttana la miseria, ma chi minchia fa’, affiu?” grida vincenzo dall’alto della vara ad alfio che maldestramente sta tentando di capire che direzione stia prendendo la processione. il capovara è il regista della processione, di cui decide velocità e soste: dovrebbe essere un cristiano onesto, libero da pendenze legali e, soprattutto, osservante.

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se mi domandassero quanta religiosità e spirito cristiano io riesca a vedere nella festa di sant’agata, risponderei “unn’u sacciu”. in realtà, come altre feste popolari di sicilia, la prima impressione è un po’ quella di un grande carnevale, senza musica e danze, inebriato di cera, tuniche bianche, e orgoglio catanese: un grande rito collettivo di isteria, un pandemonio di gente, più o meno devota, che inonda la città per festeggiare la santa o, piuttosto, catania, le sue leggende e le sue debolezze. per me sant’agata è la festa del fuoco, dei ceri, del bianco puro dei “sacchi” e dei guanti, uniti alla scuzzetta, un copricapo di velluto nero, delle minne e di cortei di strane figure, le velate, che circondano il fercolo della santa. strane creature, a metà fra le ninfe e le sibille della mitologia greca, che però parlano catanese. una specie di cerimonia di purificazione collettiva, la processione di sant’agata è un rito di regressione psicologica in cui l’individuo


la prima volta che vidi la festa avrò avuto sedici o diciassette anni: il fuoco fu l’elemento che mi colpì di più, se non altro per la quantità di candele, ceri, torce che si vedevano circolare per la città. la scelta dei ceri o candele è molto elaborata e ha un significato ben preciso: è impressionante osservare il giro di ceri votivi portati a spalla dai devoti, bestemmiatori o non, ufficialmente in segno di devozione ad aituzza per una grazia ricevuta. nell’esibizionismo collettivo della processione esistono una serie di criteri di selezione del cero da portare, quella che, in maniera scurrile, uno potrebbe definire la logica del “ce l’ho più grande io”. in teoria, uno dovrebbe scegliere un cero proporzionale al proprio peso e altezza, ma mi ricordo di questo ragazzino che si trascinava a fatica un centinaio di chili di cera per qualche grazia ricevuta di cui non mi ricordo nemmeno. eretto nonostante fosse mingherlino, mostrava una tale forza d’animo da convincermi a seguirlo durante la processione, fino a quando non mi mandò a quel paese con un sonoro “vatinni, ‘mpare!”.

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scompare all’interno della folla ma si proietta nella possente immagine della santa che domina tutto come una regina adorata solo per permettere agli altri di adorare, di unirsi, di festeggiare.

FOTO MARINA BERARDI


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il fuoco non si esaurisce con i ceri, le cose vanno fatte bene! per tre giorni, spettacoli pirotecnici di varia natura si susseguono, spettacolari, da lasciare a bocca aperta. sono sicuro che la gente si scorda di sant’agata: luci, colori, rumori, scoppi in piazza duomo, poi in piazza garibaldi, e infine davanti alla chiesa di sant’agata la vetere.

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il fuoco ha sempre affascinato gli essere umani, sin dai primordi. e il fuoco in questa zona di sicilia evoca terrore, paura, distruzione, morte per le eruzioni del gigante etneo che ogni tanto decide di assediare la città. nella leggenda di sant’agata si narra che l’anno dopo della sua morte una delle solite eruzioni dell’etna, con colata fumante, minacciava la città. siccome a mali estremi esistono solo estremi rimedi, i catanesi decisero di esporre il velo bianco della santa di fronte alla lava che magicamente si arrestò. così, Aituzza, martire e vergine, si ritrovò a diventare protettrice dal fuoco et similia, come

terremoti ed eruzioni vulcaniche, e più recentemente altiforni, fornaci: insomma la santa del fuoco. e forse ne abbiamo ancora bisogno tant’è che in uno dei santini agata ha sempre una torcia accesa davanti a una casa in fiamme: o forse esorcizziamo il terrore del fuoco portandolo in giro e maneggiandolo in quantità estreme, senza senso della misura, come del resto tante cose in sicilia. il fuoco però non è solo paura e terrore: la festa di sant’agata si intreccia con la festa della candelora che ricorda la presentazione di gesù al tempio. i “cannilora” infatti sono uno degli elementi principali della processione che viene appunto aperta da queste strutture lignee, barocche che a catania sembrano aver poco a che fare con la purificazione dell’omonima ricorrenza. il fuoco dell’etna è anche il fuoco che arde nella terra, che non solo distrugge, ma scalda e illumina, genera e produce. il fuoco di cui abbiamo paura e bisogno, senza cui la vita non esiste. la luce e il calore, la sensualità e la passione.


FOTO MARINA BERARDI

se mi domandassero perché andare alla festa di sant’agata, risponderei: – c’è il fuoco, la luce e il calore. c’è l’anima del mediterraneo, che da millenni ci portiamo dietro. c’è il senso della vita –.

MARINA BERARDI 31 anni, lucana, vive a Roma. Fa parte del collettivo WSP. Nel 2013 è la vincitrice assoluta del Nikon Talents. Da circa tre anni lavora ad un progetto sul tempo circolare nel quale confluiscono alcuni lavori come il rito arboreo de Il Maggio di Accettura, ArboReal, il Carnevale di Tricarico, Prometeo e Carnevale, e S. Agata a Catania, Una volta in ogni mille mai. GIORGIO IEMMOLO, 38 anni, è nato in un lembo d’Europa più vicino all’Africa che al continente. Ha cominciato a vagabondare presto, portando con sé la mediterraneità in giro fra Milano, l’America, la Germania, l’Inghilterra, e infine la Svizzera. Il suo passatempo preferito, sin da bambino, è osservare i passanti e descriverli con cinque parole. LUCA MASSINI 48 anni, nato a Firenze. Ex macellaio, Coop, Pony express, ora magazziniere di ricambi auto.Provo a fare foto, a cucinare, a viaggiare, studiare l'inglese, suonare la chitarra. Amo calcio, cinema, musica, vino, birra e anche altre cose...forse troppe.

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il fuoco della fertilità e della vita. e infatti aituzza, nobile fanciulla catanese, non si associa solo dal fuoco: aituzza è la santa delle minne, dei seni, e delle funzioni a questi connesse: balie, donne in allattamento, malattie muliebri di petto, sant’agata ti aiuta e ti guarisce. nell’apoteosi della purezza cristiana, la santa porta su un piatto prezioso i due seni che le vennero amputati per non aver abiurato la propria fede. e i seni di sant’agata si presentano dappertutto: le minne si presentano sotto forma di cassatella rifinita di bianca glassa con una ciliegia candita a mo’ di capezzolo. una delizia al palato in linea con la proverbiale sensualità degli isolani che di elementi vagamente o esplicitamente erotici se non sessuali non si sono mai privati.


VIAGGIO

I LUOGHI ORFANI LE FOTOGRAFIE DI FABIO SEBASTIANO

Abbiamo incontrato Fabio Sebastiano attraverso Azzurra D’Agostino, poetessa dell’Appennino. Lei ci ha mostrato le foto di Fabio. Confesso: eravamo annoiati da troppe foto sui ‘luoghi dell’abbandono’. Troppo ‘facili’, troppo a effetto, troppo uguali fra di loro. L’abbandono affascina, ma deprime la fantasia. Poi abbiamo aperto i file delle immagini di Fabio, 38 anni, piemontese, studi in psicologia, informatico per mestiere. Ha una bella

barba, Fabio. Occhiali, sorride, ha braccia tatuate e una figlia di quattro anni. Dice di sé: ‘Fin da bambino ero attirato dai luoghi vacui, orfani, amavo scoprirli e perdermici’. Attenzione alle parole: vacui e orfani. A nessuno di noi, erano venuti in mente questi aggettivi, eppure da settimane camminiamo per stanze scrostate, cucine con ancora i piatti in tavola, tetti sfondati…e ora Fabio ci sorprende, ci spiazza. Scrive ancora: ‘Le rovine sono una vera passione anche teorica’. E definisce il suo andare per macerie come una ‘gavetta’ e uno ‘studio’.


NEGLI ABBANDONI

A noi è venuta voglia di danzare negli spazi che Fabio ha fotografato. Lo abbiamo visto aggirarsi per queste solitudini. E abbiamo assistito allo spettacolo di questi vuoti che si sono popolati di fantasmi reali e giocosi. Non chiedeteci come sia accaduto. Le foto di Fabio ci hanno sorpreso e donato sospensione del tempo. Deve essere una storia di bellezza.

Abbiamo sparpagliato le foto di Fabio come fogli abbandonati. O come fotografie trovate in un cassetto che nessuno apriva da anni. Non sapevamo come utilizzarle. Semplicemente ci hanno sorpreso. Avremmo voluto metterle accanto alle foto scorrette di un’altra fotografa, Zàira Mantovan, che, aggirandosi fra le stanze desolate dell’ex-manicomio di Rovigo, ha fatto immagini sfuocate, mosse, laterali. Alla fine abbiamo deciso di disseminare ‘casualmente’ le foto di Fabio per tutto il dossier. Poi, un giorno sapremo che dovremo far ben altro con tutte


PERCHÉ SIAMO ATTRATTI DAI LUOGHI FANTASMA?

L’IMPOSIZIONE DELL’ABBANDONO

in italia i paesi con meno di cinquemila abitanti continuano a spopolarsi: rappresentano almeno la metà del nostro territorio. ‘c’è qualcosa in tutto questo che mi disturba, oltre la fascinazione’. la speranza di un’economia che dalla marginalità ci possa far tornare a essere ‘cittadini’ di questi luoghi. Testo di Emmanuele Curti

Sempre più spesso, dalle immagini di queste pagine e da quelle oramai quasi quotidianamente proposte dal web, veniamo presi e ricondotti nei luoghi ‘fantasma’ dell’abbandono e del silenzio. Tirati dentro da chi ci vuole condurre, ma anche risucchiati da quel senso di attrazione per il vuoto che si mescola alla nostra vertigine. Luoghi che abbandoniamo dopo averli costruiti, ma dai quali veniamo poi morbosamente attratti. Perché questa ossessione? E perché particolarmente ora?

Noi occidentali – è un male nostro questo – ci portiamo dentro il meme ottocentesco della rovina romantica, di una storiografia che ci costringe a trattenere il passato (e, per assurdo, mentre celebriamo la conservazione, creiamo deserti). Se prima della fine del Settecento l’antico, la rovina, erano un esercizio filologico, da quel momento in poi abbiamo eletto i resti classici abbandonati a essenza della nostra identità.

Certamente le rovine che qui guardiamo sono altre: sono periferie, sono stanze dove ancora si coglie l’ultimo gesto umano che le ha vissute. Ma sono anche borghi, paesi, ossa di quello scheletro che rappresenta l’Italia dal Medioevo in poi. Beni intimi di un nostro vissuto, memorie semivive di un’Italia interna. C’è qualcosa in tutto questo che mi disturba, oltre la fascinazione e l’eventuale morboso attaccamento per ciò che è andato. ERODOTO108 • 13

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Ripeto spesso che noi archeologi rappresentiamo la schizofrenia della cultura moderna: nati a reintegrare il passato usando la disciplina storiografica come fondamenta dello stato (come novelle Atene e Roma), riscaviamo e poi sacralizziamo rovine che l’uomo aveva ricoperto, in un processo naturale e dinamico di superamento del passato. Per assurdo riportiamo alla luce luoghi dimenticati, per riposizionarli in una supposta memoria di noi, dando loro significati nuovi proprio perché oltre la loro voluta dismissione. Questo processo è talmente entrato nel nostro DNA che quei luoghi, fondanti del nostro concetto di bene culturale, devono ora sopravvivere proprio in nome della cultura. Non importa se spesso diventano monumenti vuoti, difficilmente gestibili: che essi sopravvivano, anche silenti, perché ci sia concesso di trovare lì le nostre supposte radici.


È da questa lacerazione interiore – mia e della coscienza occidentale – che con fatica mi avventuro in queste immagini. Queste case, queste periferie, questi paesi, rappresentano una nostra storia. Ma è una storia ora consacrata all’abbandono, tanto da far nascere anche figure di esperti, di narratori, chiamati per l’appunto ‘abbandonologi’. Fermiamoci un attimo nella desolazione dei paesi: da tempo gli insediamenti sotto i cinquemila abitanti (che, sparsi su tutto l’arco appenninico e alpino, ospitano il 15% della popolazione nazionale) soffrono di un inesorabile depopolamento. Quella forma del vivere che aveva marcato la penisola italiana sin dal Medioevo, l’Italia dei borghi, sta venendo a mancare. Potrebbe essere parte di un processo naturale, così come è avvenuto nell’età antica con comunità che si spostavano su e giù dai picchi verso le valli e viceversa. Potrebbe essere, perché la globalizzazione, a volte travestita da glocalizzazione (termini sempre parte di un vocabolario e quindi di un’aspirazione occidentale ancora un po’ coloniale), mira alla concentrazione nelle ‘smartcities’ delle metropoli, lasciando dietro di sé non solo vuoti insediamenti, ma anche memorie stanche, in un processo ineluttabile che l’economia dell’oggi richiede. Qui risiede lo stridore della parola ‘abbandono’: seppur di non evidente etimologia, quella parola si porta appresso un atto di imposizione politica. Il termine medievale ‘abandonner', potrebbe derivare dall’espressione ‘être à bandon’, ovvero essere sottomessi a un atto di potere che ti ‘ordina’ di lasciare. Non una scelta naturale, quindi, un’imposizione. Paesi abbandonati perché le persone sono state costrette a farlo. Archeologie industriali, luoghi del lavoro, ora vuoti perché l’economia del potere lo impone. Case, periferie desolate, perché immerse in un processo che da lì ci vuole fuori. I borghi d’Italia, i bei paesi del Bel Paese (quale ironia…) che più non servono, che all’economia delle nuove dinamiche politiche si devono forse rassegnare.

Coscienti di queste dicotomie, dovremmo allora decidere di scegliere, di non essere vittime di un abbandono che è imposizione di un potere. Dichiariamo di andare via, o decidiamo di creare un’economia che dalla marginalità, da un senso altro di presenza, ci renda cittadini di quei luoghi. Non per farci incantare dal silenzio, ma per nutrire, con rinnovato senso di un ‘noi’, i luoghi di queste immagini. emmanuele curti, 52 anni, archeologo, è nato a perugia e vive a matera dove insegna all’università della basilicata. ha insegnato a londra. si è occupato per anni di processi di acculturazione portando avanti progetti di ricerca a pompei e in giordania. negli ultimi anni si è dedicato al necessario cambiamento dei paradigmi nelle discipline umanistiche, alla ricerca di nuove forme di sviluppo socio/economico, legate a una nuova idea di cultura.

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Ma quei paesi in via di depopolamento sono comuni che controllano il 50 % del nostro territorio nazionale: la loro scomparsa spiega forse anche un abbandono mai immortalato, quello della terra, di un paesaggio sempre meno curato, sempre più vittima di alluvioni, di catastrofi ‘naturali’. Così come quei paesi, insediamenti ricchi di storia e memoria, anche i paesaggi sono (o no?) beni culturali: diventeranno moderne Pompei, vuoti ma da conservare per la nostra identità? E con quale economia?


PAESI

piemonte

il borgo di brondino, un tempo, ospitava una ventina di famiglie. si trova nel vallone di comba gambasca, territorio di cuneo, alle pendici del monviso. fino a venti anni fa qua abitava pietro brondino: la sua casa era al numero 104, aveva una grande barba bianca e pascolava alcune capre. lasciava dietro a se scritte dedicate a dio e alla madonna, e decorava le pareti delle case abbandonate con lettere e numeri. in valle dicono che pietro abbia vissuto sempre da solo. le case di questo piccolo villaggio di montagna sono una matrioska. sono state costruite una dentro l’altra: stanze, ballatoi, fienili, stalle e pollai come un inestricabile lego architettonico. il bosco sta riconquistando l’antico paese. faggi e castagni fanno crollare le mura; sambuchi, rovi e frassini sono i nuovi abitanti di un villaggio senza fantasmi.

l’ultimo


abitante di brondino

foto di bruno zanzottera / parallelozero


PAESI

lombardia

consonno il paese dei balocchi si trova nel comune di olginate, in provincia di lecco. paese di montagna, panorami sul resegone.il primo documento che parla di consonno è del 1085. alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, vi abitavano sessanta persone. nel 1962 il paese è acquistato (e demolito) dal conte mario bagno. ne voleva fare un ‘paese dei balocchi’. vi fece costruire un minareto, una pagoda cinese, un castello. c’era un hotel di lusso. una frana isolò consonno. nel 1981, l’albergo divenne casa di riposo. venne chiusa nel 2007. nel 2014 qui abitavano ancora quattro persone. ora è un paese in vendita. ufficialmente in vendita da parte degli eredi del conte bagno.

foto di gabriele lopez testo di andrea semplici



PAESI

liguria

borsana non esiste su wikipedia borsana era una frazione di magnone (oggi ricadente nel comune di vezzi portio), nell’entroterra di finale ligure. durante i bombardamenti del 1944 camillo sbarbaro vi sfollò, in una casa abbandonata, e in quei mesi di esilio mise in versi la traduzione del Ciclope di euripide. tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 la borgata, che contava meno di 20 abitanti, fu espropriata per pubblica utilità dalla autostrada dei fiori s.p.a., che stava costruendo la genova-ventimiglia (inaugurata nel novembre del 1971). oggi le poche case sopravvissute si intravedono a malapena dal parcheggio dell’area di servizio “borsana sud”, guardando verso monte: piccoli rettangoli grigio opaco tra le fronde fitte degli alberi. raggiungerla non è facile. non è possibile una vista d’insieme. non esiste su wikipedia. testo e foto di valentina cabiale



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toscana

Quasi alla stessa distanza da arezzo, siena e firenze, la frazione di castelnuovo fu abbandonata negli anni sessanta per le continue frane provocate dalle escavazioni di lignite. oggi è rimasto solo il centro storico, con la piazza teatro dell’eccidio nazista noto come strage di cavriglia. era il 4 luglio del 1944 e a castelnuovo le ss uccisero e bruciarono per rappresaglia 75 uomini, tra i quali il padre dello stilista roberto cavalli. che si trovava in prima fila il 4 luglio 2012, quando è stata riaperta la parte ristrutturata del borgo, con il museo delle miniere e la chiesa adibita ad auditorium; nell’occasione matteo renzi, ancora sindaco di firenze, promise tonnellate di terra provenienti dagli scavi della stazione dell’alta velocità per ricreare il rilievo un tempo esistente, così da pulire la vista dalle ciminiere della vicina centrale enel di santa barbara. in attesa che ciò accada, il 23 maggio di quest’anno cento attori vestiti da minatori hanno animato una sentita rievocazione storica a celebrazione dello ‘sciopero della mortadella’, iniziato il primo febbraio 1947 proprio nel circolo di castelnuovo dei sabbioni. i minatori del valdarno inserirono, tra i punti del rinnovo del contratto, mezz’etto di mortadella a pranzo. bisognò scioperare duro, per più di tre settimane, ma il 27 febbraio la mortadella arrivò.

castelnuovo la lignite e la


dei sabbioni mortadella

foto di bruno zanzottera / parallelozero testo di sivia la ferrara


PAESI

lazio foto di bruno zanzottera / parallelozero testo di silvia la ferrara

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nel 1504 a stabia, ora faleria, girolama farnese, moglie di giuliano anguillara, accusata di aver tramato con i suoi amanti l’avvelenamento del marito, viene trucidata barbaramente dal figliastro giovan battista. è l’inizio del declino per l’antico borgo, le cui origini risalgono al iX secolo a.c. quando i falisci si insediano su un alto sperone tufaceo tra il torrente treja e il fosso della mola; in epoca romana il paese prende il nome di stabia, forse per la vicinanza alla stazione di cambio dei cavalli ("stabulum") sulla flaminia e nel medioevo viene costruito dagli anguillara l’imponente castello teatro del fatto di sangue: oggi restano solo brandelli di mura perimetrali e un'unica torre, a sud ovest, dove veniva innalzata la forca. nel rinascimento il paese si espande verso la piana a sud e lo scivolamento continua fino all’inizio del ‘900 quando anche le mura rinascimentali vengono demolite e viene edificato il nuovo palazzo comunale. nel 1872 poi la nuova amministrazione postunitaria cambia il nome, prendendo una bella cantonata toponomastica, in quanto l'antico insediamento di faleria si trovava nei pressi di civita castellana. per finire nel 1942 un terremoto danneggia gravemente la parte medievale e tra il 1971 e il 1973, l’antico borgo viene completamente evacuato per elevato rischio di crollo. mai trucidare una farnese.


la maledizione di faleria antica


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irpinia

c’è persino chi è contento che la storia dell’antico centro abitato di apice si sia interrotta bruscamente la sera del 21 agosto 1962. chi parla di “ironia della sorte” ed è convinto che un sisma possa “salvare” un paese, fermandolo per sempre in un tempo lezioso e rassicurante dal quale la modernità marcia e immorale è esclusa per sempre. così dopo i due terremoti del 1962 e 1980 ancora i muri di questo paese, costruito con un orientale sistema “a conchiglia”, sussultano sotto i passi degli ammiratori di rovine, che non vogliono altro che conservazione, difesa e pittoresche passeggiate. e non sanno di luigi bocchino, sindaco dal 1956 al 2004, morto nel 2007, che si ostinava a mantenere la sede del municipio nel paese vecchio e ci stava fino alle dieci di sera e che riuscì a far comprare al comune il castello normanno dal quale dovevano iniziare ricostruzione e ripopolamento. la verità è che già negli anni trenta del novecento c’erano stati tentativi di spostare apice più in basso, dove era possibile un’interessante espansione edilizia. ma gli abitanti non ne avevano voluto sapere. poi il primo terremoto e il decreto ministeriale di trasferimento, e infine la perequazione dopo l’ottanta, quando alle famiglie fu assegnato un lauto contributo per la ricostruzione nel sito attuale, in cambio della cessione al comune delle vecchie case. il sindaco bocchino non lo prese quel contributo: rimase l’ultimo ad abitare il vecchio paese dove nel 2011 è stato chiuso anche l’ufficio postale. apicio in latino è un soprannome che significa “goloso”, dato probabilmente a un patrizio del i sec. a.c. che posidonio ci racconta scialacquatore sfrenato e che trasmise il nome al gastronomo marco gavio apicio autore del De re coquinaria. così apice è “la golosa”.

foto di maria di pietro testo di silvia la ferrara


apice la golosa

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PAESI

cilento

roscigno la frana non si ferma mai

la frana non si ferma mai, cammina lenta, lenta, scende e la terra se ne scennia…la frana azzeccava sotto lu paese e mano a mano poi salia inta le case…così diceva giuseppe mazzei, il calzolaio di roscigno vecchia. siamo in cilento, sui monti alburni. una campania che è già lucania. nei primi decenni dell’800, la frana si ingoiò almeno trenta case. nel 1902, due ordinanze decisero che il paese andava abbandonato. roscigno nuova fu ricostruita mezzo chilometro più a monte. la frana non si fermò, ma gli abitanti non se ne andarono. non tutti. fino agli anni ’60, roscigno vecchia si ostinava a rimanere in vita. teodora, dorina, vi visse fino a quindici anni fa. vi hanno girato film e organizzato festival, l’abbandono ha dato fama a un paese solitario. la scrittrice carmen pellegrino ne ha raccontato in ‘cade la terra’. ma la chiesa di san nicola ha resistito alla frana, è lì, bellissima.


testo e foto di andrea semplici


PAESI

lucania foto di sante cutecchia

i fotografi che si avventurano per questo paese, da anni, fotografano sempre quel materasso marcito. e se ci fosse ancora un solo abitante racconterebbe che da qui è passato anche l’agente 007, intento a girare un suo film. alianello è una frazione del comune di aliano, terra dei calanchi lucani. le sue origini erano medioevali, ma il terremoto del 1857 rese inabitabili molte case del paese. nel 1925 fu deciso che nessuno poteva più vivere ad alianello. molti andarono a vivere nelle case del paese nuovo, ma alcune famiglie scelsero di rimanere. nel 1963 anche una frana cominciò a minacciare alianello. ma solo nel 1980 il nuovo devastante terremoto che sconvolse l’irpinia raggiunse anche queste terre: fu l’ultima condanna, il paese divenne un borgo fantasma.

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alianello 007 nel paese fantasma


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calabria

pao ta fatti mu amendolea

Quattro chiese basiliane, una roccaforte normanna poi castello dei ruffo, contorte vie medievali e una veduta rapace sulla valle scavata dall’omonima fiumara. sorto sul sito dell’antica peripoli, patria forse di prassitele, amendolea è oggi noto per essere tra i paesi fantasma della calabria raccontati da vito teti. l’ente parco nazionale dell’aspromonte ha stanziato lo scorso anno 180 mila euro per iniziarne il recupero dopo che il terremoto di messina del 1908 e le alluvioni degli anni cinquanta costrinsero i discendenti degli elleni a lasciare le loro case. solo i muri, le strade e la torre spaccata continuano a mormorare l’arrivederci grecanico: pao ta fatti mu.


foto di bruno zanzottera / parallelozero testo di silvia la ferrara


PAESI

sicilia

scurati e l’invasione


foto di bruno zanzottera / parallelozero testo di silvia la ferrara

di natale

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tra pochi giorni per la trentaquattresima volta il presepe vivente sarà ospitato a scurati, paese vicino a trapani nel quale una grotta alta 80 metri e profonda 70, risalente al paleolitico superiore, racchiude casette, stalle e forno costruiti dai pastori della famiglia mangiapane tra l'800 e la metà del '900 per ripararsi dal caldo e dal freddo. l’associazione culturale "museo vivente" ci tiene a sottolineare che i circa ottanta personaggi non fingono di produrre ma lavorano davvero riproponendo una settantina di antichi mestieri ricostruiti nel dettaglio dall’istituto di scienze antropologiche e geografiche dell’università di palermo. il tutto dura per sei giorni e i visitatori sono ogni anno più di 100.000. Quando il presepe abbandona scurati c’è il rischio che arrivi qualche troupe a girare una puntata di montalbano, insomma nemmeno qua si può stare tranquilli.


I LUOGHI ORFANI DI FABIO SEBASTIANO

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LA SALA D’ATTESA

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STAZIONI

QUEL TRENO PER MATERA In un giorno di pioggia, uno scrittore materano si ferma di fronte a uno strano edificio...

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una stazione costruita, finita e subito abbandonata. banchine che mai hanno visto un passeggero. binari fantasma. sale di attesa che non hanno mai atteso nessuno. ‘che maledizione è quella che accompagna tutta questa parte di territorio, oscillante tra ambiziosi progetti di crescita e fallimenti così brucianti?’. e corre la memoria. il futuro? i ‘like’ al progetto gardaland del sud... testo di pasquale doria foto di antonio sansone

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e allora, io quasi quasi prendo il treno e vengo, vengo da te ma il treno dei desideri nei miei pensieri all'incontrario va storia di binari fantasma, antiche maledizioni e giostre in contrada la martella

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piantata a viva forza nella campagna, in contrada la martella. volevo capire quanti soldi erano stati buttati dalla finestra per quella cosa, in realtà, morta in partenza. ho iniziato a raccogliere documenti dove potevo, ovunque. una pila di faldoni, cartelle e fogli volanti che cresceva a dismisura. a un certo punto quella torre di babele cartacea è crollata. ha invaso mezza stanza del posto in cui abitavo prima. il conteggio era comunque arrivato a una cifra stratosferica, circa 270 miliardi di vecchie lire. dato confermato da altre fonti. erano gli inizi degli anni novanta, chissà quanto valgono effettivamente oggi. prima del trasloco, ho imballato tutto e, a fare compagnia ai binari delle ferrovie dello stato - che a matera non ci sono mai arrivati - si è aggiunta una ulteriore incompiuta. non volevo farne più niente, per sfinimento. capitolo chiuso? non del tutto. davanti alla

stazione dei desideri, in realtà, ci sono passato molte altre volte. l'ultima un anno fa. dopo un prolungato periodo di pioggia mi sono fermato a lungo ai margini di quel luogo sommerso, stavolta non dalle erbacce. ipnotiche le argentee vibrazioni provocate da un leggero soffio di vento sul pelo dell'acqua. l'immobile fantasma, riflesso in quello sterminato specchio liquido, appariva diverso dal solito. la limpidezza del cielo azzurro, la giornata luminosa favorivano considerazioni meno distratte. affioravano lentamente ricordi che avevo rimosso. osservavo non più quel rudere e basta, ma con maggiore attenzione tutto insieme quanto c'era intorno.

dolenti naufragi in porto siamo sul limite ovest sulla quale è sorta quasi interamente la parte costruita di matera. gli esperti lo hanno ripetuto all'infinito, tanto da imparare la definizione a memoria: la città nasce su un'area in cui domina il calcare permeabile del cretacico medio. come direbbero i bravi geologi, è uno strato fasciato ovunque da formazioni argillo-sabbiose e dal tufo calcare ricco di conchiglie e altri fossili. nel dettaglio, si parla anche di calcarenite incisa profondamente


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dalle acque superficiali che hanno dato luogo a vasti ed evidenti fenomeni carsici. insomma, il terreno è stato modellato nel tempo, fino a quando non si sono formati cupi burroni con pareti rocciose a picco, le cosiddette gravine, che si colmano rapidamente di acqua se piove, mentre rimangono a secco soprattutto d'estate. procedendo verso la stazione, una volta lasciata alle spalle la zona caratterizzata da una materia docile, friabile e calda come il tufo, il paesaggio gradualmente cambia. i colori non sono più quelli severi grigio-verdi di muschi e licheni dominanti sulla murgia. prevale il marrone intenso dei campi arati. si alterna al verde brillante delle vaste distese coltivate a cereali, destinate a diventare gialle con riflessi dorati quando le spighe sono mature e, ancora oggi, spesso trasformate in distese nere e combuste, a valle delle bruciature delle stoppie. se nei rioni sassi è scritta buona parte della storia dei contadini, è nelle vaste aree agricole ai piedi dell'abitato che si è affermato il latifondo. grandi e medie proprietà generalmente condotte da gruppi famigliari, in proprio, ma spesso affidate in affitto. non c'erano le fabbriche. salvo quella molitoria, a matera l'industria non ha mai scritto chissà quali pagine produt-


tive. sulle aree coltivate la manovalanza si divideva in fissa e avventizia: la prima denominata anche degli "annaroli" indicava il contratto per un anno, la seconda dei "mesaruoli" e giornalieri, si riferiva a contratti per un mese o per un giorno. gli ultimi della scala sociale erano loro, i braccianti. Quando non era spuntato ancora il sole, vendevano la forza delle braccia in piazza. lavoro in cambio di derrate alimentari. farina, olio, vino, più raramente qualche manciata di soldi. dove, invece, non c'erano i cereali iniziava il dominio dei pastori, il pascolo, l'altra voce economica basilare legata agli allevamenti. carne, pellame, formaggi, latte munto da bovini e ovini. lo stemma della città riassume meglio di qualsiasi altra immagine le colonne portanti dell'economia del passato: campeggia un bue che reca in bocca un fascio di spighe di grano. anche le stazioni ferme invitano a viaggiare. mi sono spostato poco lontano, dove si erge un altro rudere. una di quelle realtà cantoniere ben disegnate e di un'eleganza sobria che non ha perso nonostante il deprimente stato di abbandono. ricordo quel luogo in altri tempi, quando era vivo. così, mi sono addentrato nei

suoi locali razionalmente disposti su due livelli, inciampando su mobili fatti a pezzi, spazzatura varia e, cosa più interessante per me, lo sguardo si è fermato sui resti di alcuni brogliacci. ordini di servizio sopravvissuti a decenni di oblio. erano ancora ben leggibili le scritte a penna dei turnisti dipendenti del consorzio di bonifica, nome e cognome, ore di la-


voro, giorno, mese e anno. Quel caposaldo della riforma agraria, relitto di un'agricoltura modernissima, più che altro teorizzata e che insieme ad altre misure avrebbe dovuto cambiare la sorte economica dei contadini vittime di una subalternità millenaria, parla ancora oggi la lingua dolente di un naufragio in porto. i contadini non c'erano più quando è arrivata la terra

per tutti. avevano abbandonato i loro padri-padroni e spezzate le catene bracciantili erano ormai lontani. emigrati nelle fabbriche del nord, a bestemmiare e sputare sangue dai polmoni nelle catene di montaggio. mi sono sentito passeggero di una speciale macchina del tempo che ha riportato la memoria indietro e fatto scattare una sorta di corto circuito tra i ricordi di bambino che ha vissuto i primi anni nel borgo più bello d'italia, come recitava orgogliosamente il titolo di un giornale dell'epoca riferendosi a la martella. realtà rurale alla quale tanto teneva adriano olivetti, progettata nei minimi particolari da ludovico Quaroni ed altri, tradita urbanisticamente mille volte. alla sua periferia, molto più tardi, è sorta una vasta area produttiva attrezzata. finito di colpo il sogno dell'industria del mobile imbottito, è tornata nel quasi silenzio totale della campagna che era in principio. desolante.

altre giostre verranno che maledizione è quella che accompagna tutta questa parte di territorio, oscillante tra ambiziosi progetti di crescita e tracolli così bru-


UN FALLIMENTO A SCARTAMENTO RIDOTTO

l

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a cosa incredibile di tutta questa vicenda è che ancora non si riesce a capire con esattezza quanto è stato speso. Quando nei primi anni novanta ho iniziato i conteggi non ero arrivato a quota 350 miliardi di vecchie lire ma, dopo, forse si è andati oltre. diamo la cifra per scontata. si tratta della linea ferroviaria che doveva collegare matera a ferrandina, centro della valbasento servito dalla rete nazionale, lungo il percorso che congiunge metaponto a napoli e, oggi, con l'alta velocità roma e il settentrione. andata in pensione la vecchia linea degli anni trenta - sullo scartamento ridotto non viaggiano le merci - fiato alle trombe che più non si può: i lavori di ammodernamento iniziarono nel 62 1986 e andarono avanti fino al 1996 per non essere mai più completati. la stazione c'è, alcune infrastrutture di base e gli alloggiamenti per i binari pure, ma non i binari, l'elettrificazione della linea e molto altro ancora, che rimangono dimenticati nel grande libro dei sogni. antiche aspirazioni sepolte sotto una avvilente coltre di rassegnazione in un comunità che, in realtà, a una strada ferrata è collegata. porta a bari. binari a scartamento ridotto ovviamente, gestiti dalle ferrovie appulo lucane.

cianti? sommerso, non lo vedevo quasi più, ma l'interrogativo mi tormentava davanti al parcheggio utilizzato da sparuti amanti di gare tra automobiline telecomandate. dietro la rete di recinzione non era certo scomparsa la stazione. indecente, sullo sfondo, mostrava le sue vergogne. angoscianti bocche urlanti, ingressi sbarrati, chiusi a qualsiasi discorso. per riaprirli occorrono 150 milioni di euro. ma arriveranno mai? me lo chiedevo sotto le pensiline svettanti da cui emergevano le solitarie banchine sopravvissute al diluvio. le scorgevo bene su quella eccezionale distesa di acqua piovana, aggrappate ai muri di sale d'aspetto che non hanno mai atteso nessuno, ridotte a un dialogo sordo tra pareti bianchicce rivestite con un materiale che ricorda vagamente la calcarenite


nelle stazioni le trasformazioni sono avvenute attraverso la destinazione a sale espositive, spazi per il teatro, centri sociali, aree didattiche e soprattutto strutture ricettive gestite da giovani. allora, preso da insano moto progettuale, ho lanciato l'idea provocatoria su un social, eccola: trasformare tutta l'area in un parco tematico pieno zeppo di divertimenti. soprattutto, realizzare la pista di autoscontro più grande d'europa nel parcheggio ora dominato dagli appassionati di modellini telecomandati. hanno iniziato a fioccare i "mi piace". chissà quanti avevano voglia di scherzare per scacciare la malinconia - come me, che pensavo allo spreco di risorse e alla nostra vertiginosa percentuale di disoccupati - e quanti invece facevano sul serio. la stazione può aspettare. PASQUALE DORIA, 56 anni, materano, cronista dal 1984 a La Gazzetta del Mezzogiorno. Ha scritto narrativa, racconti brevi e testi legati al territorio e alla storia urbana di Matera. È la storia del passaggio dagli antichi rioni Sassi ai quartieri della città pubblica progettata da Quaroni, Aymonino, De Carlo, Piccinato e altri grandi architetti italiani del Novecento. ANTONIO SANSONE, 48 anni, materano, da sempre incantato dalla fotografia. Il reportage è il mio modo di intenderla, raccontando l'attimo senza interferire per renderlo per quello che realmente é. Difficile, ma ci provo.

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squadrata dei rioni sassi. più avanti si indovinava il vasto solco cementato in cui avrebbero dovuto essere alloggiati i binari. un serpentone lungo una trentina di chilometri, spinto ben oltre lo sguardo e di colpo tramutato in una specie di torrente per la defluizione rapida delle piogge e di un fallimento melmoso che ha trovato solamente questo modo insolito per muoversi da qualche parte. "straordinario. se piove di nuovo a dirotto mi organizzo. mi fiondo a pagaiate e ridiscendo per un bel pezzo la valle del bradano con il mio gommone. da qui si arriva non lontano dalla cripta rupestre del peccato originale. la prossima volta non me la perdo". mi girerà le foto, me lo ha promesso un amico ascoltando il mio racconto. si chiama rafting questo sport che ha tutta l'aria di una sfida di quelle estreme. non lo farei mai. ma la cosa forse non è tanto improbabile, non così come mi è apparsa in un primo momento. provo a guardare se c'è qualcosa dentro il bicchiere - che non è neppure lontanamente mezzo pieno - e ricordo di aver letto da qualche parte che linee ferroviarie, stazioni e caselli dismessi stanno diventando appetibili. cerco meglio. sono già 450 i siti riconvertiti. si parla di cultural-park diffuso dove i binari si sono trasformati in piste ciclabili e percorsi verdi accessibili a tutti. le chiamano greenways ed evocano la cosiddetta mobilità dolce. mentre


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IN FONDO AL LUNGO CORRIDOIO

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INDUSTRIE

Venti anni fa si spense la fiamma che non avrebbe mai dovuto morire: venne spento l’ultimo altoforno della Falck. Acciaio e ferro, una storia durata ‘appena’ novanta anni. I vecchi operai di Sesto San Giovanni hanno ancora memoria, i capannoni sono gli scheletri del ‘secolo breve’ della grande industria.

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TESTO DI OSVALDO SPATARO


FALCK • La fabbrica che non c’è più

‘IL PANE E MORTADELLA SAPEVA DI FERRO’

FOTO DI LUCA CENTOLA


INDUSTRIE

a

l garage delle auto, l’ultimo giorno, gli autisti portavano il lutto al braccio. avrebbero continuato a lavorare per qualche mese, loro. ma ne avrebbero fatto anche a meno. che senso poteva mai avere star lì a prendere qualche spicciolo in più di stipendio per scarrozzare i dirigenti che giorno dopo giorno perfezionavano la morte dell’azienda? loro, gli autisti, avrebbero preferito finire in cassa integrazione a zero ore. non che sia bello prendere i soldi senza lavorare. per carità. ma anche adesso che era finita, finita davvero, volevano continuare a essere come tutti gli altri, come noi: operai tra gli operai. perché se c’era sempre stata una cosa che aveva differenziato la nostra fabbrica dalle altre era proprio questo: noi sì, noi ci sentivamo tutti uguali. operai tra gli operai. e così invece che andar la mattina a lavorare in una sesto vuota di facce amiche e di rumori avrebbero preferito passare le mattine a leggere la gazzetta al bar della wanda, davanti al cancello. parlare dell’inter e del milan, ricordare quando si andava in bicicletta in fabbrica e quando la nebbia era nebbia, mica questa roba qui di adesso. avrebbero voluto far la fine dell’attilio dell’altoforno che ai novellini, il primo giorno, quando li portavano in visita al reparto ripeteva sempre: «la vedi questi fiamma? Questa è come il vaticano, non morirà mai» e giù bestemmie contro i preti, i vescovi, la maestra dell’asilo che era una suora mancata e tutto il calendario tranne san pancrazio, patrono di canicattì, il suo paese. o come il gigia del reparto laminati che non aveva saltato un giorno di lavoro neanche quando era morto suo padre: «perché il lavoro è sacro, me l’ha insegnato lui. e il modo migliore che conosco per onorarlo è lavorare». oppure, del dario detto ‘fusibile’, l’elettricista del turno di notte. che aveva due figli drogati e la sera preferiva star fuori di casa piuttosto che vederli tornare in quel modo, disgraziati. e dell’anna, quella che stava alla contabilità e ne sapeva di numeri: veniva da giù pure lei, e non si è mai capito se l’ultimo del mese era un giorno bello perché si andava a ritirare la busta paga o perché la busta te la dava lei ed era un bel vedere. o la fine della gaia, la signora della mensa, che a ragazzi giovani e senza moglie dava sempre di più da mangiare «che poi a casa a te chi ci pensa? che quando trovi una tusa diglielo che a te ci pensa la gaia a dar da mangiare ed è per questo che sei così bello e sano» e ogni lunedì però se il milan aveva perso agli interisti non parlava.

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e invece era l’ultimo giorno, almeno per noi. rimanevano i manutentori, una squadra di meccanici e tutti quelli che dovevano piano piano avviare lo stabilimento a spegnersi. curatori fallimentari di un mondo in dismissione. certificatori controvoglia che sì, era vero: era davvero finita. a nulla erano serviti mesi di lotte e di battaglie. non erano servite le manifestazioni fino in piazza duomo, chilometri di strada con la gente che ti guarda e non capisce. a nulla erano servite le petizioni fatte firmare a scuola dai figli, le raccolte in chiesa che il parroco lì a sesto era uno di noi. non erano servite le persone arrampicate a protestare sulla ciminiera, e quelli a per terra gridare in faccia alla polizia. non era servito bloccare la stazione centrale, che tanto quelli che decidono figurati se si muovono in treno, in treno ci vanno i poveracci. non era servito nulla di quello che ci avevano raccontato i sindacati dentro e fuori la fabbrica. non



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erano serviti a niente gli intellettuali venuti davanti al cancelli. erano serviti ancor meno i politici che portavano parole e gli studenti che portavano bandiere. era finita e basta. e dire che ci avevamo creduto davvero agli slogan, ai canti. «il lavoro non si tocca. Questa fabbrica vivrà. da qui non ce ne andremo». tutte balle. il lavoro l’hanno toccato. la fabbrica è morta. non ce ne andremo, ma intanto ci hanno sbattuto fuori. «cambia il mondo», ci hanno detto. «voi siete del mondo vecchio, adesso c’è il nuovo». cazzo è questo nuovo? che cazzo di lavoro fa questo nuovo? smontare lo smontabile, questo era l’ultimo ordine di servizio. impacchettarlo in casse di legno chiuse con i chiodi e spedire tutto in india, via nave. come si mette una fabbrica dentro una nave, porcaccia troia? «che adesso il lavoro lo fanno fare ai giargianesi e a noi non rimane che restare qua, con le mani in mano ad aspettare la pensione» dice ogni giorno l’attilio. signori si spegne, si chiude tutto e arrivederci. basta colate continue, basta acciai, basta turni di notte, basta qualunque cosa. addio a quel rumore cadenzato che c’era quando si faceva il turno di notte, pam pam pam. addio alla sirena che suonava per il cambio turno. addio al pane e mortadella che sapeva di ferro, perché lo scaldavamo dove non si poteva e mangiavamo ridendo, nel mezzo della fabbrica. acciaierie e ferrerie lombarde falck, c’era scritto all’ingresso del t5, stabilimento unione. Qui dentro lavoravamo in cinquecento. c’era la gaia, il gigia, l’attilio, l’anna e il dario. c’ero io che ero entrato a ventuno anni e qui avrei voluto morirci. c’eravamo tutti, l’ultimo giorno. oggi non c’è più nessuno. solo quello che vedete in queste foto che non guardo più, perché sennò mi metto nuovamente a piangere.


falck unione, la mecca italiana dell’acciaio

lo stabilimento falck unione in corso italia è il più antico e il più grande aperto dalle acciaierie e ferrerie lombarde falck a sesto san giovanni. nato con la nascita dell’azienda nel 1906, è arrivato ad avere fino a cinquemila operai appena dopo la seconda guerra mondiale, quando il paese aveva bisogno di acciaio e sesto era la mecca della siderurgia italiana. l’unione era uno dei quattro stabilimenti falck di sesto, con gli altri tre, concordia, vittoria e vulcano, formava il polo siderurgico che dava da lavorare a oltre novemila persone. al suo interno a un certo punto erano attivi fino a sei forni per la fusione e tre treni di laminazione, arrivando a coprire quasi un milione di metri quadrati di superficie. con la crisi della siderurgia degli anni settanta le maestranze all’interno dello stabilimento cominceranno a diminuire, scendendo a 3.700 e poi calando via via fino alla definitiva chiusura della fabbrica con lo spegnimento definitivo dei forni, nel gennaio 1996. oggi l’immensa fabbrica dismessa è un luogo in attesa: attesa di venir bonificato e di avere una vita nuova con il progetto della città della salute.

71 osvaldo spadaro, 37 anni, quando può viaggia, quando riesce scrive, se poi qualcuno lo pubblica o meno poco importa. vorrebbe vivere in polonia solo perché lì il reportage è un genere letto e rispettato, ma invece vive a milano. preferisce l'asia al resto del mondo semplicemente perché il resto non l'ha ancora visto.

ma di quel che ha visto giudica la birmania il paese più ricco di storie da scoprire luca centola, 41 anni, materano, fotografo ed archeologo, laureato in conservazione dei beni culturali a lecce e specializzato in gestione, conservazione e sviluppo del patrimonio culturale, è oggi se-

gretario regionale per la basilicata dell’ aipai (associazione italiana archeologia industriale). con la fotografia luca ha approfondito i luoghi di lavoro in italia con una forte relazione a temi sociali derivanti da esperienze come il vajont, le miniere della sardegna, i mulini abbandonati della basilicata, le riforme agrarie.


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L’ULTIMO SPETTACOLO

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MANICOMI

ERA ENTRATO IN MANICOMIO A SETTE ANNI…

L’ULTIMO MATTO

poi un giorno, quel grande padiglione, venne chiuso. fecero una festa, una grande festa. e luigi dovette abbandonare la sola casa che aveva conosciuto. Qualcuno lasciò il cancello aperto. alle loro spalle, l’edificio cominciò a sgretolarsi. RACCONTO DI LAURA MEZZANOTTE

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‘Vieni ad una festa?’ ‘Certo che sì, dove si va?’ ‘Andiamo a chiudere il manicomio di Oderzo’. I ricordi che ho di quel giorno, forse un pomeriggio d’autunno di vent’anni fa, sono intermittenti. L’amico che mi aveva invitato era il coordinatore di una cooperativa sociale, incaricata dal Comune di ‘portar fuori’ gli ultimi matti rimasti nel manicomio. E nel percorso in auto, da Padova, mi aveva spiegato il lavoro che avevano già fatto e quello che li aspettava. Le persone ancora ricoverate erano poche, tutte anziane ormai. Da mesi le stavano preparando a un cambiamento radicale della loro vita. Giorno dopo giorno avevano cominciato a farle uscire dalle mura della struttura. Piccole passeggiate, visite educative al supermercato, lezione di “prendere l’autobus”. Quel giorno facevano una festa per dire addio a quella che era stata la loro casa per molti anni. Dal giorno dopo, data di chiusura definitiva della struttura, si sarebbero trasferite in piccoli appartamenti protetti, supportati nella vita di tutti i giorni dagli operatori della cooperativa. Del posto dove arrivammo ricordo poco: un grande parco con tante foglie secche per terra, vecchie costruzioni basse dai muri gialli - o forse rossi - un po’ delavè. Il luogo pareva deserto: niente portineria, nessun camice in giro. Tutta la vita del manicomio, quel pomeriggio, era concentrata in un bel padiglione a un solo piano, rettangolare, pieno di vetrate. Lì tutto era pronto per una vera festa. Il tavolo lungo con torte, bibite, salumi e formaggi. I palloncini colorati appesi al soffitto. C’era anche la musica in sottofondo.


laura mezzanotte, 53 anni, giornalista trentina. da vent’anni è appassionata della politica africana e di tutto quel che accade sotto il sahara. ama, in modo particolare, il sudafrica. nel ultimi tempi si dedica ai viaggi immobili e alla scoperta di micromondi.

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E una ventina di uomini e donne anziani, mescolati ad una decina di operatori della cooperativa, che stavano amabilmente chiaccherando, tutti con tutti. Una festa. Senza aggettivi. Ero l’unica che gli ospiti del manicomio non conoscevano e quindi qualcuno, spinto dalla curiosità, mi aveva rivolto la parola: ‘Chi sei?’. ‘Sono un’amica di Stefano’. ‘Sei la sua morosa?’ No, avevo risposto ridendo, ‘solo un’amica’. Poi avevo sentito un ‘ciao’ provenire dal lato più lontano della sala. Un uomo apparentemente anziano, ma dall’età in realtà indefinibile, mi stava chiamando. Accucciato a terra, con la schiena contro il muro. Mi ero avvicinata a lui, accucciata a mia volta per vederci in faccia. ‘Ciao, io sono Laura, tu come ti chiami?’ Ci avevo messo un po’ a decifrare che si chiamava Luigi. Parlava a voce bassissima e articolava le parole con difficoltà. Luigi continuava a fissarmi col suo volto da bambino invecchiato. ‘Sei contento di cambiare casa?’, gli avevo chiesto, per sbloccare la conversazione. ‘Mio fratello non c’è più’, era stata la sua risposta. O meglio quello che avevo dedotto dai suoi bisbigli. Stefano, il mio amico, si era avvicinato a noi silenziosamente. ‘Luigi ha settant’anni - mi aveva detto - ed è qui da quando ne aveva sette’. Era molto bravo, Stefano. Mi aveva spiegato che il compito suo e degli altri operatori era quello di dare ‘’potere’ a loro, che non ne avevano. ‘Il nostro potere di contrattazione sociale’ come lui definiva la capacità di esistere in società, la capacità di essere considerato, di non essere invisibile perfino nelle situazioni più quotidiane. ‘Tu cosa fai?’, aveva chiesto improvvisamente Luigi. ‘Io scrivo’, gli avevo risposto. ‘Non so scrivere’, era stata la sua risposta di rimando. Non ricordo bene il resto della conversazione con Luigi. Piccole frasi faticose e quotidiane come: ‘ti piace l’aranciata?’. Ma si era stabilita una corrente, tra me e Luigi. ‘Sei brava, potresti fare l’operatore’, mi aveva detto Stefano. E mi aveva raccontato la storia di Luigi. Era stato internato nel manicomio di Oderzo a sette anni, assieme al fratello di dieci. Erano figli di una donna che ai tempi veniva considerata di scarsa moralità. Erano due bambini difficili, riottosi e vagabondi. Qualcosa, nessuno sapeva esattamente cosa, era accaduto alla madre e i due ragazzetti erano rimasti abbandonati. Portati al manicomio perché era il posto più vicino a casa loro. Lì erano stati letteralmente ‘dimenticati’. Nessuno era mai venuto a chiedere di loro. Luigi e il fratello Giovanni, morto qualche anno prima, erano cresciuti nel manicomio. Con le regole del manicomio, con i tempi e i metodi del manicomio. Incapaci, al momento della loro maggiore età, di vivere ‘fuori’. Bambini difficili, adolescenti internati. Adulti non funzionali. Erano rimasti nell’unica casa e nell’unico mondo del quale conoscevano le regole. A un certo punto Luigi mi aveva preso la mano e l’aveva stretta. Ricordo che avevo fatto fatica a trattenere le lacrime. Ero rimasta lì, accucciata, con la mia mano nella sua per un tempo che non sapevo contare, forse solo un momento, forse un’eternità.


MANICOMI

pistoia

il pianoforte di ville sbertoli suona ancora

foto di saverio de luca testo di silvia la ferrara

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due ville patrizie sulle colline di pistoia furono acquistate fra il 1868 e il 1876 da agostino sbertoli, medico presso il manicomio di san benedetto a pesaro che aprÏ qui una casa di cura per malati mentali di cui divenne direttore e dove forse venne internato anche un suo figlio. i pazienti venivano suddivisi nei vari edifici del complesso in base allo status sociale e per questo il manicomio divenne meta di pazienti provenienti da ricche famiglie. l’antico pianoforte del salone principale suona ancora, raccontano.



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colorno

1969, fuori i matti foto di monica mietitore

a colorno il manicomio fu realizzato nei locali dell’ex reggia ducale e del convento di san domenico nel 1873. nel 1969 fu occupato da studenti della facoltà di medicina di parma e nello stesso anno franco basaglia divenne direttore del complesso iniziando il processo di deistituzionalizzazione del manicomio che ora è di proprietà dell’ausl di parma. nel 2013 il writer brasiliano herbert baglione ha realizzato in questi spazi una serie di opere dal titolo “ombre di pece”, figure che nascono da sedie a rotelle abbandonate nei corridoi e si allungano sull’intonaco scrostato. inevitabili le polemiche sulla stampa locale in quanto i graffiti deturperebbero lo storico edificio.


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MANICOMI

mombello

i ghost hunters a caccia di benito albino foto di giovanni mereghetti testo di silvia la ferrara


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l’ex ospedale psichiatrico giuseppe antonini si trova a mombello (a nord di limbiate), accanto alla settecentesca villa pusterla dove napoleone proclamò la repubblica cisalpina. fu costruito nel 1873 ed è arrivato a ospitare oltre 3 mila pazienti, fra i quali anche il figlio illegittimo di mussolini, benito albino, morto internato nel 1942. un muro di cinta alto due metri e lungo tre chilometri separava dal mondo oltre 40 mila metri quadrati di stanze, celle e corridoi abbandonati definitivamente nel 1999. oggi la proprietà è dell’azienda ospedaliera salvini. la destinazione socio-sanitaria dell’area, che non permette aumento di volumetrie, rende l’ex manicomio poco appetibile dal punto di vista immobiliare. i gost hunters invece lo amano e vengono qui a caccia degli spiriti delle persone decedute tra le corsie.


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rovigo

un tempo i ‘matti’ polesani….


foto di zàira mantovan

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il consiglio provinciale di rovigo, nel 1906, decise di costruire un ospedale psichiatrico per riunirvi i matti polesani sparsi in 41 manicomi italiani. era prevista una costruzione immensa: fabbricati, nove padiglioni, viali, cortili, giardini e colonie agricole. venti ettari, duecentomila metri quadrati. dopo varie vicissitudini e sospensioni, e l’utilizzo dell’area durante la i guerra mondiale da parte dell’amministrazione militare, l’apertura ufficiale del manicomio avvenne il 20 marzo 1930. costruito per 400 persone, il manicomio sarà ne ospiterà mediamente 700. dal 1930 fino al 1980, l’ospedale psichiatrico di rovigo assolse la funzione di "ricovero e di cura" dei malati psichici per tutta la provincia di rovigo. tali "ricovero e cura" erano praticati con metodi considerati coercitivi e violenti come l’elettrochoc e l’insulinoterapia. nel 1978 la legge basaglia abolisce i manicomi, i ‘matti’ vengono rilasciati, ma il manicomio di rovigo viene chiuso definitivamente solo nel dicembre del 1997. da allora, l’area è abbandonata, salvo tre padiglioni usati dall’asl come archivi e depositi. diversi progetti sono stati vagliati ma nessuno realizzato.


SANATORI

SAID STAVA PER RAGGIUNGERE FATIMA

‘PRENDI IL 25, PORTA FINO AL GIGANTE’

sulle colline di firenze, verso l’appennino, ci sono due monumenti: la statua di un vecchio dalla grande barba bianca e un immenso palazzo abbandonato. era un sanatorio, conosciuto come ‘il banti’. dopo l’abbandono, è stato casa e rifugio di comunità d’immigrati. là, due anni fa, un uomo e una donna dovevano ritrovarsi. due giovani scrittori hanno cercato la loro memoria fra le rovine …

RACCONTO E FOTO DI CLAUDIA MEZZAPESA E MARCO TURINI F. Appena arrivi in stazione chiedi del 25. Supera la città, le colline e, attraversato il bosco, lo vedrai. S. Ma come faccio a capire qual è la fermata? F. Chiedi, lo conoscono tutti. Sembra un gigante bianco addormentato nei boschi, ma stai attento che di giganti sulla collina ce ne sono due! S. Ma in che posto sei finita? F. Said è bellissimo qui! Il gigante più antico è un uomo barbuto alto più di dieci metri che sembra venir fuori dalla montagna per prendere l’acqua nel lago. È in un parco immenso, un luogo magico con statue strane e grottesche, fontane e laghetti. Quando arrivi ci andiamo insieme. Vedrai ti piacerà! Guarda questa foto. S. Mai visto nulla di simile! F. Il nostro palazzo è poco più in là. Anche lui è un gigante! Ci sono ben cinque piani e l’ultimo è completamente vetrato. Nelle belle giornate andiamo su a prendere il sole e da lì si apre una vista mozzafiato sulla città e sulla cupola del duomo.

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la statua dell’appennino, nel parco di pratolino


S. Ma sei sola lì? F. Ma cosa dici? Tutte le stanze del secondo piano sono ormai piene. Gli ultimi arrivati sono i nostri vicini, Mamadù e Jameela. Sono qui dalla scorsa settimana, ma già Rasha e Nazeera, la loro piccola, sono diventate grandi amiche. S. Ma è sicuro almeno?! F. Il posto è tranquillissimo, ci sono solo delle regole da rispettare: chiudere sempre con la catena la porta principale e, se si sentono voci strane o passi che non provengono dal nostro corridoio, bisogna stare immobili e in silenzio. Potrebbero essere curiosi che si avventurano per fotografare o, nella peggiore delle ipotesi, poliziotti mandati qui a controllare. S. Ma c’è almeno da mangiare? F. Come no?! Qui c’è una sala mensa enorme, cucine attrezzate, bagni, puliti con doccia e vasca. Non manca nulla! C’è anche un teatro e ogni giovedì si organizzano spettacoli! Vedessi Rasha com’è contenta! S. Fatima, non vedo l’ora di riabbracciarvi! Ho un po’ paura per questo viaggio, stasera fa freddo e il mare è agitato. Ci vediamo presto! Un bacio. F. Non vedo l’ora anch’io di stringerti. Ti bacio e ti stringo forte. Mentre saliva sulla barca accompagnato dalle urla dello scafista, Said riuscì a trovare una piccola nicchia all’interno del portello nella prua della nave. Anche se doveva condividere il posto con altri novecento corpi quella notte sorrideva. Avrebbe presto rivisto Fatima e la sua piccola Rasha, e, in quella notte fredda, questo pensiero gli scaldava il cuore. La Sherazad silenziosa avanzava sulle onde minacciose. Solo le urla dei neonati squarciavano il religioso, accorato silenzio dei suoi compagni di viaggio. Mentre la luna, filtrando da una fessura nel legno, illuminava le facce impaurite dei suoi vicini di posto, Said si addormentò esausto per pochi minuti pensando a quell’ospedale lontano: il Banti. Quella notte fu l’ultima per la Sharazad, non ce ne furono altre mille.

l’ex sanatorio banti

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Lampedusa, Isola dei Conigli, 3 ottobre 2013


SANATORI ERODOTO108 • 13

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firenze

l’eX sanatorio banti

l’ex sanatorio banti, dedicato al patologo fiorentino guido banti, si trova a pratolino, sulle prime colline fiorentine, verso l’appennino. progettato nel 1934, era il luogo ideale, per il clima salubre, per curare la tubercolosi. la famiglia demidoff, mecenati russi, trapiantati nell’800 a firenze, dinastia di industriali dell’acciaio e fabbricanti di armi, donò il terreno. nel parco della loro villa, di fronte alla collina del banti, si trova la grande statua del vecchio raffigurante l’appennino della quale parla fatima. dopo complessi lavori, il sanatorio venne inaugurato nel 1939. nel dopoguerra, ridotta la tubercolosi, il banti è diventata una struttura ospedaliera. è stato abbandonato nel 1989. da allora è cominciato il degrado. nei primi anni di questo secolo, è stato occupato e ha ospitato piccole comunità di immigrati dal nordafrica, curdi e albanesi. progetti per trasformarlo in albergo o scuola di formazione sanitaria manageriale sono falliti.


claudia mezzapesa 33 anni vive tra puglia e toscana. architetto perché così la vedevano i suoi, paesaggista per scelta. non riesce facilmente a resistere a luoghi e persone pericolose. marco turini, 34 anni. archeologo, è uno dei fondatori di erodoto108. dopo una breve fuga all’estero è ritornato per inseguire (invano) la sua carriera nell’ambito museale. è interessato al rapporto che intercorre tra la società contemporanea ed il suo patrimonio storico e culturale, in tutte le sue forme.


I LUOGHI ORFANI DI FABIO SEBASTIANO

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SEDIE ROSSE E UNA PORTA APERTA

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LEZIONI DI ARTI CIVICHE

‘AVETE TUTTI L’ANTITETANICA?’ Testo e foto di Francesca Duca città, non praticate e impraticabili, che danno accesso ai mondi dell'inaspettato e del sorprendente.

alt, privato. vig. armata: non è certo un cartello che può fermare gli studenti di architettura di roma tre. ‘capire il territorio’ fra le macerie, scavalcando muri e cancelli…

a

rti civiche. professor francesco careri. insegnamento a scelta dello studente. 30 ore. 4 cfu. lo trovi in elenco. alla lettera a tra 'acustica e illuminoteca' e 'bim- tecniche parametriche di progettazione'. laurea magistrale in architettura. roma tre.

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tutto regolare. sembra vero. anzi lo è. ma c'è qualcosa che non quadra. lo vedi già dal nome, se ci pensi bene. 'arti civiche'. e che saranno mai? vai alla prima lezione e alla domanda del 90 prof: 'avete tutti l'antitetanica?', cominci a capire. che non hai capito. proprio così. perché le 'lezioni' non si svolgono in aula, ma fuori. anzi, il corso non lo si segue per niente, ma lo si pratica. da protagonisti. camminando. il concetto è semplice. non banale. il miglior modo, se non il solo, per comprendere il territorio in cui viviamo e che spesso, solo distrattamente percepiamo, guardando senza vedere o vedendo senza guardare, è quello di entrarci fisicamente. con tutto il corpo, mani, piedi, e certamente, testa. attraversando i luoghi, urbani e meno urbani, infilandosi nelle intercapedini della

alla base, un teorema, 'chi perde tempo, guadagna spazio' e una legge, la più severa. 'non si torna mai indietro'. una volta scelta la direzione, non ci si ferma davanti a niente. si procede, per 'violazione' dello spazio privato, demolendo le infinite barriere fisiche e mentali, che quotidianamente ci costringono, come animali in cattività, a percorrere le vie della norma, le strade precostituite. ci si riappropria degli spazi, scavalcando muri e cancelli, entrando da buchi nelle recinzioni, tuffandosi nei fossi, tra boscaglie e rovi, o anche, semplicemente, dalle porta principale, aprendole con l'arte dialettica. il tutto a rivendicare la suprema libertà di movimento e il diritto di conoscenza. corso di arti civiche, dunque. un gruppo eterogeneo di studenti e non, artisti e non, docenti e non, di diversa provenienza. dal brasile, dal cile, dalla spagna, dall’italia, dalla svizzera. appuntamento tutti i giovedì per andare alla scoperta di roma ovest. tanta avventura. su è giù nello spazio e nel tempo. salite e discese. voli. io con loro. in cerca della forma giusta per raccontare la magia dei fatti. realmente accaduti. Qui parte di quel che ho 'visto' con le parole: andante/volendo uscire/paura di essere/inermi/scudi finiti/solo/lo sguardo camminiamo su prati di macerie. ogni passaggio ne lascia. ci dirigiamo verso la foresta di cellulosa. grande struttura abbandonata. divieto di accesso. vigilanza armata. entriamo tra i vetri rotti delle serre. muffe, funghi, carte e provette. porta spazio/tempo. in fila indiana procediamo. millepiedi attraverso il maggese. ci appare, luogo sacro, dopo tanto cercare, l'aula del muschio.


sistenti. paure e piccoli drammi interiori. e arriviamo. finalmente al nostro posto. giardino delle follie proibite. Qui la via di fuga. decisamente a sud. alla città delle arti. dopo tanto andare. dopo tante prove. sediamo. i maestri al fianco. sotto la grande tenda tessiamo la tovaglia dei festeggiamenti. infinita. per apparecchiare il mondo. sono in tanti, ambasciatori della città nomade. e ora anche noi. FRANCESCA DUCA, 38 anni, paleontologa, dedita al libero andare, vive e ama l'altrove come fosse casa. interpreta voracemente ogni ruolo: educatrice, imbianchina, insegnante, trippaia, ricercatrice, traslocatrice. perseguendo la conoscenza sogna, un giorno, il sapere.

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entriamo. statue sospese, galleggiamo, ranocchie in uno stagno. tutto è verde, anche le parole, umide nella nostra bocca. densi i raggi di luce. il sempre e il mai si confondono. castelli, corti, santuari. i giovenale, il guardiano della porcareccia. santi, santini. abitanti del vecchio mondo. le terre coltivate a suoni e odori. si apre un varco. pier paolo pasolini nei nostri palpiti. caliamo tra gli alberi da zucchero filato. vola nell'aria. si posa, sulle sabbie quaternarie dell'antica via carovaniera. fauni di ermes ci indicano il cammino. monte del mare. che non c'è più. prosciugato da piscine azzurre. carcere di massima sicurezza. vista mondo. gli abitanti, ricchi mercanti di schiavi. tanto ossessionati dal mio, si sono imprigionati da soli. strade circolari. vicoli ciechi. bisogni vietati. pelli sottili e glabre che mai hanno superato gli alti muraglioni coperti di rovi. corona spinata cresciuta sui fossi. arcaica via nomade. inaccessibile. e noi qui. tenacemente cerchiamo un varco. telecamere e cancelli automatici. ci infiliamo ovunque. tunnel nella foresta a galleria. e giù. con le corde. tra bambù, liane e rose. si lacerano i vestiti. restiamo nudi. niente possono milioni di insetti sulle nostre carni pelose. cacciatori raccoglitori. urliamo. di gioia. costruiamo ponti per passare. primi da secoli. si scavalca qui e là. un vizio. ci guardano. tanto dove credi di andare. rimbalziamo. barriere in parallelo. alta resistenza. salti nel vuoto. variegati. sfioriamo cime d'albero. abbaiano cani. in-


al bar roma di porretta terme, assieme a azzurra d’agostino, poetessa dell’appennino

IL MONDO SPOPOLATO DI PAVANA

vivere in un paese ‘pieno di anziani e privo di giovani: ‘i poeti mi hanno fatto sentire meno sola’. e spegnere la tv, ha fatto trovare il tempo per leggere proust. ‘le persone ferite hanno bisogno della poesia’. Testo di Sandro Abruzzese Foto di Fabio Sebastiano

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"(...) Molti sono i modi del noi. E adesso ci siete voi, di mani / ci sono le vostre ascoltate. Questa è la terra. Fatene quello che potete. Credete". Sono passati anni da quando scoprii Canti di un luogo abbandonato di Azzurra D'Agostino. Finalmente ne ho una copia autografa tra le mani e, attraverso il formato, la composizione, riconosco la cura e l'attenzione per ciò che si ama.

Vado a cercare dei versi: "Siamo rimasti qui da soli / dove sono finite le bestie / le ostie degli uomini le madonne / i bambini cugini i figli le donne? / E questi alberi che guardano / non crediate che siano in pace / è come un grido questo bosco / anche se tace". Le parole che disegnano luoghi, il ritmo serrato, lo sguardo, in una piovosa domenica di autunno, mi hanno spinto nella piccola Pavana, paese di Francesco Guccini, a pochi chilometri


Come si è affaticato, che pena che fa / pensare a tutto quel niente, dillo piano / magari ci sente.

da Porretta Terme, stretta nella suggestiva gola creata dalla Valle del Reno. "Amai subito Soldati di Ungaretti. Così alle elementari cominciai a comporre robaccia. A 16 anni, Giacomo Martini volle incontrarmi. In futuro sarebbe diventato il mio primo editore. Quanto alla poesia contemporanea, ricordo lo stupore per le opere di Franco Loi, Mariangela Gualtieri: i poeti mi hanno fatto sentire meno sola. È un modo di conoscere

senza che ci sia una spiegazione, è abbozzare il mondo senza tesi, senza avanguardie, accogliere il mistero è come accogliere se stessi. Della poesia amo il tentare e poi fallire, perché già il solo provare è ottimismo". Si prende una bella pausa prima di rispondere alle domande, Azzurra. "Come si è affaticato, che pena che fa / pensare a tutto quel niente, dillo piano / magari ci sente", intanto leggo. La nostra conversazione avviene al Bar Roma

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di Porretta dove, davanti a un thè caldo, sfoglio in disordine le sue parole: "(...) tra le fessure del selciato e tutto sommato il mondo / l'intero mondo spopolato. Il mondo quello lì, che c'era / e pensava alla primavera come a una promessa, la terra del campo spessa come una preghiera", scrive.

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In esilio porterebbe con sé i libri di Wallace, Stevens, Tolstoj, la musica dei Radiohead e Claudio Lolli, ammette sorridendo. Poi parliamo dei Canti. "Il libro che hai tra le mani nasce dalla voglia di coniugare forma e contenuto, è nato passeggiando nella mia terra, mentre ne scorgevo i segni umani. Lavorare sul tempo, sugli oggetti, questo il progetto legato al luogo in cui vivo: un posto totalmente isolato e inospitale, in inverno stretto tra neve e animali selvatici. Pavana è un luogo difficile e lontano, marginale, pieno di anziani e privo di giovani. Tutto questo ti consente di andare in profondità, ma con sacrificio. La natura qui ti rimette al tuo posto, questo fa bene e lo trovo necessario". Le chiedo se non avere la televisione ed essere laureata in Estetica con una tesi su Milan Kundera non sia un po' troppo radical-chic. La risposta è che spegnere la tv le ha consentito di finire Proust (ride). Nella filosofia, invece, cercava risposte sistematiche che si è rassegnata a ritrovare giorno per giorno. La incalzo, voglio due nomi: il culmine e l'inferno del nostro panorama politico. Finalmente vacilla. Dura pochi secondi, quindi ricorda, - qui a pochi chilometri da Marzabotto e Monte Sole, - la sua famiglia di tradizione partigiana, l'affetto per Pertini e Enrico Berlinguer. Ritorno alla poesia. Abbiamo passato quarant'anni, orfani del rigore morale di Pasolini. Vorrei sapere della distanza, dell'incoerenza che chi scrive a volte dimostra rispetto alle parole che pronuncia. "Elliot scrive poesie d'amore meravigliose e ciò non gli impedisce di far internare la moglie ammalata in maniera spietata. Questo non toglie valore alla poesia, bensì all'uomo. Io mi fido dell'opera, essa travalica la biografia. Si può intuire qualcosa del


Chi era qui che zappava e mungeva / chi insomma c'era non l'avrebbe voluto / il crollo del fienile e neanche, inutile dire, / questo scrostarsi pareti, la gramigna / tra le fessure del selciato e tutto sommato il mondo / l'intero mondo spopolato. Il mondo quello lĂŹ, che c'era / e pensava alla primavera come a una promessa, la terra del campo spessa come una preghiera.

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Siamo rimasti qui da soli / dove sono finite le bestie / le ostie degli uomini le madonne / i bambini cugini i figli le donne? / E questi alberi che guardano / non crediate che siano in pace / è come un grido questo bosco / anche se tace.

mondo e poi non essere all'altezza della propria intuizione. Per quanto mi riguarda, non sono immune dalla vanità, però cerco di andare per la mia strada, cerco l'onestà e le persone. Mi piace leggere per loro. Sono convinta che le persone, soprattutto quelle ferite, abbiano bisogno della poesia".

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AZZURRA D'AGOSTINO vive a Pavana, sull'Appennino Tosco-Emiliano. Ha pubblicato numerose raccolte poetiche, scrive e si occupa di teatro. Canti di un luogo abbandonato, il suo ultimo libro, ha vinto il Premio Carducci. Azzurra è appena stata insignita del Premio Ciampi.

Assieme a Daria Balduccelli e Andrea Biagioli, con l'associazione Sassiscritti, Azzurra, a ogni agosto, organizza un Festival itinerante: L'importanza di essere piccoli. Nella vita, è davvero essenziale saper essere piccoli? "Ci si accorge, almeno per me è così, che le cose più belle accadono nella dimensione piccola, nei locali, nei teatri, dove è importante stare vicini, percepirsi. È lì che avviene uno


Molti sono i modi del noi. E adesso ci siete voi, di mani / ci sono le vostre ascoltate. Questa è la terra. Fatene quello che potete. Credete.

SANDRO ABRUZZESE, 36 anni, irpino. Laurea in lettere moderne a Napoli. Insegnante d’italiano e storia nelle scuole superiori nel veronese. ora a Ferrara. Blogger per necessità: cura il progetto raccontiviandanti e scrive per colmare la distanza, il vuoto vuoto, lo spazio che –sostiene – lo separa dalle cose e dalle persone.

FABIO SEBASTIANO, 38 anni, nato a Rivoli, in provincia di Torino. Si avvicina alla fotografia subito dopo la laurea in Psicologia. Si appassiona ai ‘contesti in disuso, ai luoghi vacui ed indecisi’. Da diversi anni, ormai, si occupa di fotografare/documentare in chiave artistica gli spazi abbandonati del suo territorio. Ha realizzato mostre, pubblica sulla stampa specializzata. Tutte le sue fotografie sono visibili sul www.fabiosebastiano.it o sul suo account flickr: fabio_sebastiano.

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scambio reale e significativo con gli altri. Il Festival cerca di riprodurre questo tipo di contatto tra le persone. Un poeta, a mio avviso, deve essere pronto, deve sapere che oggi il suo ruolo è relegato ai margini della società e questo non può scoraggiarlo. Chi scrive deve saper essere piccolo e onesto, non può piegare l'autenticità per l'ambizione o la visibilità. Questo non è facile e non sempre riesce. Però, se la propria opera rappresenta qualcosa, prima o poi si farà spazio, nondimeno occorre mettere in conto che potrebbe non avvenire per anni, oppure che potrebbe non avvenire mai".


I LUOGHI ORFANI DI FABIO SEBASTIANO

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SI MUOVONO SU BINARI IN UNA LUCE SENZA FINE

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‘la fotografia è qualcosa che ha a che fare con i sentimenti’

STORIE

DI FOTOGRAFE

si nascondeva in luoghi abbandonati, magazzini, granai, case in rovina. come se solo qui trovasse ‘un’oasi di pace’. Qui lei ‘si immerge e si confonde tra le crepe, la muffa e la polvere di stanze e pareti’

LA BELLEZZA DI FRANCESCA testo di francesca cappelli

passa parte della sua breve vita, a partire dall’infanzia ad Antella, nei pressi di Firenze, tra villeggiatura e scuole elementari. Negli Stati Uniti frequenta una scuola privata dove avrà come insegnante la fotografa Wendy McNeil, che le insegna come la fotografia sia qualcosa che ha a che fare con i sentimenti. Francesca fa suo questo insegnamento, lo interiorizza e riversa sulla sua arte che sembra nascere dalle pieghe del suo ventre, come i chiaroscuri delle sue profondità. A diciannove anni si trasferisce a Roma, dove cerca luoghi vuoti, clandestini. Granai, case e magazzini dimenticati, inutili alla macAlcune disordinate china del mondo. Lì sembra geometrie interiori trovare un’oasi di pace dall’ostilità circostante. Si Nasce a Denver nel 1958, immerge e si confonde tra Francesca. Il suo nome è un le crepe, la muffa e la polomaggio all’Italia, terra vere di stanze e pareti. amata dalla famiglia, dove Il suo corpo nudo è fascino

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rancesca Woodman non è arrivata a compiere ventitré anni. Ha ricevuto in dono la benedizione della Bellezza, ma non è riuscita a tenere testa ai propri demoni. Guardate le sue fotografie: ti tirano e rapiscono. Non ammettono nessun diaframma di distanza. Dentro un abbraccio di quiete, dentro un quadro in uno stato di completo abbandono, è il mondo reale ad esser lontano, diverso, estraneo. Sono foto che creano un tempo del silenzio, dove l’ardente forza di Francesca scarnifica e purifica, dove le sue paure si scoprono essere le nostre.

e seduzione, purezza assoluta tra la desolazione. La sua pelle è luce. Lo spazio la assimila, nella cosmica armonia di vita e di arte. Francesca è una fibra del creato. Nasconde spesso il volto, con il braccio esile, con carta da parati, con un velo nero, con la corteccia di una betulla. Le sue morbide forme sono potenza e visione. La sua fotografia è un tuffo nell’eternità che Francesca ha ritrovato. La giovane artista sembra attendere qualcosa che, superando l’istante fisico della realtà, attinga all’ideale. Le fotografie sono la sua dolce malinconia, il suo monologo silenzioso. È lontana Francesca Woodman, spesso appena accennata. Quello che a noi rimane è un enigma, il suo mistero. Queste immagini assomigliano a una poesia scavata nel profondo dell’anima. E quello che emerge è l’indicibile, l’insondabile, il non fotografabile. Torna in America per completare gli studi. Nella lettera a un amico italiano, catturata dall’insensatezza della velocità newyorkese, scrive: a questo punto la mia vita è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate. Nel gennaio del 1981, a Filadelfia, viene dato alle stampe il suo primo e unico libro. Il libro si chiama Some disordered interior geometries. Il 19 dello


arte. Provate a dimenticarvi di tutto, di qualsiasi spiegazione o interpretazione che vi è stata data, e lasciatevi commuovere, consapevoli che ognuno di noi la può capire solo nel proprio spazio più intimo e protetto. 'La versione integrale di questo articolo si trova su: http://riotvan.net/articoli/703-reves:_femme_photale_fra ncesca_woodman. RiotVan, dal 2008, è un magazine on-line di attualità e cultura urbana, nato dagli studenti fiorentini di giornalismo'.

(Le fotografie qui presentate, nel rispetto del diritto d’autore, vengono riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.)

FRANCESCA CAPPELLI 23 anni studentessa in Lettere Moderne, crede che un giorno farà la giornalista, che sarà una viaggiatrice e crede nelle coincidenze.

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stesso mese Francesca Woodman dice volontariamente addio alla vita, che pur sicuramente amava, gettandosi dalla finestra del Barbizon Building a Manhattan. L’edificio è conosciuto come l’hotel delle donne. Tante parole sono state spese su Francesca. Provate a leggere, a capire cosa in essa vedano gli altri, ma ricordatevi che siete voi a guardare le sue foto, la sua


Quaranta anni fa chiusero le antiche miniere di Campiglia Marittima

IL CONTATORE DI SAN SILVESTRO Questa è la storia di un abbandono e di una resurrezione. per duemila anni gli uomini hanno strappato minerali a questa terra maremmana. poi tutto finì. e furono gli archeologi e i vecchi minatori a far rinascere uno dei più bei parchi italiani là dove erano gallerie, villaggi minerari e ruderi di un’industria Testo di Arturo Valle Foto di Giovanni Breschi

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hi avrà abbassato il contatore? chi avrà spostato quel tasto sullo zero fisso? chi avrà interrotto, in quell’ottobre di quaranta anni fa, per sempre, la corrente elettrica? dopo oltre duemila anni, era davvero arrivata la fine. la fine delle miniere. nessuno avrebbe più cercato di portar via a questa terra dell’alta maremma, alle rocce di campiglia, il rame, il piombo, l’argento, lo zinco. sarà stato Sonnambulo ad abbassare queste tasto? oppure Muso Duro? non ce lo vedo Arancino a spegnere quella miniera per la quale era vissuto, lui avrà cercato di nascondere le lacrime dietro le sue rughe. credo che anche Discorso Lungo abbia pianto quel giorno. e dumas, il solo che non aveva bisogno di un soprannome visto come lo aveva chiamato suo padre, avrà avuto la tentazione di sussurrare una delle sue poesie. Quella volta non lo fece. peccato. era l’ottobre del 1976, un autunno di malinconia per gli ultimi minatori della maremma. forse quegli uomini lasciarono negli spogliatoi, assieme ai caschi, anche i loro soprannomi. fino all’ultimo momento avevano provato a impedire la chiusura della loro miniera. erano rimasti giorni e giorni chiusi nel buio delle gallerie pur di convincere chi ne aveva potere a salvare il loro lavoro. sgobbarono senza paga pur di dimostrare che era possibile tenere in vita le miniere. niente da fare: questa è una storia di globalizzazione. campiglia non poteva competere con il rame cileno. settecento anni prima di dumas e di Sonnambulo, erano state genti etrusche a calarsi nelle fenditure della terra per cercare minerali. erano uomini




talpa, capaci di scorgere le mutazioni del colore delle rocce per individuare filoni; abili e coraggiosi da scendere fino a centodiciassette metri sottoterra pur di strappare ferro e rame a queste colline così generose. l’uomo, qui, ha faticato, ha corso pericoli mortali, ha dato la vita per i metalli. era mosso da avidità (cercava rame, ferro, argento, piombo) e da necessità. gli etruschi, i minatori del medioevo, gli operai tedeschi del rinascimento mediceo: tutti vennero a scavare in queste terre. e, infine i contadini di campiglia e san vincenzo abbandonarono i campi e gli orti per diventare minatori. ci furono geologi francesi e finanzieri inglesi privi di scrupoli, fra ottocento e novecento, a cercare di fare soldi in queste terre. nel 1976, atto finale: a milano vennero scritte sessantuno lettere di licenziamento dirette a Discorso Lungo, ad Arancino e ai loro compagni. fu allora che qualcuno abbassò quel tasto rosso. ma questa non è la storia di un abbandono. nel 1984, otto anni dopo la chiusura delle miniere, un gruppo di giovani archeologi dell’università di siena risalì i sentieri di san silvestro. li guidava e li istruiva un medioevalista burbero e sapiente. si chiamava riccardo francovich. lui sapeva di un antico villaggio minerario. organizzò campagne di scavo, trovò alleati e complici appassionati. e, come in una parabola a lieto fine, nacque un futuro in un luogo abbandonato. fu un cammino lungo e ostinato. nel 1996, le antiche miniere divennero un parco archeominerario. dumas, sì, allora, declamò le sue poesie e ci fu vino e festa. sì, questa è la storia di


una resurrezione. di una possibilità, di una rinascita. in altri anni di lavoro furono recuperati pozzi e palazzine delle miniere novecentesche, i vecchi edifici industriali si trasformano e diventano sale di museo, ostelli, laboratori. meglio: sono nuove architetture, geometrie, disegno, panorama, bellezza. altri dieci anni. nel 2006, giovanni breschi, il grafico che oggi fa erodoto, si aggira per i vecchi impianti, per gli spogliatoi abbandonati, per le sale macchine coperte dalla polvere. e scorge il contatore. lo fotografa. è affascinato dai segni dell’uomo. dalla memoria. dai gesti che stanno dietro gli oggetti. è tentato di indossare delle cuffie anti-rumore rimaste appese a un chiodo. le macchie di ruggine su una lamiera sono un piccolo capolavoro. l’incastro confuso di ingranaggi bloccati sono una scultura. i cartelli impongono ancora divieti oramai inutili. la

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vecchia minieria novecentesca è diventata un’opera d’arte, creazioni della fantasia robotica di paul klee o di vasilij kandisnkj. c’è ancora una cassetta colma di grossi dadi dalla filettatura spessa. è come se riapparissero anche quei minatori (non ci sono uomini nelle sue foto, ma la loro presenza si intuisce) a mettere in moto l’argano o un compressore. è strano il destino che avvolge quanto rimane dopo una ‘dismissione’ industriale: quegli impianti (nastri trasportatori, macchine rumorose, cinghie, cavi, compressori) cambiano davvero. prima hanno potenza. sono lavoro. vita di decine e decine di uomini. possono far nascere sensazioni di potere o di ostilità (chi definirebbe bella una fabbrica o una miniera du-

GIOVANNI BRESCHI, 63 anni, molti passati nei Parchi della Val di Cornia fra grafica e fotografia, ma soprattutto a guardare e vivere la trasformazione di questi luoghi. Vive a Firenze.

ARTURO VALLE, 35 anni, pugliese di Gallipoli. Vive a Bologna. Dove fa l’avvocato. Ma va in giro per l’Italia ogni volta che è possibile e anche quando non è possibile. Un giorno capitò a Baratti, non si fermò al mare. Salì fino a San Silvestro proprio nell’ultimo dell’anno. Pensò che fosse una coincidenza. Si smarrì, da solo, nel vecchio villaggio minerario.

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rante gli anni della fatica? le miniere in attività fanno subito pensare allo scempio ambientale). poi le miniere chiudono. e allora, come un rito, si lotta per cercare di farle sopravvivere, si perde quella battaglia (era una battaglia persa) e gli impianti vengono abbandonati. e poi questa ferraglia intrisa dell’anima dei minatori si trasforma, trova una nuova vita, un altro significato: gli archeologi industriali vi si aggirano incuriositi e beati, mentre gli artisti, come i fotografi, ci trovano istanti di perfezione.


parco archeominerario di san silvestro. l’idea del parco nacque nel 1984: il dipartimento di archeologia medievale dell’università di siena avviò allora, con la collaborazione dell’amministrazione comunale di campiglia marittima, una campagna di scavi nell’area della rocca di san silvestro. nel 1989 fu varato un progetto pilota per il parco. che venne aperto sette anni più tardi. il parco, quasi 500 ettari, si trova nel territorio del comune di campiglia marittima (via di san vincenzo). al suo interno si succedono itinerari naturalistici, esplorazioni in gallerie e visite archeologiche. apertura estiva: tutti i giorni dalle 9 alle 20. giugno e settembre: ore 9-19. chiuso al lunedì. nei mesi invernali il parco è aperto nei finesettimana e nei giorni festivi o su prenotazione per gruppi e scolaresche. tel. 0565/838680. e-mail: parcoss@parchivaldicornia.it sito web: www.parchivaldicornia.it


la mostra permanente delle fotografie di g. breschi nel parco di san silvestro. in alto la rocca di san silvestro.

LETTERA DA UNA MINIERA LA VERSIONE DI SILVIA

Silvia Guideri era una delle giovani archeologhe che trent’anni fa ha riacceso quell’interruttore spento. Cosa vedono i suoi occhi quando passeggia fra i ‘segni’…

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Torno a guardare queste immagini, immagini nelle quali si fondono astrattismo e memoria, sembra impossibile, ma è la magia di questi luoghi, luoghi abbandonati, luoghi tornati a vivere grazie a quei giorni belli, luoghi che devi saper abbandonare come figli ormai cresciuti Quei segni non sono fantasmi, sono compagni di viaggio, un viaggio bellissimo, che ha lasciato un altro segno. Silvia Guideri

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on riesco a scrivere di abbandoni. È difficile, perché doloroso. Le foto trasformano e reinterpretano una storia di abbandono, lamiere arrugginite diventano geometrie, bellissimi fiori, folletti curiosi, segni nei quali ciascuno può vedere ciò che vuole, come quando guardi le nuvole. Questo paesaggio è interamente fatto di segni, tracce di una discenderia su cui vedi passare carrelli carichi di minerale, castelli di ferro che tirano su argani, castelli di pietra che osservano severi dall’alto della loro antichità, crudeli gradoni che spezzano la montagna. Non più e non soltanto fiori fatti di sangue, folletti tenuti al guinzaglio, riflessi argentei di luce, ma segni, segni del lavoro, segni di vita, segni di storia. Per un archeologo i segni sono vita, lavoro, memoria e se questi segni diventano gran parte della loro vita, del loro lavoro, della loro storia, se quei segni rivivono con gli studi, con gli scavi, con la memoria, ecco che diventa difficile parlarne a proposito di abbandoni e ancor più difficile scriverne. Non è facile, per chi come me non è abbastanza social, condividere l’intimità di certi sentimenti, perché quei segni sono anche sentimenti. Ogni giorno attraverso quei segni che non sono più soltanto segni e non sono più storie di abbandoni. Chi ha spento quell’interruttore è una figura viva e vibrante, che ha un nome Dumas, che ancora oggi ci racconta con pazienza e passione la sua storia. Ma la sua storia si intreccia con quella di un ragazzo che ripete le sue parole nel buio di una galleria, si fonde con la storia di tanti ragazzi che hanno riacceso insieme quell'interruttore, con curiosità, con allegria, con tenacia. E con quella di tanti visitatori, trentamila ogni anno, che vengono attratti da quei segni e da quella storia. Andrea, il mio amico scrittore di viaggi, in uno dei suoi messaggi vibranti e pieni di memorie mi ha chiesto se il passato serve a qualcosa, Giovanni, il fotografo, cercando con delicatezza di convincermi mi ha scritto: ‘Erano giorni belli dove nascevano molte cose, dai che ce la fai’. Certo che il passato serve a qualcosa, senza passato non c’è futuro. Erano giorni belli, dove l’abbandono tornava alla vita.


I LUOGHI ORFANI DI FABIO SEBASTIANO

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SHADOWS DANCING EVERYWHERE BURNING ON THE ANGRY CHAIRS

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Extreme survival’, dice la guida. Forse venire qui è stato un errore. O forse no

BENVENUTI A

TESTO DI FABIO BERTINO FOTOGRAFIE DI ROBERTA MELCHIORRE

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dal 2010, si può visitare il luogo della più spaventosa catastrofe nucleare mai avvenuta. i turisti vogliono divertirsi, si fotografano davanti al contatore geiger. ma poi ci sono le giostre abbandonate, le camere degli alberghi, centomila persone scomparse. ‘Questo il mondo dopo l’uomo’.


CHERNOBYL

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elcome to extreme survival!”. Quando stephan, appena salito sul bus, esordisce con que-115 sta frase, mi convinco che venire a chernobyl è stato un errore. alle 8 del mattino, all’appuntamento di fronte al kozatskiy hotel in maidan nezalezhnosti, la piazza principale di kiev, eravamo in ventuno. nessun ucraino, tutti turisti stranieri. un ragazzo californiano, un canadese, una famiglia francese, alcuni tedeschi e un folto gruppo di norvegesi.


Foto ricordo a fianco della scritta Chernobyl. ‘Non ridere, fai l’espressione triste’, suggerisce Stephan.

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ci avevano consegnato un foglio d’istruzioni e un braccialetto di plastica con il simbolo giallo a trifoglio della radioattività. regole drastiche da seguire: vietato toccare oggetti, piante, evitare di sedersi e di appoggiare a terra borse, assolutamente proibito portare via qualsiasi cosa, uscire dai percorsi segnati, mangiare o fumare all’aria aperta. eppure l’atmosfera a bordo del pullman era quella di un’allegra scampagnata. i norvegesi si fotografavano fra loro indicando il braccialetto che portavano al polso con un’espressione grottesca di terrore. dal 2010, l’ucraina ha autorizzato gite turistiche a chernobyl. sul pullman, durante il viaggio, fino al check point di ingresso nella zona di esclusione, viene trasmesso un video sulla tragedia del 1986. sono filmati d’epoca. le autorità sovietiche mentirono alla popolazione, la pravda relegò la notizia in un trafiletto da terza pagina. il commentatore è chiaro: il regime era abituato, per natura, a dire il falso. io penso a quanto accaduto, trent’anni dopo, a fukushima, in giappone: i dirigenti della tokyo electric power company negarono l’evidenza fino all’ultimo. chernobyl è lontana cento e venti chilometri da kiev. la campagna ucraina è idilliaca. boschi, piccoli villaggi con le case di legno, covoni di fieno, campi di girasoli e di granturco. il vento della morte appare invisibile. al check point c’è stephan, la nostra guida. un esuberante ragazzo sui vent’anni, ben


addestrato a far provare ai visitatori il brivido dell’extreme survival. prima tappa al piccolo monumento in mattoni con la scritta chernobyl, in caratteri cirillici blu. stephan armeggia con un piccolo contatore geiger giallo, dalle dimensioni di un telefono cellulare. lo appoggia per strada. e subito si forma una calca di persone che cercano di farsi largo per leggere e fotografare il valore di radioattività. il contatore indica 0,34 msv. dove msv sta per millisievert, l’unità di misura delle radiazioni assorbite dall’organismo. una radiografia ospedaliera espone ad una dose di 0,02 msv. foto ricordo a fianco della scritta chernobyl. ‘non ridere, fai l’espressione triste’, suggerisce stephan. ci fermiamo alle case del paese. oggi vi risiedono i tecnici di novarka, la società francese incaricata di tenere sotto controllo il sito.

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siamo a diciotto chilometri dai reattori, ma il livello di radiazioni impone turni di lavoro non più lunghi di qualche settimana. Qui vivono seicento persone. tutto è pulito, in ordine perfetto. le strade sono deserte. non un passante, né un’auto. nessuna insegna o negozio. in un piccolo parco, file parallele di

targhe bianche ricordano i nomi delle vittime: andriusca, leonid, Yevgenij, vera, anatoly. c’è una certa delusione fra i nostri compagni di viaggio. mancano i segni tangibili della catastrofe. la tappa successiva è l’asilo numero 6 di pripyat. furono gli abitanti di questo villaggio le prime vittime della tragedia, è a soli tre chilometri dalla centrale. la sua vita è stata brevissima: pripyat fu fondato nel 1970, ha vissuto solo sedici anni. vi abitavano cinquantamila persone. furono tutti evacuati. cominciarono a morire qualche mese dopo l’esplosione. non sappiamo quante sono state le vittime, né quante saranno: le nazioni unite sostengono che in ottanta anni potranno morire qualche migliaio di persone. moriranno a milioni, sostengono


di tubi, lastre d’acciaio, cemento e resti del reattore. avrebbe dovuto imprigionare i detriti della centrale mettendo in sicurezza il sito fino al 2016. da tempo hanno cominciato ad aprirsi ampie falle. le infiltrazioni d’acqua sono sempre più consistenti e le fondamenta, realizzate con file di camion sepolti, stanno via via sprofondando. a poche decine di metri di distanza, vediamo il nuovo sarco-

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altre organizzazioni. all’asilo numero 6 tutto si è fermato quel giorno. i disegni dei bambini sono ancora appesi alle pareti, i giocattoli sparsi sul pavimento. una bambola nuda, senza braccia, è abbandonata su un sentiero. fu una delle immagini più note della catastrofe. è ancora qui. chernobyl ci appare come un set cinematografico. il contatore geiger ora misura 4,63 msv. un anziano norvegese indica dei fiori di campo e chiede a stephan se di notte diventano fosforescenti. adesso solo il canale delle acque di raffreddamento ci separa dai giganteschi camini grigi dei primi tre reattori. è incredibile, ma il reattore numero 3 è stato spento solo nel 2000. di fronte a noi, racchiuso all’interno di quello che appare come uno stabilimento industriale dismesso, si trova ciò che resta del reattore numero 4. il cuore dell’apocalisse. alle una e ventitrè della notte del 26 aprile 1986, un’esplosione gigantesca sventrò il tetto dell’edificio. violenti incendi divamparono per nove giorni consecutivi. si cercò di spengerlo con migliaia di tonnellate di piombo e sabbia. l’emissione di vapori radioattivi continuò fino al 10 maggio. ai primi di maggio cominciarono a morire i vigili del fuoco. furono evacuati tutti gli abitanti nel raggio di trenta chilometri. 116.000 persone. nei due anni successivi, attorno al nucleo fuso e alle macerie radioattive, venne costruito il sarcofago. un precario agglomerato

fago ancora in costruzione. una grande struttura a cupola alta oltre novanta metri che, una volta ultimata, dovrebbe essere fatta scorrere su binari direttamente sopra al sarcofago attuale. non si può fotografare, ma molti del gruppo girano addirittura dei video. delusione: la radioattività è solo 2,30 msv. eccoci, nel centro di pripyat. siamo in un film di fantascienza. il corso del paese è invaso dalla vegetazione, ma si riconoscono i controviali, ci sono i lampioni arrugginiti e qualche segnale stradale sbiadito. viale di


Il contatore geiger ora misura 4,63 mSv. Un anziano norvegese indica dei fiori di campo e chiede a Stephan se di notte diventano fosforescenti.

ERO-

condomini. c’è una cabina telefonica. siamo in plochad lenina, piazza lenin. è come se gli abitanti fossero scomparsi un momento prima. il gruppo si sparpaglia. più di tutto ci colpisce il silenzio assoluto. sul tetto di un grande edificio di cemento campeggia la scritta goteli polissya, hotel polissya. la grande a di metallo arrugginito è precipitata al suolo. il polissya era il principale albergo di pripyat. in cima a un palazzo svettano falce e martello, un altro ospitava un ristorante. all’interno del supermarket, sugli scaffali, fra i carrelli della spesa abbandonati, si leggono ancora le insegne blu con i nomi dei prodotti: ‘detersivi’, ‘liquori’, ‘abbigliamento’. entriamo nel ‘centro culturale energetik’. sul pavimento del primo piano, tra rifiuti e detriti, è abbandonata una consolle di metallo con inciso il nome “edison 2”. era la discoteca della città. nel cinema sono rimasti resti delle poltroncine di legno. in un angolo due file di fotografie appese al muro ritraggono un gruppo di ragazze sorridenti. più avanti la palestra è incredibilmente intatta, con pertiche, spalliere e porte da calcio. a terra una rete da pallavolo arrotolata sembra in attesa della prossima partita. in un piazzale ci sono le giostre. le macchine dell’autoscontro sono abbandonate sulla pista, i seggiolini della grande ruota panoramica aspettano invano nuovi viaggiatori… Questo è il mondo dopo l’uomo. i turisti hanno perso la voglia di scherzare.

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Roberta Melchiorre vive ad Alessandria, ama girare il mondo e fotografarlo. Fabio Bertino si divide tra Alessandria e il Monferrato, viaggia appena può e scrive di luoghi e di persone. Insieme Roberta e Fabio hanno pubblicato l'ebook "World zapping", racconti ed incontri tra Africa, Asia, Europa ed Australia."


I LUOGHI ORFANI DI FABIO SEBASTIANO

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LA CAMERA CON LA POLTRONA ROSSA E LA PITTURA NASCOSTA

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FINE DEL VIAGGIO


GLI OCCHI

dove incontrare un funambolo? accanto al più grande DI ERODOTO platano di torino

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Intervista di Valentina Cabiale

LA LIBERTÀ DEGLI ALBERI

incontro con andrea loreni, l’uomo che cammina nell’aria. lassù è un uomo libero, ha scelto e non ha un’altra possibilità. lassù sei lontano. dalla vita terrena. ma poi devi tornare a terra ed è il momento più difficile. ‘non ho mai raggiunto l’equilibrio perfetto’.


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accontano che sia l’albero più antico di Torino: un gigantesco platano di sei metri e mezzo di circonferenza, piantato nel ‘700 nel parco della villa La Tesoriera. Non poteva esserci luogo migliore per immaginare linee tracciate in aria ed equilibri certamente possibili. Anche la vanità del rischio, qui, non sembra poi così vana. Nel camminare in alto c’è qualcosa, la sospensione (sospensione di chi guarda dalla terraferma) che avvicina quella passeggiata più a un gesto stanziale che a un movimento. Più a un platano che a un paracadutista, a un volo in parapendio o a un giocatore d’azzardo. La libertà dell’essere immobili e del non avere tutte le scelte. Perdonatemi: avrei dovuto dirvi subito che questa è un’intervista ad Andrea Loreni. Che di mestiere fa il funambolo. Ha quaranta anni ed è il solo italiano che cammina a grandi altezze mettendo un passo dopo l’altro su un cavo d’acciaio. Ha compiuto passeggiate aeree sopra il Po (a dieci metri dalle acque del

fiume, per cento venti metri), ha camminato sopra piazza della Signoria a Firenze e nel grande salone della Mole Antonelliana a Torino ed è andato, a novanta metri di altezza, per duecentocinquanta metri (record nazionale) dalla rocca di Penna e alla guglia Billi, nell’Appennino romagnolo. Il tuo gesto, camminare su un filo sospeso, è ripetuto sempre uguale. Cambiano il luogo e il percorso, ma il gesto è sempre quello. Qual è la forza simbolica di quello che fai? È sempre una camminata, sì, un gesto essenziale, ma dato che funziona, qualcosa deve significare. Penso che il primo simbolo sia proprio la camminata: partire, muoversi, lasciare indietro delle cose, ritrovarle al ritorno, e anche il rischio che uno si prende mettendosi in cammino. Lì sul cavo è più esplicito, ma tutti stiamo camminando, possiamo fingere di non prendere rischi o di stare fermi ma in verità ci muoviamo. L’essenza è proprio il movimento che è poi la vita, il cambiamento, il muoversi. Un altro aspetto simbolico può essere

il volo, lo staccarsi da terra, l’uomo-uccello. In una tua intervista hai parlato della “libertà degli alberi”. Mi spieghi questa libertà: quella degli alberi di essere ancorati al suolo, e quella del funambolo che non ha scelte, deve solo andare avanti? È una libertà ‘da’, non è libertà di fare questa o quella cosa. Sul cavo c’è un’unica cosa da fare, mettere un piede davanti all’altro. Sei libero da tutte le costruzioni mentali, libero dal fare la spesa, dai pensieri che ti contestualizzano in questo presente che io mal sopporto, dalla scelta di prendere questa o quella strada: sul cavo hai fatto una scelta all’inizio e non ne hai di ulteriori, non c’è un piano B. Tutta la parte razionale che ci spinge a fare sempre più cose per me non è un simbolo di libertà: è un peso. La camminata perfetta è quella dove sono sempre fermo perché ho trovato l’equilibrio, ma nello stesso tempo mi muovo. È un po’ quel che accade all’albero che è libero di crescere come vuole; il fatto che sia radicato non gli impedisce di sviluppare la sua


ghianda e crescere. Anche il vento e la pioggia fanno parte dell’albero e del suo sviluppo. È la teoria della ghianda di Hillmann: l’anima sceglie dove incorporarsi per poter avere un percorso lungo il quale sviluppare la sua ghianda. Per arrivare a questo bisogna togliersi di dosso tutte le sovrastrutture che ci spingono a far altro. Quando non sono sul cavo sono fisicamente molto colpito dalla realtà, mi sento molto a disagio.

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La camminata perfetta, dicevi, è quella dove sei fermo. Tu puoi rimanere immobile sul cavo per qualche istante o si perde subito l’equilibrio? Sei completamente immobile solo se hai raggiunto l’equilibrio, ma quello dell’immobilità perfetta è un ideale. Per qualche attimo, sul cavo o altrove, puoi sentire quella perfezione, ma dura poco e devi saperla cogliere e godertela. Sul cavo posso rimanere fermo in un punto, ma continuo a cercare l’equilibrio muoQuesta è una delle cose che vo- vendo il bilanciere e le caviglie. levo chiederti: com’è, dopo Non ho mai raggiunto l’equiliogni camminata, il ritorno sul- brio, altrimenti mi fermerei, sarei in ogni luogo. la terraferma? È abbastanza difficile. Alla fine di ogni esibizione esplode un gro- Anche secondo te ‘la creativiviglio di emozioni; il problema è tà è illegale’ ?* E, se sì, cosa sitornare il lunedì a fare la spesa. gnifica? Dopo che sei stato lassù e sei sta- La creatività illegale destruttura to così libero non hai tanta voglia e può far paura alle strutture sodi prenderti di nuovo a carico la ciali. La cosa spaventosa per il siparte relativa del tuo essere. Tor- stema è che la creatività ti fa venare a casa, subire il ritorno del- dere che c’è altro. Questo è poi le identità è tanto più difficile anche un altro simbolo del cavo: quanto più impegnativa, bella e puoi vedere una strada dove neanche immaginavi potesse eslunga è stata la traversata. serci. Io per primo mi sorprendo: sono stato là dove, prima che iniziassi a guardare le città in un cerandrea loreni , laureato in filoto modo, neanche immaginavo sofia e di professione funambolo, dopo varie esperienze come artista che potesse esserci una strada, un di strada ha esordito sul filo alto nel cavo, una via dove camminare. 2006, attraversando il po (altezza 10 m, lunghezza 120 m). tra le sue imprese, la traversata fra due colline a pennabilli in emilia romagna (altezza 90 m), le camminate sospeso in piazza della signoria a firenze e nel tempio all’interno della mole antonelliana a torino. è l’unico funambolo italiano ad affrontare traversate su cavo a grandi altezze. per info: www.ilfunambolo.com https://camminarenelcielo.wordpress.com/

Cosa intendi con ‘guardare le città in un certo modo’? Un giorno, a Torino, ho scoperto delle parti nuove in alcuni edifici che avevo visto e rivisto molte volte. Scoprii balconi, terrazzi, linee di tetti e mi resi conto che finora non avevo mai guardato le città dal basso verso l’alto, lassù rimaneva uno spazio

di esplorazione nuovo. Capii che avevo alzato lo sguardo per vedere possibili linee da percorrere col cavo. Cosa ti fa paura? Sprecare il tempo. Non fare le cose che potrei fare, perdere le opportunità, che poi è una fregatura perché ne perdo un sacco avendo paura di perderle... E poi mi fa paura - durante la traversata ho sempre paura - abbandonare la parte relativa di me, quella a cui dovrò tornare quado sarò a terra. Non hai mai immaginato che il cavo si ribelli? Che abbia dei comportamenti che non saprai prevedere? No, mai avuto incubi su ribellioni del cavo. Per me il cavo è vivo e quando è teso sotto i piedi riflette il mio stato. È nervoso se sono nervoso e quando respiro e riesco a calmarmi si acquieta anche lui. Lassù ti senti solo? O non hai tempo e possibilità di percepire la solitudine? La solitudine è uno di quei sentimenti molto forti che ci sono quasi sempre; era il sentimento dominante insieme alla paura, all’inizio. Quando il cestello che mi ha portato su, si allontana con il mio tecnico, mi sento solo. Ma, come artista, io devo aprirmi al pubblico. E la gente mi trasmette energia. Energia che è il silenzio. Il silenzio mi sostiene. C’è una parte del tuo corpo che fai fatica a controllare? No, è abbastanza fisiologico che il corpo reagisca bene. Mi sono


C’è un luogo in particolare che vorresti attraversare sospeso? Da tre anni vado in Giappone. L’ultima volta per meditare. Ho visto un ponte, il più lungo ponte sospeso del mondo**. Mi piacerebbe camminare là. Ma ho nuovi progetti italiani e in California e in Olanda. E il cavo che suona?

È un progetto artistico, uno spet- luci, per cui vedo due metri di tacolo teatrale e musicale. Si cavo davanti a me e basta. * È il famoso slogan del funambochiama TRK#1 del gruppo no- lo Philippe Petit, la cui impresa gravity4monks. Ci sono io e più celebre – e “illegale” – fu, nel quattro musicisti. Un violoncel- 1974, la camminata su un cavo lo, una viola e due chitarre. Io metallico teso tra le Torri Gemelle del World Trade Center. suono il cavo. Che è amplificato. ** È il ponte di Akashi-Kaiky Uso i piedi. *** ***La fune d’acciaio ha un diameNon fa differenza camminare sopra l’acqua o sopra la terraferma? È più o meno è uguale. La prima volta che dovevo camminare sospeso sull’acqua mi sono chiesto come sarebbe stato, visto che l’acqua si muove. Ho imparato, però, a prendere riferimenti per l’equilibrio solo interni; dell’esterno, l’unica cosa che è sempre uguale è il cavo. L’acqua che scorre, posso evitare di guardarla. Quando lavoro di notte, ho le

tro di sedici millimetri è lunga sessanta metri. È la corda più lunga mai suonata al mondo 125

VALENTINA CABIALE, archeologa, 32 anni. Laureata in Lettere a Torino, specializzata in archeologia medievale a Firenze. Ama viaggiare ma soprattutto leggere, non le biografie (proprie e altrui).

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allenato per saper fare certi gesti tecnici: avvengono senza che debba comandare il corpo con il pensiero. Il pensiero non funzionerebbe, occorre l’istinto e l’esperienza. Il corpo ti mette in salvo più che la testa. Le ginocchia sono il mio punto di riferimento.


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QUADERNI

A QUADRETTI

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guido


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testo di andrea rauch

scarabottolo

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s

la scarabattola di scarabottolo

carabottolo con il minimo sforzo, cambiando cioè solo due vocali, diventa scarabattola che sarebbe, secondo la definizione del dizionario una “… vetrinetta che contiene argenteria o oggetti più o meno preziosi”, oppure, altra definizione che va ad aggiungersi alla prima, “… edicola a vetri che espone immagini e oggetti sacri.”

ignoro l’etimologia della parola, ma so che esiste anche la versione maschile, scarabattolo, con lo stesso significato. Qui il cambiamento si riduce della metà, una sola vocale. lecito, anzi doveroso, ipotizzare che la stessa etimologia porti al nostro scarabottolo. dunque guido potrebbe a giusto titolo essere definito una “vetrinetta che contiene oggetti più o meno preziosi”. e la definizione, anche se azzardata, avrebbe certo una sua pertinenza, se pensiamo che nelle più tradizionali scarabattole (ad esempio quelle del presepio napoletano) gli oggetti vanno a comporre un unicum compositivo complesso, variegato, caotico, ma pur sempre avvertibile e riconoscibile. cosa che fa anche guido, ricomponendo un quadro d’insieme che è, d’altra parte, la somma di ogni singola tessera di mosaico. le copertine che guido scarabottolo disegna sono quindi singoli elementi narrativi che vivono una vita propria e autonoma in sintonia con il libro che ricoprono, ma sono anche brandelli del discorso complessivo che l’artista svolge con il disegno: ed è quest’ultimo un discorso autoreferenziale, che riguarda solo l’artista, e ha con i libri ‘copertinati’ contatti precisi, ma che potremmo definire, anche, casuali e ininfluenti.

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si potrebbe quindi parlare, come abbiamo fatto altre volte, dell’elegante understatement di guido, di quel suo mai prendersi troppo sul serio, si potrebbe raccontare della sua ironia, del suo tono di voce sempre in punta di piedi, della sua riservatezza, della sua gentilezza e disponibilità. si potrebbe parlare ancora una volta del ‘maestro silenzioso’, di quel suo entrare in rapporto quasi panico con gli oggetti (la sedia che si siede su una sedia, i deserti ingombrati da oggetti di design…), oppure della sua tecnica di disegno, della sua ricognizione nel mondo della riproduzione tecnica, ma questo non ci aiuterebbe ad andare a parare dove volevamo. di più ci aiuta una frase dello stesso guido, incastonata nella prefazione del suo “sotto le copertine”: “provate a immaginare un pittore che durante la sua vita fa un solo grande disegno, composto da tutti i disegni che ha, quotidianamente, fatto. sempre lo stesso disegno.”


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ecco, provate a immaginarlo e avrete forse il ritratto del guido scarabottolo che tutti amiano. sempre lo stesso disegno. sempre però differente. sempre in grado di tessere un discorso a tutto tondo sulla sua arte ma anche di rappresentare, con proprietà, il tema del momento, l’oggetto della commissione. tutti i pezzettini che guido ogni giorno ci mostra con il suo lavoro fanno parte di quel grande, unico, disegno totale, che ritrae la cifra stilistica, la personalità, l’anima dell’artista. sono tutti oggetti che si offrono alla nostra vista uno per uno, copertina per copertina, disegno per disegno, ma tutti vengono accostati l’uno all’altro e raccolti, visione d’insieme, in un’ideale ‘vetrinetta’ che contiene argenteria o oggetti più o meno preziosi”. in una scarabattola, come volevasi dimostrare.


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guido scarabottolo per gli amici bau. nasce a sesto san giovanni nel 1947 e si laurea in architettura al politecnico di milano. dal 1973 fa parte dello studio arcoquattro. collabora con i principali editori italiani. per 12 anni è stato art director di guanda. progetta libri per topipittori e vanvere.


la libreria francavillese nella puglia più ‘oscura’

STORIE

DI LIBRI

I LIBRI LÀ DOVE NON SI LEGGE

l’ostinazione della famiglia di summa: da quarant’anni cerca di convincere le persone a diventare lettori. e, oggi, la saletta della libreria è sempre piena. un libraio, tornato a casa da torino, che sa parlare con la gente. e sogna un luogo dove libri possano incontrare casualmente chi scopre di volere leggere. testo e foto di marco montanaro

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reare una comunità di lettori, c’è scritto questo nel piccolo manifesto della Libreria Francavillese. Aperta nel 1978 a Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi, da un paio d’anni a gestirla c’è Antonio Di Summa, figlio di Mino e Marilena che l’hanno fondata, che ha deciso di rilanciare ampliando il settore di varia e libri illustrati.

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Una libreria indipendente nella zona forse più oscura della Puglia, quella provincia di Brindisi, al confine col tarantino, da cui – per citare uno scrittore americano a proposito degli stati più interni d’America – si passa solo in volo: verso Bari o il Salento, verso la Grecia. Nella regione italiana, questo pure va detto, in cui si legge di meno o quasi. Ho lavorato per la Francavillese per cinque mesi, da febbraio a giugno 2015. Mi ci ero già avvicinato in passato per presentare un libro che avevo scritto. La

conosco da vicino, quindi, il che non vuol dire che questo mio racconto non sia obiettivo. Ho ben presenti le contraddizioni del settore editoriale, dato per morto un giorno sì e l’altro pure. E ho in mente tutte le costruzioni retoriche che ci girano attorno. Ma andiamo con ordine. Della Libreria Francavillese si è parlato su Internazionale e sul Fatto Quotidiano, in due articoli scritti rispettivamente dal premio Strega Nicola Lagioia (che ci era stato per presentare proprio “La ferocia”) e da Nando Dalla Chiesa. Una rassegna stampa importante, dovuta al fatto che la libreria è molto attiva ed è ormai un punto di riferimento per una città di quarantamila abitanti. Dalla sua saletta passano le attività di diverse associazioni. Ci passano fotografi e grafici per lavorarci. I lettori della libreria si sono organizzati in un gruppo di lettura che s’incontra una volta a settimana. Sempre una volta a

settimana ci sono i laboratori per i bambini. C’è un blog collegato, che si chiama “La chianca”, su cui trovano spazio contributi di autori da tutta Italia, oltre che estratti di testi pubblicati dai migliori editori indipendenti contemporanei. Insomma, lo sforzo è quello di essere il centro, il punto di riferimento della cultura cittadina di un posto da cui in ogni caso si va via, si emigra, e di portare il centro dell’editoria indipendente italiana – che è e resta comunque altrove – qui. Ma veniamo alle costruzioni retoriche. Indipendente, di per sé, non garantisce nulla. E anche la parola “lettori” si sgretola di fronte alle magre statistiche dei dati di lettura in Puglia. Quello che credo si sia realizzato in questa piccola libreria è che contano le persone. Una banalità, in fin dei conti: ma quello che è certo, in fondo, è che spesso l’editoria, grande o piccola (davvero non fa differenza), semplice-


mente guarda ai consumatori – il che sarebbe legittimo – e a ciò che suppone che questi possano consumare. Il vantaggio della provincia e della periferia è questo: con le persone puoi parlarci e capire cosa cercano. Il che non significa abbassare la qualità della proposta. Significa in-

ta da Antonio in questi due anni a Francavilla sia stata proprio questa: in provincia non funziona niente e tutto funziona a modo suo; è questo il bello, la parte più divertente, la sfida più esaltante. La strada da fare è ancora lunga, Ha qualcosa di epico, se ci penle contraddizioni di un intero set- sate bene. tore non le risolverà certo questa

tendersi, accordarsi, come degli strumenti musicali. Ecco allora che pian piano anche i più insospettabili si trasformano in lettori famelici. Ragazzi che cominciano a interessarsi di biografie sportive pubblicate da quel piccolo editore che diversamente non avrebbero mai potuto incontrare; Adelphi-dipendenti che trovano un luogo in cui sfogare i loro appetiti; lettori abbastanza classici che scoprono le graphic novel e ne comprano una al gior-

libreria. Antonio Di Summa, tornando qui da Torino (dove, ripete spesso, avrebbe potuto fare il grafico squattrinato rinchiuso in una polverosa e malinconica chambre de bonne), sognava di aprire un grande spazio aperto alla serendipità e all’incontro casuale tra libri e lettori. Questo ancora non avviene, da un lato perché la libreria è troppo piccola, e da un altro perché qui funziona in modo diverso. Credo però che la scoperta più importante fat-

MARCO MONTANARO, 33 anni, vive a Francavilla Fontana in provincia di Brindisi. Ha pubblicato la raccolta di racconti Sono un ragazzo fortunato (Lupo) e i romanzi La Passione (Untitl. Ed) e Il corpo estraneo (Caratteri Mobili). Suoi testi sono apparsi su minima&moralia, inutile, Scrittori Precari e altre riviste. Il suo blog è www.malesangue.com

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no. E così via, di esempi potrei farne a bizzeffe. In un modo o nell’altro, comunque, la saletta della Libreria Francavillese è sempre piena. Di libri e persone.


UNA FOTO

UNA STORIA

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‘Veronica ha atteso invano il ritorno del marito. Alla fine ha raccolto tutto il suo coraggio ed è venuta alla nostra caserma. Per denunciarne la scomparsa. Andammo alla loro casa: tutto aveva il sapore della povertà. Le mura umide e scrostate. E, allo stesso tempo, vi era una cura disperata. Il letto ben rifatto, tessuti alle pareti a coprire le grinze dell’intonaco. E poi il dolore di Veronica. La sua stanchezza. I suoi occhi affranti. Appariva invecchiata di colpo. Ha tirato fuori con lentezza i pantaloni di Ludovicu, i maglioni, la biancheria. Veronica è una donna rumena. Non riesco a sentirla straniera. Il suo dolore, le sue occhiaie, le sue rughe sono le stesse delle nostre donne’.

LUDOVICU È SCOMPARSO di Mariano Silletti


un uomo è uscito di casa e non è più tornato. accadeva due anni fa, a montescaglioso, paese della lucania. un uomo ammalato. la moglie ha bussato alla porta dei carabinieri…questa storia poteva essere dimenticata. così non è stato: un carabiniere ha raccontato, con le sue foto, il dolore di veronica. e spera ancora che quell’uomo possa ricomparire.


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udovicu è scomparso. da sette anni abitava a montescaglioso, un paese delle colline attorno a matera. era arrivato, con la sua famiglia, dalla romania. in un giorno di dicembre di due anni fa, inverno lucano, settimane di freddo e di pioggia, ludovicu è uscito di casa e non è più tornato. allora aveva 57 anni e da tempo soffriva di alzheimer. da quel giorno, nessuno lo ha più visto, nessuno sa dove possa essere andato. un uomo può scomparire. veronica, sua moglie, lo ha atteso per ore. alla fine ha raccolto tutto il suo coraggio ed è venuta alla nostra caserma.

montescaglioso, fotografo per passione profonda, non volevo che questa storia fosse dimenticata. ludovicu, da subito, non è stata solo un’indagine e una ricerca. è qualcosa che ha toccato la mia anima. e ho provato a raccontarla. un tentativo difficile: ero protagonista, volevo ritrovare quell’uomo, era il mio mestiere e il mio dovere e, allo stesso tempo, sono stato l’osservatore coinvolto in una storia che avveniva nella mia terra. una storia che, alla fine, è entrata a far parte di me.

in inverno, dalle mie parti, la notte arriva con troppa velocità. in quei giorni il buio mi sembrava ancora non so come sia successo. ma io, carabiniere a più veloce. più denso, più

spesso. lavoravamo con i colleghi dell’unità cinofila. avevamo bisogno dei vestiti di ludovicu. entrammo nella sua casa. al centro del paese. tutto aveva il sapore della povertà. le mura umide e scrostate. e, allo stesso tempo, vi era una cura disperata. il letto ben rifatto, tessuti alle pareti a coprire le grinze dell’intonaco. e poi il dolore di veronica. la sua stanchezza. i suoi occhi affranti. appariva invecchiata di colpo. ha tirato fuori con lentezza i pantaloni di ludovicu, i maglioni, la biancheria. veronica ha dovuto spiegare al nipote. un abbraccio. il pianto improvviso. i carabinieri sanno di violare l’intimità più nascosta di una famiglia. entrano in quelle stanze che veronica non avrebbe mai voluto mostrare a estranei. dobbiamo saper vincere diffidenze e vergogne. sono una famiglia di migranti rumeni, da tempo nel paese. diversi. noi siamo di questa terra, loro di una regione lontana. sono lo specchio invisibile del nostro destino antico. dobbiamo, vogliamo dare una speranza a veronica.


mi accorgo che la donna, in realtà, non è straniera. non riesco a vederla come tale. il suo dolore, le sue occhiaie, le sue rughe sono le stesse delle nostre donne. la sua casa è del nostro paese. cerchiamo nei boschi, nei dirupi, nelle campagne, entriamo in casolari abbandonati (e vi troviamo altre storie, intrecci dei cammini di uomini e donne): siamo noi a scoprire un paesaggio di malinconia in questo inverno. siamo ostinati, ogni traccia ci è preziosa. guardo il tufo dei casolari, le argille delle nostre colline: le ombre arrivano troppo in fretta ogni giorno. cerchiamo anche di notte. cerchiamo anche quando siamo stanchi e sfiduciati. scatto le foto. cerco la luce e trovo le ombre. non ce lo diciamo, ma cerchiamo una certezza. Quale essa sia. veronica non può vivere

senza sapere. nemmeno noi ci riusciamo. vogliamo violare un ignoto. sconfiggere l’ignoto.

sono stati semplicemente giorni di lavoro. abbiamo sfiorato un mistero, e ce ne siamo resi conto. abbiamo visto paura e dolore. ora abbiamo addosso il timore che tutto possa essere dimenticato. la vita di un uomo che svanisce senza lasciare alcuna traccia dietro di sé. mi dico che non può accadere. mi sono sentito circondato da ombre e volevo che si dissolvessero. indagavo e cercavo una luce. era inverno e volevo che spuntasse la primavera assieme a ludovicu. volevo che ci fosse un conforto anche nel pieno di questi mesi di oscurità.

le mie foto provano a raccontare la nostra ansia, la voglia di rivedere ludovicu. come vorrei potergli fare un ritratto. come vorrei narrare di un uomo che prima, in paese, mai avevamo notato. vorremmo placare l’angoscia di veronica. e, mentre lo cercavamo, ci siamo imbattuti in mille mondi diversi. altri migranti, i pastori, i contadini, i nostri paesani. ho guardato a tutti loro con altri occhi. mi sono reso conto che le mie apprensioni, il mio desiderio che questa storia avesse una sua fine sono i sentimenti a oggi ludovicu non è ricomparso. che hanno attraversato anche la mente dei miei colleghi. i cani cercano, gli MARIANO SILLETTI, 43 anni, uomini setacciano i campi, lucano di Pisticci. Vive a Matera. Giovanissimo si arruola nelavanzano ancora di un l'Arma dei Carabinieri. Nel 1997 metro nel bosco. sperano. studia fotografia a Bari. I suoi scatti raccontano il mondo oscompiono uno sforzo in servato da chi, per mestiere, più, non lasciano niente di vive quotidianamente le storie di uomini e donne comuni, la vita intentato. ho voluto raccontare questa ricerca, i miei obiettivi hanno sfuocato, per dire meglio quanto ci stava accadendo. i giorni alla ricerca di ludovicu non

e, spesso, le difficoltà. La storia di Luduvicu è diventata un libro. Il reportage è stato premiato, lo scorso autunno, al Festival di Fotografia Etica di Lodi.

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ma sappiamo anche come sia fragile la possibilità di ritrovare ludovicu. combattiamo i cattivi presentimenti della famiglia, nascondiamo i nostri timori. faremo tutto il possibile. vogliamo ritrovare quell’uomo smarrito.


Bora-torio, come scrive sul sito dell’associazione Museo della Bora (www.museoBora.org) il presidente Rino Lombardi, triestino di origini lucane, pubblicitario a Milano rimpatriato per nostalgia e appassionata guida per adulti e ragazzi alla scoperta dei mille contenuti dell’esposizione.

STORIE

DI MUSEI

a trieste si coccolano la furia che arriva da nord-est. al punto da dedicarle una via e un museo. visita al ‘magazzino dei venti’. il gemellaggio fra soffi d’aria. Qui, dietro le rive, si conservano almeno 120 venti: dalla Meta di scolaresche, viaggiatramontana al libeccio, dal meltemi al- tori e appassionati il “Magazl’harmattan. ‘il vento porta nuova idee’ zino dei venti” di via dei

Giustinelli, dietro le Rive, è però solo una parte, immediatamente spendibile, del progetto che prevede, in un futuro che si spera maggiormente generoso di finanziamenti (per ora è tutto privato), un’esposiTesto di zione in più sale e una serie di Carla Reschia eventi mondani, culturali e scientifici. Ogni estate, già da mprevedibile, selvaggia, undici anni si tiene sul Carso, spensieratamente distrutGirandolart, una festa all’aria tiva, la Bora è un vento aperta dove con la Bora, che femmina che, come molte ‘catsempre onora della sua pretive ragazze’, ha più innamosenza la manifestazione, si rati che detrattori. A Trieste se gioca, si pedala, si creano ogla coccolano, nonostante i pegetti utili e ludici. riodici, inevitabili sconquassi provocati dal suo soffio da estUn viaggio cominciato nel nordest, e le hanno dedicato 1999 grazie all’archivio del una via e anche un museo. Che meteorologo Silvio Polli, per essere consacrato alla più grande studioso della Bora, e volatile delle essenze è uno che dal 2004 raccoglie nello spazio straordinariamente spazio espositivo testimozeppo di oggetti: oltre duenianze e documentazione, dalle cento libri, strumenti eolici, citazioni letterarie, da Stendhal video, giochi, manifesti, souvea Hendke alle canzoni, cartonir d’epoca, venti in bottiglia, line, reperti e perfino pareri saomaggi d’autore, anemometri, nitari: secondo il dottor tabelle… Luzzati, medico ottocentesco, Un laBoratorio. Anzi un Lala Bora ‘Diminuisce le escre-

LA BORA È UN VENTO FEMMINA

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tino romano’ al meltemi, fino alle brezze più esotiche e lontane dell’Africa e dell’Asia. L’archivio ne ospita già 120 (compreso uno della Val di Susa donato dal meteorologo Luca Mercalli) frutto dell’attività di tanti “ambasciatori eolici” sparsi per l’Europa, contenuti nei ricettacoli più disparati, dalle bottiglie di plastica al vetro soffiato alle lattine. A Trieste si crede ciecamente a

quanto Rino Lombardi ci dice mentre ci aiuta a costruire girandole: ‘Il vento è vita. Il vento porta nuove idee’. E, allora, ci mettiamo a soffiare e tutto si muove nel piccolo museo della Bora.

CARLA RESCHIA. Sostiene di avere fra i 15 e i 105 anni. Giornalista della Stampa. Si occupa di esteri, cultura e diritti umani. Viaggia ogni volta 139 che può. Legge molto. Adora dormire, le 'relazioni complicate', i bassotti, il cibo indiano e il sushi. Con Stefanella Campana, ha scritto Quando l'orrore è donna. Torturatrici e kamikaze. Vittime o nuove emancipate? (Editori Riuniti). ERODOTO108 • 13

si ribaltò in pieno centro, in vista di piazza Unità, e la motrice del tram rovesciata in riva al mare in un altro inverno da tregenda, quello del ventinove. I foresti, e i viaggiatori, possono invece approfondire le loro conoscenze sui vari tipi di Bora e di vento e aderire al I nostalgici e gli studiosi qui progetto Centoventi, che prohanno modo di fare confronti pone un ideale gemellaggio tra anche visivi tra eventi che si ripetono puntuali: il tir che due tutti i venti del mondo: ‘dalla Tramontana di Cupramontana inverni fa, nei già leggendari al Mistral provenzale, dal Liquindici giorni consecutivi di beccio di Viareggio al PonenBora scura a oltre 160 km orari zioni, ravviva l’appetito, accelera la digestione, e poiché sotto il medesimo rinchiude una maggior copia di gas ossigeno, accresce l’energia del sistema polmonale e sanguigno…’.


STORIE DI

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BRESCIA CICLOFFICINA MONDO testo di Andrea Semplici foto di Livio Senigalliesi

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a ciclofficina mondo è un bel negozio di via marsala, pieno centro di brescia, qualche centinaio di metri da piazza della loggia. il suo nome africano è gekakè, ‘tutti uniti’, nella lingua mandingo dei bambara del mali. nessuno, tranne che nei documenti ufficiali, usa questo nome. Qui si fanno riparazioni, si smontano e rimontano biciclette, se ne vendo di usate. vi lavorano tre africani. ‘ognuno ha la sua storia’, sorride Justus, 34 anni, kenyota, grande e grosso, ma non me la vuole raccontare, quando gli chiedo come è arrivato qua. ha un bel carattere, così a occhio. ha l’aria di stare bene qui. non si toglie mai un cappellino alla Jovanotti. in kenya era contabile. ma anche, e questo lo saprò dopo, da altri, è stato giocoliere e acrobata. poi c’è hamit. il più anziano, 40 anni. viene dal ciad. da un paese che si chiama moundo, a sud di d’jamena. è un tebu, popolo nero di quelle terre sahariane. una fuga in libia dopo una ribellione disperata. anni fra zliten e misurata. una moglie, un figlio. poi, lo sapete, la


BICICLETTE

sono passati molti mesi da allora, e confesso che ricordo di gonfiare le ruote solo quando sono già in strada, puntualmente quindi, sosta da riccardo. uomo silenzioso, sguardo dritto, parole solo se non quelle che gli vengono chieste. ad ogni sosta scrutavo tra i raggi che si moltiplicavano quasi incastrati nell’ap-

PISTOIA “GONFIAGGIO RUOTE 1 EURO” testo e foto di Maria Di Pietro

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l cartello che vidi la prima volta che mi fermai fuori la bottega di riccardo. avevo le ruote della bici completamente a terra. mi sembrò strano leggere che gonfiarle aveva un “costo” , non ho mai gonfiato una ruota di una bici nella mia città, (utilizzarla tra le strade della periferia sarebbe stato puro autolesionismo), solo quelle di un auto, e quando chiedevo “le devo qualcosa” in cambio mi veniva sempre detto “se volete offritemi un caffè”. Qualche giorno dopo comprai un piccolo gonfiatore da tenere in giardino, così che la mattina avrei tranquillamente potuto gonfiare da me le ruote della bici prima di ogni uscita.


guerra improvvisa, inattesa, feroce. le bombe della nato. una nuova fuga, verso l’italia. infine, hamara. 24 anni (forse). viene dal sud del mali. so, perché lo leggo altrove (lui non me lo dice), che suo padre già riparava biciclette a bamako. è il più silenzioso: ‘non voglio parlare’. ma è il primo a scattare appena entra un cliente. è gentile, accogliente, abile. hamara e hamit hanno scalato i gironi terribili della libia, del mare di lampedusa, dei centri di accoglienza, della violenza continua del tempo perduto, dell’abbandono e della disattenzione che passa negli alberghi dove ti rinchiudono come rifugiato. Justus, invece, ha ribaltato la sua vita: via dal kenya, via dal mestiere di contabile, poi, in italia, via dai campi dei pomodori o dagli oliveti pugliesi. ‘mai avrei immaginato di riparare biciclette’, mi dice. fra loro, i tre soci (gekake è una cooperativa), parlano in italiano. brescia è un crocevia strategico dell’immigrazione: città della beretta, delle industria alimentari, qui c’è (c’era?) lavoro, qualche possibilità in più. esco dalla stazione e ci sono gruppi di africani seduti a crocchio sotto l’ombra degli alberi. Quasi il 20% dei bresciani sono cittadini stranieri. 35mila persone. pakistani, moldavi, rumeni. e un migliaio di africani. brescia è uno dei palcoscenici del mondo.

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cammino per via san faustino, un tempo quartiere dei guai bre142 sciani (spaccio, prostituzione, case malandate), oggi strada della movida del carmine. Qui vi sono macellerie halal, fruttivendoli tunisini, venditori di cianfrusaglie cinesi, kebabbari pakistani. via san faustino è un’altra polaroid della globalizzazione. ci sono, e ci stanno bene, osterie e giovani artisti. via marsala è appena dietro l’angolo. l’officina ciclomondo è gran bel posto. Quasi non c’è spazio. ingombro di ruote, catene, telai. via vai di clienti: al mattino tutti stranieri. cinesi, pakistani (con accento bresciano alla balottelli) e arabi in cerca di una bici da venti euro (niente da fare). hamara saluta in cinese (solo ciao, per carità, nĭ hăo). ragazzi africani ven-

BRESCIA


poggiarsi l’un l’altra delle numerose biciclette. cercavo quelle con i freni a bacchetta, che sempre mi hanno incantato conducendomi ad immaginare un’altra maria degli anni trenta passeggiare tra i vicoli stretti di chissà quale paese o città. Quando ne trovavo una, rigorosamente non era in vendita. era lì per qualche riparazione, o una di quelle che riccardo custodisce gelosamente come quella del suo papà agganciata al soffitto. un giorno entrai all’interno della bottega, incuriosita dalla porta esterna di legno consumata dal tempo, le striature erano anni trascorsi, come il vetro rotto tenuto insieme dal nastro adesivo che aveva preso lo stesso colore brunito della porta. non potevo soltanto gonfiare le ruote in quella bottega, sentivo odore di storia. il mio fiuto non m’ingannò, c’era un piccolo mondo ad accogliermi, gli anni trenta appiccicati ai muri e quelli del duemila quindici tra le bici moderne sul pavimento. un’enorme cassettiera di legno a muro e vetrine che arrivano al soffitto, raccolgono tutti gli attrezzi da lavoro e gli accessori delle bici. un arredamento che sopravvive dai primi del novecento, perché la storia ha radici che iniziano proprio in quel periodo. l’attività di vendita e riparazione di biciclette fu avviata nel 1905 a pistoia in via cavour da severino cecconi. nel 1929, subentrò la moglie pia; il negozio fu poi espropriato nel 1933 per realizzare il palazzo delle poste. l’attività fu trasferita in via palestro e gestita, a partire dal 1964, da giulio romoli, il padre 143 di riccardo. devo ringraziare le mie ruote sgonfie per aver scoperto di poter ammirare un luogo che è testimone di almeno cento anni di vita trascorsa in bicicletta, quel periodo in cui l’italia ancora priva delle sue fiat 500 e vespa special, sognava di libertà in sella a una bici. operai, contadini, maestri, preti, postini e innamorati in movimento su due ruote. ci sono foto di vecchi ciclisti, adesivi e stemmi con le ali e la corona edoardo bianchi, ma vicino ad un telefono da parete, in bianco e nero, riccardo mi indica un giovane seduto all’esterno della bottega “questo è mio padre”. in quel momento il tempo si è catapultato nell’altro mondo, e lo sguardo sgranato dal

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PISTOIA


BRESCIA livio senigalliesi, 59 anni, milanese, inizia la carriera di fotogiornalista nei primi anni '80. cresciuto nella redazione de il manifesto, ha documentato con passione i cambiamenti dell'est europeo e numerosi conflitti. negli ultimi anni ha focalizzato le sue energie su due progetti: le vittime di guerra e la condizione umana degli immigrati in italia. www.liviosenigalliesi.com andrea semplici, 62 anni, fiorentino. giornalista e fotografo. prova a coordinare la disordinata redazione di erodoto. ogni volta giura che sarà l’ultimo numero. poi si ricomincia. Questo articolo sui cicloriparatori africani a brescia doveva essere il primo di un progetto sull’immigrazione africana. è rimasto l’unico.

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gono a sedersi su un panchettino minuscolo. ci si fa compagnia fra immigrati. ciclofficina è figlia della cocciutaggine di chi a brescia crede e vuole una convivenza possibile. i tre ragazzi africani, così diversi per storia, religione, nazionalità, arrivano per strade differenti fino all’associazione adl a zavidovici. nome troppo complesso per un giornale: ambasciate della democrazia locale a zavidovici, in bosnia. storia nata ai tempi degli orrori balcanici. oggi è sulla frontiera dell’immigrazione. ha sapere e capacità, la gente di adl. Justus, hamit e hamara (e altri) bussano alla loro porta e adl, con pensiero da imprenditori, scandaglia le geografie dei bisogni della città in cerca di un lavoro. brescia è città strana per la bicicletta: è possibile noleggiarla in almeno settanta ciclostalli; ogni mese si contano almeno settantamila noleggi di biciclette pubbliche. numeri che autorizzano speranze per una ciclofficina. ‘ce la caviamo’, mi dice Justus quando gli chiedo dei soldi. l’officina funziona. dà un reddito, a sentire loro. nel pomeriggio arrivano gli italiani. cercano una bicicletta, curiosano, vogliono gonfiare le ruote, il cambio è saltato, il telaio è storto, non funziona la luce. a brescia, come altrove, si rubano le biciclette e allora qui si cerca qualcosa a poco prezzo e con pochi lustrini. Justus ha pazienza e sa cosa rispondere anche a un giornalista italiano. gli chiedo della concorrenza e lui è pronto: ‘è un punto di forza, un valore aggiunto, ci sprona a fare meglio’. Questo, naturalmente, volevo sentire, e allora non prendo appunti. forse si fida di me e aggiunge: ‘al paese – sì, dice al paese come dicono, con nostalgia i miei amici lucani o calabresi – è diverso: chi fa lo stesso mestiere o ha lo stesso negozio si mette nella stessa strada, nello stesso angolo di mercato, nello stesso quartiere. se io non ho un pezzo, vado al negozio accanto e lo trovo. se non so fare qualcosa, c’è chi accanto a me lo sa fare. Qui no, bisogna stare lontani e farsi concorrenza’. un frammento di africa vera è uscito anche in via marsala. Questa frase così africana, anche se detta in italiano, vale la giornata.


tempo di una stampa, di quell’uomo giovane di solo diciassette anni, è uno sguardo ignaro di un tempo che sarebbe stato incorniciato e raccontato da suo figlio con i baffi bianchi, ad una donna che scattava un’altra fotografia. Quando ho chiesto a riccardo come ha iniziato a fare questo lavoro, mi ha risposto che gli era capitato, osservare il padre da bambino era un gesto naturale, come lo era per lui smontare e rimontare oggetti. è accaduto, e continua. allora gli ho chiesto se ne fosse felice, di questo lavoro piombato addosso, e lui non ha esitato a rispondermi che senza la pazienza e la passione verso quei gesti acquisiti e fatti suoi, non avrebbe mai potuto trascinare nel tempo quel mestiere. nulla è antico e nuovo, è presente quello che si continua a raccontare, imparare e tramandare, ancorati ad una passione. in fondo come afferma augè “andare in bicicletta vuol dire imparare a gestire il tempo...il tempo lungo degli anni che si accumulano”. Quante cose mi sono sfuggite la prima volta che mi sono fermata dinanzi a quel cartello “gonfiaggio un euro”. in quella richiesta, c’è tutta la dignità, la necessità di non scomparire, senza aspettative onerose, ma quanto basta per continuare a ricordare e fare tesoro non solo di mestieri che potrebbe scomparire, ma soprattutto di anime e storie delle quali la velocità dei nostri tempi ingenuamente crede di non aver bisogno.

PISTOIA maria di pietro, 35 anni, fotografa napoletana, laurea all'accademia di belle arti. nel 2009 vince, nella categoria eyes wide shut, il festival del cinema dei diritti umani di napoli/buenos aires con il suo racconto ‘napoli nomade’. è fotografa ufficiale di questo festival.insegna fotografia nelle scuole. ha progetti sulle periferie nord di napoli, territorio da anni martoriato da sversamenti di rifiuti illeciti. la sua attenzione

le storie hanno un prezzo, viverle. ...“sarebbe bello se la bicicletta potesse diventare lo strumento silenzioso ed efficace di una riconquista delle relazioni e dello scambio di parole e sorrisi!”

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OROSCOPO Letizia Sgalambro

per riprendere il tema portante del numero che riguarda i luoghi abbandonati, l’oroscopo questa volta si è fatto influenzare dal gioco degli opposti e propone ossimori come consiglio di stagione.

Ariete

21 Marzo -19 Aprile BIANCO/NERO In mezzo al bianco e al nero c’è tutta la gamma dei colori e fermarsi solo ad un estremo significa rinunciare a tutta la ricchezza delle sfumature. Nei prossimi mesi ti verrà offerta l’occasione di godere di ogni piccola variazione di colore, non rinunciare a questa esperienza, potrebbe cambiarti la vita! Ossimoro di stagione: Ghiaccio bollente

Toro 20 aprile -20 maggio ERODOTO108 • 13

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GIORNO/NOTTE Sei un gufo o un allodola? Ami la luce del sole o preferisci il buio della notte? Qualsiasi sia la tua attitudine è arrivato il momento di sperimentare come sarebbe comportarsi in modo opposto. Forse all’inizio ti sentirai strano, ma non ti scoraggiare, prosegui in questa direzione e apprezzerai la vita “upside-down” Ossimoro di stagione: Dotta ignoranza

Gemelli 21 Maggio -20 Giugno DOLORE/FELICITA’ Gli ultimi mesi sono stati per te un po’ pesanti e in alcuni momenti ti sei sentito travolto dal dolore. Non ti preoccupare, i prossimi potrebbero

essere chiamati i mesi della rivincita, arriverai a punte di felicità che non avevi neanche immaginato potesse esistere. Attento che tutta questa euforia non ti dia troppo alla testa! Ossimoro di stagione: Dolcezza inquieta

Cancro 21 Giugno – 22 Luglio RAGIONE/TORTO Una famosa canzone di Guccini parlava dell’ “ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto…” E te dove ti collochi? È bello aver ragione, ma mettersi dalla parte del torto significa saper rischiare di essere criticati, di sbagliare, e quindi di imparare qualcosa di nuovo. E’ arrivato il momento di abbandonare le tue certezze e di entrare nella tua zona d’ombra, sarà interessante, vedrai! Ossimoro di stagione: Silenzio eloquente

Leone 23 Luglio - 22 Agosto CORAGGIO/PAURA Qualcuno un giorno ha detto che il coraggio non è la mancanza di paura, ma è agire nonostante la paura. Qual è l’ambito in cui la paura sta bloccando la tua evoluzione? Nei prossimi mesi avrai la possibilità di mettere alla prova il tuo coraggio, non lasciarti scappare l’occasione, una volta fatto il primo passo sarà più facile di quanto pensi. Ossimoro di stagione: Buio illuminato

Vergine 23 Agosto - 22 Settembre RICCO/POVERO Esseri ricchi o poveri è soprattutto una questione di punti di vista e non di quantità di denaro posseduto. Si è poveri se non si riconoscono gli affetti che ci circondano, le cose belle capitate nella vita, l’importanza della nostra salute. Si è ricchi quando ci basta un sorriso per stare bene


Bilancia 23 settembre - 22 ottobre SICUREZZA/PERICOLO Il brivido del pericolo è dentro tutti noi, anche in quelli che non riescono mai ad osare e si limitano a viverlo leggendo noir o guardando polizieschi in tv. Che ne dici invece di iniziare ad uscire dalla tua zone confort ed osare qualcosa di nuovo? Le stelle ti garantiscono la sicurezza che cerchi, ma ti offriranno anche la giusta adrenalina per saltare. Ossimoro di stagione: Notte bianca

Scorpione 23 ottobre - 21 novembre PASSIONE/FREDDEZZA Sangue caldo o sangue freddo? È meglio buttarsi nelle cose o osservarle a distanza calcolando i pro e i contro? La passione fa battere il cuore, fa sentire vivi e pieni di energia, ma quando è troppa offusca e fa perdere obiettività. La ragione fa stare con i piedi per terra, ma non permette di godere a pieno di ciò che si vive. Si apre un periodo in cui potrai sperimentare sia l’una che l’altra, vai ai due estremi e sperimenta come ti fanno sentire. Ne uscirai diverso. Ossimoro di stagione: Copia originale

Sagittario 22 novembre - 21 dicembre ASSENZA/PRESENZA La presenza non è solo quella fisica, è l’energia e l’impegno che metti nelle cose, è essere coinvolti e punti di riferimento per gli altri. Allontanarsi a volte può far bene, offre spazio alla riflessione e dona agli altri l’occasione per fare e imparare. Rallenta, Fai tre passi indietro, gira l’angolo e dai fiducia a chi può fare da sé. Ti accorgerai che ne vale la pena. Ossimoro di stagione: Lucida follia

Capricorno 22 Dicembre -19 Gennaio BENE/MALE Qual è la distanza fra il bene e il male? Sei sicuro che la strada giusta sia cercare il primo e sfuggire il secondo? Nei prossimi mesi scoprirai di aver bisogno dell’uno e dell’altro e, citando Nietzsche, ti accorgerai che esiste un posto al di là del bene e del male dove niente è nettamente definito, ma può modificarsi a seconda delle circostanze e dei modi di osservare la vita. Ossimoro di stagione: Profondamente superficiale

Acquario 20 gennaio- 18 febbraio VUOTO/PIENO Si può riempire solo ciò dove c’è del vuoto, e quindi se cerchi di avere sempre tutto pieno non avrai spazio per fare entrare il nuovo nella tua vita. Il compito che hai nei prossimi mesi è quello di svuotarti di tutto il superfluo che sta appesantendo la tua vita, per fare spazio a grosse piacevoli novità. Gli astri parlano chiaro, solo se troveranno del vuoto potranno donare. Ossimoro di stagione: Scommessa sicura

Pesci 19 febbraio - 20 marzo SOLO/ACCOMPAGNATO Cosa rappresenta per te la solitudine? La lingua inglese distingue fra lonely, che ha connotazioni negative, e alone che invece ha un significato neutro. Stare da soli può essere un’ottima occasione per conoscersi meglio e offre la possibilità di fare tutto ciò che ci piace. Stare in coppia o con gli altri richiede abilità di compromesso, non è solo ricevere, ma anche dare. L’equilibrio fra le due forze è sempre instabile, ma stai per imparare a camminare sul filo senza farti del male. Ossimoro di stagione: Affrettati lentamente LETIZIA SGALAMBRO 52 anni, sagittario, counselor ed esperta di processi formativi. Crede che per ognuno sia già scritto il punto più alto dove possiamo arrivare in questa vita, e che il nostro libero arbitrio ci fa scegliere se raggiungere quel traguardo o meno. L'oroscopo? Uno strumento come altri per illuminare la strada.

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e si riesce a trovare dentro di noi ciò che ci serve. Sperimentati nel cambiare la tua prospettiva, e vedrai che otterrai più di quanto desideri. Ossimoro di stagione: Realtà virtuale


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