Parete Manzoni

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Dipartimento di Arti Visive Scuola di Pittura Prof. Stefano Pizzi Progetto di Ricerca per l’Anno Accademico 2016-2017

ex studio di Piero Manzoni via Fiori Chiari, 16 Milano


Dipartimento di Arti Visive Scuola di Pittura Cattedra Professor Stefano Pizzi Coordinamento Workshop Assistente alla Didattica Tamara Ferioli Docenti Prof. Giorgio Cattani Prof. Gaetano Grillo Prof. Maurizio Guerri Prof. Cosmo Laera Prof. Stefano Pizzi

Ufficio Grafica Roberto Casiraghi Lorenzo Conservo Si ringraziano Graziano Zecchillo per la generosa disponibilità. Tenute Orestiadi, Gibellina.

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Allievi selezionati Giacomo Infantino Elay Li Simone Parise Priscilla Sclavi

© Accademia di Belle Arti di Brera © Brera Academy Press Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.


SOMMARIO

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Parete Manzoni Stefano Pizzi

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Davanti a una parete. Alcune domande sull’utilità e l’inutilità dell’arte Maurizio Guerri

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Intervento di Giorgio CATTANI

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Intervento di Gaetano GRILLO

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Intervento di Stefano PIZZI

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Intervento di Cosmo LAERA

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Intervento di Giacomo INFANTINO

65 36 Intervento di Elay LI 69 6

Intervento di Simone PARISE

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Intervento di Priscilla SCLAVI


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PARETE

MANZONI

Il civico 16 di via Fiori Chiari in Milano, quartiere di Brera a pochi passi dall’Accademia, è sede di un antico palazzo già di proprietà dei conti Panza di Biumo; nella ex scuderia sita nella corte sulla destra ha vissuto, ha lavorato ed è morto Piero Manzoni, l’artista concettuale italiano probabilmente più importante, noto anche al grande pubblico ed apprezzato internazionalmente. A seguito della scomparsa di Piero, lo studio fu acquistato dal baritono Giuseppe Zecchillo, amico e sostenitore dell’artista, che lo usò come luogo per i suoi esercizi musicali e vocali e come cave, avendo predisposto ed arredato la sottostante cantina che si raggiungeva tramite una scala a chiocciola, dove era solito organizzare eventi culturali, di spettacolo ed aperta convivialità. Lo spazio, oggi ristrutturato e sede dell’attività del figlio di Zecchillo, Graziano, ospita nel corso dell’anno alcune mostre coordinate da un nostro ex collega ora in pensione, il professor Pier Luigi Buglioni, che più volte mi ha invitato a proporre delle iniziative di carattere accademico al fine di valorizzare vieppiù il sito la cui pertinenza è inscritta nella storia della città.

Il posto, costituito da un vano e da un piccolo retro soppalcato, narra la storia di chi lo ha abitato o tutt’ora lo abita: su due pareti e sui vetri delle finestre che guardano la corte opere di artisti amici di Manzoni, immagini fotografiche di Zecchillo padre e locandine che testimoniano la sua carriera nel bel canto, cimeli militari di Graziano, già granatiere ed appassionato della storia dell’Arma e una parete completamente libera, edificata a suo tempo da Piero Manzoni con l’ausilio dell’amico artista Arturo Vermi come un achrome, che fa da sfondo agli interventi artistici che ivi si tengono. Ho pensato, quindi, di porre come momento di inizio e conclusione del workshop questa parete-simulacro che risulta essere al contempo icona storica, è tale e quale al giorno in cui venne creata non essendo mai stata reimbiancata o riattata, e testimone come una quinta teatrale di una contemporaneità che si racconta e/o sviluppa davanti a lei. Le finalità di questa iniziativa di ricerca me le ha suggerite la parete stessa: porre in relazione al luogo e all’opera di Manzoni degli interventi e degli incontri, progettati e realizzati da alcuni docenti artisti di chiara fama e

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dai loro migliori allievi. Ho allora invitato gli studenti miei e dei colleghi Giorgio Cattani, Gaetano Grillo e Cosmo Laera ad affrontare la Parete, dapprima con i propri professori ed in seguito personalmente, seguiti a loro insaputa dall’occhio, nonché dal pensiero critico del professor Maurizio Guerri, filosofo militante ed attento osservatore degli accadimenti nell’arte contemporanea come ben testimonia il suo scritto che accompagna questa pubblicazione. Parete Manzoni si è rivelata da subito un’esperienza sul campo che ha messo in difficoltà sia i docenti, stimolandoli a comunicare anche e soprattutto didatticamente il come e il perché si affronta un determinato spazio, sia gli allievi che si sono dovuti misurare con un procedimento di ricerca indirizzato non alla rilettura dell’opera manzoniana ma alla citazione della stessa nell’ambito del proprio linguaggio espressivo. Calendarizzato nel secondo semestre dell’anno accademico, questo ciclo di eventi, ha corrisposto sequen-

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zialmente a quanto sviluppato in aula nel precedente periodo laboratoriale e di discussione che aveva come tema annuale “Lo Studio”, da leggersi sia in senso di atelier che in senso di apprendimento. Questa duplicità di significato sta a sottolineare l’impegno di una Scuola di Pittura che si contraddistingue per espletare un metodo formativo che vede indissolubilmente legata la crescita del pensiero a quella dell’abilità manuale. Gli allestimenti degli interventi e i successivi momenti d’incontro hanno coinvolto tutti gli studenti iscritti al workshop creando un’atmosfera laboratoriale che si è arricchita nei momenti di presentazione non solo della partecipazione di altri allievi e docenti dell’Accademia, ma di un pubblico più vasto composto da noti artisti, appassionati, critici d’arte, collezionisti ed abitanti del quartiere. Stefano Pizzi


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“ Il momento artistico non sta in fatti edonistici, ma nel portare in luce, ridurre ad immagine, i miti universali precoscienti. L’arte non è un fenomeno descrittivo, ma un procedimento scientifico di fondazione. â€? Piero Manzoni



“ Ho sempre considerato la pittura una questione di impegno morale più che un fatto plastico, ma ora che in nome dell’avanguardia tutti si sono messi a fare quadri bianchi la cosa sta diventando altamente immorale e dovrò essere ancora più rigido per evitare la confusione e gli equivoci. ” Piero Manzoni




DAVANTI A UNA PARETE. ALCUNE DOMANDE SULL’UTILITÀ E L’INUTILITÀ DELL’ARTE

Nel corso della primavera 2017 il pittore Stefano Pizzi, Titolare di Cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera, ha coordinato un workshop caratterizzato da una serie di incontri e installazioni di allievi e docenti-artisti del Dipartimento di Arti Visive sulla scia delle ricerche di Piero Manzoni, in quello che fu il suo studio nella piccola corte di via Fiori Chiari 16, a pochi passi dall’Accademia. Sulla facciata dell’edificio una targa ricorda che in quella casa visse e lavorò l’artista italiano. Il titolo di questo ciclo di esperienze è Parete Manzoni. Lo spazio in cui si è sviluppato si presenta come una stanza al piano terra in quella che era stata anticamente la scuderia del palazzo, un tempo proprietà dei conti Panza di Biumo. Manzoni allestì questo luogo che divenne il suo studio, fino alla morte che lo colse nel febbraio 1963. Lo studio di Manzoni fu per alcuni anni un punto di incontro di artisti, attori, scrittori, critici d’arte e galleristi. Poi, dopo la morte dell’artista, lo spazio divenne la bottega di un materassaio e successivamente lo studio del baritono Giuseppe Zecchillo. Nel 2011 lo studio fu lasciato al figlio del

cantante, Graziano Zecchillo, che mantenendo fede alla promessa fatta al padre apre lo spazio ad attività artistiche e altre iniziative di carattere culturale. A questo progetto hanno partecipato i professori Giorgio Catani, Gaetano Grillo, Cosmo Laera, Stefano Pizzi, il sottoscritto, e un nutrito gruppo di allievi. In questo breve arco temporale il tema con cui gli artisti si devono misurare è lo spazio di una parete: in particolare la parete principale dello studio, realizzata dallo stesso Manzoni con l’aiuto dell’amico pittore Vermi, di fronte alle vetrate che guardano nel cortile e che portano luce nella stanza in cui l’artista lavorava. La parete non è non è né un oggetto innocente, né banale, anche se forse così di primo acchito ci verrebbe da pensare. Già solo l’idea che ne abbiamo oggi come di una superficie vuota e neutra su cui collocare l’opera d’arte finita, ci suggerisce una serie di altre considerazioni importanti. Oggi una parete non deve essere vista, non deve disturbare l’opera, deve limitarsi a sostenerla, la parete in quanto tale deve il più possibile annullarsi. Ma il significato culturale e artistico della

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parete si è trasformato nel corso della storia: oggi è un mero supporto per un dipinto o una scultura, ma la storia dell’affresco e delle pitture rupestri spingono l’artista e l’osservatore a interrogarsi ogni volta sul suo ruolo. Pensiamo alla ricca e multiforme tradizione italiana dell’affresco e ancora più indietro nel tempo, fino ai dipinti e alle tracce pittoriche sulle pareti delle grotte di Altamira, Lascaux o Vallon-Pont d’Arc (nota come grotta Chauvet) che ci mostrano i segni dell’immaginazione figurativa dell’essere umano risalenti a 30.000 anni prima di Cristo. Se ci pensiamo, anche la più celebre allegoria della storia della filosofia, quella della caverna nella Repubblica di Platone, ha a che fare con due pareti: la prima parete sul fondo della caverna (Platone utilizza il termine katantikru) su cui gli schiavi incatenati senza poter voltare il capo sono costretti a vedere le impressioni delle cose, ovvero le ombre che sono proiettate da fuochi. Per i prigionieri la realtà si riduce a queste flebili parvenze mobili sulla parete scura della caverna. La seconda parete (che Platone

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definisce teikhion) è posta alle spalle dei prigionieri ed è costruita per nascondere alla vista dei prigionieri coloro che al pari di burattinai portano i diversi oggetti che spuntano dal muretto e irradiati dalla luce dei fuochi proiettano la loro ombra sulla parete in fondo alla caverna. Le due pareti della caverna platonica mostrano una dialettica essenziale interna alla storia della parete: la parete come superficie che mostra e la parete come velo che cela. La parete sul fondo della caverna mostra, la parete alle spalle dei prigionieri nasconde. D’altro canto una delle funzioni svolte dalla parete è quella di essere schermo: in questa tensione dialettica sono racchiuse tutte le possibilità del nostro rapporto estetico con le pareti. Basti pensare al rapporto che oggi noi intratteniamo con quel tipo particolare di parete che è lo schermo che segna una variazione, – ma molto più probabilmente una deviazione radicale – rispetto alla storia della «finestra albertiana»: se etimologicamente la parola «schermo» rimanda all’antico longobardo skirmjan «proteggere», nella storia delle


arti occidentali lo schermo ha assunto il ruolo principale di superficie che espone, che mostra, come emerge in maniera assai limpida a partire dalla nascita del cinema. Oggi la parola «schermo» – riferita all’esperienza dello sguardo – rinvia immediatamente a una miriade di dispositivi in cui le immagini sono prodotte o riprodotte e la loro funzione nella nostra vita è sempre maggiore. Se poniamo attenzione alla nostra vita quotidiana, la nostra esperienza estetica di fruizione delle immagini è legata soprattutto a queste particolari pareti che sono gli schermi. In una di quelle ricchissime note di lavoro che entrano nella costellazione del saggio sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin si pone una questione fondamentale relativa alla «crisi della pittura». Scrive Benjamin: «Se è vero che il significato della pittura su tavola dipende dal ruo-

un fenomeno di massa, hanno anche per la prima volta esposto i quadri su pareti del tutto scevre di funzioni architettoniche. Elevando il tramezzo provvisorio a sostegno dell’immagine su tavola hanno anticipato una trasformazione dello spazio abitativo che avrebbe poi accentuato in maniera decisiva la crisi della pittura». La fruizione di massa della pittura coincide con la liberazione della parete dagli elementi architettonici e con ciò assistiamo alla mutazione della parete in supporto o schermo. In questa tensione dialettica tra la ricezione massificata del quadro e la costruzione di pareti nude come meri supporti dell’opera libera da «funzioni architettoniche» sono racchiusi molti degli elementi che caratterizzano ancora oggi le questioni essenziali dell’arte. Da una parte la ricezione di massa è uno di quei fenomeni che all’interno della dialettica delle immagini segna per

lo funzionale della parete, ci troviamo di fronte a una circostanza estremamente dialettica. Le mostre, infatti, che per la prima volta fanno della ricezione dei quadri

Benjamin il passaggio dal valore cultuale come predominante alla dimensione di esponibilità. In questo passaggio si esprime secondo Benjamin «quel senso cre-

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scente di alienazione (…) che gli uomini provano non soltanto rispetto a loro stessi, ma anche rispetto alle cose» e che imprime nelle «masse attuali» quell’«ardente proposito» di «portarsi più vicino le cose» che la diffusione degli schermi miniaturizzati mostra di essere cresciuta rispetto agli anni Trenta del secolo scorso. Dall’altro la domanda cui ci spinge Benjamin, a partire da questi appunti sul rapporto tra quadro e parete è: che senso ha oggi la pittura? E ancora: che senso ha oggi l’arte? Davanti alle opere d’arte si è abituati a dire semplicemente «mi piace» o «non mi piace», spesso dimenticando o accantonando le domande radicali cui un dipinto, una scultura o qualsiasi altra opera d’arte ci sollecita. Spesso ci comportiamo come se l’opera d’arte ci ponesse davanti a un problema di gusto soggettivo e il suo ruolo fosse quello di una suppellettile posizionata

ciò che sto osservando? In che modo l’opera mi sta interrogando? Cercare almeno di mettere a fuoco questa domanda è un compito necessario, perché nell’epoca del sistema globale del lavoro e della razionalissima dittatura della finanza non si comprende che senso abbia tentare di dare vita a un’opera d’arte, se non come pezzo più o meno di valore all’interno del mercato dell’arte. Ma quella che Hegel definiva come «insopprimibile necessità dello spirito umano», può ridursi alla mera esigenza di compravendita degli oggetti artistici? Anche in questo senso Benjamin accennava a una «crisi della pittura» e a una fine dell’arte. E allora dovremmo retrocedere alla seguente domanda: che funzione ha l’arte nel nostro mondo? La risposta è semplice e diretta: nessuna. L’arte non ha alcuna utilità, proprio come la ginestra che insensatamente si ostina a crescere nelle pieghe all’arida cenere del Vesuvio, per

in una porzione di spazio con una funzione cosmetica, solo accessoria. La domanda che ogni volta dovremmo porci dinanzi a un’opera è piuttosto: che senso ha

riprendere una celebre immagine di Leopardi. L’arte è stata esautorata da qualsiasi ruolo conoscitivo all’interno del mondo contemporaneo; eppure proprio per

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questa sua marginalità oggi è per noi un’attività essenziale e irrinunciabile. Così come la ginestra è essenziale e irrinunciabile per lo sguardo di Leopardi. Nel nostro tempo si può parlare in molteplici modi di arte, in ogni caso si accede sempre in ambiti della cultura che rinviano a forme di sapere che nella prassi sono intese come accessorie, effimere, inconsistenti, in quanto si fondano su ciò che il progetto di conoscenza occidentale da secoli ha escluso dal sistema veritativo. Cresce giorno dopo giorno il dominio nell’ambito materiale attraverso il controllo messo in atto dalle scienze sperimentali, mentre l’esistenza è sempre più irreggimentata entro le leggi imposte dalle regole dei mercati. Spazio per l’arte non c’è, a meno che essa non entri nel sistema del mercato dell’arte o della produzione industriale sotto forma di design. A cominciare dall’Europa, la terra è stata avvolta in

che se da un lato mirano esplicitamente a rendere più confortevole la vita dell’uomo, dall’altro la espongono a una pressione intrusiva, ubiqua e violenta sconosciuta alle civiltà passate in nome della logica dell’efficienza economica e del progresso. Perché l’uomo possa iniziare a ri-orientarsi, deve diventare consapevole dei limiti entro cui è costretto e delle possibilità che gli sono offerte. Forse, ancora più che in passato, l’opera d’arte è per noi oggi una necessità, un’immagine che consente all’uomo di salvaguardare libertà e felicità – e dunque il senso della propria esistenza – all’interno della macchina planetaria in cui è inserito solo per funzionare e per assecondare il movimento del sistema entro cui è costretto. Esistono forme di conoscenza che resistono assai più di altre alla riduzione dell’esistenza a una questione di funzionamento o a un problema di bilan-

una rete sempre più ampia di processi di industrializzazione, di elettrificazione, di informatizzazione, di sanificazione, di velocizzazione, di efficientizzazione

cio. L’opera d’arte è in grado di mostrare l’esistenza di qualcosa di irriducibile alla ratio tecno-economica. Oggi la vita – ci sentiamo ripetere in continuazione –

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è un far quadrare i conti, eppure quando essa a livello individuale o collettivo è ridotta soprattutto a questo, allora non è più vita. Nessuno può sensatamente rinunciare a quelle forme di felicità e di libertà che nascono nello spazio dell’arte, nelle oasi estranee al deserto. Allora chiunque oggi non intenda soccombere allo sfruttamento e al livellamento cui il mondo automatizzato tende a ridurci, dovrà necessariamente rivolgersi all’arte come fonte di forza vitale e come capacità di orientamento. Ogni volta che l’inutilità dell’arte riesce ad aprire anche solo un minuscolo spazio nel piano di organizzazione globale dell’esistenza, si impone già come forma di resistenza al mero funzionamento, ci ricorda l’eccedenza della vita, si esprime come un insediarsi della libertà nell’esistenza dell’uomo. In questo senso ogni arte è implicitamente carica di una profon-

mia estetica in quanto «autonomia di una forma di esperienza sensibile» la quale si impone come «germe di un’umanità nuova, di una nuova forma di vita individuale e collettiva». Questa dimensione di esperienza estetica è immediatamente politica, nella misura in cui con il termine politica non deve essere intesa l’amministrazione della cosa pubblica, l’«esercizio del potere e lotta per il potere» – attività che in Rancière sono raccolte sotto l’espressione «polizia» – bensì si chiama politica quella «configurazione di uno spazio specifico, la ripartizione di una sfera particolare d’esperienza, di oggetti posti come comuni e dipendenti da una decisione comune, di soggetti riconosciuti capaci di designare tali oggetti e di farne oggetto di un discorso». Un altro aspetto deve essere sottolineato nella messa a fuoco della intrinseca dimensione politica appartenente alla sfera dell’esperienza estetica: l’espe-

da responsabilità politica. Credo che siano fondamentali le indicazioni che provengono da Jacques Rancière che pensa all’autono-

rienza estetica pone «a distanza» rispetto alle strutture sociali, alle classi, alle espressioni identitarie che caratterizzano il mondo della sensibilità quotidiana. L’arte è

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politica, scrive Rancière, «non tanto per i sentimenti e i messaggi che trasmette circa l’ordine del mondo» quanto piuttosto per il porsi a distanza dalle funzioni dominanti nell’ordine del mondo, «per il tipo di tempo e spazio che istituisce, per il modo in cui ritaglia questo tempo e popola questo spazio». La sfera estetica è terreno sul quale l’uomo si sottrae alle funzioni ordinarie e conquista un nuovo tempo. La questione del rapporto tra ambito estetico e tempo è essenziale per Rancière: infatti la politica accade «quando coloro che “non hanno” il tempo se lo prendono, per porsi come abitanti di uno spazio comune e per dimostrare la capacità della loro bocca di emettere una parola che enuncia ciò che è comune, e non solo una voce che segnala il dolore». Da un’altra prospettiva, incentrata sulla questione del rapporto tra nichilismo e libertà, anche Ernst Jünger

«nel disordinato e nell’indifferenziato, in quei territori che sono sì organizzabili ma che non appartengono alla organizzazione». E’ proprio sotto questa prospettiva che l’arte costituisce oggi sempre e comunque un’«oasi», un ambito spazio-temporale non regolato da sistemi di sapere, ma in cui anzi la «denominazione», l’immaginazione, la «finzione» poetica, il dare forma sensibile riacquista un valore determinante e vitale e con esse acquisisce un senso la parola «libertà». «La libertà è profondamente connessa con la vita dell’arte, che giunge a fioritura là dove la libertà interiore è felicemente associata a quella esteriore. (…) In ogni creazione artistica, quale che sia il campo in cui essa si manifesta, si cela oggi un potente supplemento di razionalità e di autocontrollo critico – proprio qui essa testimonia la propria identità, questo è il sigillo temporale da cui si riconosce la sua autenticità».

in Oltre la linea ha messo in luce come nella condizione di «organizzazione» che domina ovunque anche nel campo del «sapere e della scienza», la libertà dimori

Maurizio Guerri

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INCONTRI e INSTALLAZIONI





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Intervento di Giorgio Cattani L’installazione di Giorgio Cattani ci invita a meditare sulla non permanenza dei singoli percorsi della ricerca, ma bensÏ sulla ricerca stessa, che attraverso il momento creativo rende ineludibilmente permanente la pratica artistica.

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Giorgio Cattani




Resta bianco quel muro , il luogo dove Piero Manzoni lavorava e “inventava” suggestioni concettuali nell’allora stantio territorio dell’Arte diventandone subito protagonista . Ora si respira la presenza nel non più. Su questa parete unica superstite del fare di quel periodo, ho pensato di sottolineare la sua forza dell’esserci segnandola con crepe cartacee ingiallite che sono testimone di un tempo umano ed artistico sgretolato ma comunque ancora incisivo e presente. Se ne vanno gli autori ma restano come sementi le loro idee con i loro sogni realizzati. Su quella stessa parete ho appeso alcune mie opere attuali che del loro essere sbandate, tendono ad una riflessione: nulla è eterno nella ricerca ma è la ricerca stessa che rende eterno il fare nell’arte. È l’umanità tutta che si disseta guardandone le opere. Giorgio Cattani

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Intervento di Gaetano Grillo Gaetano Grillo, dedicando il suo intervento a tutti gli studenti dell’Accademia, ha voluto mostrare una documentazione fotografica inedita di alcune sue azioni e installazioni, realizzate nei primissimi anni 70, quando giovane studente a Brera fu influenzato dall’esperienza manzoniana. 35


Gaetano Grillo



Iniziai a frequentare l’Accademia di Brera a novembre 1970, ero iscritto al Corso di Scultura tenuto da Alik Cavaliere e Mino Ceretti. Milano in quegli anni era una città molto stimolante per l’arte e si percepiva ancora viva la presenza di artisti come Lucio Fontana e Piero Manzoni, di quest’ultimo in particolare a Brera e al Bar Giamaica. Erano stati artisti innovatori e radicali così che per noi giovanissimi erano dei riferimenti mitici e non riuscivamo a pensare all’arte come un linguaggio tradizionale. Erano anche gli anni di rivoluzioni sociali fortissime e il ‘68 aveva impresso delle trasformazioni importanti nella nostra mentalità. Durante l’estate del 1970 realizzai l’intervento Consumo dunque esisto; ricoprii una parete del centro storico di Molfetta con carte bianche pulitissime e vi installai sopra una serie di sacchi pieni di rifiuti. Volevo denunciare quanto il consumismo stesse deturpando l’ambiente e quanto l’identità dell’uomo fosse ormai riconducibile al suo essere consumatore. “Consumo dunque esisto” prima ancora che Barbara Kruger realizzaasse l’opera “I shop therefore I am” (1987). A dicembre 1970 realizzai l’itervento Visualizzazione del mio cordone ombelicale; in un uliveto di Molfetta e con una lunghissima corda legai me stesso

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agli alberi per affermare quanto la mia identità fosse legata strettamente alla mia terra. Il 25 gennaio del 1971 realizzai l’intervento Appuntamento con anfratti rocciosi, mi recai nell’area neolitica della mia Molfetta, il Pulo, e come un ragno che tesse la sua ragnatela, occultai l’ingresso di una cavità carsica quasi fosse metafora della vagina della terra cercando di preservarne la sua verginità dalle invasioni neo barbariche dell’uomo consumistico. Come lavoro per l’esame di Scultura, a giugno, presentai l’installazione nel Cortile Napoleonico di Brera con la quale rovesciavo con un cuneo disegnato nello spazio, la retorica grandezza di Napoleone nelle vesti di Marte pacificatore, scolpito dal Canova. Quella volta non usai le corde di canapa ma fili di ferro tesi con l’ausilio di una macchinetta che mio padre adoperava a Molfetta per tirare i fili della vigna. Tutti gli interventi furono documentati con le foto che espongo oggi per la prima volta perchè l’unico gallerista di Milano a cui le mostrai fu Luciano Inga Pin che mi osservava con molta attenzione ma ero così giovane! Avevo solo diciotto anni, probabilmente ero poco credibile! Gaetano Grillo Omaggio a Piero Manzoni, dedicato a tutti gli studenti dell’Accademia di Brera.

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Intervento di Stefano Pizzi Con la consueta ironia Stefano Pizzi cita alcune tra le immagini piÚ emblematiche della figura e dell’opera di Piero Manzoni: dal marameo dell’artista, alle michette trasformate dal mercato in oro, alla famosa impronta, iconica anticipatrice delle attuali firme digitali. 43


Stefano Pizzi




Nel nome di Piero… della sua ironia, della sua genialità, della sua capacità di trasformare lo scarto o i materiali altri in opere provocatoriamente inducenti al pensiero. Un sentito omaggio di un pittore e cittadino braidense che, come lui, ha consumato le suole tra lo studio, l’Accademia, il Jamaica e gli ormai scomparsi altri locali di un quartiere, un tempo romanticamente maledetto, cangiatosi oggi in zona chic dove ai fiori del male non è più concesso sbocciare. E allora che vivano per sempre i suoi sberleffi, la sua firma digitale e le sue michette il cui misero impasto, dipinto di vinile e caolino, si è tramutato in oro. Stefano Pizzi

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Intervento di Cosmo Laera L’operazione di Cosmo Laera, che pone sulla Parete l’immagine fotografica di un artista contemporaneo nello studio di Francesco Hayez, rivela con un raffinato escamotage concettuale quanto sia importante, al di là del tempo e dello spazio, la memoria storica nella ricerca artistica. 51


Cosmo Laera




La fotografia è fatta di luce. Luce che ci permette di trasportare i nostri pensieri da un luogo all’altro e che ci permette di viaggiare nel tempo. Ad ogni immagine corrisponde sempre un piccolo o grande ricordo e ogni ricordo si colloca in una dimensione di realtà che ci ha permesso di realizzare una esperienza. Mettendo da parte Bergson e le sue riflessioni, ho ricreato una dimensione temporale simultanea, nella fotografia e nell’ambiente, spostando una intera parete dello studio di Francesco Hayez all’interno dello studio di Piero Manzoni. Una sovrapposizione, una stratificazione, ancora più spiazzante per chi si ritrova ad incontrare nello studio di un artista la parete dello studio di un altro del passato. Ma subentra un terzo elemento, o meglio ai due artisti evocati se ne aggiunge un altro, Pietro Capogrosso stavolta presente, una composizione tra passato remoto, passato recente e tempo presente. A questa sollecitazione concettuale corrisponde una stabile e sensibile corrispondenza di pensieri affidati alla fotografia e all’ironia. Cosmo Laera

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Intervento di Giacomo Infantino La saturazione luminosa, espressa dal bianco in ogni immagine e in particolar modo negli achromes di Manzoni, ed i suoi relativi contrasti con la brillantezza, le cromìe e le forme portano Giacomo Infantino a meditare sulla polarità del tutto, così come nel Tao e quindi nell’universo. 61


La fotografia è stata realizzata per il progetto “White In The City” promosso da “Oikos”, in funzione del Fuori Salone 2017. Oikos è un noto colorificio milanese che produce colori e materiali per le arti e l’architettura, in occasione dell’evento l’azienda ha promosso, insieme a Brera, attività e iniziative all’interno degli spazi accademici e molteplici esposizioni da parte degli studenti. La fotografia appartiene ad una serie più ampia con la stessa tematica, il Bianco, esposta interamente durante il Fuori Salone. Le fotografie si articolano fra il candore di questo colore in contrapposizione ad altri più forti, i quali hanno una funzione contrstante e mutano la percezione del suo significato canonico. Il colore Bianco è per sua natura la somma di tutti i colori dello spettro luminoso. Esprime speranza e fiducia ed è portatore di uno stato di purezza, verginità, spiritualità e divinità. E’ il simbolo del Paradiso e dell’Eterno. Silenzioso, freddo e immacolato, prende vita e contrasto se affiancato al rosso. Entrambi si illuminano a vicenda creando un binomio cromatico intenso che caratterizza la foto. Giacomo Infantino

Giacomo Infantino Bianco Sporco 2017 Carta Fine Art Binaca opaca Cornice a cassetto colore nero

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Intervento di Elay Li Elay Li ci invita a riflettere, così come avveniva in molte ricerche degli anni ’60 e 70’, sul rapporto tra interno ed esterno, intimo e sociale, essere e apparire, ma anche e soprattutto nelle contraddizioni in cui cadiamo quando non approfondiamo esaustivamente il concetto di libertà. 65


Libertà è l’equilibrio, l’armonia, l’unità, tra ciò che un essere umano è dentro di sé (ciò che solo lui può conoscere) e ciò che di lui appare agli occhi degli altri che lo guardano. Anche la natura non vuole confini e questo la rende ai nostri occhi incontrollabile, imprevedibile, viva e talvolta selvaggia. E’ facile notare come i versi, i suoni emessi da un animale nato libero, catturato e costretto in una gabbia, cambiano; mentre se un animale nasce in gabbia, non saprà mai come è realmente il mondo, cosa è la natura. Diverrà prigioniero della propria bellezza. Ci verrà da pensare che il mondo esterno potrebbe essere più pericoloso per lui, ma lui potrebbe essere disposto a morire pur di volare una sola volta in cielo se questo fosse l’unico desiderio di tutta la sua vita. Sebbene sia in una gabbia, canterà inni (canzoni) di libertà per tutta la sua vita. Elay Li

Elay Li Suoni per la libertà 2017 110x95 cm Olio sul tela

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Intervento di Simone Parise Anche Simone Parise, pur citando la poetica di Manzoni, pone la figura di Hayez come riferimento primario. In una contemporaneitĂ dove la pittura è sopraffatta, e di volta in volta data per morta, l’immagine del grande accademico braidense diviene icona per gli ormai pochi devoti. 69


Il 20 giugno 2017 ha inaugurato la mostra collettiva di noi studenti dell’Accademia di Belle Arti di Brera tenutasi all’interno dell’ex studio di Piero Manzoni, in cui al termine di una serie di incontri informali (tra studenti, professori e non solo) facenti parte del workshop “parete Manzoni”, abbiamo avuto modo di confrontare le nostre personali visioni, concentrando sulla parete espositiva dello studio le nostre quattro diverse interpretazoni (pittoriche e fotografiche) ispirate all’opera dell’artista concettuale. Gli studenti sono stati segnalati da quattro professori e artisti dell’accademia che nelle altrettante date precedenti, tra marzo e maggio (tenutesi anch’esse durante lo svolgimento del workshop) hanno esposto alcune loro opere sulla parete bianca dell’ex studio Manzoni, e anch’esse ispirate all’opera dell’artista, tramite le loro diverse poetiche e linguaggi, mostrando così fin da subito le infinite possibilità di interpretazione del tema. La mia opera “Senza Titolo” prende in particolare come riferimento estetico la serie degli “achrome” di Manzoni, l’opera, infatti, si presenta monocroma, dominata dal colore bianco, tra figura, superfici opache, lucide e brillanti. A restare sono solo i grigi, i quali sono presenti anche nelle opere di Manzoni, seppur non come colore ma come ombre portate. Personalmente ho sentito la necessità di far dialogare nell’opera la mia poetica personale, con quelle che sono invece state le esperienze, apparentemente in antitesi, di Piero Manzoni e di ciò che hanno per me significato nel corso degli studi e della mia personale formazione artistica. Il soggetto mostrato è la reinterpretazione di uno degli autoritratti di un’altro pittore, anch’esso, come Manzoni, attivo a Milano e frequentante l’accademia di brera, ma durante il 1800, Francesco Hayez. La figura di Hayez può infatti più rappresentare in questo dialogo la mia personale poetica artistica, piu legata alla ripresa delle tecniche e delle immagini del passato della storia dell’arte. Perciò viene mostrata la figura del pittore, il quale impugna gli strumenti classici del mestiere, pennelli e tavolozza, in cui però i colori sono annullati, a restare è solo la vaga figura del pittore, il cui corpo si confonde nel bianco, di cui egli stesso fa parte. Simone Parise

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Simone Parise Senza titolo 2017 90x90cm Olio e acrilico su tela


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Intervento di Priscilla Sclavi Priscilla Sclavi ci conduce, attraverso un onirico viaggio dipanantesi in un’amena località bucolica, in quello che potrebbe essere il luogo dell’anima di Piero Manzoni. Sarà la piatta campagna di Soncino o un sito amato dall’autrice? Non ci è dato saperlo. Di sicuro trattasi di buona pittura. 73


L’opera “Nella lontana casa” è stata realizzata su una tela quadrata di dimensioni 100x100 cm utilizzando colori acrilici e gessetti su una gamma di colori di tonalità bruna. Attraverso questa tela ho voluto rappresentare una casa situata in una tranquilla zona di campagna isolata dai rumori e dal caos della città, un posto che sia in grado di suscitare sensazioni di pace e tranquillità. Ho voluto immaginare che se Piero Manzoni fosse giunto in età avanzata avrebbe scelto un posto come questo per trascorrere serenamente gli anni della vecchiaia, durante i quali avrebbe deciso di “tornare alle origini”. Esporre nell’ex studio di Piero Manzoni è stato un onore per me. Mi sono sentita a contatto con lui e la sua arte. Mentre ero lì immaginavo di essere con lui in quella casa di campagna e di poter discutere di arte insieme a lui cercando un modo per comprendere appieno le varie tappe del suo percorso di crescita come artista. Priscilla Sclavi

Priscilla Sclavi Nella lontana casa 2017 100x100 cm Acrilici e gessetti su tela

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