Elena, Valentina, Svetlana, storie di donne coraggio ( Franco Cordelli ) Il ciclo Storie di donne coraggiose all’Argot chiude con «Monologhi dell’atomica», dramma interpretato e a cura di Elena Arvigo. Come sempre le accade, Arvigo fa tutto da sé: coraggio, stando a quello che è il nostro teatro, per prima lo ha proprio lei, Elena. La chiamo per nome perché a Elena mi sono affezionato, la stimo come pochissime attrici italiane. Andando all’Argot è a lei che pensavo, non già al premio Nobel di cui avrei ascoltato le parole, Svetlana Aleksievich. Ero ingiusto? Sì, ero ingiusto – perché della scrittrice bielorussa avevo letto poco, dai suoi libri non ero attratto in modo particolare. Ma tra le sue parole e l’attenzione, la passione, la capacità di immedesimazione di Elena Arvigo la verità è che ho avuto la fortuna di assistere a uno spettacolo degno di una capitale. Non sottolineerò più di tanto come ciò sia accaduto in un piccolo teatro, non già all’Argentina, all’India, all’Eliseo e neppure al Vascello. Elena, dal libro «Preghiera per Cernobyl», ci racconta una storia – come se quanto dalla protagonista del racconto Valentina trasmesso a Svetlana fosse storia sua. La scrittrice russa è formidabile nella scelta e nel montaggio delle testimonianze. Lo è, di più, della fedeltà con cui trasmette una registrazione che diventa pura e poetica invenzione. Ad Aleksievich non interessa raccontare fatti, né interpretarli. A lei interessano i sentimenti della gente che visse la tragedia di Cernobyl – che, dice, spaccò in due il mondo socialista prima e il mondo intero poi. In quanto alla Arvigo, arriva vestita con una tuta antisettica e una maschera antigas, presto se ne libera e con cautela, con modestia, con pudore – a piccoli passi ci costringe all’ascolto, anzi all’identificazione. Alla storia del suo sentimento, alla storia del suo dolore nella coscienza, impossibile, che il marito l’avrebbe lasciata per sempre, di lì a pochi giorni, non si può resistere. 1
L’ESPLOSIONE DEI SENTIMENTI Elena Arvigo rappresenta un tipo di interprete che riesce a rendere la tecnica uno strumento a fini artistici. Non la usa vanamente, vanitosamente, ma cerca sempre di costruire il gesto sull’emozione (e non l’emozione sul gesto). Quindi è l’intenzionalità che guida il suo corpo e una voce chiara, ben impostata, risonante senza forzature e con delle coloriture scure che le danno ombre di drammaticità. Sovente l’attrice presenta tempi di battuta originali e imprevisti, appena asimmetrici rispetto all’attesa dello spettatore e questo le permette di tenere viva l’attenzione della platea perché si fa trovare idealmente nel posto dove uno non se l’aspetta senza che ciò paia un errore di recitazione. La fisicità segue tale tendenza costituendo una prova di attrice monologante organica, omogenea, risolutiva rispetto all’identificazione del personaggio, e soprattutto credibile. Credibile perché la tecnica recitativa è in lei un meccanismo per così dire idraulico di deflusso delle emozioni. Arvigo è andata in scena al teatro Argot di Roma nel quadro della rassegna “La scena sensibile”, con una prova solista intitolata I monologhi dell’atomica, drammaturgia che lei stessa ha costruito dai racconti del premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievich sulla catastrofe di Cernobyl del 26 aprile 1986 e di Kioko Hayashi sulla bomba nucleare (chiamata “Fat man”) che gli americani sganciarono a Nagasaki il 9 agosto 1945. La parte compiuta dello spettacolo è la prima, che racconta della tragedia ucraina, mentre per la seconda sull’inferno nella città giapponese l’attrice si avvale di un leggìo. È chiaro che Arvigo, anche regista, ancora non ha trovato la formula che le permetta di dare unitarietà a questi due momenti per formare un percorso drammaturgico e teatrale coerente all’interno delle catastrofi nucleari, belliche e civili. Eppure il montaggio scenico del racconto di Alekseievich costituisce da solo 2
uno spettacolo compiuto, anche in termini di durata, e se ancora non s’è riusciti a trovare una soluzione complessiva, proporre anche la Hayashi significa inzeppare di buona volontà la rappresentazione senza in alcun modo risolverla. Il problema naturalmente è di ordine prettamente drammaturgico e ricade nelle manchevolezze del “teatro di narrazione” o “civile” o “di documentazione” che usa il monologo teatrale come sua tecnica fondamentale ma che mai o quasi si rivela in grado di proporre un’azione, finendo per sostituirla con narrativa orale. “El teatro xe asion, benedetto, no ciacole”, sbottò un giorno quel gran critico drammatico che fu il veronese Renato Simoni. La bravura della Arvigo è di saper nascondere la debolezza di una drammaturgia che nasce da un testo letterario con il movimento della propria interpretazione della moglie di un pompiere condannato dalle radiazioni della centrale. Trasferito all’ospedale di Mosca, l’uomo attende la morte che arriverà in due settimane. La donna accudisce il suo compagno tutti i giorni, dorme nella sua stanza malgrado le proibizioni e il rischio di contaminazioni, lo veglia, lo protegge, lo consola. La sua è una dedizione totale, sconfinata, un liquido di amore, abnegazione e coraggio bevuto secondo dopo secondo, da una donna giovane, di ventitré anni, attraversata da struggenti moti interiori. Ma in scena non succede niente, questo è un racconto di emozioni e sentimenti. Se non fosse per l’attrice e la sua presenza scenica, per certi suoi sorrisi lunghi di malinconia, per gli occhi espressivi, ci si chiederebbe per quale motivo si è andati a teatro e non s’è rimasti a casa a leggere, per esempio, un buon libro di Svetlana Aleksievich. Marcantonio Lucidi, 27 giugno 2016
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«Le imperdonabili». Questo il titolo del progetto che Elena Arvigo ha ideato e porta avanti da qualche anno. E chi siano «le imperdonabili» è sin troppo facile capirlo: sono le donne che vivono invece di limitarsi ad esistere, e giustificano e nobilitano la propria vita dicendo le parole che non fanno comodo ai potenti. Degli spettacoli nati nell’ambito di tale progetto avevo visto due anni fa, al Nest, «Donna non rieducabile» di Stefano Massini, centrato sulla vicenda di Anna Politkovskaja. E ieri sera (si replica ancora oggi e domani) ho visto, in un’altra trincea teatrale, l’Elicantropo, «I monologhi dell’atomica», tratto da «Preghiera per Cernobyl» di Svetlana Aleksievic e da «Racconti dell’atomica» di Kyoko Hayashi. Ci si riferisce, ovviamente, agli eventi del 26 aprile 1986, l’esplosione dell’ormai tristemente celebre centrale nucleare ucraina, e del 9 agosto 1945, il lancio della bomba atomica su Nagasaki: eventi che qui vengono rievocati da Ljudmila Ignatenko, moglie del vigile del fuoco Vassilij perito in seguito a quell’esplosione, e da una superstite, appunto Kyoko Hayashi, dell’ecatombe determinata nella città giapponese. Ma il pregio del testo sta nel fatto che la sua sostanza drammaturgica (e drammatica) risiede non nel racconto dei due eventi in sé, bensì nell’analisi puntuale di ciò che a quegli eventi seguì. In breve, qui il dramma consiste non tanto nella fine della vita, quanto nella circostanza che, dopo la fine della vita che si conosceva, prende a scorrere una vita assolutamente diversa, e in precedenza inimmaginabile. Non a caso, Ljudmila precisa subito: «Lo scoppio vero e proprio non l’ho sentito». E immediatamente dopo parla della «fuliggine che ricadeva dal cielo come fosse pioggia, una strana pioggia mai vista prima». E lo stesso fa Kyoko. Precisa: «[…] sentimmo il rombo di un aereo che di colpo sale o scende. Questa è l’unica cosa che sentii. Il momento in cui scoppiò la bomba atomica per me fu solo questo. Non vidi nessuna luce e non sentii nessuna esplosione». E poi racconta: «Non vedevo niente anche se avevo gli occhi spalancati. C’era solo buio […] Pensai di essere diventata cieca. Mi stropicciai gli occhi più volte con entrambe le mani. Il buio svanì facendo posto ad una luce tra il blu e il rosso, una luce solida». Di conseguenza, ecco che la morte di Vassilij è, piuttosto, l’inesorabile mutazione che via via il suo corpo subisce in seguito all’irradiazione. Ljudmila dice che «perfino le fotografie non hanno su di me un effetto così forte come il ricordo della sua voce». Perché «il mondo era cambiato, Vasenka stesso cambiava. Ogni giorno incontravo una persona diversa. Le ustioni affioravano in superficie, il colore del viso, del corpo cambiava. Blu, rosso, marrone, grigio… era incredibile… Non si può raccontare! Né scriverne!». Un primo piano emblematico della protagonista Infatti, Elena Arvigo pone in epigrafe alle sue note sullo spettacolo la frase della Aleksievic: «Mancavano persino le parole per raccontare della gente che aveva paura dell’acqua, della terra, dei fiori, degli alberi». Che, cioè, aveva paura della vita perché, ormai, era prigioniera di un’altra vita, una vita sconosciuta che non contemplava più, per l’appunto, l’acqua, la terra, i fiori e gli alberi. Al riguardo, i medici dell’ospedale non potrebbero essere più espliciti quando dicono a Ljudmila: «Lo deve sempre tenere presente. Davanti a lei non c’è più suo marito. L’uomo che lei amava non esiste più. Suo marito è un oggetto radioattivo». 4
Tuttavia, ben presto la vita conosciuta riesce a trovare nel buio qualche barlume e comincia a mandare nei deserti avvelenati di quella sconosciuta i primi, sia pur deboli, segnali della propria voglia di riprendere il sopravvento. Uno dei soldati spediti nell’area intorno a Cernobyl per sigillare le case allo scopo d’impedirne il saccheggio racconta che trovavano sulle porte cartelli come questo: «Uomo gentile e caro, non cercare oggetti di valore, non ne abbiamo mai avuti. Utilizza tutto ciò che ti serve ma non saccheggiarci la casa. Ritorneremo». Quel soldato commenta: «Si congedavano dalla casa come da una persona». E si vedevano anche messaggi scritti su pagine strappate dai quaderni: «Non ammazzare la gatta, se no i topi si mangiano tutto» e, vergato da una mano infantile, «Non ammazzare la nostra Zulka, è una brava gatta». Dal canto suo, Kyoko vede nella crepa di un marciapiede un filo d’erba: «Era nato in una zona dove si era detto che per cento anni non sarebbe spuntato nulla, neanche la gramigna». Ed è inutile sottolineare che costituiscono, questi segnali, l’equivalente metaforico delle testimonianze che contro l’orrore rendono le donne chiamate a «deporre» da Elena Arvigo. La quale, poi, rispetto a un simile quadro mette in campo una regia discreta e decisiva insieme. Vedi quel tavolo su cui (una perfetta sintesi dello scontro fra la vita normale precedente e la vita anormale successiva alle tragedie in questione) si accumulano stoviglie, posate, manciate del terreno inquinato dalla radioattività, appunto qualche fiore, un elmetto e una maschera antigas. E vedi la fitta rete di passi (in avanti, all’indietro, di lato) che intorno al tavolo stesso disegna l’interprete, a significare, s’intende, lo smarrimento dei sopravvissuti, di quanti subivano nel corpo le piaghe provocate dalle esplosioni e nell’anima quelle inflitte da chi non diceva che cosa fosse effettivamente successo.
Adesso, infine, dovrei dire della prova fornita da Elena Arvigo in quanto attrice. E mi sento in imbarazzo. Lei è una delle migliori attrici italiane in circolazione, e io le ho fatto tutti gli elogi possibili e immaginabili. Sicché, ne ne ripetessi qualcuno, apparirei noioso. Mi limito, quindi, alla semplice considerazione seguente. A Vassilij morente Ljudmila mormora: «Vasenka, amore mio, amore mio». E per noi commenta: «La felicità è una cosa così semplice». Ecco, io non so se c’è un’altra attrice capace di dire queste parole senza cadere nella retorica e al contrario destando, come riesce a fare Elena Arvigo, il soffio dell’emozione. Enrico Fiore
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Elena Arvigo. Un’etica intima contro l’orrore . ( Alessandro Iachino ) Elena Arvigo è ideatrice, regista e attrice di Monologhi dell’atomica
È una relazione prettamente muliebre quella che Elena Arvigo tesse con i personaggi a cui dona corpo e parola: soltanto con voce di donna sembra potersi esprimere il linguaggio adamantino dell’accudimento, della manutenzione delle esistenze, della riparazione delle ferite. L’arte della cura fa propria la vulnerabilità altrui, se ne lascia possedere e pone a essa rimedio con la costanza della presenza e il coraggio dell’incoscienza: e quest’arte parla da sempre una voce diversa, femminile per vocazione ed essenza più che per sesso. Una different voice, come teorizzava Carol Gilligan nell’omonimo saggio, capace di smantellare con tenacia i maschi edifici della responsabilità e dei doveri, in grado di opporre un’etica intima e quotidiana alla violenta sicumera della scienza o all’indifferenza della burocrazia. È la voce con cui una donna sfida il pericolo fatale delle radiazioni e la glaciale operatività di medici e infermieri nei 6
giorni successivi al disastro di Černobyl’, è il fermo tono con cui una sopravvissuta all’inferno di Nagasaki ne racconta l’orrore, ed è soprattutto la voce che Arvigo modula in infinite sfumature, quasi fosse un canto, quasi a voler lenire il dolore delle vittime della follia atomica. L’attrice genovese ricorre a inconsuete appoggiature, alterna inaspettate pause ad accelerazioni, trattiene il respiro su alcuni passaggi del testo se, commossa, i suoi occhi si gonfiano di lacrime: un pianto che non è mera testimonianza di talento attorale, ma empatico affetto e comprensione del destino che è stato tracciato, lontano dal palcoscenico, sopra le vite di migliaia di persone. E questi Monologhi dell’atomica, presentati nella loro forma definitiva al Teatro Manzoni di Calenzano, dispiegano i destini privati e drammaticamente straordinari di un piccolo gruppo di persone – due donne, una bambina, un vigile del fuoco – coinvolti loro malgrado in eventi che non riescono a comprendere, e che sembrano anzi sfidare le leggi e i limiti stessi della conoscenza umana. L’esperienza del male invisibile propagatosi dal reattore n°4 della centrale nucleare di Černobyl’, o quella della manciata di secondi nei quali Fat Man – l’ironico soprannome dato alla bomba dall’aeronautica statunitense –cancellò ottantamila abitanti della città giapponese, sono indicibili: misteri contemporanei, laici e secolari.
La parola umana sembra poter disegnare soltanto le curve delle esistenze toccate dalle due apocalissi, e percorrere di esse i desideri interrotti e le sofferenze dei corpi: una prospettiva, questa, assunta dal premio Nobel Svetlana Aleksievič nel reportage Preghiera per Černobyl’, e da Kyoko Hayashi nel memoir Nagasaki. È a partire da questi due testi che Elena Arvigo, anche ideatrice e regista dello spettacolo, compone un collage di quattro frammenti, accostati fin troppo nettamente nel tratteggiare un’umanità ordinaria ed eroica, che si staglia al di sopra di un panorama di sconcertante desolazione. La scena ricostruisce così ciò che resta di un interno di un’abitazione comune dopo la devastazione: un tavolo sul quale 7
sono ammassati stoviglie e detriti, due cassetti rovesciati a terra, una spoglia branda in metallo. L’attrice entra indossando una tuta bianca e una maschera antigas, aggirandosi come un esploratore in un paesaggio lunare; la gestualità misurata con cui, pochi istanti dopo, si spoglia della tuta, e lo sguardo che getta con rimpianto sulle tracce della vita che sembrava abitare quel luogo, tradiscono la rassegnazione – ma anche la dignitosa compostezza – con cui la popolazione di Pryp’jat’ affrontò la tragedia.
A parlare per prima è la moglie di uno dei membri della squadra dei vigili del fuoco chiamata a spegnere l’incendio originatosi dopo il collasso del reattore: ma è restia alla narrazione, dichiara di non sapere cosa dire. È un terrore senza nome quello che ha attraversato la città il 26 aprile 1986, e il raccontarlo ne implicherebbe l’iscrizione in categorie già note e date: e tuttavia a rivelarsi nella città ucraina è stato lo squarcio di un futuro possibile. Cronaca dal futuro è non a caso il sottotitolo che Aleksievič pone al proprio saggio; mentre inconoscibili appaiono le conseguenze dell’incidente, fin troppo note sono l’inaccettabile omertà delle istituzioni sovietiche, o le piccole menzogne e gli inutili soprusi commessi su uomini e donne comuni in nome dell’emergenza. Arvigo attraversa così, accompagnata da un dolore che sembra costringerla a un’implosione silenziosa, le tappe dell’evacuazione forzata, o i ricordi di una bambina costretta a sperimentare la discriminazione connaturata all’essere stata esposta alle radiazioni.
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La drammaturgia si fa lancinante azione quando l’attrice, volgendo le spalle al pubblico, si rivolge a un letto vuoto, o quando pianta con cura piccole margherite su un pugno di terra conservato in un cassetto: una ricchezza di soluzioni il cui improvviso abbandono nel frammento dedicato al bombardamento di Nagasaki determina una frattura nella struttura complessiva dello spettacolo. Virando verso una forma di lettura scenica soltanto giustapposta alle precedenti sezioni, Arvigo sceglie di interpretare il passaggio nel quale Hayashi ricorda gli istanti successivi alla deflagrazione con l’utilizzo di un leggio, quasi a voler suggerire un’oggettiva difficoltà di traduzione della «violenta furia» scatenata dal governo degli Stati Uniti. L’olocausto nucleare sembra situarsi in una zona liminale, dove parole e idee sono vuote e inane: eppure esso è stato percepito sotto la pelle, nelle ossa, nei feti abortiti e sui terreni contaminati. È storia recente: da inchiodare per sempre alle assi di un palcoscenico, da contenere tra le mura di un teatro.
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Coi detriti nell’anima, le voci di Elena Arvigo “I monologhi dell’atomica” come testimoni commoventi di Nagasaki e Černobyl’.
Non è una narrazione cronachistica di disastri passati, né una didascalica commemorazione scenica di eventi storici o un rammento di ecatombi improntato sul sentimentalismo forzato. I monologhi dell’atomica, che hanno per artefice Elena Arvigo in replica all’Argot di Roma (fino al 26 giugno ore 21) a conclusione della Scena Sensibile XXII, diretta da Serena Grandicelli, sono incontro immediato e totale con le percezioni, le angosce, i desideri dei sopravvissuti dell’indicibile, dell’inconcepibilmente tragico di Nagasaki e Černobyl’. Con ispirazione (ricerca e studio) testuale rivolti a “Preghiera per Černobyl’” di Svetlana Aleksievič e “I racconti dell’atomica” di Kyoko Hayashi, il progetto – prodotto dal fiorentino Teatro delle Donne – torna al disastro atomico del ’45 e a quello nucleare dell’86 scavando nella quotidianità spezzata e violata poco per volta da quel “male da raggi” che divora da dentro, invisibile, inarrestabile. Un giorno qualsiasi per gente qualsiasi s’invade di una sorda e disarmante solitudine udibile solo da chi è rimasto, mentre i silenzi sovietici, americani, giapponesi, tengono all’oscuro le coscienze e sequestrano 10
alla vista prove (corpi, scritti, immagini) scomodi per il controllo del collettivo sapere. Non si leggano qui denunce politico-civili ma piuttosto volontà di omaggiare la verità con le voci di straordinarie donne restituite dalla toccante interpretazione della Arvigo che, svestitati di tuta e maschera antigas, dimora in un interno arrestato nel tempo, tra leggii, cassetti polverosi, un giaciglio e un tavolo apparecchiato di umiltà e macerie, per un commovente rimando fotografico a un fantasma urbano disabitato. C’è la giovane sposa di un pompiere accorso alla centrale in fiamme, perso, ritrovato e mai più lasciato, che c’invita nell’intimità di dialoghi e gesti verso la riscoperta di una felicità semplice perché ritardi la morte del marito e futuro padre pian piano svuotato dell’umanità per divenire “oggetto contaminato”, pericoloso portatore di radiazioni, insopportabilmente inavvicinabile, fatalmente raggiungibile. C’è l’innocenza e l’ingenuità infantile di una degli evacuati “bambini di Černobyl’”, la cui presenza è segnalata da cartelli, perché è meglio discriminare: chi è fisicamente inquinato, infettivo, inguaribile può essere anche socialmente dannoso. Ma c’è anche un soldato che per volontaria dimostrazione eroica (e dosi di minacce superiori) si occupa, finché potrà, della “bonifica” delle terre abbandonate in un vuoto spettrale. E c’è la memoria più antica di Kyoko Hayashi, scaraventata a un passo dalla morte, immersa in uno squarcio di realtà apocalittico, impossibile, accaduto (ma non disperato), che ora si fa reading di lucide reminiscenze della follia (dis)umana, quella di chi sgancia bombe decidendo con un pulsante la scomparsa di intere città, e quella di chi lascia fare, consciamente. È possibile che il respiro s’arresti più volte durante lo spettacolo. Colpa di una Elena Arvigo che dimostra ancora una volta una sensibilità delicata di ascolto, di lettura emotiva, di coinvolgimento umano e artistico per la vita, i ricordi, i racconti. E di un rispetto profondo che dona in una teatralità quale condivisione sincera – mai timorosa né prevenuta, mai epurata né edulcorata – di un sentire comune. Nicole Jallin
I MONOLOGHI DELL’ATOMICA, fuliggine venerdì 20 ottobre 2017
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NAPOLI – Un silenzio indelicato attraversa la sala quando la Arvigo entra in scena. Aspettativa, sorpresa, apprensione, tutto nel pubblico confluisce nel respiro salvifico e tragico della maschera antiradiazioni. Saremo a Cernobyl, poi a Nagasaki, infine nella necessità della memoria nella sua veste di pedagoga dell’umanità. La Arvigo, nella sua presenza scenica, è delicata come la fuliggine radioattiva che cadde quel maledetto Aprile del ’86. Ogni gesto è necessario, ogni pausa si offre alla cadenza biologica di quelle vite minime raccontateci dall’attrice. La scelta dell’essenzialità della mise en scèneè funzionale al tipo di comunicazione dovuta a queste storie grevi. Quello che resta al pubblico è il sapore minerale ed imperdonabile di una verità scomoda. Un’ammissione d’idiozia. Lo spettacolo “I monologhi dell’atomica”, di e con Elena Arvigo, apre la stagione del Teatro Elicantropo a Napoli all’insegna di uno dei valori fondamentali che il teatro italiano dovrebbe avere, quello di coscienza collettiva. Se ne raccomanda la visione, poiché a volte è necessario guardarsi allo specchio e non piacersi.
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L’essenziale è invisibile agli occhi. Opinabile, ma nel caso dei due disastri nucleari di Nagasaki e Černobyl’, irrefutabile. Perché il passato è difficile da vedere quando le lamiere mutilate dal fuoco vengono smaltite e rimpiazzate da nuovi eco-mostri. Perché le radiazioni sono un ottimo, per quanto insospettabile, compagno di vita. Fedeli sino alla morte: la tua. Elena Arvigo ci costringe ad aguzzare la vista, ad affinare l’orecchio e a sentire il lamento di questo invisibile passato generato, creato e ribadito dalla sconfinata pretesa di onnipotenza dell’uomo. Prendendo in prestito le voci di Svetlana Aleksievich e Kyoto Hayashi, superstiti dei disastri più tremendi mai firmati da mano umana, l’attrice porta in scena l’altra faccia della catastrofe, quella di chi l’ha vissuta da dentro, senza la protezione della consapevolezza e della verità, da sempre appannaggio dell’impunità statale e militare. Due testimonianze scomode perché semplicemente vere, pronunciate da altrettanto semplici donne che hanno dovuto, loro malgrado, diventare straordinarie. Un amore interrotto dalla chimica tremenda della grafite e dell’idrogeno e una città spazzata via da una tremenda rabbia ingiustificabile sono il pretesto per parlare dei pericoli che l’accoppiata essere umano/energia nucleare ha imposto e impone ancor oggi al mondo intero. Il percorso che Arvigo intraprende è sicuramente interessante e una limitante reading potrebbe non dare abbastanza fiato alle voci che esigono di urlare il loro sdegno e la loro morte forzata da un progresso economico insostenibile. Attendiamo quindi con curiosità l’evoluzione di questi monologhi in vere e proprie «Voci di Černobyl’ e Nagasaki». Con i Monologhi dell’Atomica prosegue la «rassegna teatrale per immaginare il femminile del terzo millennio» dal titolo Una stanza tutta per lei, voluta da Marioletta Bideri e Melania Giglio e diretta da Daniele Salvo. Questo «carro di Tespi» verrà rodato a Roma per poi spostarsi, con i suoi tredici spettacoli, in altri teatri d’Italia, dove saranno analizzate, rappresentate e fomentate le due rivoluzioni moderne: «la rivoluzione tecnologica e la rivoluzione femminile».
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IL RACCONTO DEL DRAMMA UMANO NEI “MONOLOGHI DELL’ATOMICA” DI ELENA ARVIGO (Gertrude Cestie’)
Non nuova ad argomenti di carattere sociale, Elena Arvigo ci accompagna, con il suo “Monologhi dell’atomica”, in un viaggio toccante e significativo attraverso due dei momenti più tragici del mondo contemporaneo: il disastro di Černobyl'del 1986 e le bombe atomiche del ’45 su Hiroshima e Nagasaki. Le testimonianze sulla città ucraina, raccolte nel romanzo “Preghiera per Černobyl'” dalla giornalista e scrittrice Svetlana Aleksievich, Premio Nobel per la Letteratura nel 2015, sono riportate insieme ai ricordi di Kyoko Hayashi, sopravvissuta alla bomba atomica di Nagasaki, in un’ora di intenso e umano raccoglimento attorno al ricordo del passato. La narrazione non è quella dei due singoli eventi storici, ma dei tragici fatti umani che hanno cambiato il mondo per sempre. Le testimonianze raccolte non parlano, infatti, di comunicazioni ufficiali, ancora oggi carenti e fallaci, ma riportano sentimenti, impressioni e ricordi personali e privati che hanno la forza di risultare universalmente validi. Un racconto di voci che parla di amore, di vita, di morte, di spaesamento e mostra quanto la catastrofe del nucleare sia tragedia universale dell’essere umano che vede tutti coinvolti, a prescindere dalla propria nazionalità o generazione. Con un’interpretazione intensa e mai forzata Elena Arvigo riesce a dare un’immagine così vera ai ricordi narrati da trasportare lo spettatore dentro le sue stesse parole. L’alternanza dei quattro monologhi, con i due più lunghi ad aprire e chiudere il cerchio, è perfetta perché capace di catalizzare l’attenzione su ogni minimo particolare senza risultare pesante o confusa. I testi tratti da “Preghiera per Černobyl'” presentano, infatti, secondo l’attrice, una forza drammaturgica interna che non ha bisogno di ulteriori adattamenti per risultare efficace. La storia parla, qui, attraverso l’esperienza umana, considerandola proprio nucleo principale, e apre, in quanto ricordo del passato, a una responsabilità verso il futuro. Accanto alla tragedia dell’uomo è la forza della vita che esplode naturale e necessaria. Quel filo d’erba, che nel settembre del ’45 spuntò incredibilmente sotto le macerie del disastro atomico, era un messaggio della natura che si affacciava per dire no alla morte; come una promessa di vita per i superstiti per ricordare il passato e dire sì al futuro.
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Le donne difficili di Elena Arvigo. Ora, Svetlana Aleksievich. Una tragica storia di morte ch’è un inno alla vita e all’amore
MILANO, mercoledì 8 giugno ► (di Paolo A. Paganini) Elena Arvigo ha la cattiva abitudine di portare in scena donne scomode e situazioni difficili. L’anno scorso ha dato voce e sangue alla figura di Anna Politkovskaja, un “memorandum” teatrale sulla scomoda giornalista della “Novaya Gazeta”, altra donna di cattive abitudini, per essersi impegnata sul fronte dei diritti umani, svelando le scomode verità della prepotenza russa in Cecenia. Con relativo pesante corollario di critiche al presidente Putin. La fecero star zitta per sempre nel 2006. In precedenza, Elena Arvigo si era interessata a Sarah Kane (4:48 Psychosis), altra tragica, infelice personcina da prendersi con le molle, vinta dalla depressione e morta suicida. Ora è il turno di Svetlana Aleksievich, scomoda scrittrice bielorussa, sensibile ai temi della povertà, delle ingiustizie sociali, delle violazioni dei diritti umani, premio Nobel 2015 per la letteratura. È autrice di “Preghiera per Cernobyl”, dalla quale la Arvigo ha tratto ora lo spettacolo “Monologhi dell’atomica”, nel quale è riportata anche la sofferta testimonianza di Kyoko Hayashi, una settantenne sopravvissuta all’atomica di Nagasaki del ’45, e che si porta ancora addosso “la radioattività nascosta nel suo corpo, indelebile come una stimmate”. E anche questo è coerente con gli altri scomodi personaggi, nel denunciare l’assurda follia dell’imperialismo americano, pronto a scaricare sul giappone, dopo Hiroshima e Nagasaki, una pioggia di bombe atomiche, fino a minacciare di distruggere e cancellare la civiltà nipponica, se non avessero firmato subito la resa. Insomma, Elena Arvigo ha la cattiva abitudine di dedicarsi a donne difficili, con l’aggiunta di un’altra cattivissima abitudine, quasi un delitto: far pensare gli spettatori, costringere a riflettere sulle ingiustizie, sul dolore, sulle vittime innocenti della violenza e delle prevaricazioni, sulla civiltà della tolleranza e del rispetto, e, in ultima analisi, sulla verità. E sull’amore e sulla morte, che poi è la stessa cosa. 17
Questo suo ultimo spettacolo parla di morte. È nello stesso tempo un altissimo inno all’amore, alla dedizione al sacrificio per amore. Il 26 aprile del 1986 esplose la centrale nucleare di Cernobyl, in Ucraina, il più grande disastro nucleare della storia, con una caduta di radioattività 400 volte superiori a quelle di Hiroshima (vennero contaminati più di 200.000 km quadrati d’Europa, con 600.000 persone esposte a dosi elevate di radiazioni, e con evacuazioni di massa dalle zone contaminate). Tutto questo si sa. Ma “Preghiera per Cernobyl” ispira la Arvigo a una ricerca più interna, più intima, nelle zone dell’anima, fra le pieghe dei sentimenti. Ne emerge una commossa, coinvolgente storia d’amore di due giovani sposi. Lui fa il pompiere. Viene subito chiamato sul luogo del disastro. La sua vita,come la vita di tutti, non sarà più come prima. Nessuno sa cosa sia veramente successo, tutti si espongono alle radiazioni preoccupandosi solo del fuoco e di quel “fumo” inestinguibile (solo “fumo”, dicevano). Ma i pompieri esposti a quel fumo vengono subito trasportati e ricoverati in un ospedale di Mosca, tutto e solo per loro, isolati da un invalicabile cordone sanitario che li isola dal resto del mondo. Ma la donna di quel pompiere non sente ragioni, anche se ora si conoscono le cause di quel “fumo”. Non vuole lasciarlo solo. Riesce a entrare nell’ospedale, a vivere, fin che può, con lui, insensibile al rischio delle radiazioni, indifferente agli ordini dei sanitari… La storia e la letteratura ci hanno fatto conoscere episodi eroici, appassionati di donne che si sono sacrificate per amore, da Teresa Confalonieri, vissuta all’ombra dello Spielberg per star vicina all’amatissimo Federico, condannato a morte, condanna poi commutata a carcere perpetuo. E la nobil donna Giuditta Sidoli, patriota, amante di Giuseppe Mazzini, che, gravemente ammalato, volle seguire e assistere nel suo esilio a Ginevra (da una lettera di Mazzini: “Sorridimi sempre! È il solo sorriso che mi venga dalla vita”). Con la stessa passione e tenerezza, al Teatro Out Off, Elena Arvigo, in un’ora e quindici, si dedica al tragico amore dei due giovani sposi della tragedia di Cernobyl, descrivendo lo strazio, la passione, il sacrificio della giovane donna. È un racconto che va sofferto e nel contempo goduto, come un’esemplare dimostrazione di gioiosa dedizione di sé. Oltre la vita. Oltre la morte. La maschera, la voce, il sorriso e i silenzi sono gli ingredienti della Arvigo, intensa attrice, che avvince in un vibrante gioco di inesauribili sfumature drammatiche. Fornisce peraltro due belle lezioni di teatro: come stare in scena in una recitazioneverità senza trucchi, senza facili enfasi, senza velleitarie mistificazioni registiche; e come fare arrivare la voce… senza l’ignobile e pigro vezzo dei microfonini. Da non perdere.
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Atomica: cicatrici nel corpo e nell’anima
Uno spettacolo difficile ma necessario, per amplificare le onde d’urto sulle nostre coscienze, che si sprigionano dalla scrittura ruvida e tagliente di due voci femminili: Svetlana Aleksievič (Nobel 2015) e la giapponese Kyoko Hayashi. L’attrice Elena Arvigo, attenta alle figure di donne scomode e coraggiose (memorabile la sua Anna Politkovskaja da Donna non rieducabile di Stefano Massini), capta lo sforzo di questa dolorosa missione del dire l’indicibile e ne fa urgenza comunicativa in Monologhi dell’Atomica, in coincidenza con l’anniversario della tragedia di 19
Chernobyl e della fine della seconda guerra mondiale. Per restituire la metodologia di scrittura polifonica della Aleksievič, che cattura la realtà combinando la viva voce di testimoni e documenti, la Arvigo rilegge Preghiera per Chernobyl (1997), le confessioni sussurrate dei testimoni, le loro reazioni emotive e le cicatrici dell’anima lasciate dal tragico 26 aprile 1986. Quelle pagine, inframmezzate da puntini di sospensione che celano solo in parte abissi di sofferenza, sono un pugno nello stomaco. La Aleksievič descrive l’evento come una catastrofe “cosmica”: nessuno sapeva come affrontare il nemico invisibile delle radiazioni, furono commessi molti errori di valutazione. Troppi innocenti pesano sulle decisioni scellerate delle autorità, che non avvisarono la popolazione in tempo: l’evacuazione dell’area iniziò solo 36 ore dopo l’esplosione del reattore. Per la prima parte, la più lunga e intensa, si potrebbe parlare di “variazioni sul vuoto”. Si comincia con il vuoto dell’assenza incolmabile nella vita di Ljudmila, moglie di Vasilij, un eroico pompiere accorso nell’inferno rovente del reattore con altri compagni, chiamati a spegnere «un semplice cortocircuito». Delicato e straziante è il gesto iniziale della Arvigo, che si spoglia di maschera antigas e tuta bianca di protezione per depositarla su una sedia accanto alla tavola apparecchiata. Quella sagoma “vuota” è la traccia eterea di Vasilij consumato dalle radiazioni, fantasma di se stesso, corpo che non è più corpo, assediato da piaghe e ustioni. La Arvigo riesce a dare peso specifico alle parole con le giuste pause, come quel reticente «Ci vorrà… tempo» dell’infermiera, che racchiude nella pausa la tragedia di un limite, una scadenza fissata e irrevocabile. Consapevole dei rischi, Ljudmila compie la sua scelta e accetta solo le ragioni del cuore: vuole vivere con l’amato Vasja – per i medici solo un “oggetto contaminato” – i terribili giorni della sua agonia, per accompagnarlo verso la fine. © Azzurra Primavera Per restituire la metodologia di scrittura polifonica della Aleksievič, che cattura la realtà combinando la viva voce di testimoni e documenti, la Arvigo rilegge Preghiera per Chernobyl (1997), le confessioni sussurrate dei testimoni, le loro reazioni emotive e le cicatrici dell’anima lasciate dal tragico 26 aprile 1986. Quelle 20
pagine, inframmezzate da puntini di sospensione che celano solo in parte abissi di sofferenza, sono un pugno nello stomaco. La Aleksievič descrive l’evento come una catastrofe “cosmica”: nessuno sapeva come affrontare il nemico invisibile delle radiazioni, furono commessi molti errori di valutazione. Troppi innocenti pesano sulle decisioni scellerate delle autorità, che non avvisarono la popolazione in tempo: l’evacuazione dell’area iniziò solo 36 ore dopo l’esplosione del reattore. Per la prima parte, la più lunga e intensa, si potrebbe parlare di “variazioni sul vuoto”. Si comincia con il vuoto dell’assenza incolmabile nella vita di Ljudmila, moglie di Vasilij, un eroico pompiere accorso nell’inferno rovente del reattore con altri compagni, chiamati a spegnere «un semplice cortocircuito». Delicato e straziante è il gesto iniziale della Arvigo, che si spoglia di maschera antigas e tuta bianca di protezione per depositarla su una sedia accanto alla tavola apparecchiata. Quella sagoma “vuota” è la traccia eterea di Vasilij consumato dalle radiazioni, fantasma di se stesso, corpo che non è più corpo, assediato da piaghe e ustioni. La Arvigo riesce a dare peso specifico alle parole con le giuste pause, come quel reticente «Ci vorrà… tempo» dell’infermiera, che racchiude nella pausa la tragedia di un limite, una scadenza fissata e irrevocabile. Consapevole dei rischi, Ljudmila compie la sua scelta e accetta solo le ragioni del cuore: vuole vivere con l’amato Vasja – per i medici solo un “oggetto contaminato” – i terribili giorni della sua agonia, per accompagnarlo verso la fine. © Azzurra Primavera Pochi elementi essenziali disegnano gli spazi e un gioco di luci proietta l’ombra di una finestra sigillata sul mondo. La vita normale nella cittadina di Pripjat è un tavolo apparecchiato, dove le stoviglie sono mescolate alle macerie, simbolo di uno sradicamento forzato e di una vita sgretolata per sempre. In una scena disseminata di sedie vuote che ospitano i fantasmi di tanti innocenti, la storia di amore e morte continua all’ospedale dove la camera di Vasilij è riassunta nella rete ripiegata di un letto, pronta per essere riposta, ormai inutile. Questo primo monologo è punteggiato anche dalla difficoltà del dire. La memoria seleziona, conserva solo alcuni lampi. Ljudmila 21
parla, piange, sorride, ma spesso si ferma, per pudore o per cercare le parole. Per mettere in risalto la forza poetica di questa piccola donna, la Arvigo taglia i passaggi più crudi relativi al disfacimento del corpo di Vasilij, ma forse questa scelta attenua l’urlo di denuncia. In scena, su un leggìo è posato un grosso volume: è il “libro” delle infinite tragedie di Chernobyl. Con un’efficace variante drammaturgica la Arvigo ci porta letteralmente a respirare quella tragedia. Sparge sulla scena manciate di terra, “contamina” la nostra aria pulita, ci coinvolge. È con la terra che il regime ha seppellito la Zona: oggetti, giocattoli, case. Un mondo di storie sepolto e migliaia di vite sradicate senza spiegazioni, perseguitate dal vuoto che si fa intorno: “quelli di Chernobyl” sono spogliati dei loro effetti personali, cioè dell’identità, e ovunque sono guardati da lontano, con tanto di cartelli che avvisano gli altri del pericolo di radiazioni. Uno strappo improvviso nella rete drammaturgica è segnalato dall’avanzare di un secondo leggìo. Ora la Arvigo legge pagine da Nagasaki. Racconti dell’atomica (1988, tradotto per Gallucci nel 2015) della Hayashi, una superstite (hibakusha) del 9 agosto 1945. Un altro racconto dell’orrore, che risulta un po’ compresso in questa parte finale. La Arvigo trova però un filo sottile per legare il coraggio del “dopo” dei sopravvissuti, che sentono la responsabilità per il futuro: «La felicità è una cosa così semplice», dicono entrambe. A Mosca ha il colore di tre garofani che scintillano radioattivi nelle mani deformate di Vasja; a Nagasaki brilla verde in un germoglio d’erba, che cresce anche nella desolazione postatomica. Un istante di grazia delicata restituito dallo sguardo di donne testimoni e scrittrici, in un’ideale staffetta per coltivarla necessità della memoria. Gilda Tentorio
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I MONOLOGHI DELL’ATOMICA 11/06/2016 998 VIEWS
AL TEATRO OUTOFF DI MILANO FINO AL 19 GIUGNO UNO SPETTACOLO DI E CON ELENA ARVIGO TRATTO DA PREGHIERA PER CERNOBYL DI SVETLANA ALEKSIEVICH E NAGASAKI, RACCONTI DELL’ATOMICA DI KYOKO HAYASHI di Antonio Marafioti Lo spostamento di mattoni rotti sul tavolo di scena alza un pulviscolo marrone che cambia l’aria dandole forma e significato. Non è più invisibile, non è più pulita, non è più vita, l’aria. Diventa, invece, un accento contaminato di radiazioni e morte sul copione. Sul racconto profondo di due donne al tempo di Hiroshima e Nagasaki, al tempo di Cernobyl. Epoche diverse, protagonisti diversi, luoghi diversi. Comune la scia di eccessi, dei responsabili, e decessi, dei civili, a quarantun anni di distanza l’uno dall’altro. La Seconda Guerra che volgeva al termine, gli Stati Uniti che bombardavano il Giappone, tra il 6 e il 9 agosto 1945. La corsa fra Est e Ovest e la tragedia in una centrale nucleare ucraina sotto il controllo dell’Unione sovietica; tanti nomi di presunti colpevoli, nessuna condanna, 25 aprile 1986. Non c’è niente di questo nei Monologhi dell’Atomica di Elena Arvigo, in scena al teatro OutOff di Milano fino al prossimo 19 giugno. Non c’è tesi politica, non ci sono denunce storiche, non ci sono ricostruzioni. Per scelta, s’intende.
LA PIÈCE È PIUTTOSTO UN OMAGGIO MOLTO BEN CONFEZIONATO A SVETLANA ALEKSIEVICH E KYOKO HAYASHI, DUE DONNE PROTAGONISTE DI QUANTO ACCADUTO NEI LORO RISPETTIVI PAESI DURANTE DUE DELLE PAGINE PIÙ TRAGICHE DEL VENTESIMO SECOLO. Due scrittrici che di quei fatti sono riuscite a raccontare la parte più intima legata a quelle catastrofi: quella dei sentimenti cangianti, degli affetti spezzati, dell’umana reazione di fronte alla morte. Aleksievich, Premio Nobel 2015, ne narra le vicende in Preghiera per Cernobyl, Hayashi in Nagasaki, racconti dell’atomica. Arvigo trova la sintesi e, in un’ora e venti di spettacolo, grazie a una recitazione intensa, porta il pubblico così vicino alle storie dei sopravvissuti da poterne quasi sentire addosso il peso del cambiamento. Niente fu più come prima per Liudmila, moglie del pompiere Vasilij Ignatenko, chiamato in servizio per domare gli incendi ai reattori della centrale ucraina. Contaminato finirà con i suoi compagni in isolamento nell’ospedale numero 6 di Mosca. Nessuno avvisa le mogli,
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nessuno le vuole lì a dar conforto ai mariti. Liudmila riuscirà a vedere Vasilij dopo aver pagato una bustarella di tasca propria.
SONO “MACERIE DI RICORDI” A RIDOSSO DEL CONFINE TRA AMORE E MORTE, FRA DECINE DI VITE CHE LENTAMENTE SI SPENGONO. EPPURE “NESSUNO PARLAVA DI RADIAZIONI”, RIPETE LIUDMILA, “LA GENTE NON VUOL SENTIR PARLARE DI MORTE E TRAGEDIE”. Come quarant’anni prima a Hiroshima, erano le 8.16 del 6 agosto 1945, e Nagasaki, tre giorni dopo, ore 10.56. I bombardieri inviati dal presidente Truman planano sulla valle di Urakami e l’annientano. Storia vuole che dopo Hiroshima gli Stati Uniti un messaggio con le loro intenzioni lo avessero pure fatto stampare su alcuni milioni di volantini per intimorire il popolo giapponese e obbligarlo a spingere i propri governanti alla resa. A Nagasaki quegli stampati non arrivarono mai. “La gente non vuol sentir parlare di morte e tragedie”, ancora una volta come un mantra. Furono duecentomila coloro che persero la vita sotto le bombe. Tra i superstiti c’era Hayashi, classe 1930, che della sua visione della tragedia ne fece un’opera d’arte. Arvigo interpreta i suoi ricordi attraversando un complesso, e mai facile, nugolo di stati d’animo. L’attrice, sola sul palco, si muove con destrezza fra i vari registri: rabbia, disperazione, perfino ironia, di un’adolescente diventata donna dopo aver convissuto per settantuno anni con il proprio “nemico interno”. La radioattività è nei suoi muscoli, nelle sue ossa e, come un altro “Io” nascosto, finisce per condizionare finanche i suoi pensieri, in balia delle correnti create dalla rassegnazione, prima, e dalla speranza, poi. Ce n’è tanta in quell’ultimo filo d’erba che la protagonista vede spuntare spontaneamente dalla terra. “È la forza della vita che nasce dove, si disse, non sarebbe cresciuta nemmeno la gramigna”. Antonio Marafioti
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La rassegna Una Stanza Tutta Per Lei è un evento dedicato alle donne che narra dell’universo femminile, realizzato da donne, dove le donne sono protagoniste e parlano di donne, ma destinato a tutto il pubblico. Tredici donne, tredici artiste di formazione solida e provenienze diversissime, si succederanno fino ad aprile sul palco del Teatro Due di Roma per raccontare e rappresentare l’essenza delle donne del terzo millennio. La rassegna si pone anche l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico verso il sostegno di Associazioni e Onlus che lavorano ogni giorno per aiutare le donne in difficoltà. Dal 21 al 24 gennaio 2016 il palco ha goduto della presenza e del contributo di Elena Arvigo, splendida e intensa attrice dalla grande sensibilità, che ha portato in scena i Monologhi dell’atomica, un omaggio a due voci importanti: Svetalana Aleksievich e Kyoko Hayashi. La Arvigo, ispirata dalla lettura del libro Preghiera per Cernobyl della straordinariaSvetalana Aleksievich, dipana un filo rosso che collega questa straziante testimonianza con I Racconti dell’ atomica di Kyoko Hayashi creando uno spettacolo che ricorda questi due tragici avvenimenti. In Preghiera per Cernobyl, la Aleksievich, attraversando per diversi anni la sua terra, la Bielorussia, ha raccolto le testimonianze e i sentimenti di chi ha vissuto in prima persona lo scoppio della centrale nucleare e i suoi terrificanti e mortali effetti. In Racconti dell’atomica, invece, Hayashi racconta della incredibile storia di Kyoko, una superstite di Nagasaki. Elena Arvigo, con grande sensibilità, tatto e dolcezza, ma anche con grandissimo dolore, riunisce le esperienze di due donne, lontane nel tempo (nemmeno troppi sono 40 anni poi, se si pensa che si parla di disastri nucleari), ma vicine nel dolore e nel destino; due sopravvissute. Una testimonianza storica di fondamentale importanza, perché troppo poco (forse mai) si parla di questi eventi immensamente tragici per l’intera umanità, avvenimenti così atroci e disumani che forse si preferisce sotterrarli come si sotterravano tutti gli effetti personali di coloro che venivano evacuati dalle zone limitrofe a Cernobyl. Eppure un argomento di un’attualità spaventosa. La stessa Aleksievich scrisse: “Pensavo di aver scritto del passato invece era il futuro”. Una testimonianza umana dall’impatto travolgente e devastante, quasi come gli stessi effetti di cui si parla. Qui, però, non si muore veramente, ma muore lentamente qualcosa dentro di noi; muore una certa sicurezza mista a fatalismo o a quella voglia di non pensare alla nostra caducità, al nostro essere umanamente così miseri, che ci fanno vivere con la falsa certezza che tutto quello che si racconta qui sia così lontano. Vediamo 25
le guerre lontane, eppure sono tutte intorno a noi; vediamo la miseria lontana, eppure è sotto ai nostri occhi; vediamo gente morire, ma non è la nostra gente, non siamo noi. I Monologhi dell’atomica sono un risveglio brusco, un richiamo drammatico alla realtà; una presa di coscienza drammatica e atroce che sconvolge l’anima. Non solo di morte si parla in questi monologhi. Anzi, gli splendidi testi sono testimonianza, oltre che di un passato prossimo tragico e disastroso, di un grandissimo amore. Le pagine della Aleksievich sono permeate di un amore totale, unico, esclusivo; un amore immenso che supera ogni paura, ogni barriera; un amore che resiste a tutto nonostante tutto; un amore che resta fino in fondo e che ha la forza di raccontarsi e nel racconto arriva a tutti. In Preghiera per Cernobyl si racconta dello scoppio della centrale nucleare e degli eroici pompieri che intervennero per spengere un incendio di proporzioni mai viste. Si racconta di una donna che fece di tutto per riuscire a stare vicino al marito, esposto a radiazioni 4 volte superiori a quelle considerate mortali, sacrificando se stessa e il proprio futuro per non sacrificare il proprio amore. Non si racconta di Cernobyl, però, o non solo: più che gli avvenimenti si raccontano le impressioni e i sentimenti di chi c’era, di chi ha visto, di chi ha subito. Al centro della storia è la persona: Cernobyl è raccontata attraverso le vicende umane, attraverso le storie delle persone che l’hanno subita, senza capirla, senza sapere, perché nulla, all’inizio, trapelava dagli organi di informazione. Due testi forti, potenti, travolgenti, che arrivano dritti al cuore togliendo il respiro, raccontati con la sensibilità, il tatto e la delicatezza di Elena Arvigo, strepitosa interprete dalla eccezionale espressività dialettica e mimica. Elena è dentro la storia e con enorme trasporto emotivo e lacerante dolore interpreta donne forti, sopravvissute all’orrore, sopravvissute al dolore, sopravvissute a se stesse. Elena è un’interprete sublime che si pone al servizio del testo, diventando un mezzo, uno strumento di divulgazione, veicolo attraverso cui la parola e il ricordo scorrono e testimone essa stessa. Monologhi dell’atomica è uno spettacolo non ancora prodotto che merita di trovare presto ampia diffusione. E’ la Storia che lo chiede.
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Monologhi dell'Atomica al Teatro Out Off Scritto da Camilla Fava.
Elena Arvigo è in scena al Teatro Out Off fino al 19 giugno con Monologhi dell’Atomica, uno spettacolo ispirato a due testimoni scomode: Svetlana Aleksievich, autrice di Preghiera per Cernobyl, e Kyoko Hayashi che raggruppò i suoi ricordi da superstite della bomba atomica nel libro Nagasaki. Elena Arvigo vuole ricordare questi due eventi fuori dall’ordinario in uno spettacolo capace di renderli nella loro dimensione più che attuale. Monologhi dell'Atomica permette infatti all’autrice, attrice e regista di continuare il suo lavoro sulle imperdonabili, “testimoni scomode e necessarie di questo nostro tempo”, dopo lo spettacolo, sempre al Teatro Out Off, dedicato a Anna Politkovskaja. In scena sono due donne al tempo di Nagasaki, al tempo di Cernobyl: raccontano luoghi diversi, lontani nel tempo e nello spazio, ma molto più vicini di quello che si crede. Elena Arvigo non ricostruisce storicamente il 9 giugno del 1946, non parla dei colpevoli, presunti, s’intende, in quanto una condanna ad oggi ancora non c’è, per l’esplosione del reattore nucleare in Ucraina il 25 aprile 1986, ma si concentra sulla dimensione umana della tragedia, sui sentimenti dei sopravvissuti, sulla storia profonda, interna, individuale di chi quegli avvenimenti li ha vissuti sulla propria pelle, nei muscoli e nelle ossa. Come quelle di Hayashi, classe 1930, sopravvissuta per settant’anni al suo 27
“nemico interno” che questi muscoli e queste ossa li divorava, trasformandosi in un altro Io in grado di condizionare non solo la vita, ma anche i pensieri più profondi della donna.
Elena Arvigo, sola sul palco, nell’interpretare dapprima Liudmila, moglie del pompiere Vasilij Ignatenko, chiamato per domare gli incendi ai reattori della centrale ucraina, e successivamente Hayashi, riesce a penetrare nei pensieri e nei ricordi delle due donne, muovendosi fluida tra i diversi registri che queste interpretazioni richiedono. Uno spettacolo forte, concreto, intimamente umano, che parla del nostro passato, ma anche e soprattutto del nostro presente, in cui tutto sembra essere sempre più avvelenato, pericoloso, infetto, dove non sembra esserci via di scampo “né sulla terra, né sott’acqua, né in cielo”. Camilla Fava
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