E F F E R I V I S TA F E M M I N I S TA . I T V I O LE NZ A
Questo progetto è stato elaborato con la Prof. Cristina Chiappini all’interno del Laboratorio di Graphic Design A.A. 2015/16 Accademia di Belle Arti di Roma Con l’attiva partecipazione di: Alex Correa Un’altra donna morta per la violenza privata e delle istituzioni Fonti:Libere Chiara Barbera In aula,compagno professore L’Unità” Eleonora Formiconi Una mostruosa violenza sessuale Impaginazione, ideazione e realizzazione di tutte le illustrazioni presenti Giada Semeraro Un bellissimo frutto magico Impaginazione, ideazione e realizzazione di tutte le illustrazioni presenti
efferivistafemminista
12 Una mostruosa violenza sessuale «Si tratta del più scandaloso mezzo di repressione della donna» Daniela Colombo
18 Un bellissimo frutto magico «I corridoi s’affollavano di donne di ogni razza e colore,di ogni età…» Julienne Travers settembre 1980
4 Un’altra donna morta per la violenza privata e delle istituzioni Le compagne femministe di Firenze e di Prato
8 In aula, compagno professore Il 10 ottobre si è aperto a Milano il processo a carico di Giuseppe Saracino, detto Poppi... Beatrice MÊgevand
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Un’altra donna morta per la violenza privata e delle istituzioni Le compagne femministe di Firenze e di Prato giugno 1977
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A Campi Bisenzio una nostra compagna, Rina Petruzzi, è stata uccisa dal marito con una coltellata. Questo è stato l’ultimo atto di una vita di violenze, sopraffazioni, e fatalismo a cui Rina aveva deciso di dire basta. Sposatasi a 16 anni, all’età di 36 si era trovata, dopo nove gravidanze, sei figli e tre aborti procurati all’insaputa del marito per il quale «metterla incinta» era un modo per tenerla soggiogata. Rina era pugliese, la sua prima battaglia è stata quella dell’emigra-zione. Sperava, in tal modo, di sottrarre se stessa e la famiglia ad un’ambiente dove la violenza e la repressione nei confronti della donna sono normali. Di fatto, a Campi, Rina al di fuori della solidarietà del movimento delle donne aveva trovato nell’ambiente e nelle istituzioni, meno evidente ma altrettanto radicata, la stessa violenza e la stessa repressione. Rina manteneva col proprio lavoro di inserviente la famiglia con-tinuando ad occuparsi della casa e della cura dei figli. Il marito la picchiava sistematicamente, era l’unico modo con cui cercava di imporsi ad una donna che diversamente da lui aveva capito tante cose della propria condizione ed aveva cercato attivamente di modificarla. Per lui era l’unica persona su cui scaricare la propria frustrazione. Ancora una volta una donna paga per i problemi di un uomo.
«Signora, ci pensi bene, con questa Quando Rina si decise a sporgere denuncia per i maltrattamenti continuati i carabinieri le dissero testualmente: «Signora, ci pensi bene, con questa denuncia, Lei firma la sua morte». Con lo stesso atteggiamento con cui poche ore prima che fosse uccisa, quando, sentendosi in pericolo, aveva chiesto protezione ai carabinieri, le era stato risposto: «Non possiamo metterle una persona apposta, se vuole la guardia del corpo spenda 500.000 lire e paghi un poliziotto privato», ed ancora: «Signora, lasci fare a noi con le buone maniere, ma Lei non torni qui ogni giorno, perché noi abbiamo mille cose a cui pensare».
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All’uscita della caserma, dopo la prima denuncia, il marito prima tentò d’investirla, poi la picchiò, tanto che fu necessario il ricovero in ospedale. Tutto questo sotto gli occhi dei carabinieri, che si limitarono a registrare il fatto alla Procura della Repubblica, guardandosi bene dall’intervenire. Nei giorni successivi, quindi, giunsero alla Procura della Republica ben tre notizie di reato: la denuncia di lei, quella dei carabinieri, il referto dell’ospedale. Da questo momento comincia un carosello tra carabinieri, Pubblico Ministero, giudici della separazione; ognuno di loro interviene solo nella propria «sfera di competenza». È così che una donna finisce per bussare a cento porte con la sensazione di elemosinare quello che è solo il minimo dei diritti: una vita umana giusta. «Signora, avete sei figli, sicché suo marito Le vuole bene…». Erano state le parole con cui il Presidente del Tribunale esperì il tentativo di riconciliazione, come se il concepimento irresponsabile soprattutto in una realtà di miseria, di violenza e di sopraffazione, come quella di Rina, fosse un «atto d’amore». È una volta di più incredibile vedere come la violenza, quando è all’interno della famiglia, diventi una «cosa normale» da risolversi con la .«comprensione», il «perdono». Non a caso il P.M. tende a colpevolizzare la donna quando le dice: «Signora, mi dica Lei cosa devo fare… perché sa… quando si tratta di reati familiari..,!» addossando su di lei tutta la responsabilità della persecuzione penale del marito. Cosa vuol dire tutto ciò, se non che tutti i problemi della famiglia debbono risolversi nel privato dove altro non può prevalere se non la violenza, la prevaricazione, la ghettizzazione nei ruoli, perché la famiglia rimanga istituzione chiusa e quindi sede degli assetti ideologici del sistema. È così che ognuna delle persone che è investita di potere in questi casi può scaricare la propria responsabilità sul superiore gerarchico, sul collega investito di un’altro aspetto della cosa. I carabinieri sulla magistratura, che non ha dato ordini precisi, il P.M, sul Giudice Istruttore che doveva emanare lo ordine di cattura per il marito, il G.I. sul P.M., che se era così urgente, doveva agire direttamente, il P.M. sui carabinieri, che non gli hanno segnalato la pericolosità del caso. È così che una donna finisce uccisa, senza che nessuno se ne senta
responsabile, ed è troppo facile dire che tutti possono esserlo. Una donna muore per la violenza privata e delle istituzioni. La burocrazia spersonalizza le responsabilità, si dice, ma la burocrazia è solo un paravento dietro il quale troppe persone direttamente, individualmente responsabili, stanno cercando di nascondersi. Ciascuna delle persone, organi delle istituzioni con cui Rina ha avuto contatto, poteva interrompere il treno della burocrazia e non lo ha fatto. Tutti sono responsabili. Alla violenza delle istituzioni si è aggiunta quella della stampa, della opinione pubblica, del prete che ha celebrato il rito funebre, voluto dai familiari. La stampa si è impossessata del fatto facendone esclusivamente un argomento scandalistico e di cronaca nera. I giornali lo hanno denunciato come un «dramma della gelosia» rendendo la donna responsabile della sua stessa morte. Le parole pronunciate dal marito quando è stato ripreso dai Carabinieri mentre cercava di fuggire sono state: «Dovevo farlo», mentre è stato chiaramente sottinteso che il vero motivo per il quale la donna si era allontanata da casa fosse stato «l’altro». I commenti riportati indicano nel marito la vera vittima «Povero ragazzo, una cosa così non la doveva proprio fare, ora si è rovin-to», insistendo sul fatto che nessuno sapeva dove Rina avesse trovato alloggio nel periodo in cui non poteva stare più a casa sua. Le compagne di Prato che l’hanno ospitata sanno bene come son stati duri i mesi durante i quali è stata costretta a nascondersi nelle loro case per paura delle rappresaglie del marito e con la preoccu-
pazione costante dei figli che il marito trascurava. Certo, l’opinione pubblica riesce forse a concepire che una donna possa lasciare il marito perché ha trovato un altro uomo, ma rifiuta violentemente che decida autonomamente della propria vita. Questa autonomia scuote violentemente la coscienza comune; il prete, durante il rito funebre ha commentato che un atto così grave, riferendosi all’omicidio, nasce da una profondissima sofferenza e per questo motivo può essere solo capito ma non giudicato; perciò dobbiamo rispondere con la solidarietà (!) e l’amore. Oggi, noi come donne dobbiamo interrogarci sul ruolo del movimento davanti a questi fatti. Rina non è stata uccisa come tante altre donne nel silenzio. Lei aveva già investito tutto il movimento della sua situazione nel senso più largo e più giusto, cioè dalle donne sue compagne di lavoro fino alle donne già organizzate nel movimento.Qual è la nostra responsabilità e quale deve essere il nostro impegno?Abbattere i muri del privato per denunciare tutte le violenze «normali» all’opinione pubblica perché non siano più normali, ma oggetto di continuo scandalo; Smascherare sempre le prese di posizione unilaterali della stampa, della polizia, della Chiesa e della magistratura, che sono sempre in difesa della vec-chia logica maschile; perché non sia più normale che la donna venga picchiata, che venga violentata all’oscuro nel letto coniugale, che venga sfruttata dentro e fuori casa, ma perché sia normale il diritto alla vita, alla gioia, alle scelte, a non essere proprietà privata di nessuno. v
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IN AULA COMPAGNO PROFESSORE Beatrice Mègevand Novembre 1980
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II 10 ottobre si è aperto a Milano il processo a carico di Giuseppe Saracino, detto Poppi, accusato di violenza carnale da una studentessa del II Istituto Tecnico per il Turismo. Eccone la cronaca. Per l’ “intellighenzia” radical-chic di Milano si è trattato di un ghiotto avvenimento un po’ piccante e mondano e di un perfetto spunto per conversazioni, pettegolezzi e squallidi toto-sentenze. Per le donne è stato un processo forse più amaro di tanti altri analoghi, un’esperienza triste e lacerante come sempre e più di sempre.1 fatti: ai primi dì giugno Simona R., una ragazza romana di 19 anni da pochi mesi a Milano, dove vive con il fidanzato medico, ultimo anno dell’Istituto per il Turismo, denuncia Giuseppe “Poppi” Saracino, suo professore di geografia, 33 anni, un passato di “leader” del “68 e un presente fatto di un impegno politico molto meno intenso e abbastanza confuso. Alle spalle, una fama di grande “scopatore”, ma anche di persona violenta, strafottente, un po’ megalomane. La denuncia-querela presentata da Simona parla di stupro e di lesioni su tutto il corpo. Simona prende subito contatto con l’UDI per essere assistita da un avvocato e chiederà poi di essere appoggiata dalla presenza delle donne al processo. La stampa milanese sì scatena), il “giòco delle parti” è cominciato, Saracino è di nuovo un eroe, come ai tempi del processo Trimarchi. Un eroe positivo o negativo, a seconda dell’ottica da cui ci si pone. Poi c’è il mandato di cattura, la sua latitanza, il silenzio in attesa del processo, fissato per il 10 ottobre. Alcuni giorni prima, Saracino (la cui “latitanza” si era svolta quasi sempre a Milano, non esitando a mostrarsi al Festival dell’Unità e altrove) annuncia la sua costituzione la mattina del processo. E così avviene: in un’aula gremita da centinaia di donne (molte altre devono accontentarsi di stare nell’atrio, controllate a vista dalla polizia), perlopiù studentesse del II Turismo, da avvocati (spesso reduci del ’68, ora “democratici e garantisti”, ma spudoratamente partigiani di Saracino per solidarietà di maschi), da amici e amiche di Saracino (quasi tutti nomi altisonanti della borghesia milanese), da giornalisti e fotografi che lo bersagliano per oltre mezz’ora di flash, Saracino, manette ai polsi, fa la sua comparsa nella gabbia degli imputati. Nonostante quanto scriveranno all’indomani i giornali, e quanto forse auspicato dalla difesa dell’imputato (due grossi nomi del foro milanese, Contestabile e Isolabella, quest’ultimo non certo in odore di democraticità e garantismo, se mai molto vicino all’Arcivescovado) per poterlo meglio vittimizzare, il suo ingresso in aula è accolto dal più totale silenzio. Il processo si apre con la richiesta di UDÌ, MLD e Collettivo Donne II Turismo di costituirsi parte civile, rappresentate dagli avvocati Bianca Guidetti Serra e Giulia Zambolo. La richiesta viene rapidamente respinta e si passa subito all’interrogatorio di “Poppi” Saracino: è la prima volta che dà la sua versione. Ha avuto 4 mesi di tempo per studiarsela e adeguarla, fin nei minimi particolari, al racconto di Simona. Ma Saracino sembra aver scelto una linea “suicida”: il tono gronda prosopopea, a tratti è anche maleducato e arrogante; il linguaggio sembra rivelare pessime letture, di romanzetti porno-rosa “fin-de-siècle” e degno più di un fumetto che di un professore di scuola media secondaria, con un passato di rivoluzionario: “La signorina R. mi lanciò uno sguardo lungo, profondo e inequivocabile… io ebbi una sbandata, arrossii…»; «la signorina mi disse che prendeva la pillola e che viveva con il fidanzato…tracciò un quadro della sua emancipazione che mi turbò». I particolari erotici si sprecano, sempre pronunciati con arroganza. Il professore dichiara di essersi fermato in terza fila per dieci minuti in una delle strade con più traffico a fare il “petting” con la “signorina R.” ma di non aver osato parcheggiare la macchina «per paura che si potesse creare una situazione imbarazzante». Poi, a casa di lui, «l’amore fatto in modo travolgente, signor Presidente: sul tappeto, sulla moquette, sul divano, in piedi, sul letto».
“Le si rimprovererà persino di avere resistito per un’ora, subito dopo però affermando che vi è violenza solo laddove vi è resistenza.”
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“La dignità di Simona è stata calpestata due volte, la prima da chi l’ha stuprata, la seconda dalla stampa quasi unanime, a sinistra come a destra nel distruggerne la credibilità.”
Prima dell’accoppiamento, «una gran manata sulle natiche» (per giustificare le lesioni con l’impronta della mano rilevate alla visita medica). Il professore non tralascia gli approcci: «Lei mi disse “Professore la penso sempre e quando la penso mi viene la tachicardia”; io le risposi “Anch’io la penso signorina, per lo più nuda”; poi ci misimo (sic!) sul divano». Il “lei” è di prammatica e il professore sembra non accorgersi del ridicolo di un “amore travolgente” vissuto e parlato dandosi del “lei”. D’altra parte deve pur giustificare il fatto che, dopo la violenza, Simona gli lascerà sul letto un mucchio di libri buttati lì con rabbia e un biglietto: «Ecco a che cosa serve la sua cultura». Poi è la volta di Simona, tranquilla, serena, sommessa, l’opposto di lui. La sua deposizione conferma punto per punto la denuncia fatta ai primi di giugno, le “avances” del professore, sulle prime gentile e corretto, poi il caffè a casa sua, il tentativo di baciarla, il rifiuto di lei, la violenta reazione di Saracino e tutto quello che segue. In aula si sprecheranno le solite umilianti considerazioni sul collant e il vestito intatto (ma era stata Simona stessa a consegnarli spontaneamente al giudice istruttore),sul fatto che le lesioni erano “compatibili con un rapporto violento, ma consensuale”. Le si rimprovererà persino di avere resistito per un’ora, subito dopo però affermando che vi e violenza solo laddove vi è resistenza. Alle undici di sera la sentenza, attesa da un pubblico sorridente di amici di Saracino, convinti che il professore se la caverà con un’insufficienza di prove: ci sono grossi nomi dell’editoria, dello spettacolo, del mondo universitario, anche della moda. In una aula in cui nessuno sembra aver creduto, nel corso di quella massacrante giornata, alla verità di Simona, e meno che tutti i giudici, viene pronunciata la condanna di Saracino a quattro anni dì reclusione. Impassibile lui, stravolti gli avvocati, improvvisamente invisibili gli amici, stanca, distrutta e per niente trionfante Simona, che dirà più dardi: «sono solo contenta che sia stata fatta chiarezza; di essere stata creduta, il resto non mi interessa». L’indomani i giornali si scatenano e sfornano l’immagine dell’eroe: Saracino è una vittima, la condanna è una condanna politica (Lotta Continua), le donne hanno fatto, pressioni sul tribunalel’atmosfera era “isterica” in aula e fuori, le femministe hanno insultato Saracino, «a dormire su una branda, in una cella di
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San Vittore» {Corriere della Sera), « nemmeno a un ladro vengono dati quattro anni» (sempre il Corriere, come se rubare fosse più grave che stuprare). Il fondo viene toccato dal cronista del Giorno, Benito Sicchiro, che definisce «anomalo» il processo Saracino per violenza carnale: «Non c’è stata l’azione vile del gruppo; non ci sono stati segni sulla vittima che non potessero essere attribuiti a un rapporto sessuale normale “violento”; non ci sono stati testimoni richiamati dalle urla; non ci sono stati abiti e biancheria intima strappati: vestito, collant, mutandine, sono stati sciorinati, intatti, in aula. C’è stato invece un certificato medico stilato dai colleghi del fidanzato di Simonetta… E c’è stata l’ampia partecipazione dei movimenti femministi che hanno fatto di Simonetta un simbolo. E un clima che gli avvocati della difesa, nel difficile compito di proteggere il loro cliente, hanno definito di “isteria”». E’ questo forse il pezzo più vergognoso e pieno di falsità che sia stato scritto su questa drammatica vicenda. All’indomani del processo, Saracino è diventato una vittima della “giustizia delle femministe” che, improvvisamente onnipotenti, sarebbero addirittura riuscite con la loro sola presenza a intimidire il tribunale tanto da far condannare un Saracino innocente. La pietà si spreca per il professore, costretto a stare in galera «come un delinquente comune» (sempre Benito Sicchiero sul Giorno). Ma nessuno sembra ricordarsi più del dramma di Simona, costretta per una giornata intera ad affrontare la curiosità morbosa e 1’atmosfera ostile del tribunale, ad ascoltare le volgarità della deposizione di Saracino, a ripetere il racconto della violenza, continuamente sollecitata dal presidente (che più di una volta l’ha chiamata “imputata”, con un ‘lapsus freudiano” che certo non. può far pensare a connivenze con il movimento femminista) e dalla difesa di Saracino a parlare “a voce alta”. Nessuno sembra più capire l’inevitabile sofferenza che tutto questo le ha provocato e nessuno pare interrogarsi sul motivo per cui una donna giovane, bellissima, con una serena vita sentimentale e sessuale, avrebbe dovuto sconvolgere la sua vita e affrontare l’umiliazione di un processo inventandosi una violenza mai esistita. La dignità di Simona è stata calpestata due volte, la prima da chi l’ha stuprata, la seconda dalla stampa quasi unanime, a sinistra come a destra, nel distruggerne la credibilità.
La condanna di Saracino non è stata una condanna esemplare, né tantomeno politica, perché Saracino non rappresenta più nessuno, ormai, all’infuori di se stesso. Saracino, e chi si lamenta oggi della pesantezza della condanna dovrebbe tenerne conto, ha avuto il minimo della pena possibile. Gli sono state concesse le attenuanti prevalenti sulle aggravanti. Con i reati che si ritrovava, nessun giudice poteva condannarlo a meno di quattro anni. Comunque non li farà, perché sicuramente gli verrà concessa la libertà provvisoria. Resta l’amarezza di un processo che ancora una volta, con i suoi strascichi, ha visto sconfitta la dignità della donna. E se la giustizia (come la bellissima requisitoria del PM. ha dimostrato) sembra volersi adeguare ai tempi mutati, la stampa ha dimostrato ancora una volta il suo enorme potere nel manipolare l’informazione e la verità, facendo un processo “a latere”, certo molto più crudele di quello celebrato dal tribunale. Resta anche il fatto che, come hanno scritto all’indomani del processo il Collettivo Donna II Turismo, l’UDI e 1’MLD in un comunicato alla stampa, «il dover ricorrere a un processo per difendere la propria dignità e affermare il proprio diritto alla libertà sessuale è sempre un dramma per l’individuo e una sconfitta per tutta la società». V
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Una mostruosa
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“Si tratta del più scandaloso mezzo di repressione della donna”
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Nell’agenda dei lavori della Conferenza dell’ONU a Copenhagen e nei documenti sulla salute della donna preparati per la discussione, non figura la voce: mutilazioni sessuali. Da più parti infatti si è sottolineata l’ inopportunità che donne occidentali si occupino di problemi che riguardano le tradizioni di società a loro molto lontane. Anche se possiamo comprendere il bisogno dei popoli africani di riaffermare la dignità della propria tradizione culturale, non possiamo essere consenzienti quando questa serve a giustificare barbare mutilazioni della sessualità della donna africana quali la clitoridectomia e la infibulazione. Quando più di trenta milioni di donne vengono private della loro sessualità in nome della tradizione, riteniamo sia dovere di ogni donna che ne venga a conoscenza denunciare il fatto all’opinione pubblica e premere affinché si ponga fine a tale “tradizione”. Anche se l’origine delle mutilazioni sessuali si perde nei tempi, sono chiari i motivi che le hanno originate: si tratta del più scandaloso mezzo di repressione della donna, tendente a dominarla completamente togliendole ogni forma di piacere sessuale. In nessuna di queste società è il maschio ad essere mutilato: eppure se gli si tagliasse il glande le sue capacità riproduttive rimarrebbero intatte. Come si può pensare che siano le stesse donne di questi paesi a prendere coscienza del grave danno fisico e psicologico che si opera nei loro confronti, quando volutamente vengono mantenute nell’ignoranza? E’ noto poi che, nel caso della donna del Terzo Mondo, alla quale è delegato il ruolo di perpetuatrice del patrimonio culturale tradizionale, l’atteggiamento di rinuncia, di sottomissione, di passività che viene a coincidere con il canone sociale del comportamento femminile, dà vita ad una vera e propria cultura della sua marginalità; vale a dire ad un sistema di valori e ad un codice di comportamento che premiano la rinuncia e la sottomissione e condannano come falsi temi e falsi obiettivi quelli che potrebbero essere ottenuti con un atteggiamento di tipo diverso. Oggi le mutilazioni sessuali vengono effettuate anche negli ospedali, con anestesia locale. Mentre si evitano in tal modo le infezioni e la morte, non mutano gli effetti fisici, sociali e psicologici che la mutilazione ha sulla donna.
In tal modo, l’organizzazione ospedaliera di tipo moderno, invece di scoraggiarla, assicura la continuazione della pratica che certamente non ha più niente a vedere con le tradizioni culturali. Si tratta di vere e proprie operazioni chirurgiche effettuate per castrare bambine ignare e non consenzienti. “Quasi tutte le tradizioni africane - scrive giustamente Fran Hosken, che da anni sta conducendo una battaglia contro le mutilazioni sessuali delle donne - sono state abbandonate. I leaders africani hanno adottato per se e per le loro famiglie stili di vita occidentali. E tutti i governi africani, senza distinzione usano sistemi occidentali. Solo le mutilazioni sessuali vengono mantenute in nome della tradizione. Nel febbraio del 1979 si è tenuto a Kartum (Sudan) un seminario organizzato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sulle “tradizioni che hanno rilevanza per la salute della donna e del bambino”. Come leggiamo su WIN NEWS, il seminario concluso con quattro raccomandazioni condivise da tutti i delegati:
• adozione di chiare politiche nazionali per l’abolizione della circoncisione femminile; • delle misure atte ad informare il pubblico, inclusa l’educazione sanitaria; • creazione di commissioni nazionali per coordinare e seguire l’attività degli organismi preposti, inclusa, quando necessario, l’emanazione di leggi speciali che proibiscano la circoncisione femminile; a tutti i livelli, con particolare attenzione alla circoncisione femminile. Fino ad oggi, nessuna agenzia di sviluppo, internazionale o bilaterale, ha seguito queste raccomandazioni. Nessun programma sanitario a tal fine è stato varato. Neppure l’UNICEF, durante l’anno internazionale del bambino, ha riconosciuto che le mutilazioni genitali e sessuali delle bambine rappresentano una violazione dei diritti umani. E che dire delle Chiese? Papa Woityla si è guardato bene dal parlarne durante il suo recente viaggio in Africa… o forse non ne sa niente. Come la maggior parte della gente. Alla Tribuna di Copenhagen ci sarà un gruppo di lavoro su questo tema, coordinato da WIN NEWS, al quale parteciperanno diverse donne provenienti da paesi africani che porteranno la loro testimonianza diretta. Awa Thiam, una senegalese che ha scritto un bellissimo libro “La parole aux negresses” (naturalmente non tradotto in italiano, cfr. EFFE, settembre 1978) ci invita a scrivere, a parlare, ad aiutare queste donne con l’informazione. Ed è quello che noi abbiamo intenzione di fare: per prime denunciamo all’opinione pubblica il fatto che anche negli ospedali italiani si praticano queste mutilazioni. Non dimentichiamo che l’esperienza dimostra come governi veramente progressisti possano spazzare via rapidamente tradizioni millenarie, se soltanto lo vogliono. In Cina per millenni si sono fasciati e mutilati i piedi delle donne: tale “tradizione” è cessata in un brevissimo periodo grazie alla azione del governo rivoluzionario.
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Intervista ad un ostetrico e un chirurgo...democratici Hai mai operaio bambine africane di infibulazione o clitoridectomia? di che nazionalità erano? Quanti anni avevano? R. 1 — No… non avrei potuto farlo. Me l’hanno chiesto, ma ho tentato di dissuadere la madre. Erano somale. R. 2 — Si, ho fatto due infibulazioni a delle bambine, di 10 e 9 anni, somale. Chi ha portato le bambine? R. 2 — La madre. Non ti sei stupito che pur vivendo ormai a contatto con un mondo diverso, con tradizioni e civiltà diverse queste madri ancora chiedano per le figlie l’applicazione di queste “tradizioni” barbare? Inoltre è probabile che molte di loro non ritorneranno mai nei loro paesi di origine. R. 1 — Mi sono stupito, indignato no. Ho cercato di ragionare un po’ con la madre, per capire e anche per spiegare che attaccarsi a tradizioni ormai abbandonate quasi ovunque era solo un piegarsi, un sottomettersi e non un mantenersi integrati in tradizioni di cui ormai neanche gli uomini delle loro nazioni vogliono più il rispetto. R. 2 — Mi sono un poco stupito, perché non ero mai stato messo di fronte al fatto, e in realtà ne avevo sentito parlare molto poco. Non ci avevo mai riflettuto, dal punto di vista della donna. Ma hanno chiesto, l’ho fatto, pensando che tanto avrebbero comunque trovato qualcuno che lo facesse. Questo non è accettabile, avrai pur avuto un momento per pensare alle conseguenze, al contesto in cui si situa oggi questa pratica, alla crudeltà di queste tradizioni. Non significa niente per te il fatto che questo tipo di intervento abbia lo scopo di privare la donna della sua sessualità, delle sue possibilità di partecipare all’atto sessuale con piacere e con gioia? R. 2 — Se ci penso, capisco che dietro alla tradizione c’è in realtà un affermazione di potere da parte dell’uomo e della loro società, ma lì per lì non ho riflettuto. Comunque, se non ero io era un altro. Che sentimenti hai avuto davanti alla richiesta? Hai mai visto per la tua pratica medica delle donne infibulate o clitoridectomizzate? Hai avuto difficoltà tecniche? Non hai avuto disagio per la mutilazione che era stata loro inflitta? R. 1 — La mia prima reazione è stata di rifiuto, e anche di imbarazzo. Lo scontro di due culture, in cui certamente la mia posizione di “maschio” che preferisce una donna che partecipa mi faceva senza esitare allinearmi contro questa pratica. Ma provavo anche un certo imbarazzo nel tentare di dissuadere la madre, usando argomenti che rischiavano di ferirla. A lei era stata praticata questa mutilazione, mettere in discussione la possibilità di operare la figlia significava costringere la madre a rimettere in discussione sé stessa. Ho avuto la sensazione che l’ostinazione e l’insistenza della madre potessero dipendere anche da una occulta gelosia, da un desiderio di negare alla figlia quello che lei non aveva avuto.
R. 2 — Non ho avuto reazioni particolari. Forse sono rimasto un po’ disorientato, ma te l’ho detto, solo adesso ascoltando rifletto alle implicazioni di queste richieste. Tecnicamente ci sono problemi per far partorire o abortire, o comunque sottoporre ad interventi ginecologici donne infibulate? R.2 — Certo, occorre disfare la sutura, per evitare lacerazioni dei genitali esterni, e questo può essere tecnicamente difficile. Cosa penseresti di una pratica di escissione del glande all’uomo? Le sue facoltà riproduttive resterebbero intatte? Lo faresti quest’intervento? R. 1 — Ogni volta che ho fatto questo intervento per ragioni chirurgiche (tumori) sono stato male, nella pelle… a un uomo praticare una mutilazione di questo genere ad un altro uomo scatena certo emotività ben specifica e sensazione dì malessere. Per quanto riguarda la funzione riproduttiva è interamente conservata. R. 2 — Mi vengono i brividi… comunque siccome sono ginecologo il problema tecnico non mi si pone. Ma non ti vengono i brividi pensando alla clitoridectomia! R. 2 — Mi vuoi mettere in difficoltà? Se la devo fare per ragioni mediche la farò credo in modo abbastanza “asettico”. Per altro non la farai mai per altre ragioni. Hai idea di quante siano le donne mutilate al mondo? R. 1 — No. R. 2 — No. Quando studiavi ginecologia hai mai sentito parlare di mutilazioni sessuali della donna? R. 1 — Si, certo. Ma la mia posizione era ben chiara… rifiuto, incomprensione, indignazione. R. 2 — Si, ma non ci ho riflettuto sopra. Sei al corrente di un seminario organizzato dall’OMS nel febbraio del 1979 e della raccomandazioni firmate da tutti i delegati dei vari stati contro la circoncisione femminile? R.1 — No. R. 2 — No. Dopo questa nostra conversazione, infibuleresti ancora delle bambine africane? Soprattutto pensando che non hanno nessuna possibilità di decidere, ma che ancora subiscono una violenza giustificata da tradizioni fortemente contro la donna? R. 2 — Adesso certamente non più. Se ci penso mi stupisco di non aver riflettuto, in realtà io sono rispettoso dei diritti delle dorme e credo di essere abbastanza dalla loro parte…Salvo che sei obiettore di coscienza…! R. 2 — Questo non c’entra… ora che mi hai fatto vedere l’aspetto violento della pratica, mi devo certo ricredere sulla giustificazione che mi ero dato… no non lo farei davvero più. v
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UN BELLISSIMO FRUTTO MAGICO « I corridoi s’affollavano di donne di ogni razza e colore, di ogni età… »
Julienne Travers settembre 1980
In luglio di quest’anno sono successi dei fatti che avrebbero dovuto suscitare la solidarietà delle donne in tutto il mondo: in Iran alcune donne sono state massacrate a colpi di pietra come pena per aver trasgredito la legge del Corano, la quale ritiene il corpo della donna e quindi la sua sessualità, proprietà del marito; in India le donne hanno manifestato a Nuova Delhi contro il crescente pericolo di stupro, perpetrato ora persino dalla polizia; e nell’Unione Sovietica tre donne sono state espulse per il “delitto” di aver pubblicato una rivista che denuncia, attraverso le esperienze personali, la vita di oppressione quotidiana della donna russa. Quasi contemporaneamente a questi fatti sono venute a Copenhagen circa ottomila donne provenienti da tutti i cinque continenti per partecipare ad un convegno sulla condizione della donna. Come si spiega che da un convegno simile non è uscita nessuna dichiarazione di solidarietà e di disdegno per la bieca oppressione della donna rispecchiata in questi avvenimenti?
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arebbe troppo facile rispondere che, anche se il convegno del Forum doveva essere alternativo a quello ufficiale delle Nazioni Unite, erano presenti gli stessi elementi per impedire quello che formalmente era lo scopo degli incontri: discutere sulla discriminazione ancora subita dalle donne e formulare proposte concrete per abolirla. Sarebbe troppo facile, perché questi elementi cioè donne e uomini motivati soltanto dall’interesse a portare avanti la politica ufficiale di un Paese (Iran, Iraq, ecc.) o di un gruppo (la “quarta intenazionale” e l’O.L.P., per esempio) costituivano una piccola minoranza al Forum, ed anche se ben organizzati e decisi ad usare il convegno come piattaforma per le loro idee, non avrebbero potuto bloccare la volontà di migliaia di donne. Difatti, questa volontà mancava o non trovava sbocco per esprimersi. Un esempio clamoroso è stato l’ enorme ritratto di Khomeini, posto in uno dei corridoi del convegno, davanti al quale alcune iraniane - vestite in una versione modificata del chador e spalleggiate da uomini iraniani — facevano a turno a spiegare ad una folla di donne sbalordite che Khomeini è “il liberatore delle donne”. E quando una brasiliana diceva del ritratto “strappiamolo”, una tedesca ha risposto, “ma non possiamo imporre la nostra cultura; se le iraniane vogliono Khomeini, dobbiamo rispettare la loro scelta”. Però se qualcuna, chiedeva, invece, delle donne iraniane che non vogliono Khomeini, che manifestano nelle strade di Teheran contro l’imposizione del chador e vengono licenziate per il loro rifiuto di portarlo, la risposta di una delle iraniane veni-
I corridoi s’affollavano di donne di ogni razza e colore, di ogni età, piccole ed alte, vestite a volte con tessuti così colorati e belli da rivaleggiare con gli uccelli della foresta tropicale.
va secca “non possiamo permettere ad una minoranza di danneggiare la maggioranza”.E il ritratto di Khomeini, con il suo sguardo di patriarca astioso e fanatico, non veniva strappato. La folla si disperdeva e gli uomini iraniani sorridevano. La mancata reazione in questo caso non può essere attribuita al semplice opportunismo di chi trova un facile alibi per non essere coinvolto quando un regime terroristico proclama sia la fedeltà di tutti i sudditi che il maleficio di pochi deviati o stranieri che non fanno i fatti loro. C’era, credo, invece un disorientamento psicologico di fondo che colpiva quasi tutte le donne al convegno. Le danesi avevano fatto degli sforzi immani per dare un’organizzazione che permettesse ad ogni donna di seguire il suo interesse specifico. Per elencare solo alcuni temi del convegno: l’evoluzione delle teorie femministe; “networking” tra donne di diversi Paesi, ossia la diffusione di informazione e di notizie importanti per formare legami operativi; il lesbismo; metodi efficaci per ottenere credito e per creare nuovi tipi di lavoro remunerato in ambienti rurali; la donna e la religione; la prostituzione; la donna e la prigione; la mutilazione dei genitali femminili; la donna e l’arte; violenza contro la donna nella famiglia; In tutto c’era una media di centocinquanta “workshops” (gruppi di discussione) al giorno! Era peggio della proposta di Salomone di dividere il bambino in due. Ogni mattina ci si trovava di fronte ad una scelta angosciosa: andare ad un gruppo significava escluderne un altro.
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E naturalmente un tale numero di “workshops” significava una logistica assai complessa, con le diverse stanze situate nel labirinto di corridoi dell’edificio in cui il convegno aveva luogo. A volte ci si perdeva completamente in questo labirinto, e con disperazione si finiva per partecipare ad un gruppo che non c’entrava affatto con la scelta originale. Ma la frustrazione ancora più grossa era il desiderio di stabilire dei contatti personali più profondi, di capire - nei limiti del possibile - la realtà delle altre; invece, ci si sentiva ostacolate dal fatto che tra un “workshop” e l’altro c’era poco o niente tempo, e alla fine di una giornata estenuante ognuna ritornava al proprio alloggio. Anche se è vero che questo desiderio è sempre stato presente in qualsiasi convegno di donne in altri anni, a Copenhagen era come un bellissimo frutto magico pendente dal ramo di un albero, che si guardava con meraviglia ma impossibilitate a raggiungerlo. I corridoi s’affollavano di donne di ogni razza e colore, di ogni età, piccole ed alte, vestite a volte con tessuti così colorati e belli da rivaleggiare con gli uccelli della foresta tropicale. Un gruppo di donne nere, altissime con le spalle larghe ed i capelli pettinati in tante treccioline lunghe fermate con delle perline, ti toglievano il fiato con la loro bellezza e ti portavano indietro nel tempo fino alle leggendarie amazzoni del sedicesimo secolo nel regno di Benin sulla costa occidentale dell’Africa. Ci si sentiva spettatrici e partecipanti, nello stesso tempo, di una passeggiata di tutte le donne del mondo, con una voglia matta di fermare qualcuna tra la folla per conoscerla. A volte si riusciva a scambiare, due
Ci si sentiva spettatrici e partecipanti, nello stesso tempo, di una passeggiata di tutte le donne del mondo..
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parole nella mensa, per esempio, mentre si beveva un caffè ma poi bisognava affrettarsi per arrivare al “workshop”. E nella confusione del labirinto di stanze e del grande numero di partecipanti, non si vedeva più la donna filippina che ti aveva fatto vedere la fotografia delle sue tre bambine, o la donna keniota che ti aveva parlato della sua nonna materna dal carattere forte, che non ha fatto “circoncidere” sua figlia. Il senso di disagio, di disorientamento creato, da questa situazione ambientale e psicologica è stato registrato da tutte le donne con cui ho potuto parlare. Inoltre era come fossimo tutte affette da un grosso choc culturale: l’impatto dell’incontro era quasi troppo forte, troppo stimolante, un’esperienza quasi da stordire. Tutto questo ha contribuito a rendere più difficile di superamento delle nostre differenze per arrivare ad una sintesi dei punti fondamentali di lotta comune; ed ha bloccato le nostre reazioni quando si dovevano affrontare aspetti diversi da quelli dell’oppressione nella propria cultura. Questa è una delle ragioni, quindi, per cui si accettava - per la maggior parte di noi in silenzio - la tesi di certe donne africane, secondo la quale asportazione della clitoride delle bambine, in alcuni paesi dell’Africa, non è una mutilazione, ma un rito di circoncisione, un costume culturale come quello per i bambini maschi. Solo poche persone hanno protestato che un tale costume, dove la bambina subisce un intervento estremamente doloroso e pericoloso, destinato spesso ad avere delle ripercussioni molto gravi sulla sua salute, equivarrebbe per il bambino maschio alla castrazione! C’era un clima di strano pudore in cui si tacevano le conseguenze dirette di questa mutilazione, e così si evitava anche di discuterne i motivi politici: l’asportazione della clitoride toglie alla donna la sua capacità di godere e quindi, costituisce un modo di assicurare all’uomo la verginità e la fedeltà della moglie, perché senza un organo di piacere è più probabile che essa si sottometta alla legge della proprietà sessuale. Inoltre, ci è stato richiesto, in maniera più o meno esplicita, di non parlare troppo della “circoncisione” delle donne, perché gli uomini al potere nei Paesi in questione potrebbero irrigidirsi all’improvviso contro chi tenta di informare le donne sugli aspetti negativi, igienici, e sull’“inutilità” dell’intervento. Paura comprensibile; però rispecchia la vecchia speranza, rivelata poi vana, che se la donna non dà troppo nell’occhio tutto andrà bene. Come nel caso di chi ascoltava muta le iraniane al convegno, l’errore di base è stata una mancata analisi, comprensione della cultura patriarcale, i cui fondamenti sono comuni per tutte le donne, anche se si manifestano in forme diverse; perciò questa cultura va rifiutata in qualunque modo si esprima, e non si può mistificarla come una tradizione più o meno accettabile perché storicamente “accettata” dalle donne. Purtroppo la poca chiarezza su questo punto è stata manipolata da alcune donne per contestare gli “atteggiamenti razzisti e imperialistici” di chi si crede “superiore” e vuole interferire nelle
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usanze culturali delle altre. (Però, quando la delegata iraniana alla conferenza dell’ONU ha sollevato, in un intervento con la stampa, la questione dello sfruttamento della donna occidentale attraverso la pubblicità dei mass-media e l’industria dei cosmetici, nessuno l’ha incolpata di interferire nella cultura e nei costumi di altre donne). Se, poi, questa accusa di “imperialismo” viene da donne occidentali, si rischia veramente di cadere in una specie di razzismo alla rovescia: nessuna di queste donne accetterebbe l’obbligo di mettere il chador e le verrebbero i brividi all’idea di essere sottoposta all’asportazione della clitoride, ma pare che per le donne non occidentali tutto ciò vada bene, perché queste ci sono abituate, anzi probabilmente li desiderano.Per non parlare delle donne di varie correnti di sinistra aderenti alla linea di: se un Paese è “rivoluzionario”, non va criticato, e soprattutto non va criticato quando si tratta di questioni di secondaria importanza, come, per esempio, la vita della donna. (Comunque quando il regime iraniano ha cominciato la repressione dei gruppi della sinistra, con la giustiticazione che le idee di questi ultimi erano in contrasto con la cultura del popolo, i compagni non hanno esitato ad obiettare, e non si sono preoccupati che tale critica potesse apparire come una presuntuosa interferenza nei costumi tradizionali degli iraniani). Sarei curiosa di sapere se queste stesse donne fossero dell’opinione; spesso espressa nell’Italia meridionale, che delitto d’onore non va abolito perché fa parte del costume. Tuttavia, malgrado tutte le aspettative non soddisfatte, il convegno ha rappresentato un momento di grande importanza per il movimento delle donne. Abbiamo iniziato un dialogo a livello mondiale, e nonostante tutte le nostre differenze si sentiva nell’aria, si intuiva negli sguardi di tante, la coscienza della nostra somiglianza: una somiglianza che nessuna differenza poteva cancellare. Cosa sorprendente è stata l’assoluta naturalezza con cui le donne del Terzo Mondo hanno adoperato il termine “sorelle” mentre parlavano al convegno, a differenza delle donne europee, le quali appaiono spesso imbarazzate ad usare questa parola di solidarietà e di affetto. Inevitabilmente il divario nelle condizioni economiche del mondo, l’appartenenza ad un mondo urbano o rurale, il peso ancora sentito del razzismo, e il
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neocolonialismo fanno sì che spesso abbiamo ancora esigenze, bersagli immediati da colpire e tempi diversi. Ma il commento di un giornale di Copenhagen “quando le donne hanno fame e non hanno acqua, non hanno certo bisogno del femminismo” ha il solo scopo di negare gli obiettivi finali che abbiamo, invece, in comune. Se manca la prospettiva femminista, qualunque cambiamento sarà orientato unicamente verso il miglioramento della condizione maschile. Questo è risultato chiaramente dai discorsi sulle nuove tecniche di sviluppo nel Terzo mondo, dove le donne vengono sempre di più emarginate dalle sfere produttive e dove, soprattutto, vengono escluse dalla nascente economia monetaria. Il femminismo, quindi non è una torta riservata alle donne occidentali; è un insieme di concetti e di valori tendenti alla creazione di una società diversa, per la cui realizzazione è basilare il cambiamento dell’attuale ruolo sessuale, produttivo e riproduttivo della donna. Due riflessioni sono maturate dopo Copenhagen: Anzitutto, modificare la vita della donna significa capire che oggi i tre aspetti sessualità, produzione e riproduzione non sono mai scindibili: opprimere un aspetto porta fatalmente all’oppressione degli altri aspetti. Il convegno ha messo in evidenza sia la necessità di ribadire questa stretta relazione che l’esigenza di rivalutare l’importanza della sessualità (nel suo senso più ampio) relegata da molti partecipanti dal Terzo mondo, è doveroso riconoscerlo, al secondo piano. E’ difficile spiegare perché si minimizza la sessualità se pensiamo ai tanti momenti storici in cui l’oppressione sessuale si è rivelata interdipendente con gli altri aspetti del ruolo femminile: per prendere un esempio solo, ì tipi di produttività aperti alla donna sono sempre stati fortemente condizionati dalla misura in cui la donna viene segregata per controllare la sua sessualità.Inoltre il convegno ha dimostrato che abbiamo bisogno di comprendere con più chiarezza che facciamo la stessa lotta anche quando prende forma diversa che possiamo e dobbiamo reagire con solidarietà tutte le volte che la cultura patriarcale aggredisce la donna. v
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“Dalle tutto il tuo amore.”