Medialogando 2017-2020

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MEDIALOGANDO 2017>2020

A colloquio con Walter Mariotti, Diamante d’Alessio, Carlo Cavicchi, Andrea Monti, Padre Antonio Spadaro, Don Antonio Rizzolo, Marco Damilano, Alessandro Barbano, Luciano Fontana, Federico Ferrazza, Enrico Mentana, Emilio Giannelli, Franco Bechis, Sergio Luciano, Gennaro Sangiuliano, Fabio Tamburini, Ivan Zazzaroni, Virman Cusenza, Maurizio Belpietro, Simone Marchetti, Luca Mazzà , Annalisa Monfreda, Luigi Contu, Mario Sechi, Agnese Pini, Claudio Cerasa, Marco Tarquinio, Maurizio Molinari, Giuseppina Paterniti, Andrea Monda, Giuseppe De Bellis, Franco Locatelli, Massimiliano Montefusco, Gianluca Teodori, Fabio Insenga, Giorgio Baglio, Stefano Feltri, Mattia Feltri, Bruno Vespa. Introduzione e interviste di Marco Mancini Testi e postfazione di Gerardo Adinolfi



«Il mondo dell’informazione è stato interpellato dal virus e, nonostante le obiettive difficoltà vissute dal settore e dai singoli giornalisti, ha dato prova di saper essere al servizio dell’interesse generale e dei cittadini […] L’informazione professionale, di qualità, è stata, evidentemente, riconosciuta dai nostri concittadini come capace di poter garantire una affidabilità non attribuibile ad altri ambiti.» Sergio Mattarella (31 luglio 2020)



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VIAGGIO NEL MONDO DEI MEDIA co

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bbiamo raccolto in questo volume le conversazioni, con i direttori di varie testate giornalistiche, pubblicate da ottobre 2017 a dicembre 2020 sul mensile di FS Italiane La Freccia, nella rubrica Medialogando. Un neologismo di intuitiva interpretazione, nato dalla fusione di media e dialogando. Così, ogni mese, per tre anni, abbiamo costruito uno spazio dove parlare, in maniera colloquiale e senza troppi tecnicismi, di giornalismo, informazione e mondo dei media, offrendo l’opportunità ai nostri lettori, viaggiando sulle Frecce o nel web, di conoscere, o conoscere meglio, alcuni fra i protagonisti di quel mondo. Abbiamo spaziato dalla tv alla radio, da internet alla carta stampata, dai mensili ai settimanali, dai quotidiani locali ai nazionali, da quelli economici agli sportivi, dai rotocalchi all’editoria religiosa, dall’architettura all’automotive, dai femminili alle agenzie di stampa. I nostri interlocutori, di generazioni diverse e da diverse angolazioni professionali, hanno condiviso spunti di riflessione sulla rapida evoluzione dell’informazione nell’era digitale, dei social e degli smartphone, e sulla crescente importanza di un giornalismo serio, di qualità e, al contempo, in grado di evolvere il proprio linguaggio ed essere attrattivo, per cercare il proprio pubblico anziché essere cercato. Tanti i temi toccati, molti dei quali intrecciati con le vicende vissute dal Paese nell’arco dell’ultimo triennio, che abbiamo voluto perciò riassumere in brevi schede introduttive ai vari periodi. La crisi dei giornali e dell’industria editoriale classica con la ricerca di modelli di business sostenibili e di valore; i rischi di una disintermediazione senza freni; la creazione di ecosistemi informativi multimediali ed eventi che ruotano intorno alla testata giornalistica dando vita a vere e proprie community; la curiosità, la ricerca e l’approfondimento, con la verifica delle fonti, cardini imprescindibili della professione; la capacità di uscire dal mainstream e offrire chiavi di lettura non scontate, e spiazzanti; la creatività e originalità associate al sapiente uso degli strumenti di analisi dei dati web; l’autorevolezza da conquistare giorno per giorno, anche riconoscendo con onestà intellettuale gli errori, da scongiurare ma sempre possibili, vista l’accelerazione e la competizione generate dai new media. Su tutto il valore del pluralismo, questa possibilità, da difendere a denti stretti, di ascoltare più voci, anche discordanti, e di leggere il mondo con gli occhi degli altri, soprattutto di chi non la pensa come noi. Un esercizio che ci consente di fare almeno capolino fuori dalle nostre confortevoli bolle (non certo un’invenzione del web sebbene lì più subdole e ammalianti che nella vita reale), per riuscire, se lo si vuole, a mettere in discussione le nostre opinioni. Il web renderebbe più facile tale nobile esercizio se solo chi vi naviga avesse buone bussole e adeguate cognizioni di nautica. Questo libro non ha la presunzione di potervele fornire, ma di offrirvi un aiuto, e uno stimolo a cercarle e apprenderle, almeno questa si.

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Nota dei curatori Alcuni dei giornalisti presenti in questa raccolta hanno lasciato l’incarico che avevano al momento del nostro incontro e con il quale sono presentati nell’indice. Altri l’hanno conservato. A tutti abbiamo chiesto se volevano aggiornare o aggiungere qualcosa alle riflessioni svolte. Qualcuno l’ha fatto, altri ci hanno invitato a lasciare tutto com’era. Dove ce n’è stato bisogno, o ci è stato chiesto, abbiamo quindi introdotto un update con testi concordati con gli interessati o scritti di loro pugno.


MEDIALOGANDO

INDICE

OTTOBRE 2017

pag. 3

GENNAIO 2018 2018

VIAGGIO NEL MONDO DEI MEDIA

Marco Mancini

ANNO X | NUMERO 1 | GENNAIO 2018 | www.fsitaliane.it

direttore de La Freccia

PALERMO

CAPITALE DELLA CULTURA

MILANO

INNOVATION CITY

ROSSINIMANIA

IL MONDO CELEBRA IL MAESTRO

LA FRECCIA JUNIOR LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

pag. 11

Trenitalia a misura di bambino, prima, durante e dopo il viaggio Le più ambite mete sciistiche raggiungibili con FRECCIALink IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

DOVE ERAVAMO

pag. 13

pag. 27

OTTOBRE 2017-GIUGNO 2018

PLACES FOR PEOPLE

BEL GIOCO E RISPETTO DEGLI AVVERSARI

direttore editoriale di Domus

direttore de La Gazzetta dello Sport

NOVEMBRE 2017

FEBBRAIO 2018

Walter Mariotti

Andrea Monti

pag. 65 DOVE ERAVAMO LUGLIO-DICEMBRE 2018

ANNO X | NUMERO 2 | FEBBRAIO 2018 | www.fsitaliane.it

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

ANNO IX | NUMERO 11 | NOVEMBRE 2017 | www.fsitaliane.it

NOVEMBRE 2017

pag. 103

LA MIA BOLOGNA

DOVE ERAVAMO

CHE C'È DI PIÙ FICO? OSCAR FARINETTI

CONNETTERE L'ITALIA

GIANNI MORANDI

GENNAIO-GIUGNO 2019

GRAZIANO DELRIO

JOY AND SOUL

LA FRECCIA JUNIOR

LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

LOVE & DANCE

LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

Sala Meeting e formazione a bordo del Frecciarossa Nuovo collegamento Milano-Francoforte

Frecciabianca new look: interni più comodi e accoglienti Le più ambite mete sciistiche raggiungibili con FRECCIALink

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

pag. 17

pag. 33

pag. 137

SE UN VIAGGIO RISISTEMA “LA POLARE”

DOVE ERAVAMO

direttrice di Io Donna

direttore de La Civiltà Cattolica

DICEMBRE 2017

MARZO 2018

Diamante d’Alessio

DISCERNERE L’ESSENZIALE

Padre Antonio Spadaro

LUGLIO-DICEMBRE 2019

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

ANNO IX | NUMERO 12 | DICEMBRE 2017 | www.fsitaliane.it

E AS T E R

FIRENZE

DISCOVERING GENOVA

SECRET VIEWS

E

T R AV E L

ANNO X | NUMERO 3 | MARZO 2018 | www.fsitaliane.it

L I G H TS & S O U N D S

MARZO 2018

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

DOVE ERAVAMO GENNAIO-DICEMBRE 2020

DICEMBRE 2017

pag. 173

TORINO SALERNO LUCI D’ARTISTA

LA FRECCIA JUNIOR LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

pag. 247 FIDIAMOCI DEL BUON GIORNALISMO

Gerardo Adinolfi

addetto stampa FS Italiane

SPIRITUAL TOUR

MUSICA IN FESTA

ART IN NATURE DOLCE KNAM LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

Mete invernali FRECCIALink: Cortina, Courmayeur, Madonna di Campiglio, Val Gardena e Val di Fassa Portale Frecce: al via l’Edicola digitale con quotidiani e periodici

Genova e Perugia nuove destinazioni Frecciarossa Viaggio a 360 gradi con i partner Trenitalia

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

pag. 21

pag. 39

UN GIORNO FAREMO LA FINE DEL CAVALLO

LIBERARSI DALLE SCHIAVITÙ

Carlo Cavicchi

responsabile relazioni esterne Domus Quattroruote

Don Antonio Rizzolo

direttore di Famiglia Cristiana

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MEDIALOGANDO

OTTOBRE 2018

JULY DREAMS

OCTOBER TASTE

ANNO X | NUMERO 07 | LUGLIO 2018 | www.fsitaliane.it

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

ANNO X | NUMERO 04 | APRILE 2018 | www.fsitaliane.it

APRILE 2018

APRILE GREEN

OTTOBRE 2018

LUGLIO 2018

ANNO X | NUMERO 10 | OTTOBRE 2018 | www.fsitaliane.it

APRILE 2018

PUGLIA DA SET PERLE D’ITALIA TRENTINO SPORT&RELAX

ROME FILM FEST THEGIORNALISTI IN TOUR

LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

Frecciarossa arriva a Genova Speciale Milano-Venezia: Carnet 10 viaggi a metà prezzo IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

Sempre più informazione a bordo dei treni Alta Velocità con il servizio di Edicola digitale sul Portale Frecce Illy e Trenitalia: le novità d'autunno

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

pag. 45

pag. 67

pag. 85

SENZA MEDIAZIONI

GOVERNARE L’INNOVAZIONE

UN FARO SUL MICROCOSMO LOCALE

Federico Ferrazza direttore di Wired

direttore dei Corrieri di Umbria, Siena, Arezzo, Viterbo e Rieti

MAGGIO 2018

AGOSTO 2018

NOVEMBRE 2018

OPEN AIR

FIRE&ICE

ART&SHOW

METE ROVENTI GAZZÈ IN TOUR

ANNO X | NUMERO 11 | NOVEMBRE 2018 | www.fsitaliane.it

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

ANNO X | NUMERO 08 | AGOSTO 2018 | www.fsitaliane.it

MAGGIO 2018 ANNO X | NUMERO 05 | MAGGIO 2018 | www.fsitaliane.it

Franco Bechis

NOVEMBRE 2018

Marco Damilano

direttore de L’Espresso

CHAILLY ALLA SCALA

FERRAGOSTO ARTICO

BANKSY MESSAGES

RENZO PIANO A VENEZIA

LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

Cresce l’offerta Frecciarossa sulla rotta Roma-Milano

LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

Offerta Young: risparmio fino al 50% per chi ha meno di 30 anni

Sempre più servizi con la app Trenitalia per un viaggio a portata di click Trenitalia e mytaxi: continua la partnership della mobilità urbana integrata

Area meeting Frecciarossa: tutto il comfort e la funzionalità per le riunioni on board La magia dei mercatini di Natale in Svizzera con Trenitalia

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

pag. 51

pag. 75

pag. 91

DIRITTISMO ALL’ITALIANA

NON È UN GIORNALISMO PER GIOVANI

INTRATTENIMENTO VS APPROFONDIMENTO

direttore de Il Mattino

direttore del TG LA7

direttore di Economy

GIUGNO 2018

SETTEMBRE 2018

DICEMBRE 2018

Enrico Mentana

SETTEMBRE D’ARTE

ANNO X | NUMERO 09 | SETTEMBRE 2018 | www.fsitaliane.it

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

ANNO X | NUMERO 06 | GIUGNO 2018 | www.fsitaliane.it

SETTEMBRE 2018

LAURA PAUSINI

ALVISE CASELLATI L’OPERA PER TUTTI IL PRESEPE DI SABBIA A SAN PIETRO ABBAGNATO ROMA SULLE PUNTE

LADY LIVE

LA BIENNALE DI VENEZIA ROBERTO BOLLE A MILANO

Sergio Luciano

ANNO X | NUMERO 12 | DICEMBRE 2018 | www.fsitaliane.it

Alessandro Barbano

MARINAINFLORENCE LE GRANDI MOSTRE D’AUTUNNO POMPEI DA SCOPRIRE

LA TRAVIATA AL PETRUZZELLI VIAGGI D’INVERNO NATURA E CULTURA

CARRÀMBA CHE NATALE!

LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

L’estate è Trenitalia: oltre 110 le fermate stagionali di Frecce, Intercity e FRECCIALink Al via la nuova offerta Insieme per spostarsi in gruppo

Nuova App Trenitalia: per un viaggio a portata di click Serie e programmi tv, cartoni animati e news a bordo sul Portale Frecce

Nuovo orario invernale: per la prima volta il Frecciarossa arriva a Fiumicino aeroporto Speciale 2x1 Natale, per viaggiare a metà prezzo a Natale e Capodanno

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

IL MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

pag. 57

pag. 81

pag. 97

PER MERITO E CON RESPONSABILITÀ

SATIRA ALLA GIANNELLI

SERVIZIO PUBBLICO

Luciano Fontana

direttore del Corriere della Sera

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UMBRIA GOLOSA

LE FRECCE NEWS//OFFERTE E INFO VIAGGIO

Mete estive Trenitalia: sempre più motivi per lasciare l’auto a casa Bagaglio Facile 5x4 per spedire i propri bagagli a prezzi speciali con Trenitalia e TNT

Emilio Giannelli

vignettista del Corriere della Sera

Gennaro Sangiuliano direttore del TG2


INDICE

GENNAIO 2019

APRILE 2019

LUGLIO 2019

PER CHI AMA VIAGGIARE

PER CHI AMA VIAGGIARE

PER CHI AMA VIAGGIARE

ANNO XI | NUMERO 7 | LUGLIO 2019 | www.fsitaliane.it

ANNO XI | NUMERO 4 | APRILE 2019 | www.fsitaliane.it

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

ANNO XI | NUMERO 1 | GENNAIO 2019 | www.fsitaliane.it

LUGLIO 2019

ROBERTO BOLLE

CLASSICAL LIGHTNESS

ALESSIA MARCUZZI

GRAZIE CLAUDIO! BOSSO SALUTA ABBADO LUNA 50 VIAGGIO NELLO SPAZIO PITTI 95 FIRENZE MODA UOMO

LA VITA È UN VIAGGIO

LAURA&BIAGIO

SPECIALE ISCHIA LO SPLENDORE DELL’ISOLA VERDE

DA BARI ALL'ELBA DELIZIE E TUFFI NEL BLU

STADI 2019

SONIA BERGAMASCO REGISTA PER IL MAGGIO FIORENTINO

MITICO DOMINGO UNA STELLA NELL'ARENA

pag. 105

pag. 119

pag. 139

UN MARCHIO DI QUALITÀ

LA VERITÀ: UN OBIETTIVO E UNA PROMESSA

TRA INFORMAZIONE ED EMPOWERMENT

direttore de Il Sole 24 Ore

direttore de La Verità

direttrice di Donna Moderna

FEBBRAIO 2019

MAGGIO 2019

AGOSTO 2019

PER CHI AMA VIAGGIARE

PER CHI AMA VIAGGIARE

PER CHI AMA VIAGGIARE

Fabio Tamburini

Maurizio Belpietro

Annalisa Monfreda

MAGGIO 2019

BEACH PARTY ANNO XI | NUMERO 8 | AGOSTO 2019 | www.fsitaliane.it

ANNO XI | NUMERO 5 | MAGGIO 2019 | www.fsitaliane.it

ANNO XI | NUMERO 2 | FEBBRAIO 2019 | www.fsitaliane.it

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

JOVA

CLAUDIO BAGLIONI

AL CENTRO DELLA MUSICA CARNEVALI D’ITALIA TOUR TRA MASCHERE E CARRI ALLEGORICI

L’ARTE DI BURRI

L’ALTRA FACCIA DELL’ESTATE TRA ITTITURISMO E TREKKING SOLIDALE

WALKING IN EUROPE

L’ARTE CHE NON VA IN FERIE DA GUALDO TADINO A ERCOLANO

TORNA A VENEZIA

L’OSPEDALE DEI PICCOLI IL BAMBINO GESÙ COMPIE 150 ANNI

L’ITALIA DEL GIRO

pag. 109

pag. 125

pag. 145

INFORMARE EMOZIONANDO

CONQUISTARE, INTERESSARE, APPASSIONARE

AUTOREVOLEZZA E IMPARZIALITÀ

direttore del Corriere dello Sport

direttore di Vanity Fair

direttore dell’Ansa

MARZO 2019

GIUGNO 2019

SETTEMBRE 2019

PER CHI AMA VIAGGIARE

PER CHI AMA VIAGGIARE

PER CHI AMA VIAGGIARE

Ivan Zazzaroni

Simone Marchetti

Luigi Contu

ANNO XI | NUMERO 6 | GIUGNO 2019 | www.fsitaliane.it

ANNO XI | NUMERO 3 | MARZO 2019 | www.fsitaliane.it

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

ANNO XI | NUMERO 9 | SETTEMBRE 2019 | www.fsitaliane.it

MARZO 2019

MARCO MENGONI ATLANTICO TOUR

VIAGGI DI PRIMAVERA TRA DIMORE NOBILIARI E MANDORLI IN FIORE A WOMAN’S TOUCH CINEMA, LIBRI, ARTE E FOOD

SERGIO MATTARELLA L’ITALIA DEL 2 GIUGNO LUCA PARMITANO AL COMANDO NELLO SPAZIO

EUROPEI UNDER 21 IL RISCATTO DELL’ITALIA DEL CALCIO

WONDER BARBARA VIAGGI D’AUTUNNO TRA IL CHIANTI DELL’EROICA, LE COLLINE DEL PROSECCO E MATERA PRIX ITALIA MARCELLO FOA RACCONTA IL CONCORSO RAI

pag. 115

pag. 131

pag. 151

INDIPENDENZA E LAICITÀ, E ROMA AL CENTRO DI TUTTO

L’ITALIA IN DIRETTA

EQUILIBRIO E PLURALISMO

direttore dei Gr Rai

direttore dell’Agi

Virman Cusenza

direttore de Il Messaggero

Luca Mazzà

Mario Sechi

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MEDIALOGANDO

GENNAIO 2020

PER CHI AMA VIAGGIARE APRILE 2020

GENNAIO 2020

OTTOBRE 2019

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

ANNO XI | NUMERO 10 | OTTOBRE 2019 | www.fsitaliane.it

PER CHI AMA VIAGGIARE

BUON 2020

MIKA

IL VIAGGIO DEI DESIDERI

ANNIVERSARI PERSONE MUSICA VIAGGI ARTE

REVELATION TOUR ROMA FILM FEST NELLA CAPITALE LE STAR DEL GRANDE SCHERMO

APRILE 2020

ANNO XII | NUMERO 4 | APRILE 2020 | www.fsitaliane.it

PER CHI AMA VIAGGIARE

ANNO XII | NUMERO 1 | GENNAIO 2020 | www.fsitaliane.it

OTTOBRE 2019

OTTOBRE IN VIAGGIO CINETURISMO A NAPOLI E TRIESTE TERME E PAESI FANTASMA

GIORNATA MONDIALE DELLA TERRA INSIEME PER L’AMBIENTE SUL WEB

#IODISEGNO

I COLORI E LE SPERANZE DEI BAMBINI

pag. 157

pag. 175

pag. 193

INFORMARE È FARE OPINIONE

L’OTTIMISMO DELLA QUALITÀ

SKY TG24, LA NOTIZIA E TUTTO IL RESTO

direttrice de La Nazione

direttore de La Stampa

direttore di Sky TG24

NOVEMBRE 2019

FEBBRAIO 2020

MAGGIO 2020

PER CHI AMA VIAGGIARE

PER CHI AMA VIAGGIARE

PER CHI AMA VIAGGIARE

Maurizio Molinari

TRA TEATRO E TV

TIMI, DELLA GHERARDESCA, MONTRUCCHIO, ZEFFIRELLI, BARBERIO CORSETTI, BRUNO, MICHIELETTO, ESCOBAR ANNO XII | NUMERO 2 | FEBBRAIO 2020 | www.fsitaliane.it

ANNO XI | NUMERO 11 | NOVEMBRE 2019 | www.fsitaliane.it

DA VENEZIA A PUTIGNANO, DA ARLECCHINO A MIRÒ

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

CARNEVALE AD ARTE

MAGGIO 2020

FEBBRAIO 2020

NOVEMBRE 2019

BICI E BACI

VIAGGI PER DUE RUOTE E DUE CUORI

Giuseppe De Bellis

ANNO XII | NUMERO 5 | MAGGIO 2020 | www.fsitaliane.it

Agnese Pini

VIVA FIORELLO! ARCHEOTRAVEL DA PAESTUM A ROMA E BOLOGNA

#RipaRTia moiTalia

DI VERDONE CE N’È UNO

LA PAROLA A SINDACI E GOVERNATORI

pag. 163

pag. 181

pag. 199

«O TI SPIAZZA E TI FA REAGIRE O NON SERVE A NIENTE»

L’INFORMAZIONE COME PRESIDIO DI DEMOCRAZIA

INDIPENDENZA COME GARANZIA DI AFFIDABILITÀ

direttore de Il Foglio

direttrice del Tg3

direttore di FIRSTonline

DICEMBRE 2019

MARZO 2020

GIUGNO 2020

PER CHI AMA VIAGGIARE

PER CHI AMA VIAGGIARE

Claudio Cerasa

Giuseppina Paterniti

ANNO XI | NUMERO 12 | DICEMBRE 2019 | www.fsitaliane.it

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

ANNO XII | NUMERO 3 | MARZO 2020 | www.fsitaliane.it

MARZO 2020

BEBE VIO

IL PAESE DALLA FINESTRA GLI SCATTI DI MCCURRY E GASTEL

Franco Locatelli

ANNO XII | NUMERO 6 | GIUGNO 2020 | www.fsitaliane.it

RE TARTUFO TRA LANGHE, MARCHE E TOSCANA

PER CHI AMA VIAGGIARE

DESTINAZIONE TOKYO

DONNE E ARTE DA RAFFAELLO AI CONTEMPORANEI

VIAGGI DA SET

LA ROMA DI FELLINI E SORDI IN SICILIA CON MONTALBANO

FERZAN OZPETEK MERAVIGLIOSA DEA FORTUNA NATALE ITALIANO VIAGGIO FRA LE TRADIZIONI

CARTOLINE DALLE VACANZE RICORDI DI IERI, VIAGGI DI OGGI

PINOCCHIO AL CINEMA, A TEATRO E IN MOSTRA

pag. 167

pag. 187

pag. 205

LA CONSAPEVOLEZZA CAMBIA IL MONDO

CON LO SGUARDO DI UN FORESTIERO

«AMO LA RADIO» ANCHE IN TEMPI DI PANDEMIA

direttore di Avvenire

direttore de L’Osservatore Romano

general manager e Gianluca Teodori capo redazione giornalistica di RDS

Marco Tarquinio

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Andrea Monda

Massimiliano Montefusco


INDICE

LUGLIO 2020

OTTOBRE 2020

PER CHI AMA VIAGGIARE

PER CHI AMA VIAGGIARE

ANNO XII | NUMERO 7 | LUGLIO 2020 | www.fsitaliane.it

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

ANNO XII | NUMERO 10 | OTTOBRE 2020 | www.fsitaliane.it

OTTOBRE 2020

LUGLIO 2020

AU R OR A D ’ E S T AT E

CAPITALE ITALIA

DESTINAZIONE ITALIA MUSICA&FESTIVAL

GIRO, NATURA, ARTE E CULTURA

pag. 211

pag. 229

RIGORE, INDIPENDENZA, AUTOREVOLEZZA

INFORMARE SENZA RINCORRERE I TREND

direttore di Fortune Italia

direttore di Huffington Post

AGOSTO 2020

NOVEMBRE 2020

Fabio Insenga

Mattia Feltri

PER CHI AMA VIAGGIARE

PER CHI AMA VIAGGIARE

ANNO XII | NUMERO 8 | AGOSTO 2020 | www.fsitaliane.it

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

ANNO XII | NUMERO 11 | NOVEMBRE 2020 | www.fsitaliane.it

AGOSTO 2020

è

m u o v i A m o ci

VITA NOVA

IN VIAGGIO CON DANTE VERSO IL 2021 A RITROVAR GLI ABBRACCI CHE PERDEMMO

AGOSTO

ITINERARI, RIFLESSIONI, SAPORI E SUONI PER RINASCERE

DALLE ALPI FINO ALLE EGADI

pag. 217

pag. 235

UPDAY, NEWS A PORTATA DI SMARTPHONE

APPROFONDIRE E FARSI CAPIRE

country manager e direttore di Upday

conduttore e direttore di Porta a Porta

SETTEMBRE 2020

DICEMBRE 2020

Giorgio Baglio

Bruno Vespa

PER CHI AMA VIAGGIARE

PER CHI AMA VIAGGIARE

ANNO XII | NUMERO 9 | SETTEMBRE 2020 | www.fsitaliane.it

MENSILE GRATUITO PER I VIAGGIATORI DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

ANNO XII | NUMERO 12 | DICEMBRE 2020 | www.fsitaliane.it

SETTEMBRE 2020

RISORGIMENTO VERDIANO IL FESTIVAL DI PARMA

IL TRENO DI CARDINAL ZUPPI

70 ANNI DI TERMINI STAZIONE FUTURO

’21 CHRISTMAS DREAM BARBERO, BELLINI, BOCELLI, CARLUCCI, ENRIQUEZ, FEROCI, FRANCINI, GUERRITORE KAUFMANN, LAGIOIA, LAMARCA, LODOVINI, MISHEFF, PAOLUCCI, PARMITANO PIRRONE, PISTOLETTO, POLLIO, SANTARELLI, VENEZIANI, ZEROCALCARE

TERRE DI VINI, CASCATE E CAMMINI

pag. 223

pag. 241

IL GIORNALE DEI LETTORI, POLITICO E ACCOGLIENTE

LA RIVOLUZIONE DEL GIORNALISMO DIGITALE

direttore di Domani

direttore de La Repubblica

Stefano Feltri

Maurizio Molinari

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DOVE ERAVAMO OTTOBRE 2017-GIUGNO 2018

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n Paese pieno di rancore e incerto nel programmare il futuro. Secondo il Rapporto sulla situazione sociale del Paese del Censis nel 2018 gli italiani sono delusi, arrabbiati e diffidenti. Quattro persone su dieci credono di poter trovare tutte le loro risposte sul web, ma sono anche consci che la rete è popolata da fake news. Se all’Italia, la fine del 2017 aveva riservato la mancata qualificazione della Nazionale italiana di calcio ai Mondiali in Russia e l’approvazione della legge sul biotestamento, nei primi mesi del nuovo anno il Paese è già proiettato alle elezioni politiche del 4 marzo. A vincerle sarà il Movimento 5 Stelle, che da solo sfiora il 33% dei voti, mentre la Lega raggiunge un risultato storico, diventando leader della coalizione di centrodestra. Ma si crea un’impasse nella formazione del nuovo governo. Dopo mesi di sterili consultazioni, quando ormai sembra profilarsi un ritorno alle urne, il 1° giugno nasce l’esecutivo gialloverde formato da Movimento 5 Stelle e Lega. Il premier è Giuseppe Conte. Matteo Salvini, leader della Lega, è Ministro dell’Interno e Luigi Di Maio, leader dei 5 Stelle, è Ministro dello Sviluppo Economico e Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali. Salvini e Di Maio sono anche Vicepresidenti del Consiglio. Giugno è il mese dell’odissea dell’Aquarius. Alla nave di Sos Méditerranée con a bordo 630 migranti salvati in mare viene impedito di sbarcare nei porti italiani. La accoglie Valencia dopo giorni di stallo. La gestione del flusso di migranti dall’Africa, dei salvataggi e degli sbarchi, accompagnerà per mesi il nuovo governo diventando oggetto di aspre polemiche politiche.

Chi abbiamo incontrato Walter Mariotti - Diamante d’Alessio - Carlo Cavicchi - Andrea Monti Padre Antonio Spadaro - Don Antonio Rizzolo - Marco Damilano - Alessandro Barbano Luciano Fontana

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PLACES FOR PEOPLE L’INCONTRO CON WALTER MARIOTTI, DIRETTORE EDITORIALE DI DOMUS: “IL SACRO GRAAL DELLO STILE” DA 9O ANNI RIFERIMENTO INTERNAZIONALE DI ARCHITETTURA E DESIGN

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a Freccia di ottobre vi accompagna a Trieste e, poi, un passo alla volta, vi invita a scoprire luoghi e appuntamenti, culturali o di puro svago, che profumano di autunno e valgono, per noi, un’emozione o un viaggio. Quello della Freccia che state sfogliando inizia con un incontro. Perché viaggiare è anche questo. Incontrare persone e, talvolta, ritrovarle. Come accade a me con Walter Mariotti, da poche settimane direttore editoriale di Domus. Ci siamo conosciuti a Siena, tanti anni fa, nella redazione del settimanale Il Campo, freschi di laurea. Da allora Walter ne ha fatte tante: ha vissuto a Parigi, Lovanio e Boston prima di approdare a Milano. È stato a Harvard, ha scritto libri, consigliato banchieri e avvocati, diretto giornali, alcuni li ha anche fondati. Uno per tutti IL, il mensile del Sole 24 Ore, premiato in tutto il mondo. Toscano di Iesa, piccola frazione di Monticiano, estremo lembo del senese dove i colori si confondono con gli odori della Maremma, porta nel Dna geni etruschi, corroborati dalla pragmatica saggezza dei boschi, tipica della sua gente. Eredità che ha mixato con il personale quantum di cultura umanistica e denso cosmopolitismo.

Walter Mariotti

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Numero 1.000 di Domus, marzo 2016

Ti garba il ritrattino? (Lo vedo ridere e scuotere la testa, ravviarsi la folta capigliatura, che un tempo ci accomunava, e oggi gli invidio). Sei la dimostrazione che nella vita l’unica cosa importante è avere un buon capo della comunicazione. Dai, facciamo sul serio. Chi è Walter Mariotti? Uno che tornava da scuola e si perdeva nel bosco ad aspettare i cinghiali. Io la vedo come Orson Welles. La vita è la ricerca di quello che hai perso da bambino. Per lui era uno slittino, il Rosebud. Per me è il cinghiale, che spuntava all’improvviso negli Holzwege di Heidegger. I sentieri che non portano da nessuna parte. A te però ti hanno portato in giro per il mondo. E alla fine a Milano, dove hai fatto tante cose. I quotidiani, Class, la Rizzoli, Il

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Sole 24 Ore, la Rai, la Mondadori, Linklaters. E adesso Domus. Domus è stato il mio sogno tutta la vita, che si è avverato grazie all’unica persona che poteva farlo, l’editore Giovanna Mazzocchi Bordone. Non finirò mai di ringraziarla. Che cosa diventerà Domus? Quello che è sempre stato. Un’icona, un canone. Un punto di riferimento internazionale. Ma se dovessi definirlo come prodotto editoriale? Domus è il verbo dell’architettura, lo standard del design, il Sacro Graal dello stile che vanta decine di tentativi d’imitazione. L’unica voce internazionale del panorama italiano. Pensa che nel 2006 l’editore tedesco Taschen gli ha dedicato un’antologia in 12 volumi. Monumentale. E nel 2018 compie 90 anni. Un bel traguardo… Non so quante altre riviste possano fregiarsi di simili traguardi. Pensa che quando la rilevò, nel 1929, l’editore Gianni Mazzocchi aveva solo 23 anni. Fu però capace di trasformare un’intuizione d’élite in un progetto culturale esclusivo e democratico assieme, affiancandolo ad altre riviste che sarebbero diventate simboli, oltre che grandi successi: Quattroruote, Meridiani, Tuttotrasporti, Il Cucchiaio d’argento. Fu sempre Mazzocchi ad affidare di volta in volta la direzione di Domus a figure come Massimo Bontempelli ed Ernesto Nathan Rogers, che chiamarono a collaborare intellettuali come Moravia e Vittorini. E anche Ettore Sottsass, di cui si sono appena celebrati i 100 anni della nascita e i dieci dalla scomparsa. Sì, in una bellissima mostra allestita da Michele de Lucchi alla Triennale di Milano. Sottsass ha avuto un dialogo intenso con


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Domus e con i viaggi. Nel 1976, cioè due anni prima di firmare il nuovo progetto grafico, Sottsass inizia a pubblicare su Domus una rubrica di viaggio, “Memoires di panna montata”, che assieme alle lettere al mondo dell’arte di Pierre Restany segnano la consacrazione di Domus come punto di riferimento internazionale, definitivamente conseguita con l’arrivo al vertice dell’azienda di Giovanna Mazzocchi Bordone. È stata lei a trasformare la rivista in uno standard mondiale, diffusa in oltre 100 Paesi. Cosa farai come direttore editoriale? Affiancherò il direttore della rivista riportando direttamente all’editore e sovrintendendo a tutto il sistema-Domus, dal cartaceo al digitale, dalle edizioni e gli speciali all’esplorazione di moduli che dialoghino con istituzioni, protagonisti e realtà internazionali. Che ne pensi del ruolo di FS Italiane come committente di grandi opere architettoniche e urbanistiche? Di stazioni come Torino Porta Susa e Napoli Afragola, capolavoro di Zaha Hadid? È decisivo che un soggetto istituzionale il cui core business è la mobilità, cioè una delle dimensioni centrali dell’attività umana, si sia interrogato sulle nuove forme possibili di convergenza materiale e immateriale. Che poi la risposta sia stata trasformare quelli che Michel Maffesoli chiama “non luoghi” in veri e propri “places for people”, luoghi vitali e momenti d’interconnessione e multifunzionalità, rappresenta una scommessa vinta. Infine, esserci riusciti affidando la progettazione a grandi architetti internazionali è la conferma che il bene comune resta un valore di riferimento di Ferrovie Italiane. Il medium che pubblica questa intervista è un magazine free e cartaceo. Ma sul treno, e non solo, i più compulsano il loro smartphone. Quale futuro vedi per l’editoria tra-

dizionale? Un grande futuro davanti alle spalle, anche se diverso da quello dietro. Io sono un tecnico della “news innovation”, ho lavorato per anni sulla relazione tra la tradizione cartacea e le nuove piattaforme digitali. E per me il futuro è quello che si sta delineando in molti Paesi: differenziato, complementare, esperienziale. Anche perché il digitale offre possibilità immense, orizzonti in larga parte inesplorati, ma la carta rappresenta una journey unica, perché consustanzia la materia. La Freccia è un mensile di viaggi e un compagno di viaggio. Che significa per te viaggiare? Io resto legato all’idea di viaggio di Bruce Chatwin e Stenio Solinas. Il viaggio è il contrario del turismo, concetto che passa a livello comune alla fine del ‘700, quando tutti accettano definitivamente l’idea che la terra sia rotonda. Dunque che per tornare al punto di partenza basta girare intorno, fare il tour. Ecco, il viaggio è l’opposto: non garantisce mai di unire due punti, ha di certo un inizio ma la sua fine è sempre incerta, perché la sua dimensione è il durante, è fatta di emozioni, idee, incontri inattesi. Il viaggio è l’Odissea: alla fine Ulisse torna a casa, ma non è più lo stesso. E, secondo una versione minore del mito, riparte. Da Iesa a Iesa e ripartenza, quindi. Ma anche le tappe intermedie lasciano il segno, ognuna con il suo genius loci. Che cosa è per te? Il genius loci del nostro tempo è il flusso e la sua metafora è la finanza, dove i valori fluttuano secondo logiche algoritmiche, oscure, inconoscibili. Oggi abbiamo notizie in tempo reale e possiamo vedere ogni punto del mondo su Google Earth. Pensiamo così di conoscere tutto, ma in realtà gli eventi sono sempre più incontrollabili, i luoghi mi-

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steriosi, lo Zeitgeist sfuggente. Per questo oggi viaggiare non è solo una necessità ma l’unica possibilità per comprendere la realtà e quindi il destino degli individui. A proposito di flussi incessanti. In queste ore Domus ha lanciato il nuovo sito. Come è stato ripensato? Il redesign è stato affidato a Mark Porter, uno dei più grandi news designer del mondo. Domusweb presenterà un’evoluzione nella grafica, nel lettering, nel timbro e nello stile, ma prima ancora nell’architettura concettuale, nel trattamento delle notizie,

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nella Weltanschauung, nella visione del mondo. Tutto per sintonizzarsi con i grandi mutamenti della nostra epoca, preservando però la sua tradizionale vocazione. Sofia Bordone, l’Amministratore delegato che rappresenta la terza generazione della famiglia, ha chiesto di concettualizzare una vision per il futuro. E il lavoro congiunto di comunicazione e marketing è stato un nuovo concetto: empowering inspirational thinkers. Since 1928. Un’idea che racconta bene la storia di Domus, guardando al domani.

Update Mai una società aveva vissuto una crisi tanto sconosciuta e accelerata, quella della trasformazione digitale e della finanziarizzazione della realtà ad essa collegata, causata dall’incertezza entrata nel sistema della conoscenza, anch’essa mai giunta a manomettere così in profondità miti sociali e riti individuali secolari. L’ultima pandemia ha solo accelerato un processo dove la network society organizzata per “gerarchie verticali” sta cedendo spazio e ruolo a “strutture orizzontali”, in cui la produzione dell’esperienza disintermedia tutto, compreso il ruolo delle leadership formali, siano esse intellettuali, politiche e mediatiche. Trovandosi a non avere più rapporti con le cosiddette “autorità sostanziali” - lo stato, la religione, i miti fondativi e anche i mass media – le società contemporanee e soprattutto le loro élites vivono in una sorta di nostalgia permanente, attratte da un centro di gravità vuoto, alla ricerca di una relazione perduta ma non più ricostituibile. Locali e globali allo stesso tempo, i media sono come le élites che vorrebbero rappresentare: dimostrano di connettersi con altri media/leader ma difficilmente con quel particolare tipo di network che è l’opinione pubblica, un continente sempre più sconosciuto dove è difficile avventurarsi. Così la realtà e la teoria mostrano la stessa aspirazione: la necessità di una nuova “noosfera”. Un flusso continuo di informazione capace di farsi conoscenza e sapere per opporsi al dominio della crisi valoriale e della post-verità, rispondendo all’esigenza di selezionare più che ammassare, guidare e dirigere più che assecondare e ratificare, rispondere alle aspettative più che lasciarle inevase. Costruire un nuovo ruolo del Paese invece che gettare la spugna e chiudersi nella propria autoreferenzialità. Vedremo presto se il sistema ce la farà o se dovremo attraversare un backlash della mediasfera che trasformerà per sempre il capitale umano e sociale. Walter Mariotti

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SE UN VIAGGIO RISISTEMA “LA POLARE”

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veva ragione Shakespeare, gli occhi delle donne «brillano ancora del vero fuoco di Prometeo». Quelli di Diamante d’Alessio, che incontro in una tiepida mattina autunnale, sono acuti e penetranti, da mettere quasi soggezione. Mostrano e contengono, per dirla ancora con le parole del Bardo, un mondo di passioni e valori, tutti vissuti con lo stesso entusiasmo che nutre il suo lavoro. Diamante è direttrice da otto anni di Io Donna, il settimanale femminile del Corriere della Sera, che gli uomini non disdegnano affatto di sfogliare: «Sono il 30% dei nostri lettori». Mastica giornalismo da quando aveva 20 anni. «Fui assunta per fare il praticantato a L’Automobile come fotografa, mentre mi stavo diplomando allo IED, l’Istituto Europeo di Design. In contemporanea frequentavo l’università». Una bella esperienza, difficile da immaginare oggi. Sì, entrare in un giornale da ragazzina è stato entusiasmante. Oggi è impensabile. E ho avuto grandi maestri come Umberto Cutolo e Carlo Luna. L’Automobile in quegli anni aveva un milione e mezzo di abbonati. Per loro giravo alla scoperta dell’Italia minore che fotografavo e descrivevo. Un’esperienza straordinaria che mi ha permesso di fare l’inviata di Dove, girare l’America, l’Asia, poi l’Africa.

© Giuseppe Di Piazza

PARITA’ DI GENERE, INFORMAZIONE E IMPEGNO SOCIALE IL GIORNALISMO DI IO DONNA RACCONTATO DALLA DIRETTRICE DIAMANTE D’ALESSIO

Diamante d'Alessio

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margot robbie

Dopo il lupo (di Wall Street) ho incontrato un orsacchiotto

tendenze

Micro o macro? L’architettura non ha più mezze misure

amiche

Una lunga storia di amore e odio

moda

Anima country

Mika oggi riesco a raccontare di me anche episodi duri, ho smesso di nascondermi. e (ri)apro le porte di casa. in tv RCS mediagRoup Spa N. 42 SeTTimaNaLe diSTRiBuiTo iN aBBiNameNTo CoN iL CoRRieRe deLLa SeRa deL 14 oTToBRe 2017 - poSTe iTaLiaNe Spa Sped. iN a.p. - d.L. 353 / 03 CoNV. L. 46 / 04, aRT. 1 C. 1. dCB miLaNo CoRRieRe deLLa SeRa (€ 1,50) + io doNNa (€ 0,50) € 2. Nei gioRNi SuCCeSSiVi € 1,50 + iL pReZZo deL QuoTidiaNo

Numero del 14 ottobre 2017

Quindi raccontare i viaggi e i luoghi è nelle tue corde? Da sempre. E amo moltissimo viaggiare in treno, non lo dico perché mi intervisti per La Freccia. Ah, mi raccomando, scrivi che sarei felice se Trenitalia estendesse a tutto l’anno la promozione che permette ad agosto di portare il cane in treno a un prezzo accessibile. I quattro zampe ormai fanno parte delle famiglie. Lo scriverò, promesso. Il treno mi piace perché puoi guardare fuori dal finestrino, e io amo guardare fuori dal finestrino. Anche tra Roma e Milano, che pure faccio quasi tutte le settimane. E poi trovo che le tre ore di viaggio siano un giustissimo iato per passare fra due città completamente diverse. Diversità, il viaggio è scoperta? Certo, scoperta assoluta: intellettuale, gastronomica. Poi ci sono i viaggi che

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ti portano nei luoghi del cuore e quelli che “risistemano la polare”. Io cerco di alternarli. Amo moltissimo le isole selvagge, Ponza, Pantelleria, isole rimaste assolutamente spettinate. Poi la forma mentis che mi ha dato L’Automobile mi spinge a scoprire e apprezzare luoghi meno conosciuti. Guidare in una strada a caso della campagna senese per ritrovarsi, che so, a Monteriggioni o a Bagno Vignoni. La campagna senese mi piace da pazzi, è una terra piena di vita. Mi inorgoglisce come parli delle mie terre, però mi incuriosiscono i viaggi che “risistemano la polare”. Ma che cosa sono? Sono quelli che tutti noi, nati nella parte fortunata del mondo, dovremmo fare quando ci innervosiamo per stupidaggini. Spiega meglio. Ecco, io sono molto vicina a due Ong: sono ambasciatore di Oxfam, che si occupa delle donne e della disuguaglianza nei più disparati luoghi del mondo. Con loro sono in partenza e andiamo nei campi profughi, in Libano e Giordania. L’altra è Cuamm - Medici con l’Africa, una Ong italiana nata a Padova. Insieme a Cuamm sono andata in Uganda, nell’ospedale a dieci ore di pista rossa da Kampala, dove fanno partorire in sicurezza le donne. Vedere queste realtà con i propri occhi risistema “la polare”. Sarebbero viaggi da incentivare, magari con un’agenzia ad hoc. Parti per fare del bene, pensi di fare del bene a loro, ma in realtà il bene lo fanno loro a te. Un giornale può fare del bene? In una certa misura sì, come quando dà una mano a organizzazioni come queste, una volta accertata la loro serietà. Facci qualche esempio.


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Per Oxfam abbiamo inviato alcune grandi scrittrici italiane, come la Avallone, la Baresani e la Gamberale, nei luoghi dove questa Ong inglese opera, per raccontare e testimoniare l’attività che svolge, e ne abbiamo fatto un numero speciale di Ferragosto. Per Cuamm, a Natale di un paio di anni fa, abbiamo portato in Uganda un grande fotografo come Antonio Biasiucci, protagonista allora della Biennale di Venezia. Ne è venuta fuori una copertina emblematica, un lavoro sulla maternità. Un dittico bellissimo che è stato acquistato ed è entrato a far parte della collezione permanente della Sandretto Re Rebaudengo. Quei soldi sono serviti per aiutare Cuamm facendo del bene in maniera concreta. Oltre a informare e raccontare un giornale può anche scuotere le coscienze. Tra i temi più cari a Io Donna c’è la questione femminile. Iniziamo dal mondo del lavoro. Come FS Italiane siamo impegnati a stimolare l’occupazione femminile anche in professioni tecniche, tradizionalmente prerogativa maschile… Lodevole impegno, perché in Italia c’è davvero tanta strada da fare. Solo il 46,8% delle donne lavora, ed è una delle percentuali più basse d’Europa. Il World Economic Forum ha stilato un indice, il global gender gap, che misura quanto e cosa manca per raggiungere la parità di genere. In dieci anni abbiamo scalato molte posizioni, passando dal 77esimo al 41esimo posto, ma siamo ancora 111esimi su 145 Paesi analizzati per tasso di occupazione e opportunità di lavoro. Da noi, una donna su quattro dopo la gravidanza lascia il lavoro. Occorrono provvedimenti specifici? Più asili nido, anche aziendali, assisten-

za per gli anziani, voucher e la paternità obbligatoria che nei Paesi del nord è un fatto normale. E un cambio di passo culturale per superare molte disparità? Barbara Stefanelli, vicedirettore vicario del Corriere della Sera, una delle donne più vicine a raggiungere una posizione per adesso tenuta solo da uomini, ha dato centralità a queste riflessioni sul giornale. E con Il tempo delle donne, bellissima manifestazione nata quattro anni fa, il confronto si è esteso. Perché la parità di genere è anche ricchezza per il Paese. In che senso? Reale, concreto: ci sono studi anche del Fondo monetario che misurano un pieno rilancio dell’occupazione femminile in oltre 15 punti di Pil. Del resto il lavoro è anche dignità e realizzazione di sé. E una donna che lavora è più libera dalle violenze domestiche, perché indipendente e rispettata socialmente. La cronaca ci racconta ogni giorno di violenze sulle donne… Un grave problema. Perché siamo una società ancora nettamente maschilista, con l’uomo che si trova però spiazzato da donne sempre più forti, che vogliono assolutamente avere un maggiore ruolo nel lavoro, ma senza perdere la possibilità di fare figli. Gli uomini che uccidono e aggrediscono sono uomini fragili, non sono uomini forti. È obbligo delle donne, della società e degli altri uomini aiutarsi a vicenda per creare dei ruoli sempre più condivisi. Però, a giudicare da certi post sui social, anche di fronte a episodi di violenza sessuale, non pare ci sia tra le donne un’estrema solidarietà.

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Lo so, e non dovrebbe essere tollerabile, bisognerebbe cercare, almeno le persone di buon senso, di isolare la violenza sul web. Ma è un’altra dimostrazione di fragilità che necessita di essere affrontata tutti insieme, partendo dall’educazione scolastica. Sul web sono in tanti a dare il peggio di sé. Purtroppo sì. Ma c’è dell’altro. Siamo ossessionati dall’immagine, fino al punto di crearci una vita parallela, una sorta di second life. Ecco, i social stanno facendo questo: tutti sentiamo l’esigenza di far vedere agli amici in quali bei posti andiamo in vacanza, i meravigliosi piatti che sappiamo cucinare, i figli bellissimi che abbiamo… e ci dimentichiamo poi di guardare, di conversare e dedicare tempo all’altro, perché è tutto un dedicarsi all’immagine riflessa di noi stessi, dai social ribattuta ovunque. Digitale e virtuale stanno sconvolgendo anche il mondo dei media… È vero, anche noi di Io Donna abbiamo un sito molto visto e frequentato. Lo

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stesso per i social. Però la carta resta il nucleo fondante. Reggerà? Sì, quanto meno me lo auguro, perché con la carta sei tu che scegli il ritmo. Comunque carta e digitale stanno diventando complementari, creando interazioni. Un esempio: abbiamo uno psicanalista, Claudio Risé, i cui post ricevono centinaia di commenti. Ha creato una tribù che si rinnova. Quando un argomento diventa molto caldo, va anche sulla carta, innescando così un circolo virtuoso. Altro da aggiungere? Sì, la soddisfazione che mi dà dirigere Style Piccoli, al quale sono molto affezionata. Io amo le startup dei giornali e questa, nata come costola di Style, la sento come una mia creatura. Che guarda ai nuovi maschi, ai padri che vivono intensamente la loro paternità, parlano e trovano la misura per condividere giocosamente con i figli le proprie esperienze professionali, dalla cucina ai viaggi, dall’arte alla narrativa.

Update Diamante d’Alessio vede il suo futuro nel mondo dei libri e della cultura. Consulente editoriale di Marsilio e azionista della Nave di Teseo, d’Alessio è da poco diventata azionista e Business development manager di Molly Bloom, l’Accademia di scrittura creativa per letteratura, cinema, media che tra le sue fila annovera, tra gli altri, Leonardo Colombati, Sandro Veronesi, Saverio Costanzo, Alessandro Piperno, Chiara Gamberale. Dopo la sua lunga attività nel mondo dei giornali, vive a Siena, tra gli ulivi, e usa spesso il treno per tenere insieme le sue tante vite, convinta che i fattori di un’esperienza professionale precedente debbano essere scomposti per ricomporsi in un modo nuovo ma seguendo un filo rosso che li colleghi. Continua a fare quei “viaggi che risistemano la polare” per il Cuamm, Medici con l’Africa, di cui siede in Cda. Nota dei curatori

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UN GIORNO FAREMO LA FINE DEL CAVALLO

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a Freccia saluta il 2017 con alcune sorprese. Questo numero si chiude con una nuova sezione dedicata ai più piccoli, 16 pagine di fumetti, giochi e attività interattive. Proviamo così a sottrarli al giogo degli smartphone, offrendo lettura, scrittura e divertimento. Non prendeteci per nostalgici, ma ancora crediamo al valore della carta. D’ora in avanti, sempre riciclata. Per l’attenzione verso l’ambiente che contraddistingue ogni nostra attività. L’altra sorpresa è un piccolo cadeau letterario: la raccolta illustrata dei racconti pubblicati quest’anno su ogni numero della Freccia e di Note, il settimanale per i clienti del trasporto regionale. Lo vedrete e leggerete tra qualche giorno, sui nostri, sui vostri treni. E, in formato digitale, su FSNews.it. Intanto apriamo il numero di dicembre, dedicato alle luci e ai suoni delle nostre città d’inverno, con un incontro “sui generis”, quasi un provocatorio paradosso per la rivista di FS Italiane. Ospite del nostro Medialogando è, infatti, Carlo Cavicchi, il più autorevole e blasonato giornalista di motori e automotive. Lo incontriamo a Rozzano, alla periferia di Milano, nel quartier generale della casa editrice Domus, dove oggi Carlo è una

© FS Italiane | Photo

MOBILITA’ CONDIVISA E LE AUTO DI DOMANI LA FRECCIA INCONTRA CARLO CAVICCHI AMBASCIATORE DEL SETTORE AUTOMOTIVE E DI QUATTRORUOTE

Carlo Cavicchi

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Numero del 2 febbraio 2013

sorta di ambasciatore del settore automotive e di Quattroruote, la bibbia degli automobilisti, che ha diretto fino al 2014. Siamo in una cittadella dove si respira aria da grande famiglia, costruita intorno a un robusto progetto editoriale e imprenditoriale che, in quasi 90 anni, ha coagulato intorno a sé alcune delle migliori energie del Paese. Accompagnato da una bonaria cadenza emiliana, Cavicchi tracima subito in un inarrestabile fiume di ricordi, idee, progetti, con l’entusiasmo di un ventenne, associato all’esperienza di chi già a 37 anni - era il 1984 - fu chiamato a dirigere Autosprint, la rivista più prestigiosa nel mondo delle corse, con una tiratura di 160mila copie a settimana che, dopo i Gran Premi, raggiungeva addirittura le 200mila. E che in quella veste si è sorbito alcune mattutine reprimen-

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de telefoniche, tanto laconiche quanto pungenti, di un signore di nome Enzo Ferrari: «Bastonava, ma era la sua forza. Sulla mia prima copertina c’era una Ferrari che dopo alcuni test aveva il motore fumante, si era rotto e io avevo scritto: “Chi fuma avvelena anche te, digli di smettere”. Il martedì mattina, suona il telefono alle 9:30: “Pronto, sono Ferrari. Cavicchi, non abbiamo cominciato mica bene, sa!” e poi ha messo giù». Incontriamo Cavicchi dopo che, qualche giorno prima, in una convention di dirigenti di FS Italiane, ha coordinato una tavola rotonda tra alcuni manager di case automobilistiche e il nostro Amministratore delegato, Renato Mazzoncini, il cui obiettivo è costruire, con il Gruppo FS, un sistema di mobilità integrata che sottragga clienti proprio al mezzo privato. I «laici in chiesa», come Cavicchi ha definito sé stesso e gli ospiti, hanno raccontato come sarà l’auto di domani e discusso sul futuro della mobilità, privata, pubblica e condivisa. Allora Carlo, tra auto privata e mezzi pubblici, alleanza o scontro? Parlerei di convivenza, indispensabile e ineluttabile. Perché le ferrovie, così come i mezzi pubblici, possono arrivare in tanti posti, ma non dappertutto. Però potrà crescere la quota di auto condivise? Sì, in futuro la macchina che ti porterà al lavoro la mattina non sarà necessariamente quella che ti riaccompagnerà a casa la sera. Pagheremo sempre di più l’uso e meno la proprietà. Il car sharing è un elemento importante nel sistema di mobilità globale che FS va costruendo. Certo, lo sarà. E quest’auto condivisa sarà sempre più una commodity, con


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una pluralità di servizi che fatichiamo oggi a ipotizzare. Come non avremmo immaginato dieci anni fa quello che il cellulare, diventato smartphone, consente oggi di fare. Quindi sempre meno auto private? Sì, almeno qui da noi. Ma continueranno ad avere ancora un loro spazio, non foss’altro per come è popolato il nostro pianeta. Poi l’auto privata si trasformerà sempre più in semplice oggetto di piacere, e un domani potrebbe diventare come il cavallo. L’animale che per duemila anni è stato indispensabile per muoversi e che oggi cavalchiamo ancora, ma soltanto per divertimento. Sarebbe un fallimento per i costruttori di auto… Ma no, perché il mercato dell’auto è globale e ha bacini enormi davanti a sé. La Cina, l’India, dove oggi si costruiscono 20 km di autostrade al giorno, poi c’è tutta l’Africa. Quindi la domanda sarà ancora forte? Sì, perché il mondo va verso le megalopoli, agglomerati con più di dieci milioni di abitanti. In Europa ne abbiamo una sola, Londra, e non se ne formeranno altre, ma nel 2050 il 75% degli abitanti del pianeta vivrà in città. Le periferie saranno slam o favelas cresciuti spontaneamente, inaccessibili ai mezzi pubblici. La gente che vi abiterà avrà bisogno di un mezzo privato. E questo costituirà un grande problema al cambiamento. Ma il vero problema è un altro… Quale? Lì, come qui da noi, è l’assenza di pianificazione, l’incapacità degli amministratori di guardare lontano, di dettare le regole per governare il futuro. Ragionano sul breve, sul consenso immediato. Manca la capacità di pensare in grande.

Invece il grande cambiamento ha bisogno di pensare in grande. Il nostro Amministratore delegato in questo non difetta. Ma è di questo che abbiamo bisogno. I grandi cambiamenti hanno una start up molto lunga. I lungimiranti partono subito e guadagnano posizioni che poi li avvantaggiano. Pensa a internet. Chi ci ha creduto fin dall’inizio oggi miete successi allora inimmaginabili. Sarà così anche per le auto? Sì, ci vorrà del tempo. Ancora il car sharing non ha numeri positivi, però il futuro è quello. E l’auto dovrà ancora evolvere In che senso? Per un secolo sono state le città a trasformarsi e adattarsi alle auto, modificando la loro fisionomia, cartelli stradali, semafori, strisce pedonali, benzinai, parcheggi. Ora saranno le auto a doversi adattare alle città. E come diventeranno? Sempre più automatiche, si guideranno e parcheggeranno da sole, iperconnesse alla rete, con i pannelli solari sul tetto, sempre più sostenibili, andranno a idrogeno. Però? Però ci vorrà del tempo. Perché l’ammodernamento deve essere culturale e di sistema. Se il produttore costruisce macchine evolute ma poi non le vende, smette. A Oslo, dove circola il numero più elevato di auto elettriche, oggi sono in crisi, perché non ci sono colonnine sufficienti. L’idrogeno sarebbe una soluzione intelligentissima, meno inquinante dell’elettrico, perché l’elettricità da qualche parte la devi produrre, però hai bisogno di una rete, e costruirla è complicatissimo.

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Anche i nostri progetti di infrastrutture integrate, come le e-highways, con tecnologie ferroviarie applicate alle strade e ai mezzi che vi circolano, necessitano di una visione strategica di sistema. E lo scatto, lo ripeto, lo fa la politica, l’effettiva volontà di cambiare e investire, con determinazione, in una certa direzione. Poi l’evoluzione sarà affascinante. Le auto a guida autonoma, che oggi soprattutto noi italiani tendiamo a rifiutare, convinti di essere più bravi dei computer, andranno più piano ma saranno più veloci, creeranno un flusso continuo, faranno risparmiare tempo e spazio. Ci arriveremo, mi spiace soltanto che non farò in tempo a vedere tutte queste trasformazioni. Senti, Carlo, cambiamo argomento, ma non troppo. Siamo sulla Freccia e parliamo di viaggi. Com’è viaggiare in treno? Guarda, il treno è intelligente e veloce. Da Milano a Roma prima l’aereo era indispensabile, ora lo abbiamo cancellato. La sua era è finita. Troppo più comode le Frecce. Però hanno un difetto. Oddio, e quale? Lavori tanto di più. Una volta si diceva che bello, invece di guidare posso dormire. Adesso che sul treno puoi fare di tutto, lavori sempre. Perché sei collegato, hai un appoggio su cui scrivere, nessuno ti disturba. Tempo fa ho viaggiato a due file di distanza dall’amico Sandro Munari, grande campione di rally, un mondo che ho seguito per 14 anni da inviato. Ebbene, ci siamo scambiati a fatica due parole. Sempre a lavorare. Spero che ogni tanto troverai il tempo almeno per sfogliare La Freccia… Certo, come no?

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E che dici, le riviste di carta avranno ancora vita lunga? Difficile dirlo, senz’altro avranno una vita sempre più complicata. Poi arriverà il momento che anche la stampa farà la fine del cavallo, da indispensabile strumento di comunicazione a puro oggetto di piacere. È l’evoluzione dei media? Sì, evoluzione, penso ai contatti. Il nostro sito oggi conta sei milioni di utenti unici al mese. Ma anche involuzione. Perché l’avvento della Rete ha sconvolto il mondo dell’editoria e del giornalismo, distruggendone i pilastri e non sostituendoli. Ha distrutto certezze, aumentato il precariato. Le nuove leve non hanno più la scuola che dava una redazione. Oggi si fa tutto di fretta, basta arrivare primi. Scrivi e butti dentro. E poi? Poi la Rete diventa uno sfogatoio. C’è gente che scrive cose che non si permetterebbe mai a tu per tu. Violenza verbale e facilità di giudizi, spesso affidati all’umore del momento. Insomma, chiunque dice la sua su argomenti su cui non ha alcuna competenza. Mentre occorre approfondimento, serietà e coraggio, anche. In che senso? Quando morì Senna, Autosprint uscì con una copertina nera, con scritto solo “È morto Senna”. La successiva titolava “Il Sospetto” e dentro denunciavamo che si era rotto il piantone dello sterzo. Per sei mesi uscimmo tutte le settimane con scritto “Vogliamo la verità”. Ho avuto tante pressioni, mi ha fatto causa la FIA (Federazione Internazionale Automobilistica ndr), la Williams, mi hanno fatto causa tutti. Eravamo nel 1994,


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cause per oltre 5 miliardi di lire. Roba da non dormire la notte. Sono andato avanti. Oggi per tutti a causare la morte di Senna è stata la rottura del piantone. Il tribunale l’ha appurato. Ecco, il nostro mestiere è anche questo. E io facevo lo sport. Pensa a chi scrive di cronaca. Ci salutiamo, ma prima di lasciarmi Carlo mi accompagna al loro auditorium, dove si tiene una lezione dei tanti master che Quattroruote organizza con docenti e allievi da tutto il mondo.

Il top del top. È l’Academy, una creatura di Cavicchi di cui egli è giustamente orgoglioso: «Il 93% dei nostri allievi trova subito un lavoro nell’automotive, le aziende ormai ce li vengono a prendere e ce li portano via». Ecco, stavolta il laico in chiesa ero io. Insieme a un sacerdote che ha consacrato la sua vita al mondo delle auto, con una moglie e un figlio ex piloti. Un signore che crede - però - nello stesso futuro in cui crediamo noi: più pulito e più sicuro.

Update Dopo essermi nutrito per tutta la vita di pane e automobili, e da semplice redattore essere diventato direttore di Autosprint e poi di Quattroruote, oggi, a 73 anni compiuti, mi sono ritirato definitivamente a Bologna, la mia città. Ma continuo a scrivere articoli per giornali e riviste, oltre che libri sul mondo dell’auto, compresi anche due romanzi con l’ultimo “Rapiremo Niki Lauda” fresco di stampa. Del giornalismo sportivo, e comunque anche di quello di settore, rimpiango i tempi più complicati ma anche più riflessivi del passato. Oggi c’è tanta più facilità di accedere a fonti d’informazione ma domina su tutto la fretta, l’ansia di arrivare prima. Ai giovani non s’insegna più come scrivere bene, come costruire una storia, come approfondire una ricerca ma si chiede loro esclusivamente di fare presto: le redazioni si sono spolpate e nessuno rilegge il lavoro degli altri: si butta giù il pezzo e questo va direttamente in pagina o in rete in un trionfo di refusi, di errori grammaticali e di ovvietà. Inoltre l’omologazione dell’informazione sta diventando una regola e non sempre per colpa di chi scrive: l’ufficio stampa delle società blinda i protagonisti e ne filtra le opinioni. La spontaneità è cancellata, tutto è cloroformizzato e senza un rapporto diretto è difficile scrivere qualcosa che si faccia realmente leggere. E se alla rete non è mai richiesto qualcosa di più della semplice informazione (quasi) in tempo reale, è la carta stampata a pagare lo scotto più grande perché giocoforza arriva dopo e senza poter aggiungere qualcosa di più. Carlo Cavicchi

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MEDIALOGANDO GENNAIO 2018

BEL GIOCO E RISPETTO DEGLI AVVERSARI GLI INSEGNAMENTI DELLO SPORT PER UN 2018 DA VIVERE CON IRONIA E SERENITÀ A COLLOQUIO CON ANDREA MONTI, DIRETTORE DELLA GAZZETTA

© Fabio Bozzani

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nauguriamo il 2018 con un numero interamente dedicato all’anno nuovo. Gennaio è il mese in cui si fissano obiettivi e propositi. Non strologheremo sul futuro, ma abbiamo selezionato per voi alcuni eventi e occasioni che nei prossimi 12 mesi potrebbero valere un viaggio, proponendovi e raccontando luoghi da vivere, assaporare, ascoltare. Protagonista Palermo, Capitale della Cultura 2018. La potrete raggiungere con i nostri Intercity. E Milano, capitale dell’innovazione, sempre più proiettata verso il futuro. Viaggeremo poi su e giù per la Penisola, tra anniversari, suggestioni ed emozioni, accompagnati dalle note di Rossini, a 150 anni dalla scomparsa. Ma non indugiamo più e partiamo. A farci compagnia, ottima e stimolante, un gran signore del giornalismo italiano, Andrea Monti, direttore della Gazzetta dello Sport, la mitica rosea. Lo abbiamo incontrato a metà dicembre scorso alla consegna dei Gazzetta Sports Awards 2017, raffinato padrone di casa in una serata speciale dedicata ai migliori dieci atleti dell’anno. E allo sport che, all’alba di questo 2018, ha molto da insegnarci: «Forse è esagerato dire che lo sport sia una meta-

Andrea Monti

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MEDIALOGANDO

Una prima pagina de La Gazzetta dello Sport

fora della vita, perché la vita ha strade anche più tortuose e tragiche, mentre lo sport batte sentieri più lievi. Però una qualche similitudine c’è. E soprattutto un insegnamento fortissimo, quello del riconoscimento e del dialogo. Fondamentale in un Paese come il nostro che da questo punto di vista non riesce a ritrovarsi». Spiegaci meglio, Andrea. Nello sport ci sono avversari, mai nemici. Quando c’è un nemico c’è violenza, mentre nel termine avversario c’è il riconoscimento. Che implica confronto e rispetto dei ruoli. A noi italiani servirebbe anche sentirci componenti della stessa squadra… Sì, ma non occorre essere buonisti e immaginare una grande solidarietà sotto la bandiera italiana. Anche se in que-

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sto momento si tratta di uscire dai guai in un mondo sempre più complicato e in un’Europa che si frammenta, innalza muri, mostra nostalgie politiche per il passato e persino per i totalitarismi del secolo scorso. Ma questo non si sconfigge necessariamente andando tutti a braccetto, perché una società aperta accetta il conflitto. Dentro ci stanno Grillo, Berlusconi, Renzi, Salvini, la Meloni, D’Alema e chiunque abbia una sua idea: quel che conta è che ognuno sia cosciente del suo ruolo e riconosca nell’avversario un interlocutore. Confronto anche aspro, ma rispettoso delle regole, come nello sport. Sì, perché quando si interloquisce, cosa che manca oggi in Italia, si comincia a chiarire l’entità dei problemi e a individuare soluzioni. Insomma, nello sport il tuo avversario può anche non piacerti, ma senza di lui non giochi. Inter e Juve non si amano, è vero, ma insieme giocano con lo stesso pallone, no? Un augurio per il 2018? Mi auguro il Paese vinca, come alla fine capita spesso all’Italia, però “giocando bene”. E per farlo bisogna ritrovare l’unità di squadra. È il precetto sacchiano: il singolo non è niente se la squadra non ne esalta il talento. Il mio auspicio è vedere il Paese vincere come una squadra di Sacchi o di Guardiola, senza catenaccio, senza sperare nello stellone o nel gol in contropiede, magari in fuorigioco. E per te? Per me, ma un po’ per tutti: un anno fortunato ricco di leggerezza, ironia e serenità. E per La Gazzetta? Vorrei che continuasse a esprimere l’essenza stessa dello sport, che è il movimento e il viaggio. E portasse delle novità, tentando nuove soluzioni come


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ci chiede il nostro editore, Urbano Cairo. Il giornalismo deve ritrovare il gusto di rischiare. La nostra civiltà va verso lo smartphone, un oggetto piccolissimo diventato un grande canale di comunicazione. Ecco, mi auguro che La Gazzetta trovi il linguaggio adeguato per offrire informazione di qualità in poche battute su un piccolo schermo. Ma sappia anche rinnovare il vecchio, onorato, giornale rosa perché anche i più giovani comprendano che quel pezzo di carta lì è un’icona, un valore. Sono i due poli della sfida: il giornale di carta, che può anche essere antico ma è splendido, e lo smartphone, ultima frontiera della comunicazione. A proposito di smartphone, l’avvento del digitale ha messo in discussione il ruolo dei giornalisti. Ma non la nostra responsabilità, che è ancora maggiore. Perché, se è venuto meno il ruolo quasi prescrittivo del giornalismo, con la pretesa di sviluppare etica e convivenza civile, oggi, in un mondo dominato dai social, pieno di odiatori e fake news, c’è ancor più bisogno di scelte fatte con serietà e professionalità. Invece manca studio, gavetta… Sì, sul web sembra tutto facile. Mi arrivano dei curricula di aspiranti collaboratori che dicono: «Faccio l’opinionista sul sito tal dei tali». La nostra generazione alla parola opinionista pensava a Montanelli, Biagi, Bocca, Scalfari, Stille, non certo a un ragazzo che scrive dei post su un sito. Questo dà l’idea di quanta confusione ci sia in giro. Dobbiamo salvaguardare la grande tradizione della stampa. Non conta la piattaforma tecnologica, potremmo leggere i giornali anche in forma di un ologramma,

quel che dobbiamo difendere è il compito sociale del giornalismo. Ossia? Dalla confusione creare chiarezza, ordinare un’agenda, raccontare una verità possibile. Beni preziosissimi in un momento in cui aumentano la confusione e le falsità. Poi il giornalista un punto di vista ce lo deve avere, sennò che giornalista è? Deve però partire sempre senza pregiudizi e arrivare a casa con un giudizio, che tenti di essere oggettivo. Più confusione c’è, più questo mestiere ha valore: quindi la notizia della morte dei giornali, anche quelli stampati, per dirla con Mark Twain, “è fortemente esagerata”. Nella tua ultra quarantennale carriera quali i momenti che ti piace ricordare? Sono tanti. Penso ai primi tempi, quelli formativi. A Epoca, grande settimanale di immagine e scrittura, in anni in cui i rotocalchi hanno rappresentato tanto per la storia e l'educazione di questo Paese. I primi “compagni di banco”, tra cui Gianni Mura. Il primo direttore, Silvio Bertoldi, un grande giornalista e storico. Poi il periodo a Panorama, negli anni della battaglia tra Berlusconi e De Benedetti per il controllo della casa editrice. In quel periodo ottenemmo il record europeo di diffusione di un news magazine. Esattamente quando Bush padre sconfisse Saddam nella prima Guerra del Golfo. Il numero con in copertina “Bush d'Arabia” superò il milione di copie e ci scoprimmo il settimanale europeo più diffuso, bruciando anche i tedeschi di Der Spiegel. Un primato di tutto rispetto. Sì, senza alcun dubbio. Avevamo un editore come Berlusconi, che credeva molto in noi e dal quale ho imparato pa-

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recchio: come politico si può giudicarlo variamente, come editore è un indiscutibile fuoriclasse. Poi? L’esperienza a Oggi, davvero intensa, altra occasione di forte contatto con la grande tradizione giornalistica italiana. Il direttore storico precedente era Paolo Occhipinti, qualcuno che ha insegnato molto a tutti noi. E poi La Gazzetta. Che dirigi da sette anni. Sì, durante i quali non sono mancate le gratificazioni. Come quando abbiamo superato il milione di copie, in tempi recenti è una diffusione seconda soltanto al numero che ha celebrato la vittoria della Nazionale nel 2006. È accaduto con il triplete dell’Inter nel 2010, siamo andati avanti a stampare finchè c'era carta. E quando vedi il giornale in mano a tanta gente, la soddisfazione è assoluta. Altri momenti memorabili? La soddisfazione delle soddisfazioni è quando si riesce a fare una prima pagina non dedicata al calcio. Come è accaduto con Federica Pellegrini, o con le tenniste, Roberta Vinci, Flavia Pennetta e soprattutto Francesca Schiavone, nel 2010, con il suo trionfo al Roland Garros. Poi le Olimpiadi, che creano un clima irripetibile, come nel 2012 a Londra, dove avevamo trasferito la redazione. Per dirigere La Gazzetta occorre? Umiltà e fisico: la fatica ti assicura anche il divertimento. Spiegaci. Umiltà, perché La Gazzetta ha più di 120 anni e, raccontando lo sport, ha incrociato la storia d'Italia. Soltanto il Giro d'Italia è stato un filo rosa che ha percorso la storia di questo Paese per più di un secolo. La Gazzetta ha tradizioni

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straordinarie. C’è passato il meglio del giornalismo italiano: da Candido Cannavò a Gino Palumbo a Gianni Brera. Un patrimonio culturale che va coltivato con molta umiltà, sapendo che chi viene dopo riceve in eredità qualcosa che, a sua volta, lascerà in eredità a qualcun'altro. Noi passiamo, La Gazzetta resta. Poi, hai detto fatica e divertimento. Sì, perché oggi un grande quotidiano non è più solo un giornale di carta che viene stampato la sera, ma è un fenomeno molto complesso che dura, nel caso poi di un quotidiano sportivo così popolare, sette giorni alla settimana. Però è divertente. Se mi avessero detto all'inizio della carriera che sarei stato pagato per vedere le partite di calcio o le Olimpiadi… beh, avrei firmato immediatamente. Avrei detto come Biagi – un maestro di vita oltre che di giornalismo– “l'avrei fatto anche gratis!” Oddio, forse proprio gratis no (ride, ndr). Andrea, a leggerci saranno soprattutto viaggiatori delle Frecce Trenitalia. Cos’è per te il viaggio? I saggi dicono che non è la meta che conta, ma il viaggio stesso. Il punto dopo punto che percorri. Il viaggio è la vita stessa, la voglia di vedere orizzonti nuovi, di scoprire sé stessi. Nella vita di un giornalista è un elemento fondamentale, una spinta propulsiva. E il treno? Mi piace, e non lo dico per piaggeria. Perché il treno è un po’ come il Giro d’Italia, una splendida manifestazione sportiva, ma anche una spettacolare cartolina di questo Paese. Che dal treno puoi scoprire. Quando viaggio mi perdo con l’occhio nella campagna, immagino la vita delle persone alla sera quando


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cominci a vedere le luci nelle case, la grande pianura lombarda, i rilievi lontani. Poi, per uno come me che non ama l’auto e considera la maleducazione stradale una delle piaghe di questo Paese, spostarsi da Bologna a Milano in un’ora o in un’ora e tre quarti da Firenze mi ha cambiato la vita. Ora anche le squadre di calcio hanno scoperto le nostre Frecce… È così, perché l’AV ha modificato in meglio le nostre abitudini. E le squadre di calcio hanno imparato che l’aereo non è più un segno di distinzione. C’è qualcosa di molto bello nel vedere una squadra come il Milan, l’Inter, la Roma, il Napoli, la Juve salire su una Freccia insieme alla folla degli altri passeggeri. Ma anche i treni locali hanno un fascino immenso. Anche lì stiamo lavorando per offrire un servizio sempre migliore. Sì, mi è capitato di constatarlo in certe mie trasferte nelle zone dell’alta Romagna, in Friuli, in Veneto, dove una volta prendevamo l’auto e ora troviamo il treno locale comodo e più efficiente. C’è da lavorare, è ovvio, ma il futuro della mobilità corre sui binari. Torniamo al 2018 appena iniziato, sarà ricordato come l’anno della nostra as-

senza dai Mondiali di calcio. È un brutto colpo, per il Paese e per i milioni di appassionati che si trovano intorno alla Nazionale come a un totem. Un'estate senza Mondiale sarà veramente strana. Avrà un riverbero negativo sull'atteggiamento delle persone, sulla propensione agli acquisti e, quindi, sull’economia. Ne soffriremo anche noi della Gazzetta, che venderemo meno copie e incasseremo meno soldi di pubblicità, ma ci inventeremo iniziative nuove e ci consoleremo con altri importanti appuntamenti, come le Olimpiadi invernali e il nostro Giro d’Italia. Quest’anno con partenza da Gerusalemme… Sì, un’edizione che si preannuncia storica, e complicata. Soprattutto dopo la decisione di Trump di trasferire l’ambasciata USA a Gerusalemme. Temi tensioni e polemiche? Quest’aspetto era imprevedibile. Per noi collegare Gerusalemme con Roma significa parlare di pace, in nome delle tre grandi religioni monoteiste. È il cammino delle Crociate percorso innanzitutto al contrario, e da una carovana di 200 giovani in bicicletta. All’insegna dei valori dello sport: gioia, lealtà, dialogo.

Update Andrea Monti, dal 21 giugno 2020, dopo 10 anni non è più direttore della “rosea”. Ha lasciato il suo incarico restando nel mondo dello sport e assumendo quello di Communications Director della Fondazione Milano-Cortina 2026. Nota dei curatori

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DISCERNERE L’ESSENZIALE LA CIVILTÀ CATTOLICA È LA PIÙ ANTICA RIVISTA IN LINGUA ITALIANA FONDATA NEL 1850, A DIRIGERLA È PADRE ANTONIO SPADARO, ATTENTO STUDIOSO DEI NEW MEDIA

© Don Doll S.J. (2016)

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a Freccia di febbraio si presenta con un’esplosione di allegria e colori, “Oh, Vita!”, nell’autoritratto di copertina di Lorenzo Jovanotti, preludio all’energia che ci regala la sua intervista. Ma la vita, come questo febbraio diviso a metà tra Carnevale e Quaresima, è un mix di sentimenti contrastanti, continua esplorazione tra luci e ombre. Così La Freccia attraverserà i saloni dei balli in maschera e il Carnevale dei nostri borghi, ma ci inviterà poi a scoprire, in una sorta di controcanto, il silenzio di suggestivi eremi e cimiteri monumentali. Festa e riflessione, necessarie entrambe e l’una all’altra per essere apprezzate. È anche per ragionare su questi temi che abbiamo chiesto di incontrare Padre Antonio Spadaro, gesuita, direttore dal 2011 de La Civiltà Cattolica. Ne è nata una conversazione di domenica mattina, alla vigilia della sua partenza insieme a papa Francesco per la visita pastorale in Cile e in Perù. La Civiltà Cattolica è la rivista della Compagnia di Gesù, l’ordine fondato da Sant’Ignazio di Loyola, i redattori sono tutti gesuiti. È la più antica rivista in lingua italiana, pubblicata dal 1850, ossia da quando “ancora l’Italia non esisteva” come ricorda Spadaro. Fu fondata da un papa, Pio IX, e da sempre vive un rapporto molto speciale

Padre Antonio Spadaro

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La storica copertina del n. 4.000 con il chirografo papale

con il pontefice. Diventato ancor più stretto da quando, per la prima volta, è diventato papa proprio un gesuita: Francesco. Uomo di raffinata cultura umanistica, teologo e critico letterario, attento studioso dei media e dei new media, Spadaro ha un suo profilo su tutti i principali social network, con tantissimi follower. E cura un sito il cui nome la dice lunga: cyberteologia.it. Abbiamo raccontato a Padre Spadaro perché, in questo mese diviso tra Carnevale e Quaresima, volessimo trovare lo spazio per uno specialissimo viaggio, fisico e mentale, tra luoghi e stati d’animo differenti. Parlare con un gesuita non è ovvio, la nostra conversazione parte subito dall’alto. Dal senso del contesto, per capire, anzi per discernere.

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Per sapere dove si è arrivati nel viaggio di tutti i giorni, dobbiamo prima renderci conto da cosa siamo circondati. Oggi siamo attratti dalla geo-localizzazione, ciascuno vede se stesso come un puntino, però alla fine è sempre concentrato su se stesso. Invece la nostra capacità di discernimento si realizza se riusciamo a guardare con attenzione la realtà. Come ci si riesce? C’è una bella immagine che mi viene sempre in mente quando sono in treno, ovvero che noi siamo la realtà in cui ci muoviamo, una realtà in movimento, perché noi ci muoviamo, non siamo mai gli stessi. Quindi guardare da un finestrino la vita può essere molto utile, perché è un’occasione in cui ci dimentichiamo di noi stessi e possiamo guardare il panorama. Ossia una realtà definita e valori immutabili, con i quali confrontarci. In questo momento storico viviamo in mezzo a una cronaca di contrapposizioni, pensiamo al viaggio dei migranti. E si pone la questione delle coesistenze, anche della coesistenza di bene e male. Il male non si fa da solo. La prima risposta che il cristiano cerca di dare è perché una certa cosa è avvenuta, sentendosi responsabile di quello che succede al mondo. E come reagisce? La risposta più facile e immediata è lo sdegno e il rifiuto. Però c’è un livello più profondo, quello dello sgomento. Lo sgomento davanti a quel che l’uomo è in grado di fare ti ammutolisce. Ti porta a guardare il male e a ritenerlo profondamente estraneo alla natura dell’uomo. Però è quanto abbiamo sperimentato nel corso della storia, con efferatezze come la Shoah o le stragi etniche. Sì, ma il messaggio che l’uomo religioso può dare è che il male non è parte di ciò


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che tu devi essere. E, provocando sgomento, impone un discernimento, indispensabile per tentare di comprendere cosa è avvenuto. A questo punto chiediamo, al sacerdote ma soprattutto all’esperto della Rete, come il discernimento trovi applicazione nel web, ossia in un contesto fatto di immediatezza, di giudizi e pregiudizi incontenibili. È una questione educativa e culturale. Serve una nuova capacità di leggere e interpretare i dati. Bisogna educare e insegnare alle persone a capire i meccanismi della rete e discernere cosa è vero e cosa è falso. Perché all’origine delle fake news ci sono anche algoritmi che ci vengono a cercare. Appunto. Che tendono a mostrarci realtà che ci assomigliano. Perché quando si va in Rete non ci si informa, ma si cerca qualcuno che confermi le nostre idee. Se abbiamo un’intuizione, non cerchiamo di capire se sia vera o falsa, ma chi e come sia in grado di sostenerla. E la Rete ci asseconda. Esatto. Così si crea una società di specchi che si auto-contemplano, per cui l’uomo politico, per esempio, non parla più al suo popolo ma parla al suo elettorato, per rafforzarlo e confermarlo. Fino a usare un linguaggio prima inimmaginabile, assumendo posizioni estremamente pericolose. Forse occorrerebbero anche norme più stringenti. Resto convinto che sia facile manipolare l’opinione pubblica perché non c’è capacità di discernimento. Non si comprendono, ad esempio, i meccanismi delle cosiddette bolle filtrate (filter bubbles), ossia degli algoritmi che tendono a mostrarci le realtà che ci assomigliano. La questione quindi può essere affrontata anche sotto l’aspet-

to legislativo, con norme che aiutino a fare chiarezza, ma resta soprattutto educativa. È anche vero che la Rete è un’arena dove, tornando ai temi di prima, esce fuori il peggio delle persone. Ma non è uno strumento che possiamo decidere se usare o no, è un ambiente dal quale è impossibile restare fuori. E poi, vivendoci dentro, ci si rende conto di come i veri problemi non siano della tecnologia ma umani. Sono quelli che abbiamo sempre vissuto, solo che adesso hanno una forma diversa, perché la Rete permette un’accelerazione della comunicazione e un’ubiquità. Comunque, insieme al peggio, tira fuori anche il meglio delle persone. La solidarietà, la condivisione, anche della conoscenza, penso a Wikipedia. E la condivisione è un tema che ti sta particolarmente a cuore, come dimostra l’esperienza di BombaCarta, il laboratorio per idee che hai fondato 20 anni fa. Sì perché BombaCarta nasce da un’idea di ispirazione artistica come dono e, appunto, condivisione. Quando insegnavo a scuola, tirai per caso un cassetto fuori da una scrivania e vidi una poesia incisa nel legno. Mi resi conto del grande bisogno di espressione dei giovani, dissi “proviamo a tirar fuori questa energia” e proposi a un gruppo di ragazzi di incontrarci per imparare a leggere e scrivere nel senso più bello e completo del termine. E quella che pensavo fosse un’esperienza per pochi è diventata qualcosa di molto più grande, già al primo incontro si presentarono in 42. Da qui è nata un’avventura che continua fino ad ora e non si è mai interrotta. Tutto il contrario dell’arte come genio e sregolatezza. Già, molto spesso vince l’idea individualista dell’artista come personalità isolata da tutti gli altri. Invece BombaCarta ha perce-

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pito l’ispirazione artistica come qualcosa che si riceve e poi si condivide in un incontro che arricchisce tutti. Arte quindi come comunione. E occasione per interrogarsi su temi di grande profondità. Perché mi sono reso conto che quelle domande, come l’esperienza morale e religiosa, che prima prendevano posto per connaturalità nelle chiese, si sono spostate, almeno in parte, proprio nel mondo artistico, nella musica, nella scrittura, nella poesia, nel teatro. Anche per questo La Civiltà Cattolica affronta sempre questi argomenti? Sì, la nostra è una rivista aperta alle sfide della laicità, si è sempre occupata di economia e di politica, ma anche di arte, cinema, letteratura e cultura in generale, in maniera militante, con l’obiettivo di incidere sul modo di pensare. Una rivista complessa, che noi consideriamo una ricchezza per il nostro Paese. Con un inizio “deflagrante”, anche quella una sorta di BombaCarta rivoluzionaria. Non è vero? Deflagrante, esatto. Perché La Civiltà Cattolica nel 1850 accettò e vinse una sfida più o meno simile a quella odierna della Rete. I quotidiani che nascevano in quegli anni venivano considerati, come oggi diremmo, gli organi ufficiali delle fake news. E allora la rivista, anziché scegliere la solita strada, pubblicare in latino e tenersi su un tono aulico, decise di uscire in italiano quando ancora l’Italia non c’era, nonché assumere lo stesso stile dei giornali, dei quotidiani anarchici, socialisti dell’epoca. La sfida continua, mi sembra. Oggi, come direttore, mi trovo davanti una doppia sfida. Una è quella digitale, l’apertura alla mediazione del pensiero sulle varie piattaforme. Però, alla fine, la rivista non è la carta, non è il supporto, ma è il

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pensiero che è capace di sviluppare. E che poi viene mediato nel sito e nei vari social media. L’altra? La seconda è che La Civiltà Cattolica è sì una rivista italiana, celebrata nel suo numero 4.000 dal Papa, dal Presidente Mattarella e dal Presidente del Consiglio, ma oggi è difficile immaginare una rivista di cultura che viva di dinamiche interne a una sola nazione. Quindi l’altra sfida è quella di una decisa internazionalizzazione. Come la stai affrontando? Intanto da febbraio 2017 usciamo in cinque lingue (italiano, inglese, francese, spagnolo e coreano) e sempre di più accogliamo articoli di Gesuiti, da tutte le parti del mondo. Dal primo numero di febbraio 2018 abbiamo un gruppo fisso di corrispondenti da Paesi quali la Repubblica Popolare Cinese, la Russia, la Germania, il Ruanda. La nostra attenzione per l’Italia resta, ma proiettata nel contesto delle dinamiche globali. Del resto i gesuiti, che da sempre hanno fatto opera di evangelizzazione, sono presenti un po’ in tutti gli angoli del globo. Sì, e in qualche modo la compagnia di Gesù diventa la redazione della rivista, che racconta luoghi, situazioni e vicende di cui ha esperienza viva. Per esempio, abbiamo pubblicato un articolo sulle violenze del Ruanda scritto da un gesuita, dottorato negli Stati Uniti, a cui è stata massacrata la famiglia. Essere in ogni parte del mondo significa muoversi, viaggiare. Cos’è per te il viaggio? Un argomento che mi ha sempre attratto, a cui ho dedicato la mia prima esperienza editoriale, Tracce profonde, pubblicato nel 1993 con la collaborazione dei miei


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studenti di liceo. Il viaggio è bello perché permette di aprire l’anima. Ci abitua alle differenze, alle diversità di lingua, di colore, di tradizioni. Ma non basta viaggiare per aprire l’anima, occorre coltivare la curiosità per l’altro, soprattutto per chi non risponde alle nostre categorie, percezioni, abitudini. E poi c’è l’aspetto paesaggistico. Al viaggio si attribuiscono anche tanti altri significati. Del resto la vita stessa è un viaggio. Sì, certo. Il viaggio è anche un’esperienza antropologica profonda che ci aiuta a essere noi stessi. È un’esperienza che l’uomo in realtà ha sempre fatto da quando era pastore. L’uomo nasce viaggiatore e poi diventa stanziale. Prima hai detto: «La rivista non è la carta». In queste interviste chiediamo sempre se la carta sopravvivrà al digitale. È difficile immaginare cosa accadrà. La carta è come una cornice che nobilita i contenuti. Ma il digitale è più flessibile, elastico. In Rete è possibile pensare e creare insieme, ci si può esprimere in maniera più ampia, approfondire. Anche se, alla fine, non è detto che carta e digitale siano in opposizione.

A proposito di opposizioni, torniamo a Carnevale e Quaresima da cui siamo partiti. Che rappresentano? Il Carnevale è il tempo delle maschere: l’obiettivo è nascondersi, e divertirsi a tutti i costi. Divertimento viene dal latino “divertere”, volgersi altrove, fino a uscire fuori strada. È giusto divertirsi, ma senza trasformare la vita in un Carnevale. O, peggio, in una fuga dalla propria vita. Perché quando poi cade la maschera si fanno i conti con se stessi. E in Quaresima le maschere cadono. Arriva il tempo dei bilanci, emergono i pesi che ciascuno porta addosso. È il momento giusto per intraprendere un percorso fondamentale: camminare in un immaginario deserto per capire quello che è davvero necessario per la propria vita. E puntare all’essenziale. Chiudiamo con un pensiero e un augurio per questo Paese. Spero sappia valorizzare sempre di più le sue grandi risorse. Che riscopra le proprie radici nel grande progetto di un’Europa dei cittadini. Perché nessun Paese, oggi, può immaginare di farcela da solo.

Update La sfida dell’internazionalizzazione, annunciata nell’intervista del febbraio 2018, è stata portata avanti con successo dal direttore de La Civiltà Cattolica Padre Antonio Spadaro. La rivista, dal 20 aprile 2020 ha anche un’edizione cinese e dal 7 novembre 2020 in giapponese. Proprio nel 2020 La Civiltà Cattolica ha festeggiato il suo 170esimo anno di età. In questa occasione Papa Francesco ha inviato un messaggio scritto a mano e il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricevuto in udienza il Collegio al Quirinale. Padre Antonio Spadaro, dal 19 marzo 2019, è stato infine nominato dal Papa membro ordinario della “Insigne Accademia Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon”. Nota dei curatori

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MEDIALOGANDO MARZO 2018

LIBERARSI DALLE SCHIAVITÙ

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otremmo iniziare citando Benedetto Croce e il suo «non possiamo non dirci cristiani». Intrisi come siamo, anche laici e non credenti, di quell’humus culturale che ha permeato duemila anni di storia, corriamo con la nostra Freccia verso la primavera, raccontandone riti e tradizioni, e verso una rinascita che non tratteremo solo come ciclico passaggio stagionale, ma nella sua più vivida e metaforica espressione: la Pasqua. Festa ebraica prima e poi, appunto, momento culminante del Cristianesimo. Lo facciamo in compagnia, per il secondo mese consecutivo, di un uomo di chiesa, don Antonio Rizzolo, direttore dal dicembre 2016 di Famiglia Cristiana, storico settimanale fondato nel 1931 dal beato Giacomo Alberione. Lo stesso che 17 anni prima, ad Alba, aveva dato vita alla Congregazione Religiosa dei Paolini, editori della rivista e comunicatori per missione. Don Antonio, questa Freccia è ricca di servizi dedicati alla Pasqua. Partiamo da qui. Cos’è la Pasqua nel XXI secolo? È ancora quel che è sempre stata, ossia la principale festa del Cristianesimo, la celebrazione della resurrezione di Cristo. Anche se in realtà la Pasqua non indica soltanto la resurrezione ma, com’e-

© Giovanni Panizza

LA BUONA INFORMAZIONE COME ELEMENTO FONDAMENTALE IN UN PAESE DEMOCRATICO. LA FRECCIA INCONTRA DON ANTONIO RIZZOLO, DIRETTORE DI FAMIGLIA CRISTIANA

Don Antonio Rizzolo

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Numero del 21 gennaio 2018

ra nel suo originale significato ebraico, rappresenta e descrive un “passaggio”, quello di Cristo dalla passione alla morte fino, appunto, alla resurrezione. Per i cristiani è l’attualizzazione della Pasqua ebraica: il passaggio dalla schiavitù dell’Egitto alla liberazione e al cammino verso la terra promessa. Un percorso, quindi. Sì, ma di liberazione. Per il cristiano è quello della fede, che conduce dalla morte del peccato alla vita nuova in Cristo. Un passaggio che chiede di essere rinnovato quotidianamente. Ma il messaggio riguarda tutti, anche i non credenti. La Pasqua invita a rinnovarsi, a lasciarsi trasformare per liberare noi stessi e gli altri da ogni forma di schiavitù, a iniziare da quella dell’odio e della violenza. Quali sono oggi le altre schiavitù? Ce ne sono varie. Iniziando da quella

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concreta, storicamente intesa. Pensiamo al fenomeno della tratta di persone sfruttate a scopi sessuali o economici. Oggi la tratta delle persone è il terzo business a livello mondiale dopo le armi e la droga. Spesso è in mano alla mafie. Le tantissime ragazze nigeriane, attirate nel nostro Paese, magari con la promessa di un lavoro migliore o di ricongiungersi con qualcuno, e poi costrette a prostituirsi lungo le nostre strade, sono vere e proprie schiave moderne. Così come gli immigrati, e non soltanto loro, sfruttati e costretti a lavorare in nero e senza diritti. Ma ci sono anche schiavitù più subdole? Sì, e riguardano ciascuno di noi, nel nostro Occidente. Per esempio la schiavitù del consumismo, con la smania di possedere l’ultimo oggetto tecnologico, perché quello di un mese prima è già diventato obsoleto. Credendo, attraverso questa rincorsa, di conquistare la gioia e la felicità. Invece ci chiudiamo in noi stessi, schiavi del più sterile egoismo e individualismo. Un individualismo che purtroppo trova manifestazioni nella vita di tutti i giorni, anche nel disamore per il bene comune o nello scarso senso civico. Quali le cause? I messaggi consumistici dei media e della pubblicità, lo sfaldamento della famiglia che ha reso più fragili le relazioni, la debolezza di tanti agenti educativi, compresa la scuola e purtroppo anche la parrocchia, che ha perso un po’ di presa su chi frequenta la chiesa. Ma l’individualismo non porta a nulla di realmente buono. Come diceva Aristotele, l’uomo è un animale sociale. Siamo fatti per vivere in società, aiutandoci


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reciprocamente. Stiamo invece perdendo il senso della comunità e dell’appartenenza. Prevale l’egoismo. Ecco che c’è bisogno di Pasqua, la liberazione dall’egoismo è l’amore, è l’accoglienza e la benevolenza. Invece, appunto, a vincere è sempre più la diffidenza? Questo perché siamo molto spesso schiavi di paure, magari anche infondate. Un po’ è naturale, soprattutto in una società come quella italiana che va sempre più invecchiando. Chi comincia ad avere una certa età è più diffidente, è molto meno propenso, rispetto a un giovane, a lanciarsi e aprirsi. Forse c’è anche dell’altro? Sì, molte paure, dal mio punto di vista, sono indotte per altri scopi. Penso proprio alla paura del diverso e dello straniero. Ecco, anche questa in fondo è una forma di schiavitù. Perché impedisce di vedere le cose in maniera obiettiva, conduce a una visione distorta e ci fa chiudere in noi stessi. Ecco, di nuovo, c’è bisogno di Pasqua, di passare appunto dalla paura alla fiducia. Paura e fiducia, con altre accezioni, mi fanno pensare ai viaggi di molti migranti. Dalla disperazione verso la speranza. Noi sulla Freccia parliamo di viaggi. I loro, però, non sono certo di piacere… No, e spesso finiscono tragicamente. Però il viaggio ha sempre una connotazione positiva, anche quello di chi fugge da guerra e carestie, e lo fa a bordo di precari barconi o sotto un camion, perché è la ricerca di salvezza e di un futuro migliore. Che c’è di positivo? La speranza di una meta. È la speranza che muove ogni viaggio.

Sufficiente a conferirgli questo valore? Sì, per noi cristiani sì. Anche nella diffusa metafora della vita come viaggio, il viaggio non vale in quanto tale ma in funzione della meta da raggiungere. Magari molto lontana, che si intravede soltanto, ma è quella che ci spinge a viaggiare. Il senso della speranza cristiana è raggiungere quella meta. Che per un cristiano è la vita eterna? Sì, come insegna Benedetto XVI nell’enciclica Spe Salvi. Per il cristiano la meta finale oltrepassa la vita terrena. E in questo senso il viaggio è anche metafora della libertà. Perché? Perché una meta così lontana e grande ci porta a considerare le tappe intermedie per quelle che sono. Il cammino non si ferma mai, non è legato per sempre a nulla, è veramente e totalmente libero. Una libertà che è anche quella del pellegrino. Nel 2001 ho avuto la fortuna di fare il Cammino di Santiago a piedi. Ricordo i disagi e la gioia di incontrare persone, la fatica e la soddisfazione di raggiungere mete che però erano temporanee, perché poi ce n’era un’altra e ancora un’altra. Cammini verso Occidente, come per raggiungere il sole che diventa l’unica tua bussola, quel sole da sempre simbolo di Cristo. Cammini per ricongiungerti a Lui. Come recita l’epistola A Diogneto, testo in greco del II secolo, per i cristiani in questa terra tutto è la loro patria, ma allo stesso tempo non lo è, perché la loro patria è il cielo. Così il cristiano è impegnato a essere presente nelle pieghe del mondo, ma allo stesso tempo ad andare oltre. Parliamo dell’impegno “nelle pieghe

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del mondo”. Il tuo da giornalista, e quello di Famiglia Cristiana. Lavoriamo perché la buona informazione arrivi alla gente, convinti che sia un elemento fondamentale in un Paese democratico. Se non ci fosse qualcuno che racconta ciò che non funziona e le scelte sbagliate di chi amministra, saremmo tutti un po’ meno liberi. Nello stesso tempo ci vuole sempre qualcuno che non si limiti alla denuncia, ma evidenzi quel che di buono c’è nel mondo. Noi su Famiglia Cristiana cerchiamo di fare questo: raccontare a tutto campo anche situazioni negative e di grave degrado, scavando per far emergere un elemento positivo. Bene e male coesistono da sempre. E il nostro obiettivo è mostrare il seme di bene presente anche nelle situazioni peggiori. Mettendo in pratica quella che papa Francesco chiama “la logica della buona notizia”, l’elemento che apre una prospettiva alla speranza. Per dirla con le parole del fondatore don Giacomo Alberione «parlare di tutto cristianamente». Quindi anche una particolare attenzione ai valori. Lo recita il sottotitolo della testata: “I fatti mai separati dai valori”. Non ci limitiamo a raccontare i fatti, ma anche i valori che emergono dalle storie che raccontiamo. Quando parliamo di attualità con i classici mezzi del giornalismo d’informazione, dal reportage all’inchiesta e all’intervista. Quando curiamo rubriche di servizio, dalla previdenza alla salute, dai rapporti all’interno delle famiglie, in particolare tra genitori e figli, fino al dialogo con i lettori. Che per un giornale d’ispirazione religiosa rappresenta un capitolo impor-

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tante. La rivista si apre da innumerevoli anni, se non da sempre, con la rubrica Colloqui col Padre. Qui il direttore non si limita a rispondere ai lettori, ma ci intrattiene una sorta di colloquio spirituale, quale avviene o dovrebbe avvenire nelle parrocchie tra i fedeli e il loro parroco. Chi anni fa mi ha preceduto, don Giuseppe Zilli , raccolse alcuni di questi colloqui in un volume dal titolo La parrocchia di carta. A proposito di carta, Famiglia Cristiana ha conosciuto una crisi di vendite negli ultimi anni. Quale futuro avrà l’editoria tradizionale con l’avvento del digitale? Famiglia Cristiana negli anni ’70 stampava una media di 1,3 milioni a settimana, con una punta di due milioni. Oggi condivide le difficoltà di tutto il settore. Però, se da una parte è vero che i giornali cartacei vendono sempre meno, sono ancora quelli che reggono dal punto di vista economico e pubblicitario. Quindi, al momento la carta sopravvive? Per ora sì. Ma è difficile fare previsioni. Di solito si dice che guardando gli Stati Uniti si saprà quello che succederà in Italia fra qualche anno. Ma anche là non si capisce cosa avverrà. Ci sono giornali che hanno chiuso, per uscire solo sul web e poi sono tornati indietro. L’augurio è che l’informazione conservi forme di finanziamento che ne preservino indipendenza e libertà. Perché il web può diventare pericolosissimo. Qualche avvisaglia l’abbiamo già avuta. C’è poi da dire che internet e i social ci hanno fatti diventare tutti comunicatori.


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È proprio così. La responsabilità di un’informazione corretta riguarda in primo luogo gli operatori, ma ormai tutti siamo comunicatori nel mondo digitale. Però questa responsabilità sembra che latiti. Nel caso dei giornalisti valgono le regole della deontologia: raccontare la verità sostanziale dei fatti utilizzando gli strumenti necessari e verificando le fonti. Oggi dovrebbero farlo tutti. Perché se io su facebook ricevo da un mio contatto una notizia la cui diffusione può arrecare danni e istigare alla violenza, prima di condividerla dovrei verificarla. Invece in tanti non si rendono conto della risonanza che creano i social network. Pensano di essere al bar sotto casa, a scambiare due battute con gli amici. E finiscono persino per danneggiare se stessi, la propria reputazione, magari per una goliardata. È un problema culturale? Dovremmo renderci conto che la rete non è un mondo a parte dove possiamo mascherarci e nasconderci. Non possiamo sottrarci alle nostre responsabilità. Poi c’è un problema di formazione, di conoscenza dei meccanismi, per difendersi. Perché in Rete c’è chi opera in malafede per diffondere certe idee e atteggiamenti, e ha l’obiettivo non di raccontare la verità ma di manipolarla. Come accade con le fake news… Che peraltro sono sempre esistite. Come gli episodi di bullismo e di violenza. Rovistando negli archivi della Gazzetta d’Alba mi ha incuriosito una notizia di fine ‘800 su un gruppo di ragazzi che tiravano pietre a un treno. Niente di nuovo, solo che oggi si diffonde più velocemente e in maniera virale. Ma c’è anche di peggio.

Ossia? Notizie raccontate in modo da supportare una determinata tesi. Ricordo un post su facebook e un articolo della Stampa, al riguardo, che metteva in guardia da questo pericolo. Si parlava di un immigrato somalo, accolto in Svezia, che uccise, tagliandole la gola, la figlia dodicenne della coppia ospitante. Potete immaginare i commenti. Ebbene, la famiglia era somala, l’immigrato, quindi, un connazionale. Era affetto da disturbi psichici, la bambina entrando in bagno lo trova a radersi la barba, teme che si stia suicidando, cerca di fermarlo, e nella colluttazione viene ferita a morte. Come dire: sulla Rete vince il sensazionalismo? Rischia di emergere quel che è emotivamente più forte e immediato. O che tocca la pancia delle persone. Ma non tutto è pancia. C’è bisogno di approfondimento, che il web permetterebbe. Se la fretta e il modo con cui le persone ne usufruiscono non lo impedissero. Perché? Perché, soprattutto quando la notizia conferma le nostre opinioni, è più semplice e comodo. Approfondire o mettersi in discussione è faticoso. Torniamo a Famiglia Cristiana, anche voi siete online. Sì, ci siamo con il sito famigliacristiana. it, poi con l’app, con la pagina facebook e l’account twitter. Quali le differenze? Intanto la tempistica. Il sito è di fatto un quotidiano, la rivista un settimanale. E non è affatto banale decidere quali notizie saranno sempre attuali quando usciamo con la carta. Basti pensare come alcune che per qualche minuto hanno aperto la pagina web di impor-

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tanti quotidiani, il giorno dopo conquistino appena lo spazio di un trafiletto. L’impaginazione di un giornale, meno fluida di quella di un sito, stabilisce le gerarchie. Con un mensile è ancora più complesso… Lo so bene, da accumulatore di cariche quale sono dirigo altre due riviste, Credere e Jesus, che è un mensile. Qui ho voluto una sezione, intitolata Il mese,

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che racchiudesse le notizie più importanti, a nostro avviso, del mese appena trascorso. Insomma una sorta di bussola per comprendere il reale peso dei fatti. Ed è proprio di una bussola di cui tutti noi avremmo davvero bisogno, credenti e non, per non lasciarsi sopraffare dal disorientamento. Per il momento, incamminiamoci verso la Pasqua.

Update C’è sempre più bisogno di una bussola. Attraverso Famiglia Cristiana cerchiamo di offrirla con un’informazione equilibrata e corretta, presentando Cristo e il suo Vangelo come chiave di lettura. Sulla scia di Papa Francesco che, nell’ultima enciclica, ci invita a costruire un mondo più fraterno: “Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!” Don Antonio Rizzolo

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SENZA MEDIAZIONI INCHIESTE E APPROFONDIMENTI E UNA CHIAVE DI LETTURA PER COMPRENDERE IL PRESENTE A COLLOQUIO CON MARCO DAMILANO, DIRETTORE DE L’ESPRESSO

© Tania Cristofari

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i incontriamo nel suo ufficio. È appena rientrato dagli studi Rai di Saxa Rubra, dopo aver combattuto il traffico di una Roma ebbra di pioggia, ed è in procinto di partire, in treno, per una tappa di presentazione del suo ultimo libro: Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica in Italia (Ed. Feltrinelli, pp. 272 € 18). Marco Damilano, da pochi mesi direttore de L’Espresso, dopo esserne stato vicedirettore per due anni, è anche un noto volto televisivo, e un acuto commentatore politico. Di una politica che fatica a tornare quale la vorremmo, nobile guida della polis. Il settimanale che dirige è da sempre un severo guardiano del potere, in tutte le sue espressioni. Barometro politico, sociale e culturale di un Paese ripetutamente sull’orlo di qualche precipizio. Ho con me, feticci da attempato lettore, alcune copie degli anni ‘70 e ’80. Leggo vecchi passi di analisi politica. Sembra di assistere, pur nel mutare dei tempi, a sconfortanti déjà vu. «Così potremmo passare per profeti di sventure. In realtà quelle analisi si sono rivelate giuste. I disastri sono arrivati davvero. È iniziata la tragica stagione degli anni di piombo, l'inflazione ha

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preso a viaggiare a due cifre. Poi, all’inizio degli anni ‘90 scoppia Tangentopoli, abbiamo la crisi della lira. È anche vero che in queste fasi l'Italia ha poi trovato le risorse per andare avanti». Ma sembra ogni volta prossima all’ultima spiaggia… Esiste una sorta di dialettica tra un'Italia in cui sembra che tutto vada sempre male e un'Italia in cui sembra che tutto vada sempre bene. In mezzo c'è uno spazio critico, l'allarme per quello che non va e il tentativo di cambiare. L'Espresso non si è mai limitato a segnalare ciò che non andava, ma ha indicato quel pezzo d'Italia su cui scommettere. E oggi? Che Italia emerge dalle elezioni del 4 marzo? Un Paese percorso da nuove fratture, come abbiamo sintetizzato in una nostra copertina di marzo. Non più, e non

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soltanto, quella antica tra Nord e Sud, che peraltro si è consolidata nel voto alla Lega a Nord e in quello per il M5S a Sud, ma fratture più generali prodotte dal fatto che sono saltati i corpi intermedi, sono venute a mancare alcune infrastrutture. Facci capire meglio. Sì, prima c'erano e funzionavano i sindacati, le imprese, la Chiesa, le associazioni… Oggi al loro posto c’è una grande voglia di autorappresentazione. Il voto è stato un voto di rabbia, per certi versi di paura, per altri di speranza ma, soprattutto, ha mostrato che questi sentimenti non sono più mediati dalla politica. Ognuno vuole diventare protagonista in prima persona, come sui social. Io ho usato la metafora del reality: quel genere televisivo in cui, a un certo punto, le persone normali sono andate in televisione senza più essere mediate da conduttori. Le telecamere del Grande Fratello si sono accese su ragazzi e ragazze normali che vivono insieme in una situazione anormale. Ecco, mi sembra che questa sia un’efficace metafora per raccontare quello che è successo. Un fenomeno presente in altre parti dell'Occidente, ma che da noi ha una velocità e una dimensione assolutamente originali. È quanto in un certo modo esprime il Movimento 5 Stelle. Qui andiamo anche oltre la metafora, il loro portavoce è stato addirittura concorrente al Grande Fratello… Però, vedo differenze rispetto al 2013. Sta venendo un po’ meno l’uno vale uno, ossia l'idea di trasformare chiunque in un deputato o in un senatore. Mi sembra che la composizione dei gruppi parlamentari sia più un micro-notabilato, soprattutto


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al Sud, che magari non ha mai trovato posto nei partiti tradizionali e dice “beh, sapete che c'è? A questo punto mi rappresento da solo” e usa il M5S come infrastruttura. In ogni caso assistiamo a una crisi di rappresentanza dei partiti più tradizionali. Sì, il tema è proprio quello della rappresentanza. Con politici percepiti non più tanto come casta, ma come un ceto a sé stante. A cui è difficile concedere fiducia. Certo. E del resto, che hanno in comune la flat tax e il reddito di cittadinanza? L'idea che io-Stato faccio un passo indietro e ti metto a disposizione risorse che puoi usare a tuo piacimento. Nel primo caso togliendoti le tasse, nel secondo offrendoti uno stipendio. Questo ha attirato gli elettorati di Lega e di M5S. Piuttosto che la promessa “con le tue tasse ti offrirò questa politica, questi servizi e queste riforme”. Meno Stato quindi? Si, meno Stato. E perché siamo arrivati a questo? Per la crisi dei partiti. L'Italia è un Paese a struttura unitaria giovane, abbiamo festeggiato i 150 anni all’inizio di questo decennio. E soltanto nel 1946 diventiamo una democrazia compiuta. Prima c'è stato il ventennio fascista, e prima ancora le donne non votavano. Il rapporto dei cittadini con lo Stato non è quello solido che si è sedimentato in Francia, in Inghilterra, in Germania e perfino in Spagna. Erano i partiti a mediarlo, quando sono venuti meno si è creato un grosso vuoto, nel quale siamo immersi da 25 anni, alla ricerca di nuove forme politiche. Che comunque sono nate.

Sì, una volta Forza Italia, una volta il Partito Democratico, una volta Renzi, una volta M5S, un'altra volta Lega, tutte forme originali che tra l'altro si propongono all'Europa, facendo dell’Italia non più un'anomalia ma un modello: Renzi è arrivato prima di Macron, il M5S è arrivato prima di Podemos, la Lega prima della Le Pen, Berlusconi prima di Trump. Però? Però tutti questi modelli, pur con la loro grande fantasia, non risolvono il gigantesco problema di governare l’Italia nella globalizzazione. Mentre ci sono italiani che vanno all'estero, hanno successo, producono ricchezza, lanciano startup, la politica italiana non ha mai avuto un progetto e una visione su questo punto. In più in Italia si è bloccato ogni possibile ascensore sociale. Che esisteva e ha funzionato benissimo nella seconda metà del ‘900. La politica lo aveva attivato con la Costituzione e il suo articolo 3, rimuovendo gli ostacoli verso la piena affermazione della personalità e promuovendo quindi l'uguaglianza sostanziale, ma anche con la ridistribuzione del reddito garantita dallo Stato sociale e la possibilità di arrivare ai vertici dello Stato tramite i partiti. Negli anni ’80 c’era chi malignamente sosteneva che alcuni partiti fossero una sorta di taxi… Sì, ma non solo. Il partito che ti permetteva di diventare deputato o comunque “uno importante”, ti metteva in condizione di accrescere il benessere del tuo territorio, magari molto spesso in forme clientelari, però i benefici arrivavano davvero. E poi i partiti erano anche delle grandi agenzie di massa che selezionavano la partecipazione, formavano

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la classe dirigente facendo emergere figure altrimenti destinate alla subalternità. Basta vedere le biografie di molti leader: Aldo Moro era figlio di un maestro elementare, Ciriaco De Mita di un sarto. Ecco, il meccanismo partecipazione-selezione permetteva questa ascesa sociale. Ora è tutto finito. Il meccanismo si è interrotto. I vincitori del 4 marzo lo hanno rimesso un po’ in moto, però in situazioni del tutto diverse. Non formano classe dirigente, quindi come si arriva così si rimane. Ma l'ascensore sociale si è bloccato anche perché una serie strumenti di partecipazione, selezione e crescita sono stati interrotti. Così resta privilegiato chi vanta agiate condizioni di partenza. E qui c’è anche il tema di una scuola che ha perso autorevolezza e rende improbabile ogni tentativo di riscatto. I più deboli restano tali, i poveri lottano contro quelli più poveri di loro. Abbiamo assistito all'inversione della regola della maggioranza, come la definisce Noam Chomsky. All'inizio del ‘900 i poveri erano la maggioranza e il suffragio universale ha garantito agli esclusi una rappresentanza. Poi, negli anni '80, come spiega Peter Glotz, socialdemocratico tedesco, si è formata la “società dei due terzi”. La regola si è invertita, i due terzi stanno bene e sono contro il terzo escluso, fanno leggi pensate per chi sta bene e si disinteressano degli altri. Ora la disuguaglianza è di nuovo aumentata, non c'è più la società dei due terzi, ma chi sta bene non vuole cedere di un millimetro rispetto a chi sta male, e teme la pressione di questa massa. Che però non appare interessata o è incapace di organizzarsi per ot-

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tenere un cambiamento. Così ognuno lotta per la sua sopravvivenza, e chi sta peggio coltiva puramente il suo orticello pensando a difendersi da chi sta ancora peggio. Da qui le guerre dei poveri, le periferie che, invece di muovere verso il centro chiedendo più servizi e tutele, se la prendono con gli immigrati, più poveri di loro. Tutto questo racconta di una regola della democrazia che sta venendo meno. Un panorama sconfortante. Come vedi l'Italia dei prossimi mesi? All’orizzonte ci sono passaggi delicati e complessi. Il 2019 sarà un anno ancora più importante del 2018. Con le elezioni europee e una nuova commissione da eleggere. Con un italiano a lungo ai vertici della politica mondiale, Mario Draghi, che concluderà il suo mandato alla Bce. Con la Francia e la Germania che si apprestano a riscrivere le regole dell’Unione e un’Italia che, se ne restasse esclusa, si condannerebbe a una pericolosa marginalità. Qual è il ruolo della stampa e de L’Espresso in questo contesto? Nelle infrastrutture i media e la carta stampata sono elementi essenziali. Sono stati centrali da fine ‘800 a oggi. Adesso sono sotto attacco come tutte le mediazioni. La stampa in particolare è attaccata da due fronti: dal potere che è allergico a chi lo controlla e, negli ultimi anni, da lettori che, o si fanno il giornale per conto loro, prendendo un frame qua e là dalla Rete, oppure considerano i media professionalizzati menzogneri. Una crisi senza uscita? No. Dobbiamo però fare autocritica e capire perché i media sono considerati così poco credibili. Comunque penso


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che in un mondo così complesso ci sarà ancora bisogno di qualcuno che per mestiere faccia quello che il cittadino normale non ha tempo, voglia e possibilità di fare: approfondire e offrire una chiave di lettura. Quindi più inchieste, data journalism e commenti. Certo, perché il citizen journalism, molto enfatizzato negli ultimi anni, è sì efficace, ma sulla cronaca. Basti pensare ai tanti involontari protagonisti di eventi tragici, come gli attentati, che, con le loro foto postate sui social, sono diventati una sorta di inviati speciali e hanno potuto incidere sul mercato delle notizie. Ma offrono dei frame. Dopo è indispensabile che qualcuno colleghi e interpreti quei frammenti. È il compito dei giornalisti professionisti. E della carta stampata, in cui io credo molto. Insomma, immediatezza versus riflessione. Sì, e per quanto possa sembrare ormai arcaico, il settimanale è lo strumento di comunicazione che meglio ti permette di vedere l’intero film e non solo le singole scene. Che, prese una a una, non ti consentono di capire quali siano gli attori protagonisti o i comprimari, il genere, la trama. Di fronte a un’informazione che punta sempre di più sul frammento, abbiamo assoluto bisogno di un’informazione che guardi al contesto. Al filo che unisce i puntini, anziché ai singoli puntini in cui tutti siamo un po’ immersi. E la carta stampata avrà ancora un futuro? La carta stampata ha una sua materialità e una preziosità che vanno recuperate, insieme al piacere di avere in mano qualcosa di unico. Alcune settimane fa abbiamo pubblicato una lunga storia di

Zero Calcare. Questo fumetto è qualcosa che senti il bisogno di conservare e sfogliare, e percepire come solo tuo. Siamo sulla Freccia, non puoi eludere una domanda sulla mobilità e sul viaggio, nelle sue varie accezioni. Con la globalizzazione viaggiare è diventato più facile, ma hai la sensazione di farlo anche senza viaggiare. È un paradosso, perché la globalizzazione e la Rete hanno abbattuto le due categorie base della nostra vita, cioè lo spazio e il tempo. Sempre per restare al giornalismo, penso a come alcuni corrispondenti di quando ero ragazzino, Sandro Paternostro, Ilario Fiore, Sergio Telmon, raccontavano mondi lontani a cui era molto difficile avvicinarsi. Oggi il viaggio è più semplice da tutti i punti di vista. E in più arrivi in un posto che ti sembra già di conoscere, perché lo hai già visto su Google Maps. E perdi la magia della scoperta… Il viaggio deve tornare a essere qualcosa che ci sorprende, come il suo racconto. Recuperando le due categorie dello spazio e del tempo e la sua effettiva dimensione: lo spostamento fisico e la sua durata. Per quanto riguarda la mobilità, io viaggio molto, soprattutto in treno. Mi hanno sempre affascinato le stazioni, la loro composizione e la diversità del paesaggio italiano. Banale far notare che se l’Alta Velocità ha rivoluzionato la mobilità, quando si scende da una Freccia e si sale su un altro treno il divario si percepisce, eccome. Su questo fronte ti posso assicurare che stiamo facendo grandi passi in avanti, con uno sforzo anche economico mai compiuto prima. Pensa soltanto agli oltre 4 miliardi di euro investiti in nuovi convogli regionali. Comunque

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vedo con piacere che apprezzi il treno. Sì, e viaggiando molto ho notato che è cambiata anche la tipologia dei suoi passeggeri. Considerando che il treno continua a essere un posto dove è piacevole leggere, i lettori purtroppo mi sembrano in diminuzione. In effetti tanti preferiscono lavorare con il pc o compulsare lo smartphone. Noi ci auguriamo che ci stiano leggendo e sfoglino questo numero dedicato quasi interamente alla sostenibilità. Chiuderei con una tua riflessione sul tema. Sostenibile è un aggettivo diventato molto di moda e, come tutto quello che diventa di moda, a un certo punto ha qualcosa che stufa, come la parola "flessibilità", o "liquidità". Ma lo sviluppo o è sostenibile o non è. Ci sono questioni ineludibili come il risparmio energetico, i cambiamenti climatici, lo sviluppo del continente asiatico o africano. Ma accanto a quello della sostenibilità metterei il tema del limite. Può sembrare paradossale, quasi pauperistico, porre l’idea del limite in una stagione in cui tutto sembra alla portata, con la robotizzazione, l’intelligenza artificiale e la Rete. Invece la considero una questione fondamentale, etica prima ancora che economica.

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Perché? Perché l’illimitato, il non avere limiti è ancora più pericoloso. È un tema che la generazione precedente non considerava per nulla. Nello scontro fra gli Stati Uniti e l’Unione Europea sugli Accordi di Parigi vedo una questione generazionale e una differenza storico culturale. Gli Usa hanno sempre avuto un’idea di sviluppo indefinito, hanno sempre in testa la frontiera e i grandi spazi da conquistare. L’Europa invece ha dovuto fare i conti con spazi limitati, puntando a uno sviluppo, anche delle sue città, in armonia tra paesaggio, natura e cultura. Ecco, nello scontro fra Trump, Macron e Merkel sul clima c’è anche il riflesso di queste diversità culturali. Anche la Cina dovrà fare la sua parte, visto il ruolo sempre più importante che sta giocando. E avrà molte difficoltà a fare i conti con il concetto di limite, ma sono certo che si stia ponendo il problema. La Cina è destinata a diventare protagonista non solo economico, ma anche politico, militare e quindi energetico del XXI secolo. Dovrà fare tesoro di tutte le egemonie dei secoli precedenti per riuscire a espandersi senza schiacciare i Paesi in cui si trova, e che sta di fatto colonizzando, come l’Africa.


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DIRITTISMO ALL’ITALIANA

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ncontriamo Alessandro Barbano nel suo ufficio al Mattino di Napoli, di cui è direttore dal dicembre 2012. Gentile e misurato, si concede a un confronto che svelerà tutta la sua sconfinata passione politica e civile. Raccontare Napoli, metropoli ricca di contrasti, richiede un equilibrio e capacità di discernimento che non gli difettano. La sera prima del nostro incontro, a pochi passi dalla redazione e dal lungomare affollato di passanti, un ventenne aveva sparato otto colpi di pistola per una banale lite con un posteggiatore abusivo. L’indomani la cronaca del Mattino si apre con una lettera di Sylvain Bellenger, direttore generale del Museo e Real Bosco di Capodimonte, che termina con queste parole: «A Napoli ho avuto modo di incontrare molta più gentilezza, disponibilità, onestà e umorismo, piuttosto che aggressività e delinquenza». La capotreno del Frecciarossa sul quale aveva fatto ritorno in città lo aveva raggiunto telefonicamente per riconsegnargli i soldi che, senza accorgersene, gli erano scivolati di tasca sul treno. «Avrei voluto ricompensarla in qualche modo, ma lei ha rifiutato dicendo di aver fatto solo il suo dovere».

© Alessandro Garofalo

DOVERI DIMENTICATI, TROPPE PRETESE: RIFLESSIONI SUL PRESENTE CON ALESSANDRO BARBANO, DIRETTORE DEL MATTINO

Alessandro Barbano

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Il primo numero del Mattino di Napoli (marzo 1892)

Proprio di doveri dimenticati, e di diritti senza più confini, parla l’ultima fatica letteraria di Barbano, Troppi diritti - L’Italia tradita dalla libertà. Racconta una malattia del Paese, che chiamo il “dirittismo”, una crescita esponenziale dei diritti trasformati in pretese a cui non corrispondono più doveri. Con qualche eccezione, vivaddio, come racconti oggi sul tuo giornale. Certo, mi riferisco però a un pensiero diffuso, che ha ormai infiltrato la cultura in ogni suo orientamento. Tutti afflitti da “dirittismo”? Sì, è un pensiero malato che sta portando il Paese al declino. Ha infiltrato la cultura riformista incapace di costruire un “comunitarismo solidale” perché di fronte

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ai cambiamenti sociali non ha saputo rimettere in discussione i diritti acquisiti, ha fatto così un patto con i penultimi della globalizzazione, lasciando però gli ultimi fuori dalla porta e creando un conflitto tra ultimi e penultimi. Ha infiltrato la cultura conservatrice e liberale che ha finito per declinare la libertà in egoismo individualistico. E quella massimalista di sinistra che ha declinato i diritti in un ambientalismo ideologico, in una visione antindustriale della società, in un approccio pauperistico alla realtà. E infine, più di tutte, ha infiltrato le cosiddette forze anti-sistema, i movimenti populisti che hanno conquistato la scena in Europa e in Italia, nelle ultime elezioni, superando di fatto il 50% dei consensi. Quindi anche il populismo è figlio di questi diritti trasformati in pretese senza limiti? Sì, è diventato la clava per abbattere le élite, prendendo come bersaglio la cosiddetta casta, che ne è una degenerazione. Perché le élite sono le espressioni della delega. E la delega, sia del sapere sia del potere, rappresenta l’essenza stessa della democrazia. Una democrazia rappresentativa la quale, appunto, o è rappresentativa o democrazia non è. L’utopia odierna è la democrazia disintermediata. Sì, assembleare, orizzontale, dove ciascuno vale per sé e vale uno, una democrazia quantitativa che in realtà maschera una suggestione totalitaria. Colpa della rete? Con la rete si è creata l’utopia di una democrazia fatta di click, con una comunicazione che prescinde dalla delega del sapere, dove ciascuno è mittente e ricevente, i giornalisti non servono più, e neppure i medici, perché sul web possiamo


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coltivare le nostre terapie à la page prescindendo da gerarchia e autorità del sapere. Poi ti scopri immerso in una giungla dove si viola la privacy, si negano i diritti veri, si piratano i contenuti, si svaluta e si rende precario il lavoro, si condizionano gli esiti elettorali, si produce un’opinione pubblica marcia. Com’è potuto accadere? È mancato un reale governo della tecnologia e ha vinto il perverso matrimonio fra dirittismo e tecnica. Da un lato la tecnica ha trasformato in possibile quello che fino a ieri era impossibile, dall’altro, poi, il dirittismo lo ha legittimato, facendoci considerare giusto tutto quello che è diventato possibile. Anche quando contraddice i valori, le tradizioni e i costumi della nostra cultura. È un’equivalenza pericolosa ritenere giusto tutto quello che è possibile. Non demonizzo la tecnologia, ma abbiamo sbagliato, in Occidente e soprattutto in Italia. Dobbiamo tornare a governare la tecnica. Iniziando con il sottoporla a due elementi regolatori fisiologici: la legalità e il mercato. Faccio il direttore di un giornale e rispondo a norme deontologiche, penali e civili. Sulla rete invece tutto sembra possibile. E poi serve il mercato per contrastare l’utopia orizzontale della comunicazione gratuita che ha condotto a una proliferazione di siti con un vociare indistinto che confonde la verità dalla falsificazione. Certo non è un problema che possiamo risolvere a livello nazionale. No. Le cattedrali internettiane come Facebook, Amazon, Google hanno una dimensione globale, quindi è evidente che il confronto vada giocato su un terreno sovranazionale. E vedo che questa consapevolezza sta crescendo. Negli Stati

Uniti il Partito Democratico, che negli anni “obamiani” è stato suggestionato dalle potenzialità democratiche dei new media, comincia a interrogarsi e a ritenere necessarie delle regole. In Europa ci si pone la questione delle tasse. Comunque anche in Italia potremmo fare molto di più. Come? Con maggiori controlli e sanzioni? Sì. Perché chi ruba i contenuti in Italia non viene perseguito? Perché non c’è un’authority dotata di poteri sanzionatori in grado di interdire dalla rete i siti pirata e falsificatori? Perché non si pretende il rispetto del contratto di lavoro giornalistico? Definendo ciò che è giornalistico da ciò che non lo è. L’informazione presuppone un filtro qualificato e professionale perché incide nella formazione dell’opinione pubblica. È qualcosa di una complessità e delicatezza estrema, da cui poi dipende la qualità della rappresentanza. Direttore, ti interrompo: ma il successo di questa informazione disintermediata non è addebitabile anche a una crisi di autorevolezza dei media tradizionali? Più che crisi di autorevolezza, è una residualità, una marginalità numerica, perché oggi le dimensioni dell’informazione internettiana sopravanzano grandemente quella cartacea. Dobbiamo però riuscire a far transitare sulla rete la qualità dell’informazione cartacea, la mediazione che ha rappresentato. Tornando a raccontare le cose davvero importanti, secondo una gerarchia che coincide con una condivisione di valori, con la cultura civile consolidata dalla storia. Un compito duro. Intanto dobbiamo riconoscere che la partecipazione internettiana di tutti alla comunicazione non ha prodotto quell’auspicata elevazione del pavimento del-

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le società occidentali, non ha realizzato un’opinione pubblica più matura e consapevole. Avevamo immaginato si ripetesse quel che accadde in Italia negli anni ’60, quando la riforma della scuola permise al nostro ceto medio di elevarsi a spina dorsale del Paese. Internet ha prodotto invece uno smottamento verso il basso. Oggi il popolo di internet assomiglia a quei contadini che a fine ’800, nella seconda rivoluzione industriale, affluirono nelle città, diventarono massa e, privati dei loro originali riferimenti, diventarono permeabili alla comunicazione dei pensieri totalitari del ’900. Internet avrebbe fatto questo? Le analogie sono forti. Internet ha apparentemente democratizzato una società fornendo a una moltitudine di persone tantissime abilità: sul web si può organizzare una terapia e perfino studiare un attentato, si può fare qualunque cosa ma non si è in grado di assumerne la responsabilità. Non si ha piena coscienza degli strumenti di cui si dispone. Si è consumato un divorzio tra mezzi e fini. Dovrebbero essere le élite di cui parlavi prima a confrontarsi con questa massa, a tentare di elevarla, visto che anche la scuola ha perso da tempo questo ruolo. Invece le élite si sono fatte centro autoreferenziale della società. Leggono i giornali e hanno un livello di coscienza molto diverso dalla massa periferica permeabile alle promesse della politica e convinta che tutto ciò che è possibile sia anche giusto. Una massa tentata da approcci rivoluzionari e spinta da giustificate necessità di cambiamento. Così accade però come con la Brexit: il centro di Londra vota per restare dentro l’Unione Europea, le periferie all’opposto. Vedi anche il voto del 4 marzo, in una città come Napoli

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le forze più dichiaratamente antisistema hanno conquistato sempre più consensi mano a mano che ci si sposta dal centro alle periferie, diventando plebiscitari in un quartiere come Scampia. Giuliano Amato lo aveva previsto quasi dieci anni fa. In che senso? Nel 2010 scrissi un libro, Dove andremo a finire, chiedendo a otto pensatori, tra cui Giuliano Amato, cosa saremo diventati nel 2020. Lui ipotizzò due scenari: in quello ottimistico avremo avuto un’università fiorente d’Europa dove la democrazia ristrutturata aveva riportato i saperi al governo del potere, nell’altro prefigurava élite blindate e difese dalle loro guardie del corpo nel centro delle città e nelle periferie masse che puntavano a scalare e conquistare le città. Oggi c’è un centro con élite da bruciare nella pubblica piazza, arroccate dentro una posizione autoreferenziale. Mentre gli ultimi sono fuori. L’errore lo hanno fatto le élite. Giornalisti e giornali fanno parte di quell’élite… Sì, e hanno ceduto alla tentazione di restare al centro e vedere il mondo dal centro. E questo è un limite dell’informazione italiana, perché i giornalisti vivono dentro lo star system. Difficilmente hanno preso l’autobus per capire come si vive nelle periferie del mondo e nelle periferie delle loro città. Questo ha prodotto un’oggettiva miopia nella loro narrazione. Una miopia autoreferente che ha creato un deficit di realtà. Non da oggi, ho iniziato a scriverne già nel 2003. Quindi quando ancora neppure era stata coniata l’espressione internet 2.0. Sì, perché già coglievo il pericolo di un uso non corretto dell’innovazione tecnologica, domandandomi perché i giornali avessero gli stessi titoli: L’Italia dei gior-


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nali fotocopia. Le tecnologie dovrebbero servire ad aumentare le differenze, a esprimere meglio le singole soggettività, politiche e civili, invece hanno prodotto omologazione. Strada facendo la forza del non governo delle tecnologie ha prevalso sulla possibilità della cultura professionale di far valere la sua qualità. Distogliendo i media da una funzione pedagogica, culturale, che facesse crescere uno spirito critico nell’opinione pubblica. Già, e l’opinione pubblica è stata anche drogata, prima dei social, dai talk show televisivi. Che hanno prodotto un falso pluralismo, spettacolarizzando il conflitto tra posizioni differenti. Dove conta strappare l’applauso. Con due galli in un pollaio che si scannano. Il talk show ha raccontato il Paese attraverso gli estremi, si è persa la profondità e la sintesi fra posizioni diverse, in funzione di un bene comune. Poi, con internet 2.0 si è deciso di fare anche a meno del giornalista moderatore. Ed esprimiamo giudizi, scriviamo anche senza saper leggere… Abilità senza coscienza: leggere prima di scrivere. Quando vengono qui le scuole in visita e mi portano i loro giornalini di classe io mi chiedo a cosa servano questi giornalini. Anziché aiutare i ragazzi a fare i giornalisti, i docenti di lettere dovrebbero aiutarli a leggere criticamente i giornali, a sviluppare un pensiero critico sulla democrazia, come fanno le scuole avanzate di alcuni Paesi. Hai parlato di scuola, in Italia assistiamo a un suo inarrestabile declino, anche di autorevolezza. La crisi della democrazia italiana è la crisi di vari sistemi tra cui la scuola è basilare, insieme all’editoria e ai media. Ma la scuola è centrale: perché non aiuta alla lettura

della complessità, non aiuta a sviluppare un pensiero critico, non aggancia il sapere curricolare fondamentale alla vita civile. È incapace di collegare passato e presente e a scuola questo si deve fare. Cosa accomuna la crisi di questi sistemi? Un elemento unificante riguarda la selezione dei docenti, della classe dirigente, le modalità di accesso al lavoro. Abbiamo adottato una logica tecnocratica, negando la maestà e la responsabilità del sapere. Una volta c’era il barone che sceglieva il suo discepolo con un’autonomia su cui era giusto vigilare, per evitare una selezione classista, corporativa o familistica. Abbiamo sostituito a quella responsabilità una serie di procedure e regole asettiche, e criteri quantitativi. Così in un concorso universitario diventa discriminante il numero di citazioni nelle riviste internazionali, prescindendo dalla qualità dei contenuti. E succede che se si vuole che a vincere sia il migliore, quelle procedure vengano drogate, aprendo la strada a ricorsi e appelli. Abbiamo eliminato la maestà del sapere, senza emendarne le possibili corruttele. Ma quella gerarchia non era autoritaria, perché stratificata sulla coscienza civile. Anche oggi se vai in una scuola per iscrivere tuo figlio, i docenti bravi si sa chi sono, perché nella coscienza collettiva c’è una percezione dei bravi. Anche in questo caso descrivi un’illusoria enfatizzazione del potere “democratico” delle tecnologie, della loro presunta imparzialità. Accade quando la tecnica produce delle accelerazioni. Pensa quando Lutero a Wettingen espone le sue tesi perché Gutenberg stampa la Bibbia in 100mila copie. Lutero convince i cristiani che non è più necessaria la mediazione del prete per parlare con Dio, c’è la Bibbia, abbiamo

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la tecnica che ci mette direttamente in rapporto con Dio. E così nasce la rivoluzione luterana. Quindi, che dobbiamo fare? Non sono passatista, ma dobbiamo riprendere il controllo della tecnica. Ritrovare un pensiero di profondità, che non coincide con gli estremi. Non dobbiamo né annegare i clandestini né portarli tutti qui e garantirgli una patria. Occorre un moderatismo integrale, e una capacità di esprimere una sovranità fatta di sintesi con la stessa efficacia che oggi i pensieri estremi sono in grado di suscitare nella gente. Abbiamo parlato molto di diritti. Quanto ai doveri, ognuno si sente padrone e libero di fare un po’ tutto, con riflessi anche nella vita quotidiana. Perché, a parte i diritti assoluti e inviolabili, sanciti nella Costituzione, ogni diritto deve essere sempre ancorato a dei doveri. Prendiamo la legge 104, che dovrebbe servire ai lavoratori per assistere un parente malato non autosufficiente. Serve per garantire un diritto, di cui è titolare il malato. Il lavoratore ha una potestà connessa a un dovere

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inderogabile di solidarietà. Ed esercita quel diritto in nome e per conto del malato e a spese della collettività. Invece molti la utilizzano per fare ferie aggiuntive. Ecco, nel mondo della scuola, nel pubblico impiego e nel sud, aree estreme dove il divorzio tra diritti e doveri è più evidente, il 26% del personale usa la 104, in alcune regioni meridionali arriviamo al 40%, mentre nell’impresa privata ci si attesta al 3%. Qualcosa tutto ciò vorrà dire. Nel salutarmi mi legge un suo post su facebook. Una sorta di invettiva contro l’“estetica della miserabilità” (altra cosa dalla miseria), intenta a profanare simboli (come l’auto blu) che sono stile, forma e sostanza della democrazia. Ben altra da cosa dai privilegi come i vitalizi a cui non corrispondono contributi adeguati. Quelli sì, da abbattere. «Vorrei che un bambino di 11 anni pensando al suo futuro guardasse gli esempi virtuosi di gente che rappresenta il potere e ne incarna la parte migliore, e non guardando a chi sta in alto sempre con invidia e spirito distruttivo».

Update Dopo aver lasciato la direzione del Mattino nel giugno 2018, da luglio 2020 Alessandro Barbano è condirettore del Corriere dello Sport. Tra i suoi impegni e incarichi anche quelli di coordinatore dell’Osservatorio informazione giudiziaria dell’Unione camere penali e presidente della Fondazione Campania dei Festival. Fedele ai convincimenti che ci espresse nel nostro incontro, prosegue la sua attività di editorialista e saggista. Molto attivo sul web come editorialista dell’Huffington Post e, in tempi di pandemia, con una sua rubrica su facebook nell’ambito del format “Roma Incontra War Room”, spazio creato “per orientarsi nella condizione di ‘guerra’ generata dal coronavirus”. Nota dei curatori

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PER MERITO E CON RESPONSABILITÀ

I

ncontro Luciano Fontana nel suo ufficio in via Solferino, un luogo intriso di storia e cultura. Fontana è dal 2015 direttore del Corriere della Sera. Vi è entrato nel 1997, dopo 11 anni trascorsi all’Unità. Da decenni è un acuto testimone delle vicende politiche ed economiche nazionali. Del giornalista colpiscono la pacatezza e quella garbata modestia che gli impone di avviare ogni riflessione con un «io penso che», antitetica a tanti egocentrismi oracolari. Non bastasse lo stile, a farmelo percepire come uomo d’altri tempi è il reiterato uso di verbi come “recuperare”, “ripristinare”, “ricostruire”. Non per sterile rimpianto del passato, ma per convinta adesione a valori quali serietà, studio, competenza, merito, oggi sacrificati sull’altare di un aleatorio hic et nunc dove troneggia, effimera divinità, la bilancia dei follower e dei like. Il suo è un appello di civiltà, mosso dalla consapevolezza che il riscatto di questo Paese debba passare (anche) dalla riappropriazione di quei valori. Nel suo ultimo libro (Un paese senza leader) ricostruisce, prodigo di dettagli, aneddoti e retroscena, i passaggi chiave della nostra più recente e tormentata storia politica, dalla fine della Prima Repub-

© Settimio Benedusi

LUCIANO FONTANA, DIRETTORE DEL CORRIERE DELLA SERA UN GIORNALISMO OGGETTIVO, SERIO, INDIPENDENTE PER PRESERVARE LA TRADIZIONE

Luciano Fontana

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MEDIALOGANDO

SABATO 14 NOVEMBRE 2015

Milano, Via Solferino 28 - Tel. 02 62821 Roma, Via Campania 59/C - Tel. 06 688281

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Il lungo assedio

L’UMANITÀ È SOTTO ATTACCO

I SEGNALI RIMASTI INASCOLTATI

di Massimo Nava

di Pierluigi Battista

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P

a questa notte sappiamo che cos’è una guerra nel cuore di una città. Da questa notte, sappiamo che a Parigi si può morire come a Bagdad, come a Beirut, come a Tripoli. Un attacco terroristico e militare, sferrato quasi simultaneamente alla capitale francese, alla Francia e di fatto all’Europa che rivive in diretta la tragedia dell’11 Settembre americano. Mentre l’Isis inneggia e rivendica, mentre è ancora tutto confuso e complicato indicare singole matrici e responsabilità di un piano criminale, la spaventosa evidenza degli avvenimenti è la più ineluttabile prova che la nostra vita di europei liberi non sarà più come prima. continua a pagina 2

ensavamo di cavarcela con una passeggiata di un milione di persone sui boulevard di Parigi, nel gennaio scorso, dopo la carneficina del Charlie Hebdo. Tutti insieme, tutti «Je suis Charlie» e dopo dimenticare, rimuovere, scusarsi: «Se la sono andata a cercare». Poi è successo a Copenaghen, quando un convegno sulla libertà d’espressione è stato attaccato da un commando armato, e abbiamo fatto finta di niente. Avevamo fatto finta di niente anche in Canada, quando ad essere assediato è stato il Parlamento. Ma il Canada era lontano, anche l’Australia era lontana. Anche l’Isis sembrava lontanissimo.

continua a pagina 11

di Stefano Montefiori

1. Carillon

O

2. Le Petit Cambodge

G II PP AA RR II G 6. Stade de France

ltre 150 morti. Notte di guerra a Parigi sotto attacco dei terroristi che hanno ucciso urlando «Allah è grande». Kamikaze allo Stade de France (foto sotto), esecuzioni sommarie di decine di ostaggi al teatro Bataclan, sparatorie per strada. Il presidente Hollande: stato d’emergenza, frontiere chiuse. Bloccato il tunnel del Monte Bianco.

3. McDonald's QUARTIERE MARAIS

4. Bataclan

7. Les Halles Piazza 5. La Belle Cattedrale di della Bastiglia équipe Notre-Dame Gare de Lyon

alle pagine 2 e 3 altri servizi e analisi da pagina 4 a pagina 11

LA CITTÀ CHE REAGISCE

Le porte aperte contro la paura di Gianna Fregonara

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rontiere chiuse e porte aperte contro la paura. #PorteOuverte è l’hashtag diventato subito virale. A mezzanotte erano già più di duecentomila i tweet della solidarietà. a pagina 6

La rivendicazione «È l’11 Settembre d’Europa»

La minaccia dell’Isis: ora Roma e Londra di Guido Olimpio

L’ AFP / FRANCK FIFE

9 771120 498008

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Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004 art. 1, c1, DCB Milano

La guerra a Parigi La nostra libertà

AFP / KENZO TRIBOUILLARD

13 NOVEMBRE 2015 Notte di assalti continui al grido di «Allah è grande»: più di 150 morti Kamikaze allo stadio, strage a teatro e nei locali. Hollande chiude le frontiere

Isis ha rivendicato la carneficina di Parigi su Twitter: «Questo è l’11 Settembre della Francia. I prossimi attacchi saranno a Londra, Washington e Roma». E sul canale Dabiq France (la rivista francese dell’Isis): «La Francia bombarda la Siria, uccide i bambini, oggi beve dalla stessa coppa». a pagina 7

IL GOVERNO

Renzi: reagiremo L’Italia alza il livello di sicurezza di Fiorenza Sarzanini

a pagina 9

Una prima pagina del Corriere della Sera

blica a oggi. Consegnandoci alcuni vividi ritratti dei suoi principali protagonisti, nessuno dei quali capace di assurgere al ruolo di leader e statista, portatore di una chiara visione politica tradotta in azione e in solidi risultati. Il tuo libro si chiude con un appello alla classe politica: «È l’ora di fare tanti passi avanti, in una direzione precisa: la responsabilità». Qual è la responsabilità di un politico e quale quella del direttore del Corriere della Sera? La responsabilità della classe politica risiede nel non aderire immediatamente al presunto sentimento dell’elettore, rincorrendo il tumulto che c’è in giro, ma nell’agire con serietà, competenza, lungimiranza, con una visione, individuando le priorità per il Paese, evitando promesse assurde che poi non è in gra-

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do di mantenere o che farebbero saltare il sistema. Per il direttore del Corriere della Sera è in primo luogo quella di preservare la tradizione di un giornalismo oggettivo, serio, indipendente, pluralista, non partigiano, che fornisca gli elementi per cui ognuno possa costruirsi le proprie opinioni. Una funzione che il giornalismo dovrebbe assolvere sempre, sebbene accada in alcuni casi che il pregiudizio travalichi i fatti arrivando fino a deformarli. E il pregiudizio è la morte del giornalismo. Il Corriere della Sera, poi, ha anche una funzione nazionale, è considerato una sorta di giornale-Paese. Basta salire le scale di questo palazzo e vedere i ritratti di tutte le personalità del giornalismo, della cultura, della scienza, della filosofia che hanno scritto per il Corriere, per capire come questo giornale sia parte integrante della storia di questo Paese. Restare fedeli alla sua tradizione è un compito davvero gravoso ma anche entusiasmante, soprattutto in un momento di drammatica trasformazione del panorama dell’informazione, con la rivoluzione digitale che ha cambiato i termini del nostro lavoro e messo in crisi i vecchi modelli editoriali. A proposito di digitale, voi avete infranto per primi in Italia una delle peculiarità della Rete, ossia la gratuità dei contenuti… È vero, abbiamo deciso quasi due anni fa di lanciare una sfida in solitudine: siamo il primo quotidiano online che ha utilizzato un modello di pagamento graduale, senza chiudere completamente il web ma chiedendo ai lettori, dopo un certo consumo di articoli, di sottoscrivere un abbonamento. Perché


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un’informazione di qualità, seria e approfondita e non solo fondata sul numero dei click, ha un valore e dei costi. Abbiamo chiesto ai nostri lettori di riconoscere questo valore e i suoi costi. L’informazione come merce, che più attrae più si fa comprare, non è una novità del web, anche se internet ha esasperato questa deriva. Perché la Rete ha attivato la corsa ai click inducendo i giornali a occuparsi di cose spesso futili, che non sono nel loro Dna. La Rete è anche una realtà in cui le informazioni arrivano da mille punti diversi, ci bombardano, tendono a omogeneizzarsi. La nostra è stata quindi una doppia sfida: interna per la conservazione della qualità e con i lettori per il suo riconoscimento. E queste sfide come stanno andando? Direi bene. I lettori hanno cominciato a rispondere e oggi abbiamo superato i 90mila abbonati. Probabilmente hanno capito che questo impegno permette all’informazione di conservare uno standard adeguato e a noi di lavorare sulle piattaforme digitali con lo stesso spirito della carta stampata. Anche l’ampio dibattito sulle fake news ha aiutato a comprendere il valore di un’informazione di qualità per la democrazia e la crescita di un Paese. Le fake news, lo sappiamo, sono sempre esistite, certo l’universalità e la rapidità di propagazione della Rete le ha rese molto più pericolose. Che si può e deve fare? Sì, le teorie del complotto, gli odiatori di professione, i negatori dei fatti, sono sempre esistiti. La Rete li ha trasferiti dal bar Sport sotto casa a un bar Sport universale. Penso che non esista una ricetta unica per combattere le fake news e

le reazioni che generano. Perché è molto difficile rimuoverle, non si può affidare a un algoritmo la loro individuazione e rimozione. Gli algoritmi, come si sa, sono ciechi e non vorrei mai affidare la libertà di espressione a un algoritmo o a una compagnia tecnologica. Quindi? Ci sono altre iniziative che una politica responsabile può intraprendere. Iniziando a obbligare chi gestisce i social network e l’infrastruttura di comunicazione ad assumersi precise responsabilità editoriali, senza considerarsi un mezzo neutro su cui tutto può essere veicolato. Poi servono strumenti legislativi per punire seriamente chi organizza in maniera sistematica teorie basate su fake news, o chi, celandosi dietro l’anonimato, snatura il dibattito pubblico conducendolo a livelli di aberrazione impensabili in una conversazione faccia a faccia. Ma soprattutto, al netto di questi strumenti molto parziali, credo che ci voglia un recupero fondamentale di quel processo di formazione alla coscienza critica che ha nelle scuole, nelle famiglie, nelle associazioni, in tutti i corpi intermedi, il proprio fondamento. La cultura come strumento di difesa e governo della tecnologia? Sì, perché soltanto un lettore critico e consapevole saprà pesare quello che sta leggendo e le opinioni che sta ascoltando. Nessuno strumento legislativo né una grande autorità né un Grande Fratello potranno farlo. Per ricostruire un ecosistema un po’ più sano dobbiamo poi far capire agli utilizzatori naturali dei social network e dei grandi strumenti di connessione che qualche volta viviamo in una bolla fatta di amici, di persone che la pensano come noi,

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che hanno le nostre stesse idee, i nostri stessi gusti e molto spesso anche i nostri stessi pregiudizi. Sapere, invece, che il mondo è fatto di apertura e non di chiusura in quella bolla è il punto più rilevante del pensiero critico. Per il resto la Rete è uno strumento formidabile di progresso che sta investendo trasversalmente tutti i settori industriali e tutto il nostro mondo, dobbiamo però conquistarne un uso consapevole, serio e regolato. Hai chiamato in ballo la scuola e la famiglia, istituzioni attraversate da una profonda crisi. Se dovessi stilare le priorità per un programma di governo, metterei gli investimenti nella conoscenza e nell’istruzione insieme a quelli per l’innovazione dell’infrastruttura tecnologica al primo posto, perché una società con un tasso di laureati così basso come quello che ha l’Italia, e un tasso di diplomati nei settori strategici, tecnologici e tecnici che è un decimo rispetto alla Germania, continuare ad accumulare un deficit di competenze che rischia di diventare incolmabile. Un piano strategico per la crescita dell’istruzione, delle conoscenze, della ricerca è l’investimento migliore per il futuro del Paese. La scuola invece continua a perdere prestigio. Il recupero si ottiene soltanto se diventa finalmente un tema centrale di crescita e di sviluppo. Una scuola con docenti che dovrebbero, probabilmente, essere un po’ di meno ed essere pagati meglio in base al merito. Si eviterebbe anche quella situazione che ha trasformato i genitori negli avvocati difensori dei figli. Io appartengo a una generazione in cui l’insegnante aveva sempre ragione, an-

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che quando qualche rara volta poteva aver torto. Eppure non è mai successo che mio padre o mia madre, di fronte a un’obiezione del professore, lo contestassero e non dicessero invece che avessi torto io. Non è che questi atteggiamenti rientrano in quella più generale insofferenza verso le istituzioni e le autorità? Forse c’è anche questo. L’ideologia anti-élite, che il web ha contribuito a scatenare, si trasforma con facilità nell’ideologia di essere contro qualsiasi competenza. O, addirittura, nel considerare privilegiato chiunque arrivi ad affermarsi nel proprio lavoro. Durante la presentazione di un mio libro, si è alzata una persona dicendo: «Lei che viene dall’establishment, che sta lì perché fa parte di un élite». Gli ho risposto: «Guardi, lei può pensarla come le pare ma mio padre faceva l’operaio e mia madre era bidella in un asilo. Non è che tutti quelli che arrivano ad assumere una responsabilità in un giornale, in un’azienda, sono dei privilegiati per diritto naturale. Io ci sono arrivato studiando, lavorando – da ormai 35 anni – dal mattino presto a notte fonda, e non perché ero nipote di Agnelli o figlio di Cuccia». Parli di tempi in cui nel nostro Paese esistevano ancora degli ascensori sociali. Sì, soprattutto negli anni del boom economico. C’erano famiglie meravigliose che passavano la propria vita solo con un obiettivo: far studiare i propri figli, investendo tutto quello che avevano con la speranza e la certezza che avrebbero potuto fare un lavoro e una vita migliore della loro. Questo ascensore sociale ha funzionato e, a un certo punto, si è bloccato. Ma possiamo e dobbiamo ri-


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pristinarlo. L’ultima cosa che dobbiamo diffondere nella società è l’idea che questa sia una situazione immutabile. Sarebbe estremamente pericoloso per le aspirazioni delle persone e per il futuro dell’Italia. È un po’ il frutto di una sottocultura, indotta nel tempo da certi modelli televisivi e consolidata dalla Rete, che fa intravedere facili scorciatoie verso il successo e la notorietà. Ed è qualcosa di molto sbagliato: bisogna recuperare la cultura dello studio e del merito. È un discorso che vale anche per la classe dirigente e politica, la cui formazione e selezione penso debba passare dalle associazioni, le professioni, le scuole in un percorso graduale, serio, in cui ci si misura con la realtà di governo a dimensione locale, poi si cresce. Adesso tutto questo è saltato. In effetti anche il tradizionale reclutamento della classe politica è stato oggetto di pesanti contestazioni. Ma non va bene. Né la classe composta da dirigenti aziendali né quella decisa con pochi click su una piattaforma. Questo che significa? Se tutti vengono scelti con pochi numeri di click, tutti sono uguali a uno, alla fine ci sarà sempre qualcuno che per autorità, per investitura, per denaro o per potere, deciderà per tutti. Così il massimo della dichiarazione di democrazia e trasparenza sfocia nel massimo di autocrazia. Insomma, occorre recuperare quel sano percorso di formazione e selezione. Sì, perché questo è un Paese in grado di esprimere qualità. Nel dopoguerra la nostra classe dirigente ha preso un Paese dopo il fascismo e la guerra e lo ha portato a essere una delle sei potenze

industriali al mondo. Probabilmente, oltre alle qualità del Paese e dei suoi cittadini, c’era anche una qualità della sua classe dirigente. Questo recupero di qualità è una missione che dovrebbe coinvolgere tutti, dagli intellettuali ai politici… Sì, ed è l’unica vera battaglia anti-casta che mi sentirei di combattere in prima persona. Il merito è qualcosa di importante, e non mi riferisco tanto alla genialità individuale, ma al frutto di studio, impegno, serietà, progetti, lavoro. E a tale proposito considero estremamente diseducativa l’idea che si possa dare un reddito e uno stipendio a qualcuno senza che ci sia lavoro. È un principio che vale per un Paese come per una famiglia. Prima si crea lavoro e si produce ricchezza, poi la si distribuisce. Altrimenti finiamo soltanto con l’aumentare la montagna di debiti che già affligge l’Italia e che probabilmente sarà un lascito pesantissimo di cui i nostri figli pagheranno il conto. Hai parlato di creare lavoro, tema centrale di ogni programma di governo. Lavoro è anche dignità, possibilità di programmare un futuro. Sì, e penso che proprio per questo tutto il mondo industriale e aziendale dovrebbe fare una riflessione su come l’idea che i lavoratori siano sempre precari e privati di un percorso di crescita, sia qualcosa di estremamente pericoloso. Penso si debba rifuggire l’idea che ci siano solo dei vertici che guidano e fanno strategie mentre tutto il resto è intercambiabile e precario. Questo non fa crescere e non aiuta la qualità, oltre a essere molto pericoloso per la vita delle persone. Vanno quindi recuperati i principi di merito e di concorrenza, di

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liberalismo nel modo in cui si definiscono le regole per le professioni. Personalmente, vedrei meglio un mercato del lavoro in cui tutti siano assunti a tempo indeterminato e tutti siano licenziabili, misurandoli sul merito. Quindi, non precari di cui ci si può sbarazzare rapidamente ma lavoratori consapevoli che la conservazione del posto di lavoro dipende da quello che sanno fare. Premiando quindi capacità e professionalità. Tornando alla riflessione iniziale, è quello che serve nel giornalismo 2.0, dove anche il fattore tempo è determinante. Ecco, questo è forse uno dei punti più seri nella discussione sull’informazione via web, perché la fretta è innegabilmente la nemica numero uno della verifica di una notizia. Noi cerchiamo anche sul web di compiere sempre tutti controlli necessari prima di pubblicare una notizia. E un giornalista conosce per formazione come arrivare alle fonti e riscontrarne l’attendibilità, sa quando e quanto è giusto pubblicare una notizia. Tutto questo non ci mette completamente al riparo dagli errori che, quando si compiono, occorre l’umiltà di riconoscere e la serietà di correggere immediatamente. Sapere che chi ti legge paga per farlo è un incentivo a quell’umiltà e serietà? Lo ripeto, rende ancora possibile fare un giornalismo di qualità. Avere redazioni operative 24 ore al giorno, integrarle, così che lavorino tutte sia su carta sia su web. Oggi i nostri pezzi online escono tutti firmati, sul web prima non era così. Ogni giornalista mette quindi in gioco la propria credibilità. Una credibilità che negli ultimi tempi è stata talvolta messa in discussione.

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Anche da quella rivolta, non sempre cieca e pregiudiziale, contro le élite. Certo, quando le élite dimostrano di non avere le antenne necessarie a capire cosa sta accadendo e, soprattutto, hanno atteggiamenti percepiti come profondamente staccati e sbagliati rispetto ai problemi reali della gente è inevitabile che si alzi quel vento. Ma i giornali devono essere lo strumento serio e imparziale di comprensione della realtà. Se lo fanno non possono essere associati alle élite e all’establishment. Credo che questo sia uno dei maggiori difetti che un giornale possa mai avere. Quando i giornalisti e i politici, o coloro che detengono un certo ruolo o potere, vanno troppo d’accordo, probabilmente significa che qualcosa nel proprio lavoro non è stato fatto bene. Ed è successo? Purtroppo in quest’ultimo periodo e in qualche occasione è accaduto. Occorre quindi un profondo lavoro di recupero di autorevolezza e serietà. Inoltre i nostri pezzi devono essere scritti non per i 1.500 lettori influenti dell’Italia ma, possibilmente, per quei milioni che comprano il giornale per capire cosa sta accadendo nel loro Paese. Se ci riusciamo, forse ci scrolliamo di dosso anche questo rischio e questa nebbia che credo ci abbia un po’ avvolto negli ultimi anni. Chi ci legge lo sta facendo, con molta probabilità, su una rivista ancora di carta. Sopravvivrà? Penso ci sarà sempre un pubblico, un po’ come è accaduto con la televisione, il teatro, il cinema, che preferirà quella sensazione fantastica di vedere un giornale, una pagina organizzata gerarchicamente, guardarne le foto e i titoli


GIUGNO 2018

con calma, sentire il fruscio delle pagine che via via ci raccontano il mondo. Anche se il web e le piattaforme digitali che la tecnologia ci metterà a disposizioni diventeranno le fonti principali d’informazione che noi dovremo nutrire di contenuti, seri e fondati, e di opinioni, indipendenti e pluraliste. Sarà un mondo più complicato e difficile ma anche affascinante, con nuovi orizzonti e opportunità enormi. Abbiamo aperto, chiudiamo con il tuo libro, Un paese senza leader. Ma chi è e cosa ci si deve aspettare da un vero leader? I leader in tutti i settori della società sono indispensabili. Ma per me il leader non è mai un uomo solo al comando, che dalla sua torre impone alla società quello che lui vuole. Penso che un vero leader debba avere una precisa visione della società, un progetto per realizzarla e una classe dirigente diffusa che lo affianchi. E, soprattutto, far vivere questo progetto tra i cittadini, o gli elettori nel caso di un leader politico, coinvolgendoli. Un leader porta speranza, la fiducia in qualcosa di positivo che, insieme, si può costruire. In politica, però, sostieni che se anche

spuntasse all’orizzonte un leader “sarebbe subito neutralizzato dal nostro sistema politico e istituzionale”. Perché? Perché ci sono alcuni meccanismi istituzionali e legati alla legge elettorale che impediscono quello che dovrebbe essere la normalità in una democrazia: ossia che un leader presenti il suo progetto, il cittadino lo incarichi del governo del Paese concedendogli un certo periodo, possibilmente equo, per realizzarlo e, poi, lo giudichi. Un mandato democratico e revocabile, con uno Stato dotato di tutti i contrappesi necessari. Un mandato conferito in maniera netta necessita di una nuova legge elettorale che non guardi alle convenienze della maggioranza del momento. Ne abbiamo già una che funziona bene, ed è quella per i Comuni. I sindaci sono diventati i protagonisti dell'azione di governo per un numero sufficiente di anni e poi, se alla fine sbagliano, sono i cittadini a mandarli a casa. Il doppio turno affida a loro, anziché ai politici, la sintesi e l’eventuale compromesso tra vincitori parziali. Al secondo turno chi non ha il suo partito sulla scheda può scegliere quello meno distante dalle sue idee.

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DOVE ERAVAMO LUGLIO-DICEMBRE 2018

È

il 14 agosto 2018, l’estate degli italiani viene sconvolta dal crollo del viadotto sul torrente Polcevera, a Genova. Muoiono 43 persone. A dicembre, invece, torna la paura degli attentati nel cuore dell’Europa. Un uomo spara al mercatino di Natale di Strasburgo e uccide 5 persone. Fra loro il giornalista italiano di 28 anni Antonio Megalizzi. A fine 2018 il Governo Conte I vara il Decreto Sicurezza, legge fortemente voluta dal Ministro dell’Interno Matteo Salvini. Il 2018 è anche l’anno del mobile journalism, il giornalismo pensato e prodotto per gli smartphone, e dell’incremento di utenti dei servizi video digitali. In un anno gli italiani che guardano i programmi delle piattaforme di tv on demand sono aumentati dall’11,1% al 17,9% con punte del 29,1% tra i giovani under 30: è uno dei cambiamenti sociali più rilevanti dell’anno. Novità anche al vertice del Gruppo FS Italiane: dal 31 luglio 2018 Gianfranco Battisti è il nuovo Amministratore delegato. A dicembre 2018, infine, è affidato a Italferr, società di ingegneria e progettazione proprio del Gruppo FS Italiane, lo sviluppo della progettazione esecutiva del nuovo ponte sul Polcevera che sarà completato in tempi record nell’estate del 2020: il Viadotto Genova San Giorgio.

Chi abbiamo incontrato Federico Ferrazza - Enrico Mentana - Emilio Giannelli - Franco Bechis - Sergio Luciano Gennaro Sangiuliano

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GOVERNARE L’INNOVAZIONE PRIMA MAGAZINE, ORA UN VERO E PROPRIO BRAND WIRED RACCONTA IL FUTURO E IL MONDO CHE CAMBIA. A COLLOQUIO CON IL DIRETTORE FEDERICO FERRAZZA

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l futuro è già qui, inarrestabile. La redazione di Wired, dove incontriamo il direttore Federico Ferrazza in un afoso pomeriggio milanese, ne è un’attenta, scrupolosa narratrice. La sede si trova in uno storico palazzo posto di fronte al Castello Sforzesco. La location suggerisce un ossimoro, alla cui casualità ci piace conferire comunque un senso. Ne troviamo conferma nelle parole di Ferrazza, appena quarantenne, proiettato nel mondo dell’innovazione, quando attribuisce alcune sue convinzioni etiche all’essere già vecchio. Tutt’altro. È vero, piuttosto, che non si dà alcun solido futuro senza altrettanto solide radici. Federico, cos’è Wired? Wired nasce come un magazine tradizionale, ma oggi non lo è più: è un brand che fa ancora giornalismo, informazione e comunicazione sui temi delle scienze e della tecnologia utilizzando però più strumenti. Quali? Abbiamo un sito web, siamo presenti sui social network, pubblichiamo un giornale, organizziamo una miriade di eventi e stiamo pensando di puntare anche sulla formazione. Insomma, Wired non si identifica più esclusivamente con il giornale.

Federico Ferrazza

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15 GRANDI FOTOGRAFI VI MOSTRANO IL MONDO COME NON L’AVETE MAI VISTO

WOW PROLOGO

PAOLO SORRENTINO

P r ima ve r a 2 017 / n . 8 0 — € 5 . 0 0

Numero 80 primavera 2018

Nato negli Stati Uniti… Sì, negli anni ’90, per raccontare la rivoluzione digitale e la crescita impressionante che allora aveva la Silicon Valley. Arriva in Italia diversi anni dopo, a marzo 2009, come mensile. Poi però la missione è cambiata. State tracciando un percorso che riguarderà e già è stato intrapreso da altre testate classiche. Wired ha sempre raccontato il futuro e il cambiamento, per cui, anche quando era solo un giornale, è stato percepito come qualcosa di più. Penso che i giornali oggi debbano andare a cercare la propria identità al di fuori del prodotto che fanno. Quindi diventare (anche) qualcos’altro? Sì, adattandosi ai mutamenti, com’è avvenuto nell’evoluzione biologica. Gli

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animali lo hanno fatto per sopravvivere al cambiamento dell’ambiente circostante. Alcune specie ci sono riuscite, altre si sono estinte. Siamo in una fase di questo tipo, dove alcuni giornali non saranno in grado di adattarsi al cambiamento e si estingueranno, altri ce la faranno e potranno in qualche modo proseguire. Cosa sta cambiando nell’ecosistema dei media, in particolare per i giornali? In primo luogo la perdita di lettori, che non vanno più in edicola. Non discuto la funzione del giornale, ma dal punto di vista imprenditoriale non potrà restare in piedi quel che è fatto da 300 persone e venduto a 100. Quindi, al di là di alcuni casi specifici, come Internazionale, che continua ad andare molto bene con gli abbonamenti, la tendenza è ben delineata. E si porta dietro altre conseguenze. Certo, gli investimenti pubblicitari si stanno spostando sempre di più dalla carta ad altri mezzi, soprattutto quelli digitali. Il calo di vendite rende l’investimento pubblicitario meno attraente. Insomma, per i giornali di carta il futuro è complicato. E qui scatterà l’evoluzione selezione. Sì, e secondo me ce la farà chi ha coltivato una forte identità, sia da un punto di vista politico, di settore, di tono di voce. Penso che il futuro sarà più loro che di testate super generaliste che, per forza di cose, perderanno presa e riconoscibilità. Wired ha una forte connotazione, apprezzata dai lettori e riconosciuta dagli investitori che, associandosi al brand, in qualche modo sanno di assorbirne anche i valori. La crisi dei giornali porta con sé anche quella del giornalista, la sua funzione U NO DEI DIPARTIM ENTI PI Ù IN NOVATIVI DEL M IT DI BOSTON , N EL S ERVIZIO ESCLUSIVO DI MAT TIA BAL SAM IN I

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di mediatore e di filtro capace di trovare fonti e accertarne autorevolezza e attendibilità. Su questo sono controcorrente. Sono tra chi pensa che le fake news nascano sui giornali e non su internet. Le più grandi bufale degli ultimi anni sono apparse sui media tradizionali, o sui loro siti. Un caso storico, per esempio, è il dubbio che l’uomo sia andato o meno sulla luna, fatto circolare molto prima di internet. Oppure, avvicinandoci ai nostri giorni, Vannoni e il metodo Stamina, pubblicizzato da trasmissioni televisive come Le Iene. Ancor prima la terapia Di Bella. E più clamoroso l’aver dichiarato un legame tra vaccini e autismo, una fake news che nasce su The Lancet, giornale medico scientifico. Se metto in fila tutto questo, penso che sono i giornali stessi ad aver minato la loro credibilità nel corso degli anni. E oggi si trovano di fronte lettori che possono in qualche modo sbugiardarli. Le tue considerazioni ci conducono nel campo della deontologia e dell’etica professionale. Il giornalista dovrebbe essere sempre al servizio dei lettori. Quando non parliamo dei contenuti di una legge o ne parliamo solamente in funzione del fatto che la sua approvazione potrebbe far cadere o no la maggioranza di governo, non stiamo facendo un servizio ai cittadini. Noi dobbiamo informare e non rappresentare una lobby, perché poi il risultato è che la credibilità dei media è a zero. Quindi un ruolo, anche fondamentale, il buon giornalismo lo avrebbe ancora. Eccome. Io da piccolo ero appassionato di quel gioco della Settimana Enigmistica in cui si devono unire dei puntini.

Ecco, io penso che quello sia il lavoro del giornalista oggi. Unire i tantissimi puntini dell’informazione che ci arrivano da facebook, twitter, instagram, dalle e-mail, dai siti dei giornali o di testate non registrate ma che uno reputa credibili, e costruire un’immagine. Resterà l’ambizione di realizzare uno scoop, ma è una parte marginale del nostro lavoro. Che è invece dare ordine, pur scegliendo una propria agenda e linea editoriale. Dare ordine. In effetti quei puntini sono davvero tanti, pervasivi e persuasivi. Si è parlato molto del condizionamento prodotto dai social, anche nel marketing politico. Certo, fare il lettore oggi è molto più difficile di un tempo, perché siamo bombardati da quei puntini. Però abbiamo la possibilità di informarci da più fonti e in tempo quasi reale, cosa che prima quasi nessuno faceva, salvo qualche addetto ai lavori che leggeva più di un quotidiano. Per difendersi occorre comprendere i meccanismi dell’informazione e crearsi un piccolo database di fonti più credibili e affidabili. Ci si mette un po’, ma se si vuole essere cittadini liberi e informati è un lavoro necessario. Il digitale ha fatto sì che i media non siano più top-down ma bottom-up, o comunque che ci sia dell’interattività, più faticosa della passività. Magari dà più soddisfazione ma in qualche modo bisogna soddisfarla. Insomma dal marketing digitale ci si può difendere. Inizierei anche a smitizzare il ruolo della Rete come fattore di controllo sociale o di indirizzamento dell’elettorato. Faccio un esempio. Alle ultime elezioni abbiamo visto come, soprattutto nei col-

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legi uninominali, abbiano vinto la Lega al nord e il Movimento 5 Stelle al sud. La famosa mappa dell’Italia a due colori. Ebbene, del Movimento 5 Stelle si è sempre detto che utilizzava le fake news, sfruttava internet, si avvaleva del popolare blog di Beppe Grillo, della consulenza della Casaleggio Associati. Però ha vinto nella parte del Paese meno digitalizzata. Siamo davvero certi che il digitale e internet condizionino così tanto le elezioni? Oppure, più semplicemente e senza dare giudizi di merito, in quelle regioni la proposta politica del Movimento è stata più attraente di quella dei suoi avversari? Comunque anche negli Stati Uniti si sono posti la stessa domanda sui condizionamenti della Rete. Anche in questo caso proverei però a unire i puntini. Quello che ha fatto Trump non è molto diverso da quello che fece Obama, solo che non ci piace Trump, mentre ci piaceva Obama. Così quando Obama utilizzava i social network per andare a colpire in maniera più mirata il suo target elettorale era un genio, lo fa Trump ed è un dittatore che utilizza la Rete per manipolare il mondo. Forse la verità non sta né da una parte né dall’altra. E dove sta? Ripeto, smitizziamo il ruolo della Rete. Viviamo in una fase storica dove i ricchi votano a sinistra e i poveri a destra. È evidente che sta succedendo qualcosa al di là di internet. Nelle aree industriali di Detroit hanno votato Trump, perché lo hanno ritenuto più credibile pensando che potesse rappresentare i loro interessi meglio di Hillary Clinton. Insomma, c’è un forte scollamento tra le classi subalterne e più emarginate

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e quella sinistra che per tutto il ’900 se ne è accreditata la rappresentanza quasi esclusiva. Io sono cresciuto in periferia a Roma. Andavo a scuola a Spinaceto (quartiere di Roma sud, ndr), dove c’erano i campi rom, quindi ne parlo con cognizione di causa. Non vengo da zone radical chic, ma da dove tentavano di rubarmi il motorino. Lì qual era il problema? Che non c’era lo Stato. Il problema non era la presenza dei rom, è che non c’era nessuno a favorire l’integrazione, a controllare e amministrare il territorio. Poi se per tanti anni lasci andare, cresce la rabbia e il senso di abbandono. Una distanza dai problemi reali. Beh, quando parli di innovazione, di Uber, dell’economia della conoscenza, sei molto lontano dai problemi che toccano un operaio che guadagna mille euro al mese. E infatti poi a destra votano i poveri e a sinistra i ricchi. D’accordo, smitizziamo la Rete. Però la storia delle bolle e degli algoritmi non è una fantasia. Non puoi dire che la Rete non cerchi di irretirti. Sì, le bolle esistono, vengono enfatizzate dalla Rete, però anche qui, fermiamoci a riflettere. Tutti noi siamo portati a circondarci di persone che la pensano come noi e hanno la nostra stessa visione del mondo. È chiaro, se lo decidiamo noi ci sentiamo più tranquilli, se lo decide un algoritmo meno. Sui social network il sistema di bolle non fa che mimare quanto succede nel mondo analogico. Insomma non dobbiamo temere il futuro. Eppure, quando leggo quel che l’intelligenza artificiale promette, un po’ d’inquietudine la provo. È naturale essere spaventati. Innanzi-


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tutto perché non abbiamo fiducia nelle cose che non conosciamo, non sappiamo cosa produrranno e come andrà a finire. E poi perché il nostro umore e la nostra fiducia rispetto al futuro sono influenzati da grandi eventi mediatici. Che non sono mai positivi. Non c’è uno tsunami positivo, un Bataclan positivo, un crollo delle Torri Gemelle positivo. Grandi eventi che spaventano anche per il clamore con cui i media li narrano. Così ci sembra che oggi ci sia un attentato terroristico al giorno e ci siamo scordati che negli anni ’70 andando all’università rischiavi di morire. È normale che siamo spaventati da 600 migranti più di quanto non lo fossimo dagli anni di piombo? Se uno ci pensa in modo razionale è assurdo. In effetti lo è. Però, tornando al futuro, da direttore di Wired tu non puoi che essere ottimista. Sì, perché l’innovazione tecnologica ha sempre portato miglioramenti nella vita delle persone. Pensiamo agli ultimi 300 anni scarsi di storia, dalla prima rivoluzione industriale alla nascita dell’industria farmaceutica fino a oggi, all’avvento del digitale. Tre passaggi chiave che si riassumono in pochi significativi numeri. Nel 1750 eravamo 700 milioni sul pianeta, ora siamo oltre sette miliardi. Nel 1970 il 60% della popolazione mondiale viveva sotto la soglia di povertà, oggi meno del 10%. Nel 1950 l’aspettativa di vita media era di 48 anni, oggi è 71. Nel 1960 ogni mille nascite 181 bambini morivano entro i cinque anni, oggi siamo a 45. Nel 1950 il 64% della popolazione era analfabeta, oggi meno del 15%. Insomma, scienza e tecnologia nel medio periodo non possono che avere

effetti positivi sulla società. Nel medio periodo… Certo, nel breve ogni cambiamento comporta smottamenti, contraccolpi e assestamenti. Il dipendente di Blockbuster si trova senza lavoro e se ne avvantaggia il dipendente di Netflix, e così via. Anche perché la tecnologia va anche, anzi direi soprattutto, governata. E l’innovazione tecnologica ha sempre corso più veloce delle regole: hanno inventato prima l’automobile e poi hanno fatto il Codice della strada. In più, quando per esempio si parla di Rete le regole nazionali non bastano più. Infatti, dobbiamo pensare a regole sovranazionali. Ma evidenzio alcuni puntini che dovremo provare a unire. Tutti i grandi cambiamenti epocali, anche in termini di diritti, frutto di innovazione scientifica e culturale, come la scuola e il diritto all’istruzione, sono stati gestiti all’interno di un sistema che ci siamo dati, come lo Stato novecentesco, che oggi vedo in forte crisi e non so se e quanto sarà in grado di canalizzare in maniera positiva l’innovazione. L’incertezza che regna su temi come la web tax è motivo di sfiducia. Perché governare significa anche decidere la maniera più equa per distribuire la ricchezza. Occorrerebbe quindi una visione nuova… Ristabilire semplicemente le regole del passato rischia di creare problemi anziché risolverli. Trump che sta rimettendo i dazi è come volersi fare un nuovo vestito indossando quello di quando avevi cinque anni. Oltre a essere passato di moda forse non ti entra più. Eppure, ribadiamolo, il futuro deve essere ben governato. Ma da un lato,

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come detto, abbiamo élite, cosiddette radical chic, che hanno perso il contatto con il popolo e qualcuno le vede addirittura antitetiche al popolo. Dall’altro, forze politiche che hanno invece saputo interpretarne paure e bisogni esprimendo un’offerta politica che raccoglie un forte consenso. Però la mia paura è che le risposte offerte alle aspettative della gente non rappresentino le vere soluzioni. Proviamo a immaginare un’Italia senza rom, senza stranieri e senza Ong e poi domandiamoci se stiamo meglio. Stiamo concentrando risorse e sforzi su iniziative che, per come vedo il mondo io, sono eticamente discutibili, ma che, se anche non lo fossero, non risolvono i problemi reali del Paese. Abbiamo il più alto numero in Europa di giovani che non studiano né lavorano. Abbiamo un problema di mancanza di lavoro e di crescita delle imprese: se le aziende non crescono in produttività il Paese va a rotoli. Sul fronte del lavoro qualche proposta c’è. Non lo so, sarà che comincio a essere vecchio, ma dare soldi a persone che non lavorano potrà rispondere a un’emergenza sociale, ma non risolve il problema della disoccupazione. E l’idea che il lavoro sia solamente lo stipendio e non il ruolo sociale che quel lavoro si porta dietro, per me è una visione aberrante. Io lavoro non tanto per un buono stipendio, ma perché voglio costruire un pezzo di mondo per i miei figli. Ognuno nel suo settore: il medico, il giornalista, l’industriale, il commerciante, lo spazzino. E con un’importanza che non considero affatto proporzionale alla retribuzione. Dal punto di vista economico è comun-

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que un incentivo alla crescita del consumo interno. Sì, ma è una toppa. Diamo pure mille euro ma non è la soluzione. Non sto contrastando la misura del reddito di cittadinanza, l’Universal Basic Income, come la chiamano in America, ma non può essere la soluzione al problema disoccupazione. Vorrei chiudere parlando di mobilità e di come è cambiato il modo di viaggiare. È cambiato tantissimo, anzitutto perché i nostri viaggi, come tanto altro, sono programmabili e acquistabili da quello che considero ormai un pezzo del nostro corpo, il telefonino. Noi oggi pensiamo di essere degli esseri umani normali, invece siamo cyborg, perché senza questo oggetto nessuno gira più. Infatti allo smartphone chiediamo due cose fondamentali, che sia sempre connesso e di non scaricarsi mai. Però ci ha privato anche di qualche emozione. Come perdersi in una città che non conosciamo, perché ormai abbiamo tutti Google Maps per sapere dove siamo, dove vogliamo andare e come arrivarci. Poi con la Rete e il digitale sono arrivati nuovi intermediari, prima c’erano le agenzie di viaggi, oggi c’è Airbnb. E abbiamo la possibilità di leggere e condividere le recensioni di altri viaggiatori. Ai quali dai quindi fiducia? Sì, con un minimo di esperienza, conoscendo le dinamiche di Tripadvisor o degli altri siti simili. Poi magari prendo decisioni antitetiche, però prendo in considerazione quei pareri. Ma tra i grandi cambiamenti del modo di viaggiare citerei lo sviluppo delle infrastrutture.


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In effetti chi ci legge sta magari viaggiando a 300 all’ora su un Frecciarossa. Lo so bene, da romano che lavora a Milano. Per tre anni ho fatto il pendolare, cosa impensabile prima. Infine l’altro grande cambiamento sono le low cost, fino a qualche anno fa viaggiare in aereo anche solo in Europa era un super lusso. Ma il treno, magari con Interrail, continua ad avere il suo fascino. Sì, soprattutto per chi, come diceva Kipling, considera che l’importante è il viaggio, non l’arrivo. Perché il viaggio stesso è un’esperienza forte. Poi ci sono le app che semplificano la vita, come quella di Trenitalia, o che consentono di pianificare il viaggio e

acquistare i biglietti di più mezzi, con un solo click, come la nuova app Nugo. Che ne pensi? Innanzitutto auguro a questa startup grande fortuna, perché un’azienda italiana che fa qualcosa di così innovativo va incoraggiata. Al netto di come andrà a finire, è comunque un’operazione che coglie lo spirito dei tempi. Siamo nell’epoca dell’accesso, caratterizzata, andando all’osso, da una sola dinamica: utilizzare i dati e il digitale per mettere al centro il consumatore. Come fanno Netflix, Spotify, Airbnb, Facebook e Amazon. E come fanno, aggiungo io, Trenitalia e questo suo magazine.

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MEDIALOGANDO AGOSTO 2018

NON È UN GIORNALISMO PER GIOVANI

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rillante e facondo, entusiasta del suo lavoro e di sé stesso, Enrico Mentana si offre ai lettori de La Freccia con la verve e la stessa sapida, intelligente ironia che hanno contraddistinto la sua carriera giornalistica, decretando il successo dei suoi tg e delle sue trasmissioni televisive, diventate cult. Ci sediamo davanti alla sua scrivania, sommersa da una montagna di libri. «Sto cercando di metterli in ordine», si giustifica, scusandosi per quell’ingombrante ammasso di carta che sembra farsi metafora della pesantezza di un mondo analogico sempre più estraneo alle nuove generazioni dei millennials. Lo incontriamo pochi giorni dopo che su facebook ha annunciato di voler lanciare un giornale solo digitale, fatto da giovani giornalisti per giovani lettori. Scontato quanto necessario iniziare dalla domanda più banale: perché? Perché i giornali sono fatti da cinquanta-sessantenni e letti da un pubblico della stessa età, mentre i giovani non leggono i giornali e seguono poco anche l’informazione televisiva. Se si crea un prodotto destinato a loro - anche perché fatto da loro - che parla la loro stessa lingua, sia in senso stretto sia per

© Rosdiana Ciaravolo/GettyImages

ENRICO MENTANA PRESENTA IL SUO NUOVO PROGETTO EDITORIALE ONLINE PER AVVICINARE ALL’INFORMAZIONE LE NUOVE GENERAZIONI

Enrico Mentana

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quanto riguarda gli argomenti, forse riusciamo ad avvicinare all’informazione le nuove generazioni. È un obiettivo ambizioso. Ma anche una forma di risarcimento per quello che stiamo facendo attualmente, cioè prodotti confezionati per cinquanta-sessantenni. È anche un’occasione per avvicinare nuove leve alla professione giornalistica: con un contratto, uno stipendio, un vero percorso formativo. Sì, la crisi, in Italia, ha portato gli editori ad assumere sempre meno, bloccando il ricambio generazionale. Perché, un po’ come in tutti i settori, in tempi di crisi si tende a preservare i posti di lavoro esistenti o a garantire ammortizzatori per chi deve uscire provvisoriamente dal circuito del lavoro. Mai si pensa a chi deve entrare. Così ci sono intere generazioni sacrificate e siccome abbiamo una responsabilità ho sempre pensato che sarebbe stato giusto, per giornalisti in là con l’età, che hanno sempre guadagnato bene e continuano a guadagnare bene, ridistribuire almeno in parte questa fortuna. Da qui l’idea di creare un giornale online fatto dai giovani, investendo in proprio e senza volerci guadagnare. Ridistribuzione e “give back”, quindi input fortemente etici, ma anche necessità di svecchiamento? Sì, è una convinzione a cui sono arrivato per gradi. Il discorso vale per i giornalisti come per i magistrati, gli architetti, i professori universitari, i medici. Sono tutte categorie dove chi ha successo continua a lavorare a lungo anche dopo l’età della pensione. Il nostro è il Paese in cui, anche con una certa ragione, ci fu una sollevazione popolare perché

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Enzo Biagi continuasse a svolgere il suo lavoro in televisione, ma questo succedeva quando Biagi aveva 75 anni. E perché accade questo? Perché in Italia è tale l’apprezzamento del successo da non chiedersi quanti anni hanno i vari Renzo Piano, i Fuksas, i grandi magistrati. Ma a una certa età si lavora più per la gloria e per non restare a casa che non per necessità finanziarie. E allora dovremmo introdurre un meccanismo di progressiva riduzione di quei lauti stipendi per chi intenda lavorare anche dopo aver raggiunto l’età della pensione. Un 20% in meno, che poi diventerà il 35%, il 50%. Però mi sono scontrato col fatto che a parole sono tutti bravi, ma nessuno rinuncia mai a un euro. E te pensi di invertire questa tendenza? Guarda, dal 7 luglio, dal primo minuto che ho scritto il post su facebook, sono stati tanti i giornalisti miei coetanei e anche più giovani che si sono messi a disposizione gratuitamente nel ruolo di tutor. E allora io scherzando ho detto: «Facciamo fare gli stagisti ai vecchi e i contrattualizzati ai giovani». Giornalisti generosi… Consapevoli di avere avuto fortuna. Quando io avevo 25 anni e volevo fare il giornalista, tutti quelli che avevano una media intelligenza ci riuscivano e nessuno è stato espulso dal sistema, perché tutelati da un contratto collettivo di lavoro ben corazzato. C’è stato questo mito: il giornalista non si butta via mai e così le case editrici, quando l’innovazione tecnologica ha reso tutto meno caro, hanno dovuto accollarsi la nostra ingombrante eredità. Ecco, ridistribuiamo quello che abbiamo imparato e un pochino di quello che abbiamo guada-


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gnato. Come ho detto, all’inizio ci metterò tanti soldi miei, se sono fortunato andrò in pari, se guadagno assumerò altri giovani. E se va male? Ci rimetterò del mio, che è sempre spiacevole, ma almeno potrò dire di averci provato. Magari in un paio d’anni avrò cresciuto una ventina di bravi ragazzi che poi troveranno occupazione in qualche ufficio stampa o giornale. Il sacrificio non sarà stato comunque vano, perché un altro target che mi propongo è quello di diventare da subito contagioso. In che senso? Ma sì, com'è possibile che se lo fa Mentana non lo possano fare altri, anche in altri settori? Con che faccia l'editore ricchissimo non fa contratti di praticantato quando li fa qualcuno che mette i soldi suoi per sforzo di coscienza? Mi sembri comunque ottimista. Un ottimismo della ragione? Intanto potrò sfruttare, senza fini di lucro, il fatto che ho più di un milione di persone che mi seguono sui social. E se riesco a far trasmigrare anche solo metà di questi, mi ritrovo già un bacino che pone il nuovo giornale tra i primi dieci italiani. Insomma, non sono Enrico “scemo” che compra la Viterbese per farla arrivare in Champions League. In realtà lo sforzo ha un senso e buone possibilità di successo. Dietro c'è la reputazione del fondatore, le simpatie che suscita una redazione fatta da ragazzi e il rivolgersi a un pubblico che non viene toccato dai veicoli dell'informazione. Insomma, di fronte a un giornale di questo tipo mi viene difficile pensare che i grandi soggetti del web non ci investano, almeno in pubblicità.

In effetti sono investimenti che promettono un buon ritorno reputazionale. Non soltanto. Il target di riferimento è sì quello dei giovani, per di più istruiti, che vogliono tenersi informati, ma è una categoria di giovani adulti che si può benissimo ampliare, perché dando la stessa notizia nello stesso momento degli altri media non c'è bisogno di essere giovani per venire da noi. Insomma, non ci fermeremo a fare qualcosa di semplicemente giovanilistico. Hai già in mente un format, qualche idea di come sarà questo nuovo giornale? Il nome? Per il nome è ancora presto, ne riparleremo a settembre. Sul resto non credo ai format, a parte i killer application come il Grande Fratello, X Factor e via discorrendo. Posso dire che sarà il primo giornale che nasce mobile per il mobile, lo smartphone e il tablet saranno i primi device. E per quanto riguarda il prodotto cercheremo di valorizzare l’originalità e le proposte dei giornalisti che comporranno la redazione. Perché, rispetto alle enormi potenzialità della nuova informazione, noi siamo un po’ come i genitori che guardano con sospetto, e senza capirli, i videogiochi dei figli. Guardiamolo dal punto di vista imprenditoriale, tu sarai l’editore, dovrai contenere i costi? Non so se sarò soltanto l’”editorino” di una casa editrice no-profit, o qualcosa in più in questa avventura. Io sono diventato direttore nel ‘91 e da allora ho sempre messo a disposizione la mia esperienza e assunto tanti giovani giornalisti che ora giovani non sono più. Vedremo. Comunque sì, i costi saranno

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contenuti, perché non avremo la carta, il distributore, l'edicolante. I nostri giornalisti si presenteranno e faranno tutto con questo (mostra il cellulare, ndr): filmeranno, scatteranno le foto, scriveranno il pezzo, andranno in diretta audio e video. Il mondo è cambiato, e ha anche abbattuto i costi per questo. Tu parli di tecnica, ma il modus operandi… Le due cose non possono andare separate, non puoi fare la Divina Commedia, né per stile né per durata, quando vai online e il tuo primo medium è uno smartphone o un tablet. Mi riferivo al ruolo e alla funzione del giornalista. In un mondo così tanto interfacciato, con un profluvio di notizie autonome che viaggiano, il ruolo di una testata o di un singolo mediatore è quello di riuscire a trovare i gusti del gelato secondo le passioni di chi a quel gelato si avvicina. Un ruolo molto antico. Come quello di chi ti offre una gerarchia delle notizie. Prerogativa della carta stampata, come dei tg. No, non mi riferivo tanto alla gerarchia, sebbene tutti i giornali siano fatti da una prima pagina. In realtà scegliamo una testata di riferimento secondo la capacità di chi la guida di offrirci il mix giusto, di mettere assieme, come diremmo oggi, la playlist che ci piace di più. È sempre stato così. Il cantastorie andava in giro a raccontare cosa era successo nel mondo prima della diffusione capillare dei giornali, ed era bravo se era in grado di raccontare quello che interessava al suo pubblico. Questo vale da sempre e varrà sempre. Più hai miliardi di bip di informazioni che girano incontrollati sul web e più avrai bisogno

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di un mediatore credibile, che sta tra te e quel mare magnum di notizie. Torniamo alle probabilità di successo, che noi ti auguriamo sia enorme, di questa tua iniziativa. Nascere senza un brand alle spalle, non essere lo spinoff di una testata esistente, è un limite o un vantaggio? Ma sai, i giovani sono saprofiti, non gli interessa che tu sia o no l’estensione del Corriere della Sera: leggono le notizie gratis, sbafano la notizia. Poi, se non sei estensione su una piattaforma diversa di un prodotto che da “analogico” diventa anche “digitale”, sei padrone di togliere tutto il superfluo rispetto a quello che stai facendo. Insomma, non hai l’obbligo di pubblicare il sermone di un ex direttore o l’articolessa domenicale di un editorialista. Che i giovani si guardano bene dal leggere. Ma sì, dopotutto noi lo facciamo perché lo facevamo da ragazzi, lo facevano i nostri genitori e i nostri nonni. Ma c’è stata una cesura generazionale e tecnologica. Da 20 anni nessun giovane va a comprare un giornale. Io faccio sempre il paragone con l’antiquariato: in un bellissimo negozio di antiquariato noi ci sguazziamo, vediamo cose che ci piacciono, ma se vai davanti a un negozio di antiquariato o davanti ad un’edicola non vedrai un giovane nemmeno per sbaglio. All’edicola comprano i biglietti del tram, e ancora per poco. Un giovane va all’Ikea non perché è povero, o non solo perché povero, ma perché è più funzionale. La logica del prodotto di valore, tornito, pregiato, di tradizione, non esiste più. Così come ormai è passata l’idea che per l’informazione non devi più pagare.


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Anche se… Paghi in un altro modo. Hai l’illusione di non pagare o, se vuoi, la nuova modalità di pagamento è invisibile. Leggendo un pezzo, paghi il traffico che consumi e la pubblicità, lo fai con uno strumento che ti consente anche di telefonare, passare sopra il tornello della metropolitana, navigare in internet. Penso che immaginerai attorno a questo nuovo giornale un intero ecosistema, visto quanto i tuoi programmi interagiscano col mondo dei social… Vedremo, cercherò di sfruttare in maniera spregiudicata quello che so, avendo fatto prodotti che hanno intercettato anche il pubblico giovane come la “maratona”, sono uno di quei giornalisti che

può tentare di arpionare un pubblico giovane… Siamo su La Freccia, regalaci una riflessione sul viaggio… Io, che non ho neppure la patente, viaggio tantissimo in treno. E, a differenza di molti altri che dicono di trovarsi male, sono un figlio del mio tempo, non ho il problema di chi mi troverò accanto, mi siedo, apro il tablet o lo smartphone che sono i miei due compagni di viaggio, e faccio le mie cose: rifletto, lavoro, leggo, parlo, insomma sfrutto al meglio il mio essere multitasking e sto benissimo. Poi, da quando l’Alta Velocità ha abbattuto i tempi di viaggio e realizzato una vera rivoluzione, no, non potrei proprio rinunciare al treno.

Update Pensato per un pubblico giovane, con lo scopo di costruire un giornale online che valorizzi le nuove generazioni, negli ultimi anni tagliate fuori anche dal giornalismo, Open, questo il nome della testata fondata da Enrico Mentana, ha iniziato le pubblicazioni nel dicembre 2018. “Open – si legge sul sito del giornale – che ha lo scopo di avvicinare i giovani lettori al piacere/dovere di essere informati, non ha scopo di lucro, è gratuito e vive su quanto versato da Mentana a fondo perduto all’atto della sua creazione e sui proventi delle inserzioni pubblicitarie. Essendo impresa sociale senza finalità di guadagno accetta contributi volontari di scopo sociale. Ogni eventuale utile della società sarà reinvestito nel giornale, per assunzioni o investimenti tecnologici”. Nota dei curatori

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SATIRA ALLA GIANNELLI L’ATTUALITÀ DISEGNATA CON CHINA E PENNARELLO A COLLOQUIO CON LO STORICO VIGNETTISTA DEL CORRIERE DELLA SERA

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ncontro Emilio Giannelli a casa sua, sulle propaggini sud occidentali della Montagnola senese, un angolo di pace semisperduto nel verde di una campagna punteggiata di ulivi e boschi di querce, lecci e castagni. Da 27 anni vignettista del Corriere della Sera, e prima ancora di Repubblica, potremmo definirlo un monumento della satira giornalistica europea. Ma i monumenti sono statici e bersaglio, nelle sue caricature, delle deiezioni dei volatili. Giannelli, invece, a 82 anni, con la sua raffinata intelligenza ed eleganza, è ancora dinamico e brillante come un ragazzo, e sforna ogni giorno una nuova vignetta per tratteggiare, con irriverente ironia, il ritratto di questo Paese e dei suoi governanti pro tempore, con le loro vanità e debolezze che li accomunano a molti di noi. All’indomani del tragico attentato alla sede di Charlie Hebdo vennero qui, a intervistarlo, i giornalisti di quattro emittenti televisive internazionali. «Nonostante le indicazioni, di tutti e quattro non ce ne fu uno che azzeccò la strada. Quando arrivò l’ultimo, mi chiese: «Ma lei qui non ha paura?». No, guardi, se i terroristi sono come i giornalisti, non mi troveranno mai».

Emilio Giannelli

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Una vignetta di Emilio Giannelli

Registro la tua scarsa considerazione per (diciamo alcuni) giornalisti. Poi, perché i terroristi dovrebbero cercarti? Non hai mai offeso i sentimenti religiosi di nessuno. No. E poi la dissacrazione fine a sé stessa, senza un pensiero propositivo, non ha senso, non è utile. L’offesa per l’offesa non è mai apprezzabile. Io sono contrario a ogni forma di censura ma, allo stesso tempo, ritengo che la satira debba soggiacere ai limiti di ogni forma di espressione. Stabiliti dalla legge e dal codice penale. Che potrebbe prestarsi a diverse interpretazioni. Se fai la caricatura di uno e sotto ci scrivi "ladro", quella non è satira, è diffamazione. Quando parli di utilità, cosa intendi? La buona satira, per andare a segno, deve contenere una critica ed esprimere un concetto comprensibile. Per riuscirci, pur senza farsi condizionare eccessivamente, deve tener conto del contesto e delle aspettative del lettore standard. Senza offendere…

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Però, con la chiave dell’ironia e del paradosso, ci si può permettere di dire o far capire cose che altrimenti non si direbbero. Ma qualche politico in questi decenni si sarà pure risentito. Tanti. In genere si adombrano quando non si sentono più sicuri. È accaduto con Spadolini, quando non è riuscito a diventare presidente del Senato, e con Andreotti, quando sono iniziati i processi a suo carico. E in tempi più recenti? In genere a muoversi sono più i portavoce e gli uffici stampa. Ma si rivolgono direttamente al giornale. È il Corriere che ti commissiona la vignetta? Certo. Mi danno l’argomento di prima pagina, a volte due. Però può capitare che all’ultimo momento cambino impaginazione, e la vignetta resti un po’ disancorata dall’articolo principale. Un tempo capitava spesso che riuscissi a rifarla daccapo, ora sempre meno. Invecchio, sono più lento, e hanno più rispetto. (Il lettore è bene sappia che Giannelli prima disegna le sue vignette con il lapis – in Toscana la matita si chiama ancora così e solo dopo usa la china o il pennarello, ndr). Nei primi tempi, quando ti chiamò il direttore Ugo Stille al Corriere, “rubandoti” a Repubblica, le regole d’ingaggio erano diverse? Sì, dovevano essere quattro vignette a settimana, una in più che con Repubblica. Non c’era stretto legame con l’attualità, così ne facevo una o due in più, e Stille finiva per usarle tutte. Poi arrivò Anselmi, la stagione di Mani pulite, e si passò a una al giorno. Senza neanche la sospensione per i 15 giorni di ferie.


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Dici niente censura, ma ti sarà capitato che qualche vignetta l’abbiano rifiutata? Certo, anche di recente. Commentavo, con un doppio senso, la proposta di ripristinare il servizio di leva ricordando come, quando c’era, si riusciva spesso a evitarlo corrompendo con una bustarella le commissioni mediche. Titolo: Rivedibile. In molti ti prendono giovialmente in giro perché invii i tuoi disegni ancora per fax. Analogico nell’epoca del digitale. Ma sono anche sui social. Su facebook (e anche su instagram, ndr) c’è un gruppo, Capire Giannelli, che commenta tutte le mie vignette. Ogni tanto il mio figliolo legge i post e me ne parla. Mi prendono in giro perché disegno i personaggi

come fossimo negli anni ’50. Però, dopotutto, abbigliamento ed elettrodomestici saranno pure cambiati, ma i nostri vizi no. Sono ancora quelli di quando cominciasti a fare caricature. Professione che ha accompagnato quella di avvocato e dirigente del Monte dei Paschi. Nel 1951 avevo 15 anni, facevo quinta ginnasio, portavo i pantaloni corti e fui molto fiero di collaborare al volume satirico 51, Liceo che parla. Lì disegnai le mie prime caricature. Ricordo quelle di Enzo Cheli e di Eugenio Lari, diventati grande costituzionalista il primo, alto dirigente della Banca Mondiale il secondo. Insomma, una vera generazione di fenomeni. E Giannelli ne è testimone, con il suo lapis sempre appuntito, da quasi 70 anni.

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UN FARO SUL MICROCOSMO LOCALE LA FORZA DEI CORRIERI DIRETTI DA FRANCO BECHIS RACCONTARE LE NOTIZIE ANCHE PICCOLE DEI PAESI DI CUI NON PARLA NESSUNO

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uando Franco Bechis era direttore del Tempo, Claudio Sabelli Fioretti, intervistandolo, scrisse di lui: «È uno di quei giornalisti per i quali la notizia è un mito e non c’è regola morale». Sembrano quasi parole di biasimo, che risuonano invece come un complimento, se da ogni vero giornalista ci attendiamo che sfruculi dove noi non arriviamo e racconti, senza imbarazzi, anche le più scomode verità. Qualche settimana fa, sul suo sito L’ImBECcata, ha riferito di una vicenda che la dice lunga su certi opachi meccanismi legislativi. Un emendamento al Milleproroghe, sul rinvio della fatturazione elettronica, è entrato di soppiatto, sepolto tra altri mille, nel testo presentato alle Camere, ma «nessuno ne sapeva nulla, né il ministro né gli altri sottosegretari». Poteva essere votato, distrattamente, e diventare legge, assecondando gli interessi di qualcuno. Incontriamo Franco Bechis a Roma, un lunedì mattina, è in procinto di lasciare l’amata Capitale, dove, lui torinese, vive dal 1990, per raggiungere Perugia. Da gennaio è direttore dei Corrieri (Umbria, Siena, Arezzo, Viterbo e Rieti). Un bell’impegno.

Franco Bechis

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Velimna, sono tornati gli Etruschi

Settimana cruciale per il futuro della Lega

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La biblioteca cade a pezzi

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Una prima pagina de Il Corriere dell'Umbria

SĂŹ, ogni sera faccio ben cinque prime pagine. Certo, con il suggerimento, quando c’è, dei caporedattori. Come si difendono i quotidiani locali dalla grave crisi dell’editoria tradizionale? Resistiamo meglio perchĂŠ accendiamo il nostro faro sul microcosmo locale. La forza dei nostri Corrieri è quella di raccontare le notizie anche piccole di paesi di cui non parla nessuno. E lo vedi se vai in giro, trovi il giornale nei bar, la gente lo apre sulla pagina locale e non legge nient’altro, forse giusto lo sport. E anche lĂŹ ci leggono perchĂŠ diamo spazio ai campionati minori: il lunedĂŹ facciamo il 40% di venduto in piĂš. Al microcosmo il grande web guarda meno, o per niente, e quindi lĂŹ c'è meno concorrenza. PerchĂŠ il web ormai ha preso il sopravvento‌

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Certo, la gente durante la giornata si è abituata ad avere notizie da internet, a ritenere che tutta l’informazione sia gratuita e questo ha complicato molto la vita dei giornali fatti da professionisti retribuiti e con un prezzo da pagare in edicola. Quindi? Dobbiamo fronteggiare la concorrenza digitale con il nostro sito web, anche facendoci auto concorrenza, rispetto al quotidiano. Non possiamo però aspettare il giorno dopo per dare una notizia che è giĂ diventata patrimonio di tutti. In Umbria, tra l’altro, ci sono molti portali d’informazione ben fatti. Poi la raccontiamo lo stesso sul giornale, però offrendo qualcosa di piĂš: chiavi interpretative, retroscena, opinioni che magari sono piĂš complicate per i siti e che invece cerca il lettore della carta stampata. Comunque io punterei a una maggiore differenziazione. In che senso? Alla fine l’unico prodotto che non è trasferibile sul giornale è il video. Affiderei quindi la narrazione sul web essenzialmente ai video. Con un racconto a tamburo battente che dĂ un’altra immediatezza rispetto allo scritto. E in questo caso, anche sullo stesso argomento, non c'è il rischio di auto concorrenza. Certo, quel che sembra facile da realizzare a Roma, nella provincia italiana è piĂš complicato. E anche in questo caso la competizione diventerebbe infinita, perchĂŠ un qualsiasi ragazzino potrebbe fare un video con il telefonino. Però, come riflettevi prima, e come abbiamo detto spesso in queste pagine, il lavoro giornalistico ruota soprattutto sull’interpretazione e cucitura dei fatti. Le notizie in rete giocano sulla veloci-


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tà, che non sempre si accompagna alla precisione. Sì, ma anche questo è sempre successo. Ho lavorato in giornali piccoli che avevano un concorrente grande e spesso, pur di essere i primi a dare una notizia, accettavamo anche un certo tasso di imprecisione. Anche le fake news non sono una novità della rete o dei social, sebbene la loro propagazione oggi può diventare virale in breve tempo. È così, e comunque il fenomeno delle false notizie è meno grave di quel che lo si fa. Quando non c’erano i siti, per e-mail arrivavano le catene di Sant’Antonio sullo status dei parlamentari con informazioni fuorvianti. C’era pure chi giocava con i giornali, divertendosi a prenderli in giro con notizie false e banali, ma di questo non è rimasta memoria. Non sempre la verifica delle fonti viene svolta con il giusto impegno… No, a volte erano notizie false, ma innocue e banali. Negli anni ’90 è apparsa più volte quella di un incidente stradale causato da un automobilista distratto dalla vista di due che facevano l’amore alla finestra. Era semplicemente inventata. Poi ne sono state pubblicate altre che non stavano in piedi su questioni ben più rilevanti, anche sulla carta stampata. Certo, i giornali non hanno mai avuto la stessa capacità di penetrazione del web, ma la tv sì e non è che anche in tv non siano circolati degli strafalcioni. Però in rete c’è un’interazione continua, hater, profili fasulli, autoparodie. Questo sistema di profili falsi, o anonimi, o sotto pseudonimo, che possono dire quello che vogliono, è certamente

un problema, ma è abbastanza tipico di quel mondo lì. Io mi chiamo Franco Bechis, mi firmo così e come pseudonimo uso l’anagramma del mio nome, quindi sono riconoscibile e voglio esserlo. Più complesso il discorso per quanto riguarda la satira e l’ironia. In che senso? L’ironia è fonte di fraintendimenti. Non la capisce il 90% della gente e così una battuta viene presa sul serio e diventa notizia. Me ne sono reso conto perché ho una certa tendenza a usarla nella mia scrittura, poi mi accorgo, magari dalle lettere dei lettori, che non l’ha colta nessuno e capisco che ho sbagliato io. Quindi succede in rete ma anche sui giornali. Ma sì, perché un conto è scrivere per un pubblico professionale o di lettori molto specializzati e attrezzati, un conto è un giornale generalista su cui diventa rischioso fare cose non piane perché la gente ha bisogno di comunicazione semplice. Così, per esempio, sulle testate che dirigo faccio un nazionale ma personalizzato, fruibile da tutti, per comunicare ogni giorno quel che di più rilevante succede in politica, cronaca o economia. Preponderante resta però il rapporto con il vostro territorio. Questo mese la cover story della Freccia è dedicata proprio a Perugia e all’Umbria. L’Umbria sta vivendo una stagione particolare. Non voglio fare l’esperto, sono lì soltanto da dieci mesi, ma si capisce facilmente: era una regione con un elevato numero di dipendenti pubblici, ne trovavi spesso uno in ogni famiglia, che anche negli anni di crisi poteva quindi contare su uno stipendio sicuro. Que-

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sto ha depotenziato la voglia di rischiare. Spesso chi si dedicava all’enogastronomia o all’agriturismo non faceva altro che aggiungere un hobby a uno stipendio certo. Era un po’ un gioco, mentre queste attività per compiere il salto di qualità devono diventare professionali. Ora, invece? Da qualche anno il settore pubblico ha bloccato il turnover e le cose stanno cambiando. E siccome il Corriere vuole essere vicino al territorio, aiutando questo cambiamento, abbiamo deciso di premiare, proprio a ottobre, con il coinvolgimento dell’Università di Perugia, di Confindustria Umbria, di Confartigianato e Coldiretti, tre imprese emergenti tra le startup, tra chi fa innovazione nel ciclo produttivo e chi cresce nell’export. Come startup ha vinto un’impresa impegnata nell’apicultura, nel processo innovativo una industriale, ma ci sono cinque imprese agricole tra i vari settori e una di queste è quella che esporta di più. Tutte imprese relativamente giovani. L’Umbria vive anche di turismo. La Freccia, questo mese, si sofferma su quello enogastronomico. Voi pubblicate un supplemento settimanale dedicato proprio a questo settore. Sì, Terra e Gusto. Lo abbiamo lanciato quest’estate in via sperimentale, uscendo di lunedì. Ora l’abbiamo posizionato il giovedì, offrendo così ai nostri lettori spunti per il weekend. Ci stiamo anche preparando per sdoppiarlo con articoli in italiano e inglese. In uno dei suoi primi interventi pubblici, il nostro Amministratore delegato, Gianfranco Battisti, tra l’altro anche presidente di Federturismo, ha citato proprio Perugia, insieme a Siena, come esempi di città che dovranno essere

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servite meglio dal sistema ferroviario. Tra gli obiettivi la destagionalizzazione e la delocalizzazione dei flussi turistici. Eurochocolate, a Perugia a ottobre, è un caso esemplare in quest’ottica. Sì, oltretutto è fatto in un momento in cui da solo è protagonista di tutta l’Umbria. Perché ovviamente sono di grande richiamo anche Umbria Jazz e il Festival di Spoleto, che però, paradossalmente, per una settimana sono in contemporanea. Non riesco a capire, se non hai molte iniziative di grande richiamo, e quelle lo sono, le fai coincidere per una settimana? Insomma, bisognerebbe anche fare sistema. Certo. Poi l’Umbria in primis avrebbe bisogno, e man mano stanno nascendo, di strutture per un turismo che spenda qualcosa in più, di alberghi sopra la media e di resort di lusso: servono anche questi per fare fatturato. E poi è necessario avere stabilmente un modo comodo per arrivarci. Magari facendo un accordo come Reggio Emilia con la stazione di Calatrava, da cui poi ti sposti in navetta, perché non è una regione così grande e in un’ora raggiungi qualsiasi posto partendo dalla ferrovia ad Alta Velocità. Certo, l’Umbria ha soltanto bellezze naturali, se le rovini è finita. Ma se proprio devi, facciamolo almeno in favore di infrastrutture che servono. Perché il vero problema è portare qui i turisti. L’idea di un aeroporto vicino, per esempio, non ha funzionato. Perché? Perché, al di là dei problemi gestionali, si è sbagliato a ipotizzare che realizzandolo davanti ad Assisi avrebbe raccolto i flussi del turismo religioso. Il quale, invece, ha una diversa organizzazione, con


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i pellegrini che raggiungono Roma e da lì vengono in pullman, e non in charter. Quello religioso è un turismo povero, fatto spesso di camminanti. Una modalità, quella del turismo slow, che permette di ammirare le bellezze di questa terra. Che andrebbero tutelate meglio. In che senso? Il centro di Perugia non è più il centro della vita. Hanno chiuso quasi tutte le botteghe, sono rimaste solo le più turistiche. La vita ormai si svolge nei centri commerciali, ovviamente periferici. Ce n’è uno enorme, a Collestrada, dove c’è l’imbuto del traffico e il bivio per andare verso Assisi. Lì trovi supermercati, negozi, parchi di divertimento per bambini. Sotto Corciano, uno splendido paesino medievale, c’è un’altra serie di centri commerciali dove la gente fa la spesa e trascorre il sabato e la domenica. Alcuni sono utili, non lo metto in dubbio, ma sono anche molto brutti, e c’è da chiedersi chi ne abbia autorizzato la costruzione. Brunello Cucinelli, che è un

po’ l’anima di queste zone, ha lanciato un’idea: coloriamo tutti questi capannoni di color terra di Siena, così almeno si mimetizzano nel paesaggio. Una sorta di provocazione culturale. Fa parte delle sue battaglie e devo dire che non soltanto le lancia, ma spesso se le prende sulle spalle, anche finanziariamente. Se vai in giro per l’Umbria, dove non funziona il pubblico, il sindaco fa subito appello a Brunello Cucinelli, che ovviamente non può risolvere tutti i problemi. Bechis ci racconta poi del suo amore per il jazz, del legame forte con la terra di San Francesco che già evoca il nome suo e quello dei figli, Chiara e Francesco. La prima le ha da poco regalato l’immensa gioia di diventare nonno. Noi ci congediamo da lui offrendo ai lettori della Freccia un assaggio di quell’Umbria che a ottobre si colora degli intensi odori e sapori d’autunno. Meta Perugia, raggiunta ormai stabilmente dal Frecciarossa, e i suoi splendidi dintorni.

Update Poche settimane dopo il nostro incontro Franco Bechis è tornato a dirigere il quotidiano Il Tempo, di cui era stato già direttore responsabile dal 2002 al 2006. L’introduzione a questa intervista sintetizza comunque l’invariabile del pensiero, e del lavoro giornalistico, di Bechis. Sfruculiare laddove in tanti non riescono ad arrivare per raccontare senza imbarazzi anche le più scomode verità. Nota dei curatori

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INTRATTENIMENTO VS APPROFONDIMENTO IL COMPITO FONDAMENTALE DEL GIORNALISMO SECONDO SERGIO LUCIANO, DIRETTORE DI ECONOMY ILLUSTRARE LA REALTÀ E CIÒ CHE NON SI PUÒ NON SAPERE

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colpisce pensieri e frasi con la nitidezza di chi si è forgiato solide convinzioni e ha la capacità di comunicarle con efficacia e semplicità. Il curriculum di Sergio Luciano, direttore del mensile Economy, racconta di un giornalista con 40 anni di esperienza alle spalle, che ha scritto per testate come Avvenire e Radiocor, Il Giorno e La Repubblica, La Stampa e Il Sole 24 Ore, fino a diventare caporedattore economico di alcune di esse. E che ha lanciato pionieristicamente e diretto, dall’ottobre del 2000 al febbraio del 2003, il giornale online ilnuovo.it. Un precursore di quell’esplosione digitale che, nell’arco di tre lustri, avrebbe scardinato tutti i parametri dell’industria e della professione giornalistica. Invitato a tratteggiare un suo breve autoritratto, è perentorio: «Sono un signore di 58 anni, che ha sempre fatto il giornalista e continua a farlo in un mondo completamente mutato rispetto a quando ha iniziato, nel ’79. E lo fa nella convinzione che il big bang digitale non debba cancellare la radice dell’esistenza stessa dell’informazione giornalistica». Però questo “big bang” sta facendo crollare un mondo… Certo, ha completamente rimescolato quelle pratiche e regole dell’informazio-

Sergio Luciano

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ECONOMY | ANNO II | N.14 | MENSILE | AGOSTO | DATA DI USCITA IN EDICOLA: 31 LUGLIO 2018

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FACEBOOK : «Nei nostri like la ricetta del successo delle Pmi». De Bortoli: «Ma in Usa il social fa l’editore»

Lavorare

La crescita che rallenta e l’occupazione rischia la frenata, tra la scarsità delle nuove competenze e l’incontro difficile tra domanda e offerta di personale

Ne parlano Spence, Sapelli, D’Amato, De Masi, Bentivogli, Bitjoka, Cuzzilla, Dragotto, Rasizza. E dalla MeshArea del Meeting di Rimini una proposta che spiazza

TONINELLI: «LA MIA SFIDA SUI NUOVI PORTI»

IL MINISTRO: MASSIMO IMPEGNO SULLA LOGISTICA INTERMODALE Agosto 2018

APPALTI, CODICE CAOS

INNOVAZIONE/CEFRIEL

FISCO&PMI

Raffaele Cantone (Anac): «Cosa cambiare, cosa tenere»

Nella “bottega dello stregone” Fuggetta crea pezzi di futuro

Tutte le agevolazioni per chi si quota in Borsa

La legislazione è da riscrivere di V. Malvezzi e C. Sforza Fogliani

Come Belluno ha trasformato una “protesi” in un gioiello

MADE IN ITALY Matteo Marzotto sulle fiere: «Ci vuole un soggetto unico»

BANCHE ALLA SVOLTA

PIACERI/OCCHIALI

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ne che erano rimaste pressoché immutate dall’illuminismo sino a fine ’900. Ma il giornalismo conserva ancora di più una funzione sociale di servizio importante e di qualificazione della vita collettiva, che poi è anche la vita democratica. In che senso? Ha un compito fondamentale: dare una rappresentazione completa delle cose che non si possono non sapere. Illustrare la realtà che interessa tutti e raccontarla in sintesi, ponendo in giusta evidenza quel che non si può non conoscere. Compito sempre più arduo, di fronte a un assordante rumore di fondo. È vero, l’esplosione di contenuti a disposizione impone al giornalista uno sforzo di ulteriore qualificazione dei propri. Anche perché ha rotto gli argini di quella che finora era considerata una riserva di legge, quella dei giornalisti professionisti.

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Insomma, oltre a quelli di professione, sono in tanti oggi a sentirsi giornalisti. È già così in altri ambienti. Prendiamo il teatro, ci sono in Italia 20 compagnie professioniste che hanno ottimi cartelloni e stanno sul mercato riempiendo le sale, poi ce ne sono altrettante con rilevanza culturale indiscussa che ricevono contributi per essere sostenibili. E poi mille comunità che fanno teatro in maniera amatoriale, senza avere un modello di business, ma gratificando attori e spettatori. Così nel calcio: quello inteso come industria economica sostenibile potrà coinvolgere 20mila persone, a fronte delle quali ci sono dieci milioni di italiani che giocano almeno a calcetto. Ecco, sono o si sentono attori i primi come i secondi, calciatori i primi come i secondi. Il giornalismo finora era considerato un’attività per pochi eletti, iscritti all’Ordine. Tutto ciò è saltato. Coi social media tutti si sentono giornalisti, vanno in giro per strada col telefonino, postano filmati, aggiungono righe di commento e ritengono di aver fatto informazione. È un fenomeno capillare e irreversibile che merita rispetto e considerazione, ma non è informazione. Quel tipo di raccolta dati non è sottoposto ad alcun tipo di filtro professionale, che richiede le competenze necessarie per distinguere un’illusione ottica da un fenomeno vero. Un conto è testimoniare, un altro interpretare, capire e spiegare. È proprio così. Quando affondò la Concordia, alcuni passeggeri misero in rete dei filmati ripresi dal ponte e dalle scialuppe durante le operazioni di salvataggio. Erano tutti reporter. Ripeto, il fatto di per sé non è assolutamente deteriore, anzi: è un regalo che la tecnologia ci offre rispetto all’obiettivo comune della


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massima documentazione possibile. Ma non ha niente a che vedere con una informazione completa sulla Concordia, che invece ha occupato per anni fior fior di giornalisti, finché non sono state più o meno definite responsabilità e dinamiche. Tuttavia, dobbiamo prenderne atto, mentre tutti sono curiosi di vedere cosa è successo a bordo della Concordia, pochi considerano veramente importante sapere se Schettino è colpevole o no. Perchè tante testimonianze e poco giornalismo? Perché la merce rappresentata dall’informazione di qualità e approfondita non ha, per dimensioni, lo stesso pubblico dell’informazione di intrattenimento superficiale. Resta il problema di ridefinire gli equilibri e marcare bene le distanze tra la componente informativa professionale e quella di pubblico ma generico intrattenimento. Serve un’attenta presa di coscienza, magari già nelle scuole. Sì, perché è vero che la rivoluzione digitale ha aperto un’enorme spazio nuovo, non commerciale, per la testimonianza e per il dibattito. Ma bisogna essere ben consapevoli che c’è un abisso tra me e te che postiamo le immagini di un evento di cronaca oppure discutiamo su facebook o su twitter se sia colpa del comandante Schettino o della fatalità, se a Genova sia crollato il ponte per l’incuria o per il destino cinico e baro, se la manovra finanziaria sia sostenibile oppure no, e l’informazione approfondita e verificata su quel che veramente è successo al Giglio, a Genova, in Parlamento. I social hanno messo in un angolo l’approfondimento, che costa più fatica, anche al lettore. Qui non c’entrano i social, è proprio la

natura umana. Siamo così: mi incuriosisce tutto, mi interessa poco. Dobbiamo però aver ben chiara l’abissale differenza tra intrattenimento e approfondimento, tra curiosità e interesse. Io credo che il giornalismo debba essere sempre più nel futuro l’intermediario culturale degli interessi. L’informazione free, dei social e del citizen journalism, sarà sempre più l’intermediario testimoniale della curiosità. Da un lato emotività, superficialità e chiacchiericcio, dall’altro ricerca e interpretazioni serie, attente, professionali. Ti fa male un callo, chiedi consiglio a un amico o collega; hai problemi seri di salute, vai dal medico. Vuoi commentare una foto o un video, resti sui social; hai necessità di conoscere quali adempimenti fiscali devi affrontare per non incorrere in sanzioni, non ti affidi a persone qualsiasi, che magari ne sanno perfino meno di te, ma a dei professionisti. Quindi il giornalismo, per farsi impresa produttiva, deve essere ancora più preparato e specializzato. Certo. È crollata l’illusione che quel monopolio istituzionale che per decenni ha protetto la categoria dei giornalisti, non solo in Italia, corrispondesse a un monopolio sostanziale. Sulla superficialità dell’informazione di curiosità quel monopolio non esiste più. Resta uno spazio, più piccolo ma molto qualificato, di mediazione culturale degli interessi: spiego bene a te che sei interessato a un determinato argomento tutto ciò che devi sapere nel tuo interesse di cittadino, imprenditore, professionista e, magari, anche di tifoso. Così i media verticali, di nicchia, sopravvivranno meglio alla crisi di quelli generalisti. C’è una serie di testate poco note, con

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tirature magari contenute, ma molto richieste, dedicate alla politica internazionale come all’alta finanza o al modellismo ferroviario, al giardinaggio, alle auto fuoristrada. Sono nicchie, ma si difendono bene dall’aggressione dell’informazione digitale gratuita generica. La gente le cerca e le vuole trovare ancora in edicola. Però devono essere nicchie vere, di grande competenza. Ed è un po’ anche il modello del tuo giornale, giusto? Non esattamente, perché il nostro target di riferimento è quello dei piccoli e medi imprenditori, qualche milione di imprese, oltre dieci milioni di lavoratori, una realtà economica e produttiva sottorappresentata dai media ma fondamentale per il Paese, e non certo una nicchia. L’affinità al modello di cui parlavamo sta nell’offrire un’informazione economica tagliata sul concreto, puntuale, utile, funzionale ai loro interessi e alle loro necessità. Quel che hai detto, giornalismo come «mediazione culturale degli interessi». Esatto. Scriviamo di novità che occorre conoscere, dalla tecnologia alla finanza, dalla normativa all’ambiente, dal mercato internazionale all’impatto dell’Unione Europea su risorse umane, brevetti, ricerca. Perché stiamo vivendo un’accelerazione del cambiamento e ogni novità può incidere nella vita vera dell’azienda stessa. Faccio un esempio: dal prossimo gennaio arriva la fatturazione elettronica obbligatoria. L’Agenzia delle Entrate ha licenziato un documento di spiegazioni lungo 35 pagine. Per il piccolo imprenditore è una giornata di studio. Qualcuno se lo farà spiegare dal suo commercialista, ma se intanto ha letto un buon articolo, breve ma chiaro, esaustivo, puntuale, non potrà che essergli utile. E il rapporto con il digitale, come funziona?

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Abbiamo fatto la scelta di non dare gratis i contenuti del giornale, ma di avere una piccola produzione dedicata all’online gratuita su Economymag, e poi inserire sul sito gli altri articoli leggibili solo da chi acquista la copia o l’abbonamento. Comincia a esserci un riscontro confortante. Non pretendiamo di diventare dei colossi digitali, però ci stiamo muovendo con una certa soddisfazione. Insomma, bilancio positivo? Sì, in tutti i sensi. Abbiamo rilevato una testata e un brand che erano stati messi da parte, e li abbiamo rilanciati. L’azienda ha un buon equilibro economico e ha prodotto persino un leggero utile. Su una piattaforma digitale come Linkedin, che ha un ottimo seguito tra i professionisti, i nostri contenuti hanno un successo importante, perché diventano oggetto di confronto e dibattito social. A un giornalista economico come te non possiamo non chiedere quanto i paletti dell’economia e della finanza internazionale, partendo ovviamente da quelli delle regole comunitarie, incidano nella politica tout court di un Paese. E quanto si possa realmente non tenerne conto. Secondo me, al di là delle convinzioni di ciascuno, non c’è dubbio che la politica economico-finanziaria seguita dall’Europa negli ultimi 15-20 anni, quindi attorno alla nascita dell’euro, abbia deluso. Non sembrerebbe essere l’austerity alla tedesca la chiave per gestire quella domanda di promozione umana che fisiologicamente arriva dai popoli, tutti, sia pure in modo diverso. E che la politica dovrebbe interpretare. Persino il caso della Grecia, di cui non dobbiamo ignorare la genesi – parliamo di un Paese che aveva addirittura imbrogliato sui bilanci pubblici – lo dimostra. Oggi la Grecia ha ancora un debito pesantissimo,


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il 20% di occupazione in meno rispetto al periodo precedente la crisi e il 20% di Pil in meno. La medicina non ha funzionato… Senz’altro non ha favorito la crescita economica mentre ha allargato il divario rispetto agli Stati Uniti e ai Paesi emergenti. Poteva essere fasullo, come si è dimostrato essere, il modello dei greci, che infatti è crollato, potrà rivelarsi insostenibile il no-

stro, ma quella medicina sicuramente non va bene. Lo suggerisce persino il voto bavarese di alcune settimane fa. Nella regione col Pil individuale più alto in Europa, la protesta degli elettori ha colpito l’establishment ventennale del Governo federale tedesco. È suggestivo notare che quell’assetto non va bene nemmeno a loro, che sono quelli che oggettivamente sul piano economico stanno meglio di tutti.

Update Nei due anni che ci separano dall’intervista su La Freccia, di cui sarò sempre grato, la situazione mi sembra un po’ migliorata. Il dilagare delle fake news e lo scandalo dei contenuti violenti, lesivi e illeciti dei social media sta facendo rinsavire tanti. Occorrono vigilanza, regole severe e punizioni contro chi abusa dei social (e chi li gestisce male). E occorre distinguere il giornalismo dalle chiacchiere irresponsabili. In questo senso mi pare che si possa riscontrare qualche timido passo avanti. Sergio Luciano

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SERVIZIO PUBBLICO BILANCIARE BENE QUALITÀ CON QUANTITÀ A TU PER TU CON IL DIRETTORE DEL TG2 GENNARO SANGIULIANO

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ennaro Sangiuliano è giornalista di grande esperienza e saggista colto e raffinato. Dal 31 ottobre è direttore del Tg2, una carica a cui è stato designato dopo nove anni di vicedirezione del Tg1 e 15 di esperienza in Rai, iniziata come inviato del Tgr. Prima ancora direttore del quotidiano Roma e vicedirettore di Libero. Quando mi accoglie nel suo ampio studio, nella cittadella di Saxa Rubra, sta concordando con un suo caporedattore gli attenti dosaggi di un servizio di politica, e decidendo a quali esponenti dare voce e visibilità. Lo ascolta e poi, con pacata risolutezza, definisce particolari che per i non addetti ai lavori potrebbero apparire insignificanti. Non lo sono. Uscito il collaboratore, mi racconta le regole non scritte da rispettare perché nessuno, né il governo né i partiti che lo sostengono o gli si oppongono, si senta, pur parzialmente, trascurato. Minuziose posologie per preservare equilibri delicati, in ossequio al ruolo, imparziale e indipendente, di un’emittente pubblica. Come sarà il Tg2 diretto da Gennaro Sangiuliano? Arriviamo dopo il Tg3 delle 19 e il Tg1 delle 20, le notizie sono ormai note e quindi, almeno nell’edizione serale, punteremo molto sull’approfondimento, scaveremo

Gennaro Sangiuliano

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all’interno dei fatti, nelle storie e nelle vicende delle persone, cercando di offrire una rappresentazione del nostro Paese che ne mostri sia i lati positivi sia quelli negativi, e cercheremo anche di avere un ampio respiro internazionale. Valorizzeremo, insomma, quella che è la funzione storica del Tg2. Privilegiando qualche tema in particolare? Pur non essendo marxista, sono d’accordo con Marx sull’assunto del materialismo storico che è l’economia a muovere il mondo. E quindi daremo grande attenzione ai fatti economici, la cui conoscenza è fondamentale per la comprensione di quello che accade in Italia e nel panorama internazionale. Oddio, non sono certo temi che ti faranno vincere la battaglia dell’audience… Lo so, studio ogni mattina le curve degli ascolti. So che se fai cronacaccia, racconti delitti e crimini efferati, puoi anche es-

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sere premiato negli ascolti, però non fai un buon servizio pubblico. La cronaca va data, ci mancherebbe, però con i toni e le dimensioni giuste. Concordo, è fondamentale che il servizio pubblico non si abbandoni a morbosità solo per guadagnare telespettatori. Quindi? Bisogna lavorare sulla qualità, su un’attenta cura del dettaglio, sapendo scegliere ogni tanto temi anche un po’ diversi. Compresi quelli di minor appeal che però hai il dovere di affrontare. Per esempio, non puoi non parlare di tanto in tanto di musica classica in un Paese dalle tradizioni culturali come il nostro. Ecco, quello che occorre è bilanciare bene qualità con quantità. C’è anche da dire che la tv si scontra con l’imperante mondo del web che fagocita, con i social soprattutto, il tempo e le attenzioni generali. Io penso che nessuno dei media sostituirà mai del tutto uno precedente. L’abbiamo visto nella transizione dalla radio alla televisione. Una canzone di successo negli anni ’80 (Video killed the radiostar, ndr) preconizzava la morte della radio che invece gode ancora di ottima salute. Io credo che la televisione avrà sempre una sua funzione, anche perché gli stessi giovani che oggi preferiscono guardare i contenuti televisivi attraverso device mobili, come smartphone o iPhone, quando arriveranno a 40 anni, con moglie e figli che girano per casa, ritroveranno la televisione. E, del resto, o sul grande schermo o su quello di un cellulare, sempre di produzione video si tratta. Quello che ti domando è, piuttosto, se il tg abbia ancora un senso nell’epoca del flusso web continuo. Ce l’ha eccome. Svolge una grande funzione, quella di dare in un orario preciso,


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alle famiglie soprattutto, un quadro ordinato con una sua gerarchia di quanto è accaduto nel corso della giornata. E questo è fondamentale. Sul web devi andare a pescare le notizie e perdere un sacco di tempo, invece in mezz’ora, alle 20:30, ti sintonizzi sul Tg2 e hai una vista d’insieme delle vicende della politica, dell’economia italiana e internazionale e dei principali fatti di cronaca. Hai gli approfondimenti insieme a spunti particolari su spettacoli, cultura, società, scienza, tutto organizzato e ben definito. Insomma è la modalità, e direi la comodità di ascolto e visione, a conferire ancora appeal al tg? Proprio così. Come lo è per le trasmissioni radiofoniche. Si dice che la radio sia sopravvissuta perché ha una modalità di fruizione che nessun altro strumento può dare in un contesto vissuto da una moltitudine di persone, il viaggio in automobile. E noi trascorriamo ore e ore delle nostre giornate in auto. Allo stesso modo, chi ha lavorato tutto il giorno in fabbrica, in negozio, o come dirigente in una grande azienda, la sera è stanco, non ha voglia di accendere il computer di casa, preferisce starsene comodamente sul divano e guardare il tg. Insomma, una ricezione facile e passiva, che attribuisce al direttore di un tg un’enorme responsabilità. Qual è il tuo ruolo, come lo interpreti? Esattamente come quello di un direttore d’orchestra. L’orchestra è fondamentale: occorrono ottimi violinisti, flautisti, trombettieri, ma poi è importante farli suonare in modo coordinato. Ecco, tu decidi lo spartito e coordini, ma hai bisogno poi di validi esecutori. Però i giornalisti, negli ultimi tempi, non raccolgono grandi consensi nell’opinione pub-

blica. La loro stessa funzione è messa in discussione. Eppure il loro ruolo è fondamentale. Qualcuno ha pensato che puntando a un rapporto diretto tra fonte e fruitore della notizia si potesse scavalcare il giornalista. Invece no, perché, se non hai un adeguato retroterra di studi economici, come fai a spiegare, ad esempio, cosa è lo spread? Che significa quel differenziale con i Bund tedeschi? Oppure, per raccontare bene cosa accade oggi in Medioriente, ne devi conoscere la storia, per parlare dei rapporti tra Usa e Corea, devi sapere cos’è accaduto nel 1950, cosa ha significato la guerra in Corea. Quindi la sua è una funzione di filtro, indispensabile per dare credibilità alle notizie e soprattutto per arricchirle con una retrospettiva culturale. Insomma la mediazione è sempre necessaria. Tocqueville ne La democrazia in America, suo grande saggio, dice che i corpi intermedi sono il sale della democrazia. Non si può avere una vera democrazia senza i corpi intermedi che fanno da cinghia di trasmissione e i corpi intermedi sono i sindacati, le associazioni, ma anche i giornalisti. Oltre ai tentativi di disintermediazione, a mettere in discussione il ruolo del giornalista sono anche le accuse di faziosità... In Italia il giornalismo non è asservito alla politica, è vero però che è troppo collegato alla politica rispetto al mondo anglosassone, e questo anche per ragioni storiche. Spiegaci meglio. Noi abbiamo avuto grandi giornalisti che poi sono diventati grandi esponenti politici. Agli inizi del ’900 sono nati i primi giornali e poi i movimenti politici. Gramsci e Togliatti fondano l’Ordine nuovo e poi nasce il Partito Comunista, Mussolini fonda

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il Popolo d’Italia e poi nasce il movimento fascista, la Voce di Prezzolini, a cui ho dedicato una biografia, incuba in sé i germi dell’interventismo italiano, dando voce a un movimento minoritario che trascinerà poi nella guerra un’intera nazione. Insomma, questo stretto legame tra politica e giornalismo, con carriere che spesso si incrociano e si confondono, è una tradizione molto italiana e anche francese. Che trova esempi anche in tempi recenti. Sì, abbiamo avuto fior fiori di giornalisti entrati in parlamento come Giuliano Ferrara, Eugenio Scalfari, fino ad Antonio Tajani, parlamentare europeo, e Matteo Salvini, che è e ha fatto il giornalista professionista, anche con un certo successo. Solo due hanno sempre rifiutato: Montanelli la nomina a senatore a vita e Vittorio Feltri ogni proposta di candidatura. È ovvio che quando uno è stato in politica e torna a fare il giornalista si porta dietro le sue idee. Non è detto che sia un fatto negativo, però esiste, è innegabile. E, mi dicevi, non è comunque un’esclusiva del nostro Paese. Anche in Francia abbiamo esempi analoghi, la stessa rivoluzione francese nasce dai giornalisti, a scatenare il movimento che porterà alla rivoluzione giacobina sono i primi fogli rivoluzionari. Diciamo quindi che un lettore e telespettatore avveduto sa quanto le idee politiche possano riversarsi nell’inchiostro e nella voce di un giornalista e si attrezza di conseguenza. Più difficile difendersi dalle fake news, che sembrano vere. Sì, ma molte sono fake di basso cabotaggio. Non le nego, ce ne sono tantissime in Rete, e per questo è importante il ruolo del giornalista, com’è importante sensibilizzare soprattutto i più giovani per evitarle e anche reprimerle, quando

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è giuridicamente possibile. Ma purtroppo esistono anche fake news ufficiali, come un certo racconto del mainstream che vuole proporre a tutti i costi una visione degli avvenimenti che a volte scade nella menzogna. Come quando si preannunciava che con la vittoria della Brexit l’Inghilterra sarebbe affondata nella Manica. O che con quella di Trump l’economia e la Borsa americane avrebbero subito un tremendo tracollo. Anche in questo caso politica e giornalismo si incrociano pericolosamente. Ma a proposito di Trump, tu ne hai scritto una biografia di successo, come hai fatto con Vladimir Putin e Hillary Clinton. Da cosa nasce questa passione per le biografie dei grandi leader? Da una considerazione elementare. Noi a volte vogliamo spiegare i fatti contemporanei con un riferimento alle grandi teorie geopolitiche ed economiche, che hanno indubbiamente un loro peso, però noi dobbiamo anche guardare alla natura delle persone. Se non facciamo un’introspezione psicologica, un’operazione pirandelliana sulle persone, non possiamo comprenderne la psicologia e le azioni. Se non sai che Putin ha vissuto fino a 30 anni in una kommunalka, un appartamento di 100 m2 dove convivevano quattro, cinque famiglie insieme con bagno e cucina in comune, in condizioni di privazione molto forti, oppure non conosci la sua storia di agente del Kgb abituato a fare pedinamenti e appostamenti notturni sotto un lampione per una notte intera, non puoi capire il personaggio. E così per Trump… Anche Trump viene da una famiglia umilissima, ha fatto soldi partecipando alle aste immobiliari e dando caparre per op-


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zionare gli immobili. Ha lo spirito e la velocità di pensiero del venditore. Quando ha incontrato Kim Jong-un in un vertice internazionale si è accorto che il dittatore nord coreano guardava la famosa Bestia, l’auto ipertecnologica del presidente Usa. Allora Trump l’ha fatta aprire, lo ha fatto sedere dentro e gli ha fatto toccare tutti i pulsanti, come si fa coi bambini. Lì emerge la capacità del commerciante che intuisce le debolezze umane e riesce ad accattivarsele. Del resto, penso che il trumpismo sia nato prima di Trump. Lui ha intuito delle correnti che sedimentavano nell’opinione pubblica della sterminata provincia americana, nelle pianure del Midwest, e ci ha messo il cappello sopra. Tanto è vero che Trump è un ex democratico, persino finanziatore delle loro campagne elettorali. E gli unici politici presenti al matrimonio con Melania erano Hillary e Bill Clinton, c’è una famosa foto del New York Times. E dopo Trump, chi ci racconterai? L’anno prossimo uscirà la biografia di Xi Jinping, il leader cinese che secondo me è il vero uomo più potente al mondo, se non altro perché è presidente a vita. E mentre Mao governava un Paese di un miliardo di individui poverissimi, lui governa un miliardo di individui che cominciano a emergere economicamente. Insomma la storia e la cronaca la fanno gli individui. Sì, anche se poi tutti questi personaggi vanno incorniciati nella storia dei loro Paesi. Oggi si tende a dire che Putin è un autocrate, che non garantisce spazi di democrazia, ma si deve ricordare che in Russia fino al 1860 vigeva ancora la servitù della gleba. Un Paese sterminato passato dall’autoritarismo monarchico zarista a quello bolscevico e poi agli anni di Yelt-

sin in meno di un secolo e mezzo. Impossibile che diventi democratico liberale in dieci o 20 anni. Ha bisogno dei tempi della storia, anche la cronaca politica li deve comprendere e incardinarsi in quei tempi. Parlando di grandi leader penso all’Italia dei nostri giorni. Ma sono proprio indispensabili? Assolutamente sì. È vero che abbiamo avuto un’epoca, nel dopoguerra, in cui i partiti erano più rilevanti del singolo, infatti la Dc dopo De Gasperi ha avuto una coralità di leader: Andreotti, Fanfani, Moro, Piccoli, Forlani. Lo stesso nel Partito Comunista, l’apparato era prevalente sui singoli, e una volta scomparso Togliatti, se si eccettua la forte personalità di Berlinguer, c’è stata per decenni un’ampia pluralità di dirigenti. Adesso invece da noi, come in tutti il mondo, è rilevante la leadership personale, anche grazie ai nuovi media. Senza una forte leadership personale non si va da nessuna parte. Saluto Gennaro Sangiuliano rifilandogli le mie croniche doglianze sui nostri mala tempora, contrassegnati da una diffusa abulia dei lettori. Lui, di contro, mi lancia un segnale ottimistico che quasi mi inorgoglisce, come ferroviere e come direttore di questa rivista: «Guarda che il treno è il luogo dove, secondo me, in assoluto, oggi si legge di più. Prendere il treno mi rende felice proprio perché posso portare con me un bel libro e, in un’andata e ritorno tra Roma e Milano, leggerlo quasi tutto. Se trovo posto, scelgo la carrozza del silenzio, cerco di non adoperare lo smartphone e mi abbandono a questo piacere». Un piacere che speriamo sia contagioso, e renda virale la lettura, muovendo umilmente anche da queste pagine de La Freccia.

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DOVE ERAVAMO GENNAIO-GIUGNO 2019

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l 2019 è l’anno dei Fridays for Future, il movimento internazionale di protesta, composto da alunni e studenti che decidono di non frequentare le lezioni per partecipare a manifestazioni in cui chiedono e rivendicano azioni contro il riscaldamento globale e il cambiamento climatico. Ispirati dalla sedicenne svedese Greta Thunberg (che il Times eleggerà a dicembre personaggio dell’anno) i manifestanti, il 25 marzo 2019, scendono in piazza in oltre 100 città italiane, e in contemporanea in tutto il mondo. Ma i primi sei mesi del 2019 sono anche quelli delle elezioni Europee: a maggio è la Lega di Matteo Salvini a trionfare con il 34% dei voti. Il Movimento 5 Stelle crolla dal 33% delle politiche 2018 al 17%. Il 24 giugno 2019 una notizia storica per l’Italia: tornerà a ospitare le Olimpiadi a 20 anni da Torino 2006. L’appuntamento è a Milano e Cortina nel 2026. Nel frattempo il Gruppo FS Italiane, a maggio, presenta il nuovo Piano industriale 20192023 che prevede 58 miliardi di euro di investimenti.

Chi abbiamo incontrato Fabio Tamburini - Ivan Zazzaroni - Virman Cusenza - Maurizio Belpietro Simone Marchetti - Luca Mazzà

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UN MARCHIO DI QUALITÀ I FATTI BEN SEPARATI DALLE OPINIONI: A COLLOQUIO CON FABIO TAMBURINI, DIRETTORE DEL SOLE 24 ORE, RADIO 24 E RADIOCOR

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ncontriamo Fabio Tamburini, direttore, dallo scorso settembre, del Sole 24 Ore e delle altre testate del Gruppo 24 Ore. Giornalista economico di lungo corso, vicedirettore di MF Milano Finanza e dell’agenzia Ansa, nonché già direttore, per tre anni, di Radio 24 e Radiocor, Tamburini ha scritto da inviato e, in alcuni casi, da caporedattore, per Espansione, Repubblica, Il Mondo e lo stesso Sole 24 Ore. Ed è autore di alcuni libri dedicati proprio al mondo della finanza e della Borsa. Tra questi Un siciliano a Milano, biografia del banchiere Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca e figura centrale della storia economica, finanziaria e politica del nostro Paese, e Misteri d'Italia, il libro-intervista ad Aldo Ravelli, per mezzo secolo protagonista di Piazza Affari. Fabio, uno dei leitmotiv della Freccia di gennaio è la leggerezza, intesa come valore e qualità da coltivare. Possono i temi che Il Sole 24 Ore affronta essere trattati con leggerezza? Occupandoci di economia e finanza, la specifica missione editoriale del Gruppo 24 Ore è quella di farsi capire da una cerchia ben più ampia di quella costituita da chi mastica già certi temi per motivi professionali. Quindi il tentativo di leggerezza, almeno per noi, è uno sforzo quotidiano e si realizza nel trattare argomenti spesso com-

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plessi nel modo più semplice e più chiaro per tutti i nostri lettori. Chiarezza e semplicità non sempre facili da ottenere, immagino. No, ma comunque indispensabili. D’altra parte quello che intendiamo fornire è un servizio, e lo riteniamo straordinariamente utile perché i temi dell’economia e della finanza entrano nella vita di tutti noi. Quindi è bene che tutti imparino a capire quanto sta accadendo. Ad esempio come investire i propri soldi? Sì, faccio un esempio concreto: per cambiare l’auto l’italiano medio si informa, valuta le notizie che raccoglie e mediamente impiega una settimana per prendere la decisione finale. Al contrario, quando si tratta di risparmio, magari quello di un’intera vita, le decisioni sono prese in base al passaparola o ai consigli dell’ultimo momento. Tutto questo è foriero di grandi danni e spesso significa

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vedere i propri sudati risparmi volatilizzarsi rapidamente. In effetti la storia recente è piena di risparmiatori che si sono fatti abbindolare da mirabolanti promesse. Appunto, varrebbe la pena che ognuno mettesse nella gestione dei propri risparmi un’attenzione almeno pari a quella che mette per il cambio dell’automobile: migliorerebbe la qualità della sua vita e il futuro suo e dei suoi familiari. Questo è solo un esempio, ma ne potrei fare molti altri. Sei direttore da pochi mesi, un po’ ce l’hai già anticipato, ma come sarà Il Sole 24 Ore di Fabio Tamburini? Intanto mi fa piacere sottolineare che il Gruppo 24 Ore è composto da testate diverse tra loro con un pubblico differenziato: Il Sole 24 Ore cartaceo ha come focus l’economia e la finanza, al contrario Radio 24 è una radio d’informazione generalista e, ugualmente, l'informazione digitale del Sole 24 Ore dà spazio ad argomenti che non sono solo di economia e finanza. Infine Radiocor, un’agenzia di stampa d’informazioni finanziarie. Un’orchestra ampia e qualificata, ma anche eterogenea quanto a temi, strumenti di comunicazione e linguaggi… Questo ci consente di proporre un’offerta molto variegata, ma un punto d’unione c’è: la scelta di andare compatti e sviluppare un progetto editoriale comune con declinazioni diverse. E qui il ruolo del direttore è fondamentale. Da quando sono direttore abbiamo inaugurato un coordinamento all’interno delle testate del Gruppo, per cui ogni giorno, subito dopo le riunioni di prima mattina, intorno a metà mattinata, si riuniscono i capi redattori del quotidiano cartaceo, dell’online, della radio e dell’agenzia di stampa, per mettere a punto un piano comune di lavoro per la


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giornata e assicurare così un’unità di conduzione del lavoro. È chiaro che ogni canale del Gruppo segue le sue regole e la sua natura, ma è importante che avvenga all’interno di un coordinamento che ne moltiplica l’impatto editoriale. Il quotidiano continua comunque a rappresentare la punta di diamante. Quali i suoi punti di forza? Ovviamente sono l’informazione economica, finanziaria e normativa. Dovessi sintetizzare la missione informativa del quotidiano in una battuta, utilizzerei la formula che non è nuova ma che rappresenta la tradizione del Gruppo: il secondo quotidiano che si legge per primo. E la linea editoriale? Credo che il giornale abbia una caratteristica forse unica nello scenario editoriale italiano. Si richiama alla formula giornalistica del settimanale Panorama all’epoca in cui il suo editore, Mondadori, aveva come azionista di riferimento la famiglia Formenton. La formula è: i fatti separati dalle opinioni. L’unica condizione per pubblicare i fatti è che siano veri, le opinioni meglio se contrapposte, perché il miglior servizio che si può fare al lettore è presentargli più opinioni, sarà poi ciascuno a valutare e farsene una propria. Aggiungo che le opinioni contrapposte sono le benvenute, perché ritengo che la dialettica sia il motore del mondo. Tutto molto lontano dal giornalismo militante che ha finito con lo screditare la professione. Certo, questa formula giornalistica è molto distintiva poiché la tendenza, ahimè prevalente nel mondo dell’informazione, è la curvatura dei fatti in funzione delle opinioni. Anche per questo è arrivato il “fai da te” nel mondo dei media. Con l’aggravante che sui social sono in tanti a parlare e auto-conferirsi un’autorevolezza che non hanno.

Purtroppo è davvero così, credo che ci sia stato un percorso di degenerazione della qualità dell’informazione che affonda le radici nel successo delle televisioni commerciali. Dopo di loro è arrivato internet, l’informazione online, dopo ancora twitter. Il tutto in un crescendo rossiniano di superficialità. Per la verità, la medaglia ha più facce. Ce n’è una positiva, perché noi tutti possiamo oggi contare su una mole incredibile di informazioni e farle circolare aumenta la consapevolezza della vita che si sta vivendo. L’altra, negativa, è costituita proprio dalla superficialità di buona parte di queste informazioni, dalla mancanza di una verifica sulla veridicità delle notizie, che viaggiano quindi senza controlli nel mondo dei social media. Dalle fake news, sebbene sempre esistite, è così sempre più difficile difendersi… Però tutti noi lettori capiremo con l’esperienza che quello che leggiamo non sempre corrisponde alla verità e alla qualità. Capiremo che serve una certificazione, un marchio di qualità. Ecco, Il Sole 24 Ore si propone di rappresentare questo marchio di garanzia sulla qualità delle opinioni e sulla correttezza delle informazioni. Questo è il nostro sforzo, la nostra battaglia quotidiana. Provare per credere. La disaffezione verso i media tradizionali nasce anche dal sospetto, come abbiamo detto, che esse tutelino gli interessi non del popolo ma dell’élite, di cui gli stessi giornalisti fanno parte. Così la dialettica novecentesca capitale vs proletariato si è trasformata in quella élite vs popolo. Che ne pensi? Come giornalista e direttore del Sole 24 Ore non mi sento e non mi considero parte di nessuna élite, tutt’altro. Credo piuttosto sia interesse di tutti, e quindi anche di quello che oggi va di moda definire popolo, in-

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formarsi e ragionare correttamente attorno ai fatti e alle opinioni. Il nostro sforzo è quello della semplificazione, mettere tutti nelle condizioni di informarsi, ragionare e prendere decisioni consapevoli. Quelle superficiali sono sempre foriere di danni. Insomma i giornali, come tutti i corpi intermedi, hanno ancora un ruolo, nell’epoca della disintermediazione. Ci sono delle mode che diventano effimere in poco tempo. Credo che anche la cosiddetta disintermediazione, soprattutto dalle professioni, sia presto destinata a mostrare la corda, e non solo nell’informazione. Anche perché i mediatori aiutano la comprensione e il confronto. È così. Già a dicembre, in occasione dell’approvazione della manovra economica, le forze di governo che avevano fino a poco tempo prima teorizzato la disintermediazione hanno poi ritenuto conveniente cambiare idea, confrontarsi con le associazioni e le parti sociali, perché di fronte all’ingovernabilità delle situazioni hanno rispolverato proprio quello che avevano forse troppo presto archiviato, e cioè la concertazione. A cui spesso si è attribuita un’accezione negativa. E invece ne sono stati riscoperti i benefici. La concertazione non significa che tutti devono avere la stessa opinione, ma è meglio confrontarsi per evitare di prendere decisioni che poi si rivelano insostenibili. A proposito di decisioni politiche, ormai è l’economia che comanda la politica. Maglie strette, vincoli finanziari europei rigidissimi… Io ritengo che l’economia abbia sempre comandato sulla politica, tuttavia in passato la politica aveva leadership, un ruolo

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per bilanciare ed essere protagonista di un confronto dialettico con l’economia. Il tramonto delle ideologie ha determinato il crollo delle leadership politiche e ha lasciato campo alla prevalenza dell’economia. Bisogna poi aggiungere che nell’economia, almeno per quanto riguarda l’Italia, i poteri forti che in passato hanno avuto un ruolo importante sono tramontati, e questo ha determinato un vuoto sia sul fronte politico che economico. Poi molte leve decisionali sono ormai altrove. Certo, la globalizzazione da un lato e la nascita di poteri extra nazionali, ad esempio l’Europa, hanno determinato uno spostamento dei centri decisionali fuori dagli stati nazionali. È successo un po’ in tutto il mondo e anche in Italia. Adesso si è scatenata una reazione di tipo opposto, la nascita e lo svilupparsi di movimenti definiti sovranisti o populisti che intendono riportare in posizioni di comando gli stati nazionali. Vedremo come va a finire. Secondo te come va a finire? Credo che difficilmente su temi di questo genere si torni indietro e quindi la tendenza alla creazione o alla conservazione di realtà sovranazionali penso sia destinata a prevalere. Detto ciò, ho anche l’impressione che queste realtà sovranazionali siano troppo spesso servite per fare gli interessi di singoli Stati. Questo non va bene e spiega anche le reazioni che ci sono state. In sintesi, credo che l’Europa sia una strada di non ritorno, sempre che i Paesi più forti, come la Germania e la Francia, non tendano a governarla per fare gli interessi loro. L’Europa si rilancia creando le condizioni affinché faccia l’interesse di tutti i suoi componenti e non di singoli Paesi che accrescono la loro ricchezza alle spalle degli altri.


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INFORMARE EMOZIONANDO IL GIORNALISMO SPORTIVO SECONDO IVAN ZAZZARONI, DIRETTORE DEL CORRIERE DELLO SPORT - STADIO

© Hasselblad H6D

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ebbraio è il mese del festival di Sanremo; il mese delle canzonette, degli innamorati, di un Carnevale che rende lecita ogni momentanea follia, il mese dell’allegria. O di una sua ardua ricerca, quando gli incomprensibili sentieri della vita ti conducono nei padiglioni di un ospedale dove a combattere contro la malattia sono i bambini, ai quali il destino crederemmo giusto riservasse ben altro. La Freccia cercherà di offrirvi qualche spunto di riflessione, intervistando Mariella Enoc, presidente dell’Ospedale Bambino Gesù che a marzo celebrerà i 150 anni dalla fondazione. E andrà a caccia di persone, a iniziare dal Claudio Baglioni direttore artistico di Sanremo, giunto al culmine dei 50 anni di carriera, e alla ricerca di luoghi e situazioni che raccontino questo mese breve, ma intenso di passioni ed emozioni. Sentimenti che lo sport, vissuto e ben raccontato, sanno regalarci a iosa. Per questo abbiamo voluto incontrare, per il nostro Medialogando, Ivan Zazzaroni, direttore del Corriere dello Sport - Stadio. Giornalista di lungo corso, oltre che uomo di sport e di spettacolo. Ormai un brand, protagonista di una comunicazione multimediale che spazia dalla tv alla radio, dalla carta

Ivan Zazzaroni

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MEDIALOGANDO

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Lunedì 16 luglio 2018

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EDIZIONE NAZIONALE

RUSSIA 2018

CAMPIONE DEL MONDO DA GIOCATORE NEL ‘98 E DA SELEZIONATORE VENT’ANNI DOPO: SI COMPLETA COSÌ L’ARCO DI TRIONFO DI UNA FORMIDABILE CARRIERA

DESCHAMPS ÉLYSÉES

Griezmann, Pogba, Mbappé (4-2 alla Croazia): la Francia conquista il titolo per la seconda volta nella storia e succede alla Germania L’eroe è il tecnico “all’italiana”

Viva Didì la Chance di Ivan Zazzaroni

La Francia sfilerà ai Deschamps Élysées sotto l’arco di trionfo di Didier Claude Vincent (un nome, un destino compiuto) nativo di Bayonne: di Didier o Didì la Chance, la fortuna, che potremmo considerare dei nostri, ricordando le cinque stagioni da giocatore della Juve e quell’anno dalla B alla A che a Torino hanno rapidamente metabolizzato. Un anti-personaggio di temperamento, Didì: più che un sottovalutato, un trascurato, uno sminuito, nonostante abbia messo insieme una carriera pazzesca. 2 Clemente, Polverosi, Sala e Santoni

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RONALDO È GIÀ A TORINO, OGGI È IL NATALE DELLA JUVE

ISSN CARTA 2531-3266 DIGITALE 2499-5541

TU SCENDI DALLE STELLE…

Tutto sul programma della giornata più importante di sempre per il club degli Agnelli e i tifosi bianconeri: la diretta infinita, l’incontro con il colpo del secolo

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Prima pagina 16 luglio 2018

stampata al web e ai social media. Comunicazione empatica, professionale e mai banale. Zazza ci accoglie con la sua schietta esuberanza e con quell’invidiabile, fluente capigliatura, diventata il suo inconfondibile marchio. Cos’è per te, Ivan, il giornalismo sportivo? Qualcosa che richiede, a chi lo deve interpretare, una natura e una formazione sportiva. Perché senza è molto difficile raccontare la passione e le emozioni dello sport. E tu questa formazione l’hai avuta… Io sono cresciuto nello sport, con la testa nel calcio. Ho vissuto le emozioni di un incontro, quelle della vigilia, conservo il distinto ricordo di tante situazioni tecniche e agonistiche, con tutta la loro intensità. Alcune mi succede di riviverle

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in sogno ancora oggi, 40 anni dopo. Ne parlavo giorni fa a dei giovani calciatori che stavano per iniziare un torneo: «Assaporate ogni momento di questa vostra esperienza e fatene tesoro, perché vivrete sensazioni uniche per forza e autenticità». Insomma, il giornalista sportivo è una figura a sé? Sotto molti aspetti è proprio così. Ecco, un giornalista sportivo può poi dedicarsi brillantemente alla cronaca, al costume, alla politica, ma il contrario è ben più difficile. Posso fartene tanti di esempi, da Sergio Zavoli a Cesare Lanza, da Antonio Ghirelli fino, in tempi recenti, a Giuseppe De Bellis. E, ancora, Massimo Gramellini, cresciuto con noi al Corriere dello Sport, come Curzio Maltese. O Giorgio Fattori, un altro grandissimo esempio, e così Maurizio Crosetti. Insomma, la teoria non basta. No, il linguaggio, la mentalità, la passione non puoi fartele venire, ce le devi avere dentro. Come la conoscenza delle dinamiche, che non sono semplici. Poi il percorso continua. Io, come tanti altri colleghi, mi sono formato all’estero, incontrando e confrontandomi con i più grandi, da Platini a Pelé, fino a Maradona. O Roberto Baggio, che è diventato per me come un fratello. Era il mio idolo assoluto e mi ha regalato emozioni che soltanto chi è nato nel calcio può comprendere. Poi allenatori come Rinus Michels, inventore del calcio totale dell’Olanda di Cruijff, o Fabio Capello e Guy Thys. E da come ce ne parli si percepisce quanto siano stati coinvolgenti questi incontri. Ma sì, per me era una roba pazzesca, soprattutto i primi anni. E se anche poi


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è subentrata inevitabilmente un po’ di routine, restano sempre esperienze meravigliose. Ma solo se davvero ti emozionano puoi emozionare gli altri, scrivendone. Ovviamente occorrono capacità e buoni maestri, e io ne ho avuti di fantastici, che ti insegnano a incanalarle bene. Cos’è lo sport? È una cosa seria, perché ha una capacità di coinvolgimento senza eguali. Se togli le emozioni che possono darti la famiglia e l’amore, non c’è altro che riesca a emozionarti e a farti sentire vivo più dello sport. Ecco, lo sport fa sentire vivi, praticandolo ancora di più, vedendolo meno, però è qualcosa di vivo e gioioso. Molti dirigenti non lo capiscono e con le loro "battagliuncole" lo stanno ammazzando. Perché? Perché è diventato, il calcio in particolare, sempre più un fatto economico, finanziario. Si è smarrito il lato ludico, quello più genuino. Forse anche noi abbiamo sbagliato nel linguaggio, quando dicevamo: «Se la squadra fallisce l’accesso alla finale perde 100 milioni di euro». Dovevamo limitarci a parlare delle conseguenze sul piano sportivo. Quando abbiamo reso tutto economia, ci siamo allontanati dall’essenza vera del calcio. Che però è più gioco che sport, vero? Il calcio è gioco, sì, certo. Lo disse anche Gianluca Vialli, un tempo. È un gioco, che contempla quindi i bluff, come la simulazione, atteggiamenti che spetta agli arbitri frenare e sanzionare. Comunque nel gioco cerchi sempre di vincere provandole tutte, poi hai dei giudici che decidono se hai fatto bene o male, se puoi farlo o no, c’è un rego-

lamento, ci sono delle norme. Però il calcio è gioco. Che dovrebbe essere, appunto, sinonimo di allegria. Siamo nel periodo di Carnevale, tema che trova ampio spazio su questo numero della Freccia... Sì, il calcio dovrebbe trasmettere gioia, e la trasmetteva, poi sono intervenuti prepotentemente questi condizionamenti economici, i fatti di violenza e altri episodi che lo hanno reso molto meno divertente e allegro. A proposito di violenza, periodicamente se ne torna a parlare per gravi fatti di cronaca. Non c’è rimedio? Ci sarebbe, ma non servono convegni, tavoli, provvedimenti. La realtà è che manca la volontà di risolvere il problema alla radice. Perché? Perché l’ultratifo vale circa 40mila persone, ossia 40mila voti. Un elettorato attivo, sia di estrema destra sia di estrema sinistra, di cui una certa cattiva politica ha bisogno, e che quindi protegge. Quando deciderà di farne a meno, il problema si risolverà in breve tempo. Spiegati meglio. Questi ultras li conoscono tutti, ma i questori non hanno gli strumenti, e anche se li prendono due giorni dopo sono fuori. Il Daspo per un ultra è diventato una medaglia, se ne hai tre sei un fenomeno. Adesso c’è addirittura un progetto di guerriglia, con alcuni gruppi che si uniscono per andare contro le forze dell’ordine. Ma l’informazione avrà qualche responsabilità o può comunque fare qualcosa? Quel mondo lì non ci ascolta neppure, ha trovato strumenti di comunicazione suoi, attraverso la Rete, sui social. In

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questo contesto noi giornalisti al limite siamo dei nemici che non vanno ascoltati, oppure bersagli, ma abbastanza insignificanti, perché alla fine non vogliono e non hanno necessità né di leggerci né di relazionarsi con noi. E anche qui i giornali battono in ritirata. Il mondo della comunicazione è in continua trasformazione. Che fare? Dobbiamo cambiare, e farlo in fretta. Bisogna lavorare su noi stessi. Io 16 anni fa ho cominciato a fare questo. Una scelta dolorosa all’inizio, ma azzeccatissima. Venivo da 22 anni di giornali, con tre direzioni. C’è chi mi ha sostenuto, come Milly Carlucci, Paolo Beldì, Simona Ventura, così ho iniziato a fare televisione, radio e Rete. E ho conosciuto un’altra realtà, ho costruito un brand che oggi mi permette di comunicare con efficacia. L’esperienza di Ballando con le stelle ti ha poi dato ulteriore visibilità… Ballando mi ha regalato in questi ultimi 11 anni l’allegria che mi è mancata con il calcio. E l’affetto e l’entusiasmo di un pubblico trasversale, di tanta gente che incontro nei più svariati contesti. Sui social sono seguitissimo ma pure odiatissimo, il che è anche abbastanza normale quando parli di calcio. Però è un mondo diverso da quello che incontro per strada. E io mi diverto a provocare, e selezionare. Getto l’amo, e abboccano in tanti. Ho bloccato 20mila profili, in pochi anni. Torniamo al tuo ruolo di direttore di giornale. La crisi della stampa sembra irreversibile… È una partita che diventa ogni giorno più difficile. Il web ti porta la pizza a casa. Un’informazione limitata e scarnificata, ma che ai più basta. E ti arriva gratis e in

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tempo reale. L’approfondimento ormai è seguito da pochi, purtroppo. Le edicole chiudono, perché non ci sono più margini remunerativi. Senza calcolare poi che già nelle prime ore del mattino sul web e nei social trovi già i nostri pezzi, addirittura commentati. Si tratta di un furto su cui il legislatore, europeo e nazionale, deve intervenire, anche con una sorta di Siae dell’editoria. Al Corriere dello Sport che strategie state adottando? Cerchiamo di realizzare qualcosa che ci contraddistingua dalla Rete, giocando su tagli diversi, titolazioni, opinioni non scontate, qualità, autorevolezza. Però, come tutti, giochiamo contro il tempo. Quel che non dobbiamo fare è cadere nell’errore di copiare soluzioni altrui, di altri Paesi, perché non siamo tutti uguali. Non siamo uguali agli inglesi, come esigenze e qualità della vita. Noi sul superfluo siamo fenomeni. Anche gli americani sono diversi da noi, hanno province molto più estese dove un giornale può teoricamente vendere ancora tantissime copie. E siamo diversi anche come fruitori dei media e degli eventi sportivi? Sì, noi italiani abbiamo bisogno di eventi, di stimoli forti, da consumare in fretta: la grande partita, il mondiale, la finale dei 100 metri di atletica. All’estero no, negli Stati Uniti ogni partita dell’NBA è seguitissima, anche la più insignificante, così come il calcio in Inghilterra. E poi abbiamo bisogno di interpreti e miti che ci appassionino: Alberto Tomba, Valentino Rossi, la Ferrari. O un grande del ciclismo, come Marco Pantani, a cui hai dedicato un libro. Scritto con Davide Cassani, che aveva corso insieme a Marco, e Pier Bergonzi,


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che ha sempre scritto di ciclismo. Io ho fatto un po’ da collettore. Ma la vita di Marco e i suoi ultimi giorni erano già un romanzo: il successo, la droga, le donne, Cuba, la morte misteriosa, l’inchiesta. Tant’è che il libro è diventato poi anche un film, prodotto da Rai1. Ti rivedremo presto anche in tv? Sì, il 9 marzo riparte Ballando con le stelle. Ma credo che mi vedrete di più,

e più spesso, in stazione e su qualche Frecciarossa tra Roma e Milano, o tra Roma e Napoli, dove ho una mia trasmissione televisiva. Pensa, a fine gennaio avevo già accumulato i punti per la CartaFRECCIA Platino. Dovreste dedicarmi una carrozza, ad honorem. Ma sì, una carrozza Zazzaroni, dove si parli di sport, quello che emoziona, sinonimo di vita e di sana passione.

Update Troppe cose, tutto è cambiato dal mese in cui fu pubblicata questa intervista. Non i concetti, non le opinioni del sottoscritto, naturalmente. Bensì il contesto, totalmente e drammaticamente diverso. Siamo dentro una vita che non è più la stessa. L’hanno definita “nuova normalità”. Una normalità che non ci rappresenta. Le risposte sul rapporto tra gli ultras e i club, ad esempio, oggi sembrano assurde: da mesi gli stadi sono vuoti, i tifosi non hanno accesso agli impianti, ci stiamo abituando a partite-acquario di un calcio e più in generale di discipline sportive che conservano la loro essenza tecnica ma sono privati dei contenuti emotivi. Anche le date, gli appuntamenti hanno subìto spostamenti e svuotamenti. Penso a Ballando con le stelle, che ha avuto una sua edizione autunnale. Quell’ “il 9 marzo riparte…” è un passaggio tanto amaro quanto paradossale. Tra i pochi aspetti positivi segnalo l’incontro con Piero Chiambretti, uomo-televisione, pura energia, un’esperienza impagabile collaborare con lui. Ivan Zazzaroni

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MEDIALOGANDO MARZO 2019

INDIPENDENZA E LAICITÀ, E ROMA AL CENTRO DI TUTTO IL MESSAGGERO RACCONTATO DAL SUO DIRETTORE, VIRMAN CUSENZA

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a Freccia di marzo odora di primavera e mandorli in fiore, si colora di mille volti femminili e si sofferma, in queste settimane di Quaresima, nei luoghi dello spirito, di cui il nostro Paese vanta testimonianze di rara suggestione. Tanti i volti e le storie, tra sport, spettacolo, scienza e cultura, che accompagneranno il viaggio dei nostri lettori, arricchendolo con curiosità e spunti di riflessione. Come sempre, iniziamo dal mondo dei media, incontrando Virman Cusenza, direttore dal 2012 del Messaggero, il primo giornale di Roma, con 141 anni di storia alle spalle. L’ammiraglia, ben radicata nell’Italia centrale, di un gruppo editoriale che comprende, tra gli altri, anche Il Mattino di Napoli e Il Gazzettino di Venezia. Che quotidiano è Il Messaggero? È da una parte il giornale dei romani, naturalmente, ma allo stesso tempo è un giornale nazionale perché racconta con un occhio critico la Capitale e l'intero Paese nelle sue mille sfaccettature. Che significa “racconta la Capitale”? Significa avere un’attenzione particolare per tutto ciò che riguarda ovviamente la politica, non solo parlamentare, ma anche l'economia, con una capacità di leggere quello che avviene nei palazzi delle istitu-

Virman Cusenza

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Domenica 10 Febbraio 2019 • S. Arnaldo

I 500 anni Leonardo Da Vinci celebrazioni in Europa e Usa nel segno del genio Arnaldi a pag. 17

Allarme economia

Invertire la rotta prima che sia troppo tardi Romano Prodi

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dati sull’andamento dell’economia italiana e le previsioni sul suo futuro continuano a peggiorare. Le modeste cifre relative alla crescita, che solo due mesi fa erano imputate di eccessivo pessimismo, si sono trasformate in un obiettivo quasi irraggiungibile. La produzione industriale peggiora ed è inferiore del 5,5% rispetto ad un anno fa: si tratta della caduta più grave degli ultimi cinque anni. Alla crisi produttiva si affianca una diffusa crisi di fiducia, in conseguenza della quale i consumi ristagnano ed aumenta il risparmio. Il futuro è fonte di crescente preoccupazione, anche se il nostro governo mantiene le sue previsioni di una impossibile crescita. Il tutto senza tenere conto delle recenti correzioni del Fondo monetario internazionale, della Banca d’Italia, di Prometeia e, infine, della Commissione Europea, che prevede addirittura un aumento del Pil italiano dello 0,2% , cioè assai prossima allo zero. Già eravamo tra i fanalini di coda dello sviluppo europeo: ora siamo all’ultimo posto tra i 28 Paesi dell’Unione. Una notevole parte di questo calo viene giustamente imputata alle tensioni internazionali e al rallentamento tedesco. Tutto questo non spiega tuttavia perché Paesi che molto più di noi dipendono dall’economia germanica come la Polonia, la Repubblica Ceca e l’Olanda crescano più di noi. Continua a pag. 20

All’Olimpico Rugby, Sei Nazioni l’Italia tiene testa al Galles ma cede nel finale: 15-26

A pag. 14

Ricci Bitti nello Sport

Il piano del Nord svuota-ministeri Le bozze segrete di Veneto e Lombardia: più risorse alle Regioni, ridimensionato il ruolo della Capitale Scuola, il ministro Bussetti: «Nel Sud non servono soldi, impegnatevi di più». Rivolta di presidi e professori

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Salvini twitta: preferivo l’artista romano. A Silvestri il premio della Critica

C’

a parola utilizzata è «ridimensionamento». I ministeri romani dovranno dimagrire. E non si tratta solo di un effetto collaterale del progetto autonomista di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, ma di una richiesta messa nero su bianco nelle riservatissime bozze predisposte dalle Regioni d’accordo con il ministero. Intanto è rivolta nella scuola contro il ministro Bussetti. A pag. 5 Calitri e Loiacono a pag. 4

Dubbi sull’analisi

Tav, la commissione del Mit si divide: contestato il «no» Umberto Mancini

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a commissione del Mit sulla Tav si divide sulle conclusioni. Uno dei membri, l’unico indipendente, contesta il «no». A pag. 6

`Un nuovo attacco all’indipendenza dell’istituto Il vincitore della 69ª edizione del Festival di Sanremo, Mahmood. In basso Daniele Silvestri

Sanremo, Mahmood vince a sorpresa Il successo del rapper italo-egiziano, sul podio Ultimo e Il Volo Marco Molendini

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La capacità di unire padri e figli

l rapper italo-egiziano Mahmood vince a sorpresa il Festival di Sanremo. Sul podio il romano Ultimo e Il Volo. A pag 22 Scarpa e Turci a pag. 22

SANREMO Il vecchio Festival che è riuscito a unire padri e figli. Dai brani di Silvestri e Nigiotti, fino al dialogo di Bisio e Anastasio, la kermesse ha saputo far incontrare le generazioni. A pag. 23

In Abruzzo la sfida giallo-verde è Salvini, in Abruzzo alleato con Fi e Fdi, che sogna il pieno. E, partendo da lontano, dalla base del 13,8% delle politiche 2018, di piantare la prima bandierina della Lega in una regione del Centrosud. E c’è il M5S, solo, mai tentato di rinnovare lo schema di accordo nazionale con i leghisti, che spera di capitalizzare il risultato delle ultime politiche. Test per gli equilibri dentro il governo. Il Pd punta invece sul civico Legnini. Oggi urne aperte per le elezioni regionali in Abruzzo dalle 7 alle 23. A pag. 10

Andrea Bassi

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Di Maio e Salvini: azzerare Bankitalia Quirinale in allerta

Oggi le Regionali, il Pd spera nel civico Legnini

Giovanni Sgardi

Commenta le notizie su ILMESSAGGERO.IT

IL GIORNALE DEL MATTINO

Boom di vendite Barbie, un’icona irresistibile anche nell’era della tecnologia

Il giorno del ricordo

Foibe, quelle stragi anti-italiani Mattarella: «No ai negazionismi» Alessandro Campi

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ggi si celebra il Giorno del Ricordo, istituito con legge dello Stato nel marzo 2004 per commemorare le vittime italiane delle violenze consumatesi sul confine orientale tra il 1943 e il 1947: prima gli “infoibamenti”, più tardi l’esodo. A pag. 9 Conti a pag. 9

Bce in campo. Sindacati e imprese in piazza a Roma ROMA Affondo di Salvini e Di Maio contro la Banca d’Italia: i vertici vanno azzerati. Un ulteriore fronte di polemica che preoccupa il Presidente Mattarella e la Bce. L’attacco è arrivato all’assemblea degli ex azionisti delle popolari venete. Il leader leghista: «Anche in Consob occorre cambiare tutto». Sindacati e imprese in piazza a Roma. Conti, Di Branco, Dimito e Guasco alle pag. 2, 3 e 7

Scontri a Parigi

Tornano i Gilet gialli attacco al Parlamento Nuova offensiva dei Gilet gialli, ancora scontri a Parigi. Alcuni di loro hanno cercato di attaccare il Parlamento. Pierantozzi a pag. 8

Roma, pressing del ministro. E Grillo molla la sindaca PESCI, ASCOLTARE I CONSIGLI DEL CUORE Buona domenica, Pesci! Recita un proverbio olandese: «Non esprimere i tuoi desideri, potrebbero avverarsi». Voi, invece, fate bene a esprimere quello che desidera il cuore, le stelle annunciano amore. Oggi cominciano a preparare il bellissimo spettacolo del vostro compleanno, Mercurio entra nel segno e smuove il mare delle buone opportunità nel lavoro, in affari, durante i viaggi, in casa. Ci sarà forse qualche problema con Giove, ma basta seguire un’alimentazione adatta. Auguri. © RIPRODUZIONE RISERVATA

L’oroscopo a pag. 33

Rifiuti, Costa alla Raggi: fai presto ROMA Il ministro all’Ambiente Sergio Costa segue da vicino la crisi, ora politica, dei rifiuti romani. Una crisi detonata nella giunta di Virginia Raggi con le dimissioni dell’assessore Pinuccia Montanari. Ora il ministro va in pressing sulla sindaca: «Vai avanti ma risolvi la crisi, fai presto». E intanto la Raggi prende l’interim sui rifiuti: «Gestisco io l’Ambiente. Ora si cambia, serve il pugno di ferro». Beppe Grillo intanto molla la sua sindaca e scrive all’ex assessore: hai fatto bene ad andartene. Canettieri e De Cicco a pag. 11

Marcia di solidarietà ad Acilia

Manuel, volevano uccidere un pugile amico dei boss ROMA Gli aggressori di Manuel Bortuzzo, giovane promessa del nuoto, volevano in realtà sparare a un pugile amico dei boss con cui si erano scontrati poco prima. Le indagini stanno cominciando a chiarire tutti i contorni della vicenda, mentre ieri ad Acilia si è radunata una folla per esprimere solidarietà a Manuel. Mozzetti e Polisano a pag. 13

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Prima pagina del 10 febbraio 2019 -TRX IL:10/02/19 02:07-NOTE:RCITTA'

zioni e del potere, che è un nostro storico tratto distintivo e che deriva dalla profonda conoscenza dei luoghi in cui si prendono le decisioni pubbliche. Questo ci ha sempre consentito di fare un lavoro in prima linea, spesso anticipatore di decisioni o scelte che hanno un grande impatto sul Paese e sulla vita dei suoi cittadini. E anche di alimentare fondamentali dibattiti, come quello recente intorno all'autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario. Sì, perché vediamo nella riforma una seria minaccia all'integrità nazionale e al ruolo di Roma come Capitale, perché il disegno unitario voluto dai padri costituenti prevede che Roma non sia tanto la città della burocrazia quanto della rappresentanza degli interessi collettivi. Roma ospita le

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istituzioni di tutti, perché si è scelto, come in qualsiasi Paese civile e democratico, un luogo di aggregazione e di rappresentanza dell'anima collettiva e nazionale. Invece questo disegno depaupera ciò che è stato concepito come un qualcosa di unitario e di tutti. Anche con il timore di creare regioni di serie A e di serie B? Non essendo definiti i meccanismi di solidarietà fiscale, visto che questa riforma procede “a pezzi”, senza un disegno unitario, è concreto il rischio che le regioni più ricche garantiscano servizi diversi e migliori delle altre, lasciando al palo quelle più povere o comunque più indietro e creando così una insopportabile disparità tra cittadini nell'accesso alle prestazioni. La nostra battaglia, pur con un occhio di attenzione particolare verso Roma, tutela tutta la parte del Paese che rischia di essere travolta da una slavina e allontanata da un contesto competitivo ed europeo. Ci facciamo carico di questa ragione proprio per la quintessenza del giornale della Capitale che è anche quella di tenere unito il Paese. Che il giornale di Roma difenda il ruolo della città potrebbe apparire una battaglia un po’ partigiana. Ma non è così. Questa non è una città come le altre, è una città che per scelta di tutti rappresenta tutti. E nel momento in cui le si cambiano i connotati si impoverisce il tutto, non la parte. È un concetto semplice che in Europa nessuno mette in discussione, in nessun Paese c‘è qualcuno che contesti il ruolo della Capitale, di Parigi, di Londra, di Berlino. Solo in Italia c’è chi pensa che abbattendo Roma si risolva qualche problema altrove, ma è rischioso oltre che falso. La parte vale di più se resta all'interno di un tutto organico e


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omogeneo, ed è quel tutto per cui abbiamo combattuto e che ora è minacciato da possibili secessioni, al Sud come al Nord. Ma Roma, parlo della città, non ha solo “nemici” esterni. Non siamo indulgenti neppure nei confronti dei difetti della città e dei suoi "nemici" interni, ossia di quei romani, o comunque abitanti della Capitale, che non fanno il bene della città e non ne difendono la dignità, l'orgoglio e l'efficienza. In questo, per essere credibile, il giornale di Roma deve essere molto rigoroso e intransigente. E, nello spirito del difensore civico, cerchiamo di additare, denunciare e contestare tutti i giorni ciò che fa male a Roma. Difensore civico? Spiegaci meglio. Il Messaggero non intende limitarsi a informare i cittadini ma vuole interagire con loro, aiutandoli anche a risolvere i loro problemi. Così si fa carico delle loro denunce, oppure prende iniziative anticipando fenomeni che possono incidere sulla loro vita e, in qualche modo, fa pressione sulle istituzioni e su chi deve dare risposte politiche e di buon governo per risolvere quei problemi. Nel diritto scandinavo esiste proprio la figura del difensore civico, l’ombudsman, che rappresenta il cittadino di fronte a una realtà ostile o a un diritto negato. Per un giornale che ha un forte radicamento territoriale come il nostro, è una funzione fondamentale. Ovviamente siamo voce e sguardo di cittadini che hanno sia una cultura sia una sensibilità connotata dall'appartenenza a una realtà storica e territoriale precisa. C'è un modo romano, e un modo dell'Italia centrale, di vedere le cose che è diverso dal modo lombardo, veneto o siciliano. Sulla questione di una visione originale dei fatti, nell’occasione dei festeggiamenti per i 140 anni del giornale, il tuo

editore, Francesco Gaetano Caltagirone, ha detto, citando Seneca, che Il Messaggero vuole vivere secondo ragione, rinunciando all’imitazione e al conformismo. Il Messaggero è un giornale concepito all'insegna di una sfida: intende restare fuori dagli schemi, connotandosi per indipendenza, affrancamento dai poteri, dalle corporazioni professionali e sindacali, dalle aree di influenza politica e dallo schieramento partigiano. Però la capacità di distinguersi e offrire ogni giorno contenuti e una visione originali delle cose passa attraverso la possibilità di produrre avendo riconosciuto un valore a ciò che produciamo. E oggi i contenuti dei principali brand di informazione, anche di testate storiche come la nostra, vengono “saccheggiati”, mentre i social portano a una omologazione che al tempo stesso non è garanzia di qualità. Quindi occorre una maggiore tutela del lavoro giornalistico? I contenuti “saccheggiati” dai motori di ricerca, in particolare da Google, vengono diffusi gratuitamente nonostante produrli abbia un prezzo. Su questi Google raccoglie la pubblicità, con un duplice danno: la sottrazione dei contenuti e di quelle risorse finanziarie che garantiscono la copertura dei costi di un’informazione di qualità, libera, indipendente, pluralista, fondamentale per ogni democrazia. La legge sul copyright approvata in Europa è un passo giusto, ma temo occorrerà del tempo prima di vederla applicata. Il web ha in ogni caso messo in crisi l’editoria tradizionale? Non è un problema di mezzo, quanto la necessità di vedere riconosciuto un valore a ciò che viene prodotto: va garantita la tutela del diritto d'autore. Perché per

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produrre un contenuto giornalistico di qualità, oltre che sostenere costi, bisogna rispettare una serie di regole e avere un’adeguata preparazione professionale. Poi il modo di fruirne, sulla carta o sul web, lo sceglieranno il lettore e il mercato. Perché pagare l’informazione, anche su internet, è un modo per assicurare un buon livello di qualità… Dare un valore al giornalismo significa caratterizzarlo per la sua importanza e tutelarlo rispetto alle contraffazioni, come le fake news e le informazioni di cattiva qualità, come i contenuti riportati in un social o attraverso siti gratuiti che spesso non garantiscono verifiche e controlli. Nessuno comprerebbe mai una macchina che non ha un sistema di freni collaudato, perché dunque risulta possibile ancora oggi spacciare per buona una notizia che potrebbe rivelarsi nociva, perché falsa, o dannosa, perché lesiva di diritti altrui? Una cattiva informazione nuoce alla democrazia? Sì, produce cattiva democrazia, cattiva politica, cittadini meno forti perché meno consapevoli dei loro diritti e di ciò che invece devono sapere. È una catena solo apparentemente confinata in un settore della società, in realtà non rappresenta un valore voluttuario o aggiuntivo, ma è un valore fondante delle democrazie liberali. Qualche mese fa papa Francesco ha visi-

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tato il vostro giornale… Una visita storica. Mai un pontefice era entrato nella redazione di un giornale, italiano o estero. L’unico precedente, sempre al Messaggero tra l'altro, risale al 1990, con papa Wojtyla che si fermò però soltanto all'ingresso principale. Niente di paragonabile all'incontro con l'intera redazione che Bergoglio ha voluto avere qui, in via del Tritone, l'8 dicembre scorso. Immagino l’emozione, qual è stato il senso di questo incontro? Da quando è nato, nel 1878, il giornale di Roma si è sempre distinto per le battaglie sui diritti civili, come l'aborto e il divorzio. Da questo punto di vista il fatto che il Papa sia voluto venire qui, in un giornale che ha mantenuto questa tradizione, è stato un modo per sottolineare il dialogo con la voce laica di Roma. Laica, ma rispettosa dell'identità cattolica di una città di cui il Vaticano è parte integrante. Bergoglio ci ha fatto l'onore di una riflessione sulla qualità del giornalismo e dell'informazione che deve mettere al centro di tutto il fatto. Lui ha insistito molto sulla centralità del fatto, distinguendolo nettamente dai pericoli del "relato". Quindi invitando chi fa il nostro mestiere a trattare soltanto i fatti verificati direttamente e non le voci riferite da altri. È una lezione etica di giornalismo fondamentale per l’intero panorama della nostra informazione.

Update Virman Cusenza da luglio 2020 ha lasciato la direzione del Messaggero. Da settembre è consulente per l’Italia di Freemantle, il colosso internazionale televisivo con sede a Londra. La sua attività riguarda l’Attualità: dalle inchieste giornalistiche, ai docufilm ai documentari. Nota dei curatori

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MEDIALOGANDO APRILE 2019

LA VERITÀ: UN OBIETTIVO E UNA PROMESSA IL GIORNALISMO SECONDO IL DIRETTORE MAURIZIO BELPIETRO. CURIOSITÀ, ORIGINALITÀ, APPROFONDIMENTO

L

a Freccia si è rinnovata. Cambia veste grafica, la carta torna a essere bianca e patinata, ma sempre ecologica, com’è nella natura di FS Italiane, le cui strategie industriali non prescindono mai da valori quali la sostenibilità e l’attenzione alle persone. Nuove firme arricchiscono questo numero che vi farà viaggiare tra arte e cultura, paesaggi incantati e fragranze pasquali. Il viaggio inizia da Milano, dall’ufficio di Maurizio Belpietro, direttore del quotidiano La Verità e, da pochi mesi, anche di Panorama. Passione, curiosità e un approccio sempre originale, che sfruculia dietro la patina dei déjàvu senza concessioni ai conformismi del politicamente corretto. L’entusiasmo di Belpietro ci inonda contagioso, e prodigioso, soprattutto per uno che vive di giornalismo da 44 anni. Insomma, niente di più lontano da quella vulgata immagine televisiva che lo vuole spesso irritante e tacciato di supponenza. Una maschera su cui ha giocato fin dalle prime apparizioni sul piccolo schermo, arrivando ad adottare come titolo della trasmissione, da lui condotta dal 2004 al 2008 sulle reti Mediaset,

Maurizio Belpietro

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MEDIALOGANDO

19 dicembre 2018 | Anno LVII - N.1 (2743) | Settimanale 3,00 euro | www.panorama.it

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ISSN 977-0553109031

9 770553 109031

Austria, Belgio, Francia, Spagna, Portogallo 5,70 Euro; Germania 7,00 Euro; U.K. 5,50 GBP; Svizzera 6,30 CHF; Svezia 55,50 Sek; Svizzera C.T. 6,00 CHF; U.S.A. (via aerea New York) 9,50 USD, Canada 12,00 Cad - P.I. SpA - Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona

LILLI GRUBER Nostra signora del dibattito bon ton

BABYTRANSGENERATION In Italia sono centinaia e vogliono cambiare sesso. Ragazzine e ragazzini che con le famiglie affrontano questa transizione dolorosa, a volte senza conoscere le conseguenze di una scelta irreversibile. Panorama racconta le loro storie.

Numero del 19 dicembre 2018

il commento di due signore milanesi incrociate per strada: «L’hai visto? Quello è il giornalista antipatico che è sempre in tv». Poco più di due anni fa hai fondato un nuovo giornale. Di questi tempi cos’è: un atto di coraggio, di fede o di follia? È innanzitutto un atto di straordinaria passione per questo mestiere. Unita a un pizzico di follia, perché quando ho fondato La Verità non mi sono forse neanche reso conto di quanto sarebbe stata complessa l’impresa. Però follia e passione alla fine si sono tradotte in un risultato di successo. Sarà stato complesso soprattutto trovare finanziatori disposti a darti fiducia. Tutti mi dicevano: «Sì, ti aiutiamo, ma se lo fai online». Ricordo banchieri e imprenditori che cercavano di convincermi che il futuro fosse il web. E io:

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«No, online non funziona, non si paga. Voglio la carta perché c’è, e sta ancora in piedi». Decisamente controcorrente. Sì, ma abbiamo dimostrato che è così: la carta funziona, l’online zoppica. Tutti i giornali online che non hanno una versione cartacea sono in perdita. Noi invece abbiamo raggiunto tutti i nostri obiettivi. Ossia? Io dicevo: «Venderemo tra le 20 e le 30mila copie», ma persino lo stampatore era scettico: «Se sarai bravo ne venderai 10mila». Invece eccoci qua, in un mercato saturo d’informazione, dove si dice che i giornali sono morti, vendiamo le copie che avevo immaginato, con un trend di crescita del 13%, in assoluta controtendenza. E qual è il segreto? Facciamo un giornale diverso dagli altri, noiosi e pensati come fossimo ancora nel ’900, ossia prescindendo dal fatto che esistono la televisione, la radio, internet e gli smartphone. Raccontano quello che il lettore già sa, magari da ore. Quasi dovessero loro certificare le notizie. Ma non è più così: si deve andare a caccia di notizie nuove, raccontare storie diverse, avere il coraggio di fare inchieste e avere opinioni controcorrente e originali. Originale è anche il nome della testata, sembra quasi una provocazione. È stata una felice intuizione di un bravo collega, Stefano Lorenzetto. Io avevo qualche dubbio perché mi ricordava La Pravda (in italiano verità, ndr), ma alla fine l’ho ascoltato e ho fatto bene. È un nome chiaro, netto e deciso, e soprattutto, a differenza di altri, descrive un programma e contiene già una pro-


APRILE 2019

messa: non siamo condizionabili. Non difendiamo gli interessi di un editore imprenditore. Non adeguiamo l’informazione a chi è al potere. Che poi sono alcune delle accuse lanciate di recente, con pesanti invettive, contro il mondo dell’informazione. Certo, la vostra struttura societaria vi aiuta. All’inizio ho cercato di radunare un gruppo di amici imprenditori che ci sostenessero con tante piccole partecipazioni, senza che nessuno avesse il controllo della testata, alla fine mi sono ritrovato ad essere io l’azionista di maggioranza e forse è stata la soluzione migliore. Perché mi ha consentito di garantire alla redazione tutta l’indipendenza necessaria. E, non contento, pochi mesi fa ti sei lanciato in una nuova avventura con Panorama… Sai qual è la cosa più bella? Ricevere le lettere di tanti abbonati che erano sul punto di disdettare l’abbonamento e hanno cambiato idea. E anche in edicola stiamo crescendo dal 20% fino al 30% ogni numero. Io Panorama l’avevo diretto dieci anni fa, quando i settimanali erano ancora importanti e raccoglievano tanta pubblicità. Ora è cambiato tutto, ma ho deciso di scommetterci di nuovo. Un settimanale è una sfida anche più complessa del quotidiano. Sì, ma alla fine, poi, il nostro mestiere è sempre quello: suscitare interesse nel lettore. Se con un quotidiano stai più sulla notizia, con un settimanale devi concentrarti sulle inchieste, sui servizi, sugli approfondimenti, tirando fuori argomenti di cui non si parla, variando l’offerta in modo che attiri e incuriosi-

sca. Dobbiamo essere innovativi e mai scontati. Mentre i giornali, hai detto, sono rimasti al ’900. Anche la loro struttura è antiquata. Quando nacque La Verità, una delle mie prime decisioni fu abolire le sezioni: politica, cronaca, esteri, per non rinchiudere l’informazione dentro gabbie precostituite, che devi riempire anche quando non c’è notizia. Poi c’è una questione di sostenibilità. Perché assumere decine di persone per scrivere di sport che interessa due giorni o uno alla settimana? Ed è così per ogni argomento. Ci sono giornali che hanno oltre 100 redattori, noi sì e no dieci. Torniamo lì, essere direttore e, al contempo, editore ha creato un circolo virtuoso. Quando ho deciso di fondare La Verità sapevo che i giornali sono aziende come tutte le altre. Hanno dei clienti, dei costi fissi e devono avere un equilibrio di bilancio. Se non ce l’hai, puoi essere il giornale più bello del mondo, prima o poi chiudi. L’alternativa è attuare dolorose ristrutturazioni. Sì, sono finiti i tempi in cui la pubblicità pagava qualsiasi cosa. Oggi la realtà è un’altra, e l’editoria, soprattutto italiana, ha costi fuori controllo. Occorre che i giornalisti accettino di essere pagati normalmente, abbandonino la mentalità conservatrice che anni fa li portò addirittura a condurre vertenze contro l’introduzione dei computer. Ecco, noi ci definiamo professionisti indipendenti ma in realtà non lo siamo, pretendiamo un contratto e tutele di cui sono privi avvocati, architetti, liberi professionisti. Occorre più intraprendenza?

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MEDIALOGANDO

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LaVerità

O Quid est veritas? O

Anno I - Numero 67

www.laverita.info - Euro 1

QUOTIDIANO INDIPENDENTE n FONDATO E DIRETTO DA MAURIZIO BELPIETRO

Lunedì 5 dicembre 2016

EI FU

ORE 2 PROIEZIONI REFERENDUM NO 60% SÌ 40%

LA PORTI UN BACIONE A FIRENZE SI VOLTA PAGINA

MAI PIÙ OCCUPAZIONE SELVAGGIA DEL POTERE di MAURIZIO BELPIETRO n Gli italiani hanno scelto di cambiare. Non la Costituzione come si augurava Matteo Renzi, ma il presidente del Consiglio. È questa la sola conclusione che si può trarre dopo il voto di ieri. Il capo del governo ha provato in ogni modo a imbrogliare gli elettori, cercando con metodi ai limiti della legalità di comprarne il consenso. Ma alla fine la maggioranza dei cittadini e che maggioranza - non si è fatta comprare. Al premier non è bastata una campagna elettorale lunga tre anni, in cui con promesse ed elargizioni ha cercato di ottenere quel favore che non ha mai avuto ufficialmente con una regolare consultazione popolare. Gli italiani alla fine lo hanno bocciato. Gli 80 euro; l’assunzione di 150.000 precari della scuola per averne in cambio il sostegno; la quattordicesima concessa in fretta e furia in prossimità del 4 dicembre al solo scopo di circuire i pensionati; il contratto rinnovato agli statali a un soffio dal voto per estorcere un Sì; i miliardi regalati a Vincenzo De Luca, il caudillo della Campania; i treni assicurati ai siciliani con i metodi clientelari della vecchia Dc; le mille (...) segue a pagina 3

Il No trionfa con un distacco schiacciante. Il premier incassa una sconfitta irreparabile e annuncia che oggi si recherà al Quirinale per rimettere il mandato

L’Italia ha dato lo sfratto a Renzi Ora la palla passa a Mattarella L’alta l’affluenza rende lo schiaffo ancora più forte: il Rottamatore costretto ad andare a casa Un bel momento di democrazia. Dall’incarico a Padoan alle larghe intese, ecco cosa può accadere LE LACRIME DEL PREMIER

«Ho perso io, la poltrona che salta stavolta è la mia» di GIORGIO ARNABOLDI

a pagina 5

di MARIO GIORDANO n «Mi assumo la responsabilità della sconfitta». È mezzanotte e 20 quando Renzi compare davanti alle telecamere, con il volto segnato a lutto e un groppo in gola grande come la cupola del Brunelleschi. Ringrazia la moglie che è lì presente, i figli, tutti quelli che hanno lavorato per il sì. Poi annuncia: «La poltrona che salta è la mia. Domani pomeriggio salirò al Quirinale per rassegnare le dimissioni». Finisce così in una notte di dicembre nemmeno troppo fredda l’era del Gran Cazzaro. Finisce la stagione delle balle assortite, del wannamarchismo eletto a metodo di governo, dell’arroganza come sistema, dell’occupazione dell’etere, della montagna (...)

PUNITA L’ARROGANZA

I quattro errori capitali che spiegano la disfatta di LUCA TELESE n I media sdraiati, la presenza ossessiva in tv, la scelta degli avversari nei dibattiti, il consulente strapagato, il quesito sagacemente truffaldino, le pressioni internazionali, gli appelli dei Vip. Malgrado tutto ciò, il Sì ha rimediato una disfatta clamorosa. Colpa di una catena di errori gravi commessi in prima persona da Matteo Renzi. Su tutti, quello di aver personalizzato la contesa referendaria.

segue a pagina 2

a pagina 4

INTERVISTA CON MASSIMO FINI, L’ANTIMODERNISTA

«Ho più paura della tecnologia che dell’Isis» «La Verità» da domani anche in Sicilia e Calabria Da domani La Verità sarà nelle edicole anche in Sicilia e Calabria, al prezzo di 1 euro oppure in abbinamento facoltativo con il quotidiano La Sicilia a soli 2 euro.

di MAURIZIO CAVERZAN n Dalle finestre della casa di Massimo Fini si ammirano la torri della zona ex Varesine di Milano. «Una bella vista», butto lì accorgendomi subito di aver fatto una gaffe: «Una vista che non mi fa stare tanto tranquillo», è la replica, «con questo grattacielo (...) segue a pagina 10

DAVID HEALY

«I cinquantenni assumono cinque farmaci inutili al giorno» di FRANCESCO BORGONOVO a pagina 15

Nuova

Renault MEGANE Berlina e Sporter Technology for success

Gamma MEGANE. Consumi (ciclo misto): da 3,5 a 6 l/100 km. Emissioni di CO2: da 90 a 134 g/km. Consumi ed emissioni omologati.

Una prima pagina de La Verità

Ogni tanto viene da me qualche giovane che vuole avviarsi al giornalismo. Gli spiego che il nostro mondo è cambiato, lo invito a leggere, tenersi informato, cercare un argomento da approfondire, muoversi e scrivere un bel servizio. Se si presenta a un direttore con un servizio ben fatto, che i suoi giornalisti non hanno, lui glielo pubblica. E se prosegue così, può diventare presto un collaboratore. Nessuno è tornato. Eppure il futuro del giornalismo è questo: redazioni composte da un piccolo nucleo e bravi professionisti esterni pronti a scommettere sul loro futuro. Un futuro con meno certezze, ma ricco di stimoli. Sì, perché questo mestiere ti offre un arricchimento continuo, trasversale, ma è fatto di curiosità e non del tesserino

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che si porta in tasca o della scrivania conquistata. Dobbiamo fare domande, capire, essere vivaci e pronti a cambiare. Rappresentiamo la società e la società cambia continuamente Testimoniando questa evoluzione… Ti racconto un piccolo episodio. Una sera telefono a un ristoratore per prenotare una cena e iniziamo a conversare. Mi dice che il delivery è diventato un fenomeno con un giro d’affari imponente e in continua crescita. Mi racconta addirittura che negli Stati Uniti ormai si progettano appartamenti senza cucina. Lui parlava e io prendevo appunti per quello che sarebbe diventato un servizio su Panorama. Insomma, approfondire, capire, spiegare… E ti posso assicurare che c’è sempre terreno da dissodare. Prendi il tema della legittima difesa. Sembrava si fosse detto tutto. Con Panorama siamo andati a vedere cosa accade a chi, reagendo a un’aggressione, uccide o ferisce un rapinatore. Poniamo sia processato e prosciolto. Tutto bene, la giustizia ha fatto il suo corso. Ma quanto è costata l’intera vicenda a chi, alla fine, viene riconosciuto innocente e vittima? Mesi e anni di afflizioni giudiziarie e decine di migliaia di euro di spese legali che nessuno gli rimborserà. Tornando a La Verità, all’inizio avete rinunciato a una versione digitale. Perché? Sì, solo dopo un anno e mezzo abbiamo creato la versione online, costruendola con un concetto diverso: noi non ti regaliamo la nostra informazione, che invece è a pagamento e profilata sui nostri lettori, una community che ci ha scelto come punto credibile di riferi-


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mento. Abbiamo rifiutato quel modello di business che punta a offrire l’informazione gratis pensando che la pubblicità possa ripagarla. Non funziona. Anche perché sul web l’informazione, più o meno buona, la trovi ovunque, e gratis. Addirittura puoi essere informato senza visitare un sito ma attingendo solo da twitter. Sui social io seguo i profili dei giornalisti più accreditati e influenti, e lì in poco tempo ho già tutto, in diretta, senza neanche più le agenzie. Fingiamo tu sia un medico e l’Italia la tua paziente. È malata? Qual è la tua diagnosi? Il Paese non sta bene, ha la febbre ed è appesantito da sovrastrutture che gli impediscono di sfruttare le sue straordinarie capacità. Abbiamo imprenditori, come i viticoltori, la cui attività è sottoposta al controllo di 36 enti diversi, altri che vedono bloccati i lavori per lunghi accertamenti di un fisco che altrove, come in Gran Bretagna, concorda l’appuntamento per i suoi rilievi, in due giorni fa tutto, e poi, addirittura, chiede

un giudizio sul lavoro svolto. Abbiamo complicato la vita delle aziende, che sono il cuore dell’economia del Paese. Se non hai un cuore che pompa sangue in tutto il corpo non vai da nessuna parte. Quindi, la terapia? Bisognerebbe prendere la nostra legislazione, buttarla via, e sceglierne una qualsiasi: francese, tedesca, inglese. Una legislazione semplice e pragmatica. Perché qui servono centinaia di pagine per guidarti nella dichiarazione dei redditi, e in Svizzera ne bastano dieci? Perché dopo aver approvato una legge da noi occorre un decreto attuativo e poi, ancora, una direttiva che ne interpreti i contenuti? Patologie croniche… Sì, la situazione si trascina da decenni, aggravata da una classe politica che non è stata mai capace di prendere decisioni adeguate, preferendo rinviare, con ricadute negative sulle infrastrutture e sull’economia. Attribuire oggi responsabilità a questo Governo, come qualcuno fa, è fingere scarsa memoria.

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MEDIALOGANDO MAGGIO 2019

CONQUISTARE, INTERESSARE, APPASSIONARE SIMONE MARCHETTI RACCONTA IL SUO VANITY FAIR

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pumeggiante, sorridente, estroverso. Ci sediamo su un divano nero, nel suo ufficio in piazzale Cadorna, nella sede milanese di Condé Nast. Lui con i suoi pantaloni di seta rossa a decori floreali, pieno di colorata energia e luminose visioni. Alle spalle, un’intera parete di cover in miniatura di Vanity Fair. Simone Marchetti ne è direttore da pochissimi mesi. E ha già rivoluzionato una testata che ormai è ben altro da un semplice magazine. È un ecosistema che si autoalimenta e genera attenzione e stupore nei suoi fruitori, coinvolgendoli come follower, lettori, spettatori e anche attori, nello spazio digitale dei social e in quello reale di tanti eventi live. Dopo 12 anni al gruppo Gedi (editore di Repubblica ed Espresso), dove hai scritto di moda, cultura e costume, sei approdato, come direttore, a una delle testate di punta nel mondo del fashion. Chi e cosa ti hanno convinto ad accettare questa sfida? L’editore, nella persona dell’Amministratore delegato di Condé Nast Italia, Fedele Usai, e la sua chiarissima visione del presente e, probabilmente, del futuro dell'editoria, che condivido e mi ha subito entusiasmato.

Simone Marchetti

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MEDIALOGANDO

Numero del 20 febbraio 2019

E qual è? Intanto non si parla mai di sito, di carta o di eventi. Si parla di un network organico. Un sistema ecosostenibile, con radici profonde, con un modello di business stabile che genera altri mondi. Se ci si focalizza soltanto su uno di questi mondi, si perde. Ecco che hai bruciato la mia solita domanda, sopravvivrà la carta? Non si può più pensare soltanto alla carta. Ma il discorso vale anche per chi ha inseguito la chimera della rivoluzione mediatica, concentrandosi solo su un social network, per esempio su facebook, ed oggi si ritrova con un pubblico di ultraquarantenni. E gli altri li ha persi, perché sono su instagram o su tiktok, il social network di videosharing. No, oggi bisogna proporre un palinsesto di informazione e intrattenimento agendo in maniera organica su varie piattaforme. Ho letto che consideri Vanity Fair come

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un’opera in tre atti. Quali sarebbero? Il primo atto è virtuale, con il protagonista della copertina studiamo un progetto artistico e produciamo dei contenuti che postiamo sui nostri social. Promuoviamo così un'attività virale, anticipiamo la notizia e la amplifichiamo. Come se fosse il trailer di un film, anzi di più, perché stiamo già raccontando e facendo interagire le persone, comprese quelle che magari non comprano il giornale. Dal mondo digitale poi si passa alla carta? Sì, ma intanto abbiamo suscitato l’interesse anche degli altri media, che hanno scritto e parlato di noi. Così, quando il mercoledì a Milano e il giovedì nel resto d'Italia va in scena il secondo atto, ed esce Vanity, un bel pezzettino della nostra community sarà sempre più propenso a fare quel gesto eroico di tornare in edicola a comprare il giornale, perché ne ha già avuto un assaggio. Le edicole chiudono, ma i nostri dati di vendita migliorano. Insomma, vi autopromuovete, giocando anche sulla curiosità? Perché è importante creare l'aspettativa e non essere mai rassicuranti. Ogni volta le persone devono chiedersi: «Cosa avranno combinato questa settimana di nuovo?». Le tue copertine non passano certo inosservate. Come quella con Raffaella Carrà che, se non erro, consideri la prima veramente tua. L’esordio di quello che lo scorso 12 febbraio, nel cocktail di presentazione all’Istituto dei Ciechi di Milano, hai definito “the next act”. Ma sì, il giornale in edicola devi vederlo subito, con la copertina devi conquistare, interessare e appassionare le persone. Per questo ho reintrodotto il linguaggio della moda, del trattamento e del culto fotografico. Uno strumento popolare come Vanity


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Fair deve portare la bellezza sofisticata, dirompente, controversa nel popolare. Non è che le immagini catturando l’attenzione rischiano di distoglierla dai contenuti? All’opposto. Sopra la testata abbiamo messo una citazione dal romanzo La Fiera della Vanità: «Quello che è non è quello che sembra». Siamo tutti affascinati da quello che sembra, ma noi ci sforziamo di raccontare quello che è. Così i contenuti e le nostre storie sono diventate ancora più profondi e più lunghi. Perché non è vero che le persone non leggono più, vanno però conquistate. Anche sul sito e sui nostri canali social stiamo testando contenuti più profondi che, all'inizio, ti prendono con l'immagine e la bellezza, ma poi ti portano ad affrontare l'informazione più approfondita, che è uno dei problemi della contemporaneità. Occorrono anche firme all’altezza. Infatti, ho voluto con me grandissimi giornalisti, filosofi, scrittori come Mattia Feltri, Eshkol Nevo, Roberto D'Agostino, Daria Bignardi, e anche artisti italiani come Maurizio Cattelan, insieme a Francesco Vezzoli. Il nostro non deve essere mai un laboratorio di sicurezza o di canoni da "femminile classico". Anche se la maggior parte dei nostri lettori è donna, non vuole più sentirsi dire cosa cucinare, come governare la casa o se mettersi o no la gonna. Ha bisogno di bellissime storie. E così abbiamo riconcepito il settimanale quasi fosse una fanzine, un giornale di nicchia che diventa popolare. Ma siamo rimasti al secondo atto. E il terzo? Consiste in un'esperienza fisica e reale. Abbiamo inaugurato qui, nella nostra sede, un teatro Vanity Stage, dove attori, scrittori e cantanti vengono ad esibirsi

dal vivo per il nostro e il loro pubblico. In un'epoca così virtuale creiamo un'esperienza viva, restando editori e giornalisti. È un nuovo modo di fare storytelling, di catturare un'altra audience e diventare un network. Con Laura Pausini e Biagio Antonacci, protagonisti di una nostra cover, ci siamo addirittura spostati fuori dalla Condé Nast, e questa esclusiva esperienza live ha trovato ospitalità, grazie a un gemellaggio con Giorgio Armani, nel suo teatro, l’Armani Privé, nel centro di Milano. Oltre a tutto ciò avete anche un vivacissimo sito web... Che aggiorniamo ogni minuto. Insomma, produzioni multimediali, coinvolgimento diretto e anche live della vostra community. Basta così? No, il nostro network includerà presto anche la televisione. Produrremo grandi iniziative che andranno in onda su uno dei nostri canali del cuore. E il nostro racconto si svilupperà poi in una serie di eventi che riporteranno in auge l'eccellenza italiana, il primo lo realizzeremo durante il Festival del Cinema di Venezia. Questi eventi si moltiplicheranno nel tempo con l’obiettivo di trasferire l'informazione e l’intrattenimento del grande palcoscenico di Vanity Fair nella realtà, per tutta Italia e poi anche all'estero. È una vera trasformazione del ruolo di editore e giornalista. È l’unico modo per restare competitivi e incisivi nel mercato: ampliare il raggio d’azione e cambiare la nostra prospettiva. Io già nel 2008, quando lavoravo a Velvet, mensile di Repubblica, ho capito e ho detto al direttore, Ezio Mauro, che non mi interessava più fare la carta stampata. Avevo l'iPhone e vedevo cosa stava succedendo all'informazione. Nel 2012, quando sono tornato al quotidiano, ho cominciato a fare

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tutte e due e ho capito che non si trattava di compiere una scelta di campo, ma di pensare il business in modo più organico. Questo è un momento fecondo e duro, è in atto una grande rivoluzione culturale. Però bisogna preservare la qualità. I cui presupposti sono professionalità ed esperienza, mentre sul web sembra prevalere l’improvvisazione e l’estemporaneità. L’esperienza formativa è fondamentale. Per me lo è stata quella alla grandissima scuola di Repubblica, per esempio al visual desk, quando per primi al mondo, anticipando New York Times e Condé Nast America, mettevamo online le foto e le recensioni delle sfilate appena concluse. O con gli hangouts dialogavamo con i grandi stilisti come Donatella Versace, Miuccia Prada, Frida Giannini, sperimentando delle interazioni con il pubblico davvero pionieristiche. Ecco, serve professionalità unita al desiderio di mettersi sempre alla prova e non confinarsi mai in una comfort zone. Da noi è la regola quotidiana. Puoi darmi altri esempi? Sperimenteremo nuove forme di informazione e intrattenimento, non solo video. Stiamo studiando alcune iniziative congiunte con grandi partner e altri editori. Intanto abbiamo portato in redazione quattro registi, che lavorano a fianco dei giornalisti e li aiutano ad interpretare in un modo visuale quello di cui parlano, quando è possibile, ovviamente. Occorre rendere la notizia tridimensionale, uscire dal classico schema titolo, sommario, testo, e vedere, poi se e come espanderla in evento, mostra, libro. Per fare tutto questo occorre una redazione con i controfiocchi. E la nostra lo è. Una cinquantina di persone, alle quali si aggiungono i collabo-

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ratori esterni, i fotografi, la forza vendita e la grande macchina di Condé Nast. Sono pochi gli editori che possono contare su uno staff così preparato ed efficiente. Mi piace pensare a un’orchestra, con le varie sezioni… Ma, da noi, tutti fanno tutto. In una delle prime riunioni ho chiesto di abolire la maledetta parola “integrazione”. Ovviamente, quando scrivi per il cartaceo, devi avere una tecnica e un approccio diversi rispetto al web o a quando fai un post oppure organizzi un evento. Senti, si parla spesso dell’eccentricità del tuo outfit (ammicco ai suoi pantaloni, e ride...) Guarda, gli italiani sono spesso i peggiori nemici di loro stessi perché si dimenticano di quanto sono eccezionali. Io me ne sono accorto viaggiando, le grandezze che tutti ci riconoscono spesso noi le ignoriamo. Una di queste grandezze è la moda. Noi accendiamo i sogni del mondo e abbiamo un'eccellenza artigianale che ha molto da insegnare a livello di eco-sostenibilità, diritti dei lavoratori e creazione della bellezza. È un'eccellenza grandiosa e non vedo perché, noi per primi, non dobbiamo crederci. Perché dobbiamo rassegnarci a vestire in modo convenzionale quando siamo i primi a inventare una bellezza che è progressista e cambia gli equilibri. Io ho deciso di viverla fino in fondo, per cui l'emancipazione che ho in testa per prima cosa me la metto anche addosso. Penso sia uno strumento di liberazione e di autoaffermazione personale. La moda, così come la descrivi, produce ricchezza, non soltanto economica e acquisisce nuovi significati. Sì certo, pensa cosa è successo con Gucci. È un brand che ha imposto a tutti nuove regole di superamento degli orientamenti


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sessuali, puntando all'inclusione e all’antirazzismo. Ma un’altra cosa che stiamo facendo a Vanity Fair è presentare la moda non più come uno status, ma come un linguaggio, anche per liberare i talenti dai loro stessi personaggi. Per esempio a Laura Pausini abbiamo fatto indossare abiti di Armani e di altri stilisti e siamo riusciti a far emergere tutta la sua delicatezza femminile, come un personaggio di Bergman, mentre finora era stata ritratta sempre con tratti forti e decisi, da Wonder Woman. Usando la moda come linguaggio ricordate agli italiani quanto siano poco consapevoli delle loro qualità... La moda è un contenitore di cultura e significati e questo noi italiani o lo diamo

per scontato o non lo sappiamo. Io voglio che questo giornale sia profondamente italiano, l'art director è italiano, lo sono gli artisti con cui lavoriamo, come Maurizio Cattelan che farà per noi un intero servizio di moda in occasione della Biennale Arte di Venezia. Sarà qualcosa di forte, farà discutere, mi attaccheranno tutti. Ma… Riusciremo a portare quel particolare linguaggio fuori dal ristretto circolo dei musei o delle gallerie d'arte contemporanea, offrendolo a tutti. Perché, concludiamo noi, ogni intelligente provocazione e contaminazione scuote gli animi e spinge le menti a interrogarsi, e a risvegliarsi dagli sterili torpori.

Update “L’arrivo di un momento difficile come quello che stiamo vivendo con l’emergenza Covid-19 ci ha costretto a sognare ancora più in grande, e ciò ci ha premiato”. La Freccia aveva intervistato Simone Marchetti, direttore di Vanity Fair, poco dopo il suo insediamento, nel maggio 2019. Da febbraio 2020 il progetto Vanity è entrato nel vivo. Durante la pandemia racconta il direttore dati alla mano, le vendite in edicola sono aumentate fino a un +80%. Ma non basta. “Nell’intervista non parlavamo di un giornale, ma di un network e così è stato”, spiega Marchetti. Durante il lockdown Vanity Fair ha organizzato due programmi televisivi e successivamente una performance musicale con 25 tra i più grandi artisti italiani per sostenere i lavoratori dello spettacolo. Il numero dedicato a Milano, prima città colpita dal Coronavirus, è stato quello con più interazioni social nella storia del giornale. Per il direttore la rivista cartacea non è che la scintilla, da cui partire e sviluppare quella “mentalità agile” oggi necessaria per elaborare sui social e sul digitale qualcosa che non sia altezzoso o snob ma in cui le persone riconoscano un’autorevolezza e un valore. Un vero e proprio cambio culturale: “Siamo sul social tiktok e facciamo cose profonde, non è vero che i social non sono profondi”, dice Marchetti. Tra i numeri con più eco mediatico la copertina dedicata a Vanessa Incontrada per combattere il body shaming. Nota dei curatori

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MEDIALOGANDO GIUGNO 2019

L’ITALIA IN DIRETTA L’INFORMAZIONE RADIOFONICA SECONDO LUCA MAZZÀ, DIRETTORE DEI GR RAI

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arà 2 giugno tutto il mese, per La Freccia. Vogliamo festeggiare così i 73 anni della Repubblica Italiana, di un Paese risorto dalle macerie della Seconda guerra mondiale e incardinato sui valori della Resistenza e sulle solide fondamenta delle istituzioni repubblicane. Regalandovi un numero speciale e il viaggio in un Paese straripante di meraviglie ed eccellenze. Un Paese che sa muoversi ad Alta Velocità e anche rallentare, per gustare e mostrare al mondo le sue bellezze. Un Paese che vanta un patrimonio di arte, cultura, scienza e tecnologia accresciuto, nel tempo, dalle tante reincarnazioni di quel “genio italiano” che trova un suo emblema in Leonardo da Vinci, di cui ricordiamo, quest’anno, il cinquecentenario della morte. Un Paese che ha piaghe e debolezze, vecchie e nuove, da lenire e combattere. Terra ancora oggi di migranti e immigrati, di altruistici slanci ed individualistiche amnesie, torride passioni e autoindulgenti indolenze. Ma, comunque, miniera di preziose risorse materiali e umane, premessa di nuovi possibili rinascimenti. Ad aprire questo numero speciale il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Con onore e gratitudine abbiamo ospitato le sue penetranti riflessioni,

Luca Mazzà

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La redazione di Radio anch'io

quale incipit della nostra narrazione di un’Italia di cui andare orgogliosi. Il racconto prosegue incontrando Luca Mazzà, direttore di tutti i giornali Radio Rai e della rete Radio Rai Uno. Media di informazione e intrattenimento, ma anche istituzioni pubbliche, la nostra Rai e la sua emittente radiofonica hanno accompagnato e suggellato alcuni passaggi storici dell’Italia del ‘900, echeggiando già nelle case dei nostri nonni. Il primo new media del XX secolo, dopo anni di declino, sta conoscendo una nuova giovinezza. Perché? Le ragioni sono molteplici. Ma prima di tutto perché è un mezzo avvertito come molto familiare e che consente al radio-

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ascoltatore di diventare anche protagonista. Quello che un po’ tutti cercano con i social… Esatto. Infatti ho coniato un claim, ripetuto più volte nel corso della giornata: "Con Radio1 il protagonista sei tu". Perché la grande forza della radio, in questi tempi in cui c'è molta voglia di essere protagonisti, è che basta un telefono per partecipare alle trasmissioni. Stiamo quindi parlando di un prodotto giornalistico interattivo, che parla, ascolta e fa parlare. Sì, noi abbiamo trasmissioni come Radio anch'io, Zapping, Radio1 in viva voce, che vivono del contributo diretto degli ascoltatori. È qualcosa di impossibile in televisione, dove è auspicabile, se non proprio necessaria, una presenza fisica in studio. Mentre in radio tu alzi il telefono e sei già protagonista. La radio beneficia di questo rapporto di vicinanza totale con l'ascoltatore, che, quando ne ha voglia, entra direttamente nel suo programma ed esprime così la voglia di rappresentarsi e dire la sua, proprio come sui social. Potremmo dire che certe istanze non sono una novità, penso alle lettere al giornale. Alcuni media riescono a esaudirle con maggiore immediatezza, altri meno. Ecco, la radio ci riesce bene, con successo, e non da ora. Basti pensare alle dediche musicali che consentono al radioascoltatore di intervenire anche nella programmazione, scegliendo il brano da mandare in onda. Tutto questo fa della radio un mezzo estremamente attuale e al passo con i tempi. Poi c’è anche il fatto che la radio non richiede un impegno totalitario, come la lettura o la visione di un programma


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televisivo. Si ascolta in auto, guidando. Ma la radio ha anche un’altra forza e capacità, sulle quali io ho molto puntato, raccontare l'Italia in diretta. Perché la radio è il mezzo più immediato per raccontare gli eventi. È sufficiente mettersi in contatto telefonico con il testimone di un avvenimento, dal vigile del fuoco a un insegnante, per avere informazioni immediate, di prima mano, e persino la cronaca in diretta di quanto sta accadendo o è appena accaduto. Ecco, qui il radioascoltatore diventa cronista. Spetta poi al giornalista, partendo dal mero racconto, ricucire i fatti e interpretarli. La cronaca non basta, sei d’accordo? Le nostre trasmissioni di approfondimento servono a questo. La mia ambizione sarebbe poter raccontare, 24 ore su 24, l'attualità, quello che sta accadendo in ogni momento. Insomma, l’Italia in diretta. Capisco che è difficilissimo, forse impossibile, ma proprio a questo obiettivo tende il mio lavoro. Così nel nostro palinsesto abbiamo molto accentuato la sinergia tra i contenitori e gli appuntamenti informativi tradizionali, i giornali radio. Perché è proprio così che tutta l'attualità può entrare con forza nei nostri contenitori. I quali hanno una loro sceneggiatura e un canovaccio già definiti, ma sono pronti a buttarli subito all'aria per raccontare e riflettere su quel che succede. Senza che si tratti necessariamente di un grande avvenimento. Basta una storia emblematica, o di una certa rilevanza per il territorio. Con quali altri strumenti la radio combatte la concorrenza degli altri media? Oltre al privilegio di poter essere presente in tempo reale sui fatti, la radio ha una grande forza suggestiva ed evocativa,

lascia tanto spazio all'immaginazione e all'elaborazione personale di chi ascolta. Insomma, ti stimola, non la subisci mai del tutto passivamente, anzi, ti sollecita sempre alla ricerca di trame che puoi costruirti tu. Però, quando si tratta di informazione, lo spazio da lasciare all’immaginazione credo debba azzerarsi. Certo, anche se a informarti è una voce, con un suo particolare timbro, e in chi ascolta resta comunque il desiderio o il tentativo di figurarsi il volto dello speaker. Ma è chiaro che l’obbligo dei nostri GR è informare e dare le notizie principali del giorno. È l’obiettivo prioritario non disgiunto da altri due, altrettanto fondamentali: individuare le giuste priorità e costruire un filo rosso che consenta al giornale di apparire come la narrazione di una giornata e non la pura elencazione di fatti e notizie del tutto scollegate tra loro. Non è sempre semplice… L'abilità sta nel trovare quel fil rouge e creare un racconto che contestualizzi le notizie, le inquadri e tenga insieme i fatti anche quando sono tra loro eterogenei, e dalla cronaca si passa alla politica e all’economia. Per questo credo molto negli approfondimenti, nelle schede esplicative, usate soprattutto quando parliamo di temi economico finanziari. E ai cosiddetti “raddoppi”. Cioè? Cerco sempre, rispetto al resoconto di un evento, di legargli un pezzo di background, in modo da far capire di quale fenomeno stiamo parlando e come quel fatto si inserisca in un contesto più ampio la cui conoscenza ne aiuta la comprensione. Perché non appaia tutto frammentato, casuale.

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Un unico direttore per tre GR nazionali non rischia di omologarli e renderli tutti simili fra loro? No, perché una nostra missione è proprio differenziare il GR1 dal GR2 e dal GR3. C'è un’attività molto articolata e complessa della redazione che lavora in tal senso, salvaguardando allo stesso tempo gli obblighi informativi del servizio pubblico. E cosa differenzia i tre GR Rai? Ecco, il GR di Radio1 è il più istituzionale, con un palinsesto che ruota intorno ai temi della politica, dell’economia e degli esteri. Quello di Radio2 privilegia di più la cronaca e il costume. Abbiamo tolto i titoli di testa, entra direttamente il conduttore che anticipa subito le principali notizie e poi scegliamo quella di apertura, che riteniamo abbia maggiore rilevanza quel giorno e debba essere approfondita. Il notiziario di Radio3, di una radio fortemente identitaria e culturale, è pensato per un pubblico che si immagina con un palato più sofisticato. Qui facciamo molta informazione di economia ed esteri. Hai dalla tua un’ottima squadra di professionisti, immagino. Perché un allenatore senza buoni giocatori o un direttore d’orchestra senza buoni musicisti va poco lontano. Certo, e sono convinto che l’informazione Rai, e quella radiofonica in particolare, costituisca un’eccellenza. Qualità che prescinde, beninteso, dalla mia direzione pro tempore. È un servizio pubblico realizzato da grandi professionisti ben consapevoli del loro ruolo. Che in quest’epoca di giornalismo fai da te, sul web e sui social, è essenziale e comporta grandi responsabilità. Sì, ora che ci confrontiamo con un'in-

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formazione di prima mano, immediata e disintermediata, c'è un valore aggiunto nell'approfondimento, nella riflessione, nel commento, nell'opinione, nella ricostruzione. Il ruolo del giornalista vive in questa fase una grande valorizzazione e riscoperta e non solo per quella che è la verifica delle fonti e delle informazioni, in chiave anti fake news. Hai tante notizie che arrivano velocemente, ma fatichi a collegarle e a contestualizzarle, è lì che scatta la capacità di un giornale di andarle a raccontare e spiegare in un confronto di opinioni. Confronto che costituisce un’altra prerogativa dell’informazione Rai che, per sua natura, dovrebbe essere super partes, oltre che didascalica. La Rai è servizio pubblico e il servizio pubblico è confronto di opinioni. Questo c’è e deve esserci sempre. Credo non ci possa essere mai una lettura sola nel servizio pubblico, ma ci debbano essere sempre più letture: il pluralismo è l'altro punto di forza del servizio pubblico, tanto più della radio. Insomma, questo è un faro per il direttore Mazzà, nonostante le prevedibili pressioni dei governanti di turno… Per me è fondamentale fare un'informazione non schierata, equilibrata, pluralista, indipendente e assicurare un confronto libero di opinioni. Una rappresentanza alle opinioni più diverse. Anche se questo può annoiare l’ascoltatore e minacciare i dati di audience? È chiaro che i dati di ascolto e lo share sono importanti, ma c'è una funzione che viene prima, è quella di informare nel modo più corretto possibile. E poi sono convinto che una buona informazione, autorevole, sincera, indipendente e non faziosa crei ascolto e dia buo-


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ni risultati anche in termini di share e contatti. Avrete anche altre strategie per conquistare attenzione e ascolti? Abbiamo cercato nella nuova programmazione di proporre una serie di trasmissioni che andassero incontro al particolare mood dell'ascoltatore nei vari momenti della giornata. Per cui la mattina molto presto su Radio1 apriamo con un contenitore che si chiama Il mattino di Radio1. Va in onda dalle 5 alle 7 e offre informazioni meteo, sulla mobilità, poi notizie, rassegna stampa, il tutto con un linguaggio leggero. A metà mattinata realizziamo un altro programma, che è nel mood di chi sta andando a fare la spesa o commissioni. E così nel pomeriggio, dalle 18 alle 19, quando in molti ci ascoltano dalla macchina, spesso fermi in coda nel traffico del rientro, e a loro proponiamo argomenti anche più complessi e

trattati in modo più analitico. C’è poi il nuovo capitolo delle trasmissioni in digitale. Come vi state muovendo? Sono già una realtà. Noi lavoriamo molto sul digitale, abbiamo diverse radio sul Dab (Digital Audio Broadcasting). Abbiamo potenziato, dallo scorso 1° aprile, l'informazione sportiva con una radio digitale tematica, Radio1 Sport. Perché la radio mantiene tutti i diritti sportivi più pregiati, dai campionati di calcio alla Formula Uno. Ora, grazie a questo nuovo canale, possiamo finalmente soddisfare tutta la grande richiesta di informazione sportiva, trasmettendo la radiocronaca di tantissimi eventi, anche minori, insieme ad approfondimenti e interviste. Ci sono poi altre radio digitali tematiche per le quali noi facciamo notiziari specializzati. È l’altra frontiera su cui stiamo lavorando.

Update Nel mese di luglio 2020 sono stato incaricato dall’Azienda di lavorare alla realizzazione di un nuovo Canale Istituzionale, nell’ambito di Rai Parlamento. In pratica un Canale televisivo interamente dedicato all’attività’ di tutti quegli organismi che si occupano degli interessi generali del Paese e che rappresentano i luoghi in cui la democrazia si sostanzia e si sviluppa: Parlamento, Parlamento Europeo, Quirinale, Presidenza del Consiglio, Corte Costituzionale, per citarne alcuni. Si tratta di una grande sfida dopo la consultazione popolare sul taglio del numero dei parlamentari e nella prospettiva, si auspica, di nuove e importanti riforme. L’obiettivo è raccontare in modo semplice, autorevole ed efficace come nascono e maturano leggi, regolamenti, scelte e decisioni che più impattano sulla vita quotidiana delle persone. Un racconto che intreccerà eventi in diretta, commenti di esperti, con l’opportuna mediazione giornalistica e il supporto di schede esplicative, e momenti di confronto con i protagonisti delle istituzioni per stabilire una sorta di filo diretto continuo con i telespettatori. Luca Mazzà

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DOVE ERAVAMO LUGLIO-DICEMBRE 2019

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el pieno dell’estate 2019 scoppia la crisi del Governo gialloverde e si forma una nuova alleanza, quella fra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico. Nasce l’esecutivo giallorosso, che ha come segno di continuità il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte: comincia così il Conte II. A novembre si vota invece per le elezioni regionali. In Emilia Romagna, in risposta a un comizio della Lega al Paladozza di Bologna, quattro giovani organizzano un flash mob in Piazza Maggiore. È la prima manifestazione delle cosiddette Sardine. A dicembre colpo di scena nel mondo del giornalismo: Exor, la finanziaria della famiglia Agnelli, firma un accordo con Cir, la holding dei De Benedetti per l’acquisto del pacchetto di maggioranza del Gruppo Editoriale Gedi, che comprende, fra le testate, i quotidiani La Repubblica e La Stampa. Il 5 dicembre 2019 il Gruppo FS festeggia i primi 10 anni dell’Alta velocità italiana: un modello di tecnologia e servizi ammirato in tutto il mondo. E con il suo know-how FS consolida la sua presenza sui mercati internazionali. Il 2019 è anche l’anno migliore nella storia del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane per ricavi e utile netto.

Chi abbiamo incontrato Annalisa Monfreda - Luigi Contu - Mario Sechi - Agnese Pini - Claudio Cerasa Marco Tarquinio

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TRA INFORMAZIONE ED EMPOWERMENT LA DIRETTRICE ANNALISA MONFREDA RACCONTA DONNA MODERNA, AL CENTRO DI UN SISTEMA DI EVENTI E INCONTRI CON LA PROPRIA COMMUNITY

© Paolo Verzone

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onna Moderna ha compiuto 30 anni nel 2018. È il settimanale femminile più letto in Italia. Abbiamo incontrato la sua direttrice, Annalisa Monfreda (che dirige altri due femminili molto popolari come Starbene e Tu Style), ad apertura di un numero de La Freccia che, fin dalla copertina, parlerà molto di coppie: nello spettacolo, nell’arte, nella vita. Perché la dialettica femminile-maschile è la chiave di interpretazione di tante vicende umane, da quelle psicologiche, che riguardano l’intimo di ciascuno di noi, fino a quelle sociali e storiche. L’evoluzione del ruolo della donna nella coppia, e nel nostro Occidente, è causa-effetto di profonde e, per lo più positive, trasformazioni culturali e socio-economiche. Dai dati che ho il 93% dei vostri lettori è donna, sul web sono due su tre. Che significa scrivere per le donne? La rivista è nata quando le donne iniziavano a emanciparsi dalla famiglia di provenienza per entrare nel mondo del lavoro, e volevano tenersi tutto. Avevano bisogno di consigli per affrontare questa sfida, che interrompeva anche la tradizionale trasmissione di conoscenze madre-figlia riguardo a tante

Annalisa Monfreda

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esperienze domestiche. Così, all’inizio il giornale era un ibrido. Da una parte ti diceva come fare il curriculum perfetto, dall’altra come svolgere al meglio le faccende di casa. Fu subito un successo con un boom di vendite, un milione e 200mila copie, a dimostrazione che rispondeva a domande reali. E oggi? Con il passare del tempo quello specifico bisogno è cambiato completamente perché, per le donne, è diventato più normale lavorare, anche se parliamo sempre del 48% delle italiane. Ma, soprattutto, è stato l’avvento del web a sconvolgere tutto. Perché in rete quando si cerca un’informazione la si trova con facilità e velocemente. Donna Moderna l’ha capito, è sul web da 15 anni e oggi vanta 13 milioni di utenti unici al mese, una potenza!

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Online si trova la risposta a ogni domanda, certo, bisogna però capire se le risposte sono davvero giuste… Quello che facevamo noi sulla carta, con l’autorevolezza conquistata, sul web diventava di una forza pazzesca, perché a domanda, rispondevi. Puntualmente. E sulla carta? Ci siamo riposizionati in un modo completamente diverso: la donna oggi non ha bisogno di sapere come fare le cose, ma di sapere che certe cose le può fare. L’abbiamo spinta ad allargare i suoi orizzonti, e a guardare oltre: «Non soltanto puoi lavorare, ma puoi anche ambire a diventare capo della tua azienda». Obiettivo ambizioso. Con quali strumenti? In due modi. Il primo, attraverso gli esempi: apriamo sempre ogni numero con la storia di una donna normalissima che ha raggiunto risultati particolarmente interessanti. Quella, per noi, è la donna moderna della settimana. Il secondo è portare le nostre lettrici a fare le cose con noi. Abbiamo costruito un sistema, che non è più carta, articolato sul territorio con eventi e incontri. Il giornale evolve, si trasforma in un ecosistema. Mettiamo insieme le community delle nostre lettrici, le facciamo conoscere tra di loro, ma io, Donna Moderna, sono insieme a loro. Perché, come giornale, non ho più soltanto il compito di informare, che pure resta un obiettivo fondamentale. Nel nostro caso, visto che siamo un femminile e le donne vivono un momento particolare, dobbiamo avere un ruolo nel cambiamento sociale in atto, compiendo azioni concrete.


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Puoi farci qualche esempio? Abbiamo lanciato un movimento che si chiama Donne come noi ed è legato proprio alle storie che aprono, da almeno 15 anni, ogni nostro numero. Un centinaio di quelle storie le abbiamo raccolte, con lo stesso titolo, in un libro edito lo scorso anno da Sperling & Kupfer, dal quale abbiamo poi tratto un bellissimo spettacolo teatrale, scritto da Emanuela Giordano e Giulia Minoli, con Tosca come protagonista. Siamo andati in scena a Milano, Roma, Torino, riempiendo i teatri e raggiungendo migliaia di italiani. Teatri che non vogliamo puzzino di naftalina, ma tornino a essere piazze dove la gente s’incontra e, condividendo delle emozioni, cominci ad avere degli scambi. Un teatro sociale, con spettacoli che, se possibile, offriamo gratis o a prezzi pressoché simbolici, per ampliare il più possibile la platea. Succede tutto a teatro? No, abbiamo creato una versione breve dello spettacolo da portare nelle aziende, negli auditorium, nelle scuole. L’effetto sul pubblico è pazzesco, perché esci dallo spettacolo estremamente motivato. Noi vi associamo un momento di formazione, che utilizza sempre il linguaggio del teatro, l’improvvisazione, e serve a trasmettere alle donne alcuni strumenti importanti come la capacità di fare rete, che storicamente nessuno ci ha insegnato, e la capacità di credere in sé stesse, l’autostima. Il laboratorio teatrale ti porta a ragionare su come mettere in atto tutto ciò nella tua vita e quindi ottenere un risultato di empowerment. Perché con le aziende? Perché le aziende sono i luoghi dove

avviene il vero cambiamento, dove si anticipano spesso le normative e legislazioni nazionali. Ci rivolgiamo anche alle amministrazioni pubbliche, che sono però generalmente meno reattive. Come vedi evolversi il ruolo della donna e cosa manca per una definitiva emancipazione? Intanto sono abbastanza ottimista, riconosco la progressiva conquista di maggior spazio da parte delle donne, favorito con decisione dall’introduzione delle quote rosa. Certo, i dati assoluti sono ancora modesti, ma il trend è positivo. A questo punto c’è bisogno di un salto di qualità nelle politiche per la donna che rifugga dall’idea della wonder woman che deve conciliare tutto. E lo dice una che di questo mito è stata un po’ testimonial. Perché quand’eri incinta sei stata promossa direttrice, e avevi già una figlia… Ecco, lì ho sottolineato la lungimiranza di un uomo che mi ha offerto quel ruolo nonostante io stessa considerassi la mia situazione un ostacolo. Ma la vera chiave di volta sta nel fatto che un uomo possa e debba assumersi la responsabilità totalmente paritaria dell’atto di generare i figli. Se viene divisa in due, entrambi possiamo permetterci un certo tipo di lavoro. Invece, sembra che le politiche sociali debbano rendere le donne delle wonder woman, capaci di conciliare vita privata, maternità, famiglia e lavoro. Anche lo smart working è una gabbia, una falsa soluzione. Invece? Occorrono politiche che aiutino l’uomo ad acquisire consapevolezza del suo

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ruolo, a prendere un super congedo di paternità e maggiori responsabilità nella conduzione quotidiana della famiglia, senza che ciò gli procuri problemi in azienda. Ed è soltanto questo che permetterà alle donne di fare i successivi passi, non il fatto di ammazzarci di lavoro o di sentirci in colpa se non riusciamo a fare tutto. Sentimento che non appartiene alla narrazione del maschio. Empowerment ed emancipazione passano anche dallo sport. Ho letto che create community con la corsa, con le runner. Sì, un’altra iniziativa di successo che si chiama Corri con noi: abbiamo gruppi di corsa in nove città italiane, da Torino a Palermo, alcuni con oltre 200 iscritti, lì dove gruppi sportivi consolidati riunivano 50 donne. Siamo riusciti a intercettare persone che non si sentivano a proprio agio per andare a correre da sole o con altri gruppi. Offriamo un programma di miglioramento personalizzato, un coach anche per chi cammina soltanto e un obiettivo finale, una gara in Marocco. Le lettere che ricevo ogni settimana da queste donne sono incredibili, tutte raccontano il timore iniziale, la soddisfazione per i risultati, la gioia per l’attesa. Io rispondo a tutte. Questo dialogo con le tue lettrici credo sia fondamentale. Un grande impegno e una bella fatica, ma ben spesi. Abbiamo anche una newsletter giornaliera, con 130mila iscritte, si chiama Un caffè con Donna Moderna. La inviamo ogni mattina alle 7 selezionando le tre notizie più interessanti di politica, economia, attualità. Cerchiamo di rendere chiaro quel che è complesso, ciò che i quotidiani danno per scontato sia compreso dai loro lettori. Trattiamo soprat-

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tutto questioni economiche, perché la donna è il motore decisionale dell’economia familiare. Insomma, un giornalismo con una funzione quasi didascalica. Utilissimo in questa epoca di esperti improvvisati o interessati. Posso farti un altro esempio. In occasione delle elezioni europee, quando ci siamo resi conto che il dibattito in Italia non toccava i punti salienti, abbiamo dedicato otto puntate, due pagine a settimana per due mesi, a uno speciale Noi e l’Europa interamente scritto da donne. Abbiamo spiegato prima quali idee dell’Europa erano in ballo, poi cosa aveva fatto l’Europa per le donne e per l’economia italiana. Abbiamo cercato di smontare alcune false credenze e di riportare al centro dell’attenzione il vero tema in gioco. C’è sempre il timore nel lettore che i media abbiano altri fini, il giornalismo sia schierato, parte integrante di quell’establishment a cui si addebitano un po’ tutti i mali. Da qui disaffezione e ricerca di verità altrove… Noi abbiamo un’altra storia, non siamo accomunati a quel tipo di informazione, i nostri lettori si fidano di noi. Certo, godendo di quella fiducia, potrei cavalcare il pensiero della maggior parte di loro, oppure evitare di affrontare argomenti scomodi o divisivi, per non perderne qualcuno. È un rischio che abbiamo gestito nell’affrontare temi delicati come quello dell’immigrazione e della sicurezza. E come? Non presentandoci come giornale di élite, che si pone su un piedistallo e giudica. Il nostro atteggiamento è: «Ti ascolto lettore e cerco di capire da


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dove nasce il senso di insicurezza che tu provi». E da dove nasce? Da una politica che non ha mai gestito bene la questione dei migranti e non ha fatto mai abbastanza perché non fossero percepiti come una minaccia. La sensazione di insicurezza non è mai stata presa sul serio. Sebbene sia reale e diffusa, nonostante le statistiche dicano che siamo un Paese sicuro. Quindi? Le nostre lettrici, quando le mie parole contraddicono le loro convinzioni, si arrabbiano tantissimo (la sua espressione è ben più colorita, ndr), ci scrivono, ma questo non le fa allontanare dal giornale. Noi non facciamo marcia indietro, però cerchiamo di capire, ci mettiamo in ascolto e dialoghiamo con loro. Altre ci ringraziano perché continuiamo a portare avanti determinate idee anche in un periodo in cui non sono molto popolari. In queste pagine interpello spesso i miei interlocutori sul futuro dei media cartacei. Siamo molto interessati all’argomento tanto che, qualche tempo fa, abbiamo commissionato una ricerca, a uso interno. È emerso che molti lettori sentono il bisogno di uscire dal sovraccarico

di stimoli prodotto dal mondo social e dal web e cominciano a non fidarsi più di niente. Pare che nella carta i lettori cerchino un angolo di quiete e autorevolezza. È un’occasione da cogliere offrendo un’informazione che crei fiducia. Perché accada occorre che, se e quando hai sbagliato, tu lo ammetta, chiedendo scusa al lettore. Cosa che nessun giornale in Italia fa. È un rapporto di fiducia che per noi è stato facile conquistare, perché abbiamo una storia diversa dai quotidiani, non siamo assoggettati a nulla. Per avvicinare il lettore sono fondamentali i contenuti, ma anche il modo di presentarli. Un po’ di dinamismo è necessario. Noi in genere ogni due anni cambiamo la rivista, la sottoponiamo a un accurato restyling. Ma è anche una questione di sostanza, perché ogni due anni si delinea un mondo dell’informazione diverso, si aprono nuove opportunità e canali. Proprio nelle settimane scorse abbiamo chiuso un accordo con Storytel e entriamo nel mondo dei podcast. Insomma, se la carta sembra possa avere margini di riscossa, la rivoluzione digitale non può certo essere arrestata.

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AUTOREVOLEZZA E IMPARZIALITÀ I FATTI, E GLI STRUMENTI PER COMPRENDERLI. L’ANSA DEL XXI SECOLO RACCONTATA DAL SUO DIRETTORE, LUIGI CONTU

© Claudio Onorati

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cendo dalla piazza del Quirinale, lungo via della Dataria, per raggiungere in pochi passi lo storico palazzo dove ha sede l’Ansa, la prima agenzia di stampa italiana. Percorro insieme a Luigi Contu, che ne è direttore da nove anni, alcune severe stanze e corridoi affrescati dove – complice la prossimità al cuore della Repubblica Italiana – si respira un’aura quasi sacrale. Quanto lo può essere la capacità di cogliere e raccontare i fatti nella loro oggettività, quale irrinunciabile presidio di libertà e democrazia. Una sacralità laica, mi siano concessi iperbole e ossimoro, che Contu, seduto in una poltrona del suo studio, ci aiuta a comprendere con un ricordo. «Quando sono stato assunto ero proprio qua e lì (indica la poltrona dietro la sua scrivania, ndr) c’era il professor Lepri, era il 1986. Mi disse una frase che non scorderò mai: “Caro Contu, io non le chiederò mai per chi vota, lei non me lo faccia capire da quello che scrive”. Ecco, questa frase è ancora oggi la stella polare del nostro modo di fare informazione: raccontare i grandi fatti con neutralità e imparzialità, perché non sta a noi esprimere opinioni o giudizi, dire chi ha torto o ragione. Non è facile, perché anche nel modo di raccontare i fatti se ne può orientare l’interpretazione, come nello scegliere la notizia di apertura sul vostro portale ansa.it.

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Il nostro sito lavora post agenzia, ossia riceve le notizie con gli stessi tempi di tutti gli abbonati e testate che pagano l’abbonamento. E le notizie escono quando i fatti accadono, mentre la scelta dell’apertura cerchiamo sempre di farla con oggettività. Oltretutto cambia spesso proprio perché siamo, da sempre, abituati a lavorare con un flusso continuo e con una mentalità digitale. Se andiamo a rileggere la prima notizia pubblicata dall’Ansa, il 15 gennaio 1945, ce ne rendiamo conto: cinque righe, più o meno un tweet, per annunciare il bombardamento degli alleati su Berlino. Mancavano solo gli hashtag. L’Ansa nacque come cooperativa tra i giornali cartacei dell’epoca per aiutare la libera stampa a riprendere il lavoro e contenere i costi. Giusto? Esattamente, dietro input del comando militare alleato e seguendo l’analogo modello americano dell’agenzia di stampa Associated Press (AP). L’Ansa è ancora una cooperativa e ha come soci tutti i gruppi editoriali. Negli anni è cresciuta fino a diventare la quinta agenzia del mondo e coprire il 90% del mercato di carta e digitale e il 100% dei grandi network televisivi. Tutte le radio e i siti sono abbonati e ricevono le nostre notizie. Quindi anche ansa.it riceve le notizie dell’agenzia di stampa… ma senza pagarle e le elabora. Facendo delle scelte, come un’altra qualunque testata online. Certo, le sceglie e le elabora. L’agenzia ha una newsroom che dipende dalla direzione e controlla tutto il traffico delle notizie e lo indirizza verso i vari canali. Il sito, che dipende dall’ufficio centrale, è un portale quasi unico nel

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panorama internazionale delle agenzie di stampa, scritto con i criteri del giornalismo di agenzia, dove non trovi opinioni ma fatti, cronaca e immagini. È vero, ogni tanto qualche politico si lamenta del titolo di apertura, ma le aperture si avvicendano in continuazione, fino a 20 o 30 al giorno. Poi certo, sul peso delle notizie una valutazione la fai sempre, però… Però? Le evidenze ci danno ragione: fonti autorevoli certificano la nostra imparzialità. Per tre anni di seguito il rapporto digitale della Fondazione Reuters, realizzato dall’Università di Oxford con un sondaggio rappresentativo dell’intera audience di notizie in tutti i paesi del mondo (Reuters Institute Digital News Report) ha decretato il portale ansa.it come il media digitale più attendibile del Paese. Un legittimo motivo di orgoglio, no? Sì, anche perché viviamo in un mondo di tifosi: nel giornalismo, nell’informazione, nella cultura e nell’economia è tutto uno straparlare. È un derby continuo di dati, su tutto c’è una contesa politica. Noi la riportiamo, ma senza attaccarci al treno delle polemiche. In alcuni casi questo può essere una debolezza visto che il giornalismo di opinione è forte e può essere anche autorevole. Io la considero una virtù quasi sacrale, perché una debolezza? Perché se cerchi conferme a una tua tesi non vieni da noi, ti indirizzi su altri media. E perdi click... Ma perderesti anche quella neutralità che è il nostro faro. Quindi, senza essere faziosi né blan-


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dire l’internauta, come si guadagnano i click? Con l’autorevolezza, la professionalità, l’approfondimento. L’Ansa è il primo sito di riferimento per le grandi notizie, l’opinione pubblica ha capito che noi siamo la prima fonte per tutti e che, in genere, abbiamo le notizie certificate prima di tutti. I numeri vi danno ragione, mi pare. Siamo a 30 milioni di utenti unici al mese, abbiamo più di quattro milioni di follower sui social e questo ci ha consentito di essere competitivi anche nell’era dell’informazione digitale. Tuttavia per rapidità i social vi hanno fatto perdere la centralità di un tempo... Ma la recuperi certificando innanzitutto i contenuti, e poi con la capacità di fornire le informazioni necessarie per comprenderli. Ai miei chiedo di arrivare primi, perché siamo l’Ansa, abbiamo una presenza massiccia sul territorio in Italia e una rete importante all’estero: le fonti ci chiamano, si fidano, siamo i primi a scattare, sempre operativi. Ma non per questo abbiamo cambiato i nostri processi di verifica, non ci siamo fatti trascinare dalla gara imposta dai social di scrivere tutto e subito. Preferisco non avere una notizia o darla mezz’ora dopo, ma esatta e precisa. Comunque il rapido tweet ante litteram del bombardamento di Berlino non basta più, offrite anche l’approfondimento… Infatti il nostro lavoro è diventato molto più complesso. Oggi non ci limitiamo più a dare le top news, ma offriamo ai nostri abbonati una serie di elementi di conoscenza la cui ricerca richiede abilità e professionalità. Il video della

nave da crociera che va a sbattere sulla banchina di Venezia è una testimonianza importante, diventata virale in poco tempo, un video emozionale, ma è più intrattenimento che informazione. Noi in due ore intorno alla vicenda abbiamo creato dieci contenuti di approfondimento, perché si comprendessero gli antefatti, le disposizioni sulla navigazione, i confronti in corso tra amministratori locali e Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. E non dimentichiamo la ricerca della notizia, l’inchiesta: grazie alla bravura dei nostri colleghi abbiamo svelato l’identità del terzo uomo presente alla cena del Metropol di Mosca (il riferimento è alla vicenda dei presunti finanziamenti russi alla Lega, esplosa a luglio, ndr). Uno scoop finito su tutti i siti, le tv e i giornali. Ogni giorno abbiamo notizie in esclusiva perché non ci accontentiamo dell’informazione ufficiale o da comunicato: andiamo nei posti, leggiamo i documenti, cerchiamo indiscrezioni. È un lavoro che richiede giornalisti in gamba, quantunque la categoria sia bistrattata... Eppure l’attendibilità e il valore dell’informazione passano proprio da qui, dalla nostra professionalità, e non soltanto dall’imparzialità, che pure è nel nostro Dna e nel nostro Statuto insieme a completezza e pluralismo, come dimostriamo cercando di dare sempre voce a tutti, ai piccoli partiti, alle associazioni. Per noi resta fondamentale la possibilità di formare i colleghi, di farli crescere e specializzare. Se siamo riusciti a dare in esclusiva una delle notizie più importanti da quando sono direttore, le dimissioni di papa Benedetto XVI, è perché una delle colleghe

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del pool di giornalisti vaticanisti che segue costantemente il Papa, conoscitrice del latino, è stata la prima e unica a tradurre l’intervento del Pontefice nel concistoro, e a comunicare la sua clamorosa decisione. Questo per dire che dietro le notizie ci sono investimenti, tempo, cultura, fatica e responsabilità. E aggiungo anche un’etica: rispetto delle persone, preparazione, consapevolezza delle regole deontologiche. Non ci sarà mai un algoritmo in grado di tenere insieme tutte queste qualità. Con questo patrimonio professionale e gli strumenti di cui dispone, l’Ansa può diventare una media company. In effetti lo è già. Da un anno ogni sera abbiamo un gruppo di giornalisti che entrano direttamente nei sistemi editoriali di dieci testate locali, dall’Eco di Bergamo alla Provincia di Como, dall’Adige all’Arena di Verona, dal Centro alla Nuova Sardegna, fornendo chiavi in mano le pagine dedicate ai temi nazionali. Sul versante video possiamo crescere ancora, ma stiamo già facendo numeri importantissimi di streaming. Abbiamo avuto tutti i leader politici in diretta, a partire dal Presidente del Consiglio, con centinaia di migliaia di persone che ci hanno seguito. E poi, libri, mostre, eventi. Si deve innovare per resistere ai tempi della crisi. Da raccogliere notizie e diffonderle siete passati a produrle. Una trasformazione genetica... Comunque resta immutata la centralità dell’agenzia, perché per raccoglierle, le notizie, bisogna esserci, sul territorio nazionale e all’estero. Noi siamo gli unici in Italia ad avere redazioni in tutte le regioni e collaboratori nelle provincie. La Rai ha una rete simile, anche

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più grande, ma lavora per se stessa. Noi da Trento a Lampedusa abbiamo sempre persone che possono portare la notizia locale al circuito nazionale e internazionale, perché tradotta e letta dai corrispondenti della stampa estera in Italia. Così una news come quella del dipinto del 1100 ritrovato a Roma, diffusa da noi, finisce poi sui giornali di tutto il mondo. All’estero quanti corrispondenti avete? Tra redattori e collaboratori sono più di 50, e ci danno informazioni catturate con occhi italiani. Che vuol dire? Ci sono grandi agenzie internazionali con cui potersi abbonare, mettere tre persone in una stanza a leggere i lanci, tradurli e fare un notiziario. Ma oggi i marò ancora reclusi in India chi li seguirebbe? Nessuno. Chi potrebbe porre la necessaria sensibilità, se non un occhio italiano, alle vicende che coinvolgono l’Eni, l’Alitalia o altre nostre aziende all’estero? Su queste non avremmo una riga, sono fatti che per AP o Reuters neanche esistono. Quando un’impresa italiana, un esponente del governo o magari un’artista vanno all’estero, l’Ansa è presente. Insomma l’Ansa fa da sé. Ma no, abbiamo accordi di collaborazione e scambio di contenuti con tantissime agenzie del mondo, dalle più grandi a quelle di Paesi più piccoli che ci consentono una copertura globale, continua. Insomma, qui a Roma gestiamo un immenso flusso di informazioni, provenienti dalle sedi regionali e dall’estero, le confezioniamo e veicoliamo, corredate da foto e video, nei mille rivoli di una domanda di informazione


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crescente, anche settoriale e specializzata. Le notizie che riguardano l’Italia nel mondo arrivano da noi, e arrivano anche in Cina dove grazie a una intesa con Xinhua i nostri contenuti sono letti da milioni di cinesi nella loro lingua. Ad ascoltarti, il giornalismo non sembra affatto essere in crisi. Non lo è: anzi, nell’epoca delle fake

news e nella confusione di fonti in rete il giornalismo di qualità, attendibile e professionale avrà sempre più spazio per la tenuta della democrazia. L’opinione pubblica lo sta capendo. In crisi è il modello di business, messo in ginocchio dai grandi operatori del web che non pagano i contenuti. Ma questa è un’altra storia...

Update “La pandemia da Coronavirus Covid-19 ha ancora di più esaltato il ruolo del sito dell’Ansa come certificatore delle notizie”, spiega il direttore Luigi Contu. I numeri del portale online dell’agenzia sono cresciuti, superando i 50 milioni di utenti unici. L’Ansa, durante i mesi di pandemia, ha anche organizzato e realizzato forum in streaming per discutere, riflettere e fare il punto sull’emergenza Covid-19. “Forum che hanno raggiunto più di trecentomila utenti in un giorno”, racconta Contu. Nota dei curatori

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EQUILIBRIO E PLURALISMO IL GIORNALISMO D’AGENZIA, IL GIORNALISMO TOUT COURT. LA FRECCIA INCONTRA MARIO SECHI, DIRETTORE DELL’AGI

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na bella signora con 70 anni di storia». Esordisce così Mario Sechi, rispondendo alla mia domanda rompighiaccio: cos’è l’Agi? La Freccia lo ha incontrato poche settimane dopo che i vertici di Eni, editore e proprietario di Agi, lo hanno chiamato alla guida della seconda – per dimensioni – agenzia di stampa italiana. Reputandolo il marito ideale, seppur molto più giovane, di questa bella signora. Ma Sechi era già uno di famiglia. Dal 2013 è alla guida di Oil, trasformato in WE_World Energy, una rivista in più lingue di geopolitica dell’energia. Poi, con Marco Bardazzi, capo della comunicazione di Eni, ha creato un nuovo progetto editoriale, Orizzonti - Idee dalla Val d’Agri, dedicato al comprensorio lucano nel cui sottosuolo si trova il più grande giacimento europeo di petrolio e gas. Nell’ultimo editoriale scrive qualcosa che suona come un monito a questo Paese in perenne e irrisolta ricerca di equilibrio e stabilità. «Gli investimenti arrivano dove c’è certezza delle norme. La politica gioca un ruolo di primo piano nella creazione delle condizioni per immaginare prima e fare poi». Sechi, classe 1968, è giornalista di lungo corso, dal Giornale a Libero, dall’Indipendente a Panorama, dall’Unione Sarda al Tempo, di cui è stato direttore dal 2010 al 2013. E dal 2017 cura, insieme alla spagnola Maite Carpio, List, uno

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spazio multimediale che lui stesso ha fondato e che – come recita l’home page - “pubblica notizie esclusive, contenuti originali, ha una visione a 360 gradi dei fatti del mondo, unisce i puntini, ricostruisce il puzzle, mette ordine nel caos delle news, disegna lo scenario”. Quanto basta per fare, dell’arguto e loquace Sechi, anche un noto commentatore politico televisivo, acuto osservatore degli scenari nazionali e internazionali. Da direttore di Agi intraprende una nuova e appassionante avventura professionale. Qual è il tuo programma e quali sono gli obiettivi che ti poni? Buon giornalismo e ricavi, il mio programma è molto semplice, niente di esoterico, nessun fuoco di artificio. E come si ottengono l’uno e gli altri? Il primo si ottiene con l’equilibrio e il pluralismo, che è dato dal numero di lanci che dedichi a tutti i soggetti dello spettro politico, quindi dall’apertura che l’agenzia ha verso tutte le opinioni e visioni del mondo. Ovviamente non si pubblica tutto, ma solo ciò che si ritiene importante, come ricorda il motto del New York Times: “All the News That’s

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Fit to Print”. Qui entra in gioco la funzione di mediazione e scelta del giornalista e del direttore, che nessun algoritmo potrà sostituire. Qualcuno potrà dire che è un punto di vista, certamente, e va rivendicato, perché è l’intelligenza umana applicata alla selezione dei fatti che veramente conta ed è capace di produrre una gerarchia, un racconto e un linguaggio adeguati. C’è un lavoro certosino dietro ogni lancio di agenzia, perché buon giornalismo significa anche velocità unita ad accuratezza e verifica delle fonti. E i ricavi? Per aumentarli bisogna fare un’operazione di diversificazione delle fonti di ricavo, di potenziamento delle news, conferendo appeal al prodotto. I ricavi possono arrivare anche da progetti speciali di comunicazione, in quella prospettiva di evoluzione che contraddistingue un po’ tutte le agenzie di stampa che puntano ad affiancare altre attività al loro marchio. Nel caso di Agi quali sono? Premetto che l’attività tipica resta il giornalismo. Anche perché, cosa sarebbero Reuters, Associated Press e la stessa Agi se non ci fossero i giornalisti? Comunque nel corso degli ultimi mesi Agi ha acquisito il controllo di una società che opera sempre nell’ambito editoriale, fa tecnologia e si chiama D-Share. È presente in quasi tutti i gruppi editoriali italiani, e non solo, con una sua efficace piattaforma, un sistema, denominato Kolumbus, per creare e distribuire contenuti digitali per i giornali. Un software che ha sotto un know-how molto importante dal punto di vista dell’esperienza umana, la cosiddetta user experience. D-Share è stata fondata da Alessandro Vento (ex manager di RCS, ndr) ed è un’acquisizione portata a termine da Salvatore Ippolito, il nostro Ad, e da Riccardo Luna, che mi ha preceduto in questo ruolo. C’è poi un’altra divisione della società, Agi


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Factory, che offre invece prodotti di comunicazione per le imprese. Sono due attività che si affiancano al prodotto tipicamente giornalistico e fanno di Agi una società di contenuti, una media company. Torniamo al giornalismo. Spira ormai da anni un’aria di crisi per i media più tradizionali, in questa rubrica ne parliamo spesso, e talvolta per conquistare lettori e contatti si cede a compromessi o a scelte discutibili. È frutto dell’avvento di internet, ed è il paradosso di internet. Un grandissimo fenomeno di apertura, universalizzazione e rivoluzione nella storia dell’umanità, ma anche l’occasione di un abbassamento incredibile dell’autorevolezza e del sapere, soprattutto quando sono esplosi i social network. Oggi assistiamo a un dibattito pubblico impoverito dal web, siamo precipitati in una mediocrazia e i social network ne sono in gran parte responsabili. Questo però significa anche che le agenzie hanno un grande futuro e il giornalismo vive un momento eccezionale. Penso che sia in crisi il modello di business, ma che non sia affatto in crisi il giornalismo. Questo bisogno di buon giornalismo, che condivido in pieno, non sembra però molto avvertito dal grande pubblico… Alla base c’è un problema di educazione civica, di formazione scolastica. C’è un problema di sapere complessivo e un fraintendimento, perché in tanti pensano che tutto sia informazione e che tutti possano fare i giornalisti. È sbagliato. Come lo è confondere la comunicazione con il giornalismo, due cose nettamente diverse. Il giornalismo è hard e anche soft news, ma offerto con estrema cura e l’interesse principale è quello del lettore e del giornalista verso il suo lettore, nel nostro caso clienti e abbonati. È vero, giornalismo e comunicazione vanno in parallelo in moltissime aziende, ma va preservata la

funzione giornalistica. Su questo sono molto categorico, il giornalismo va difeso da tutto e da tutti. Ad attaccarlo sono i new media, sembra che per fare cronaca oggi basti un buon smartphone. Ma non è così. Non basta avere una videocamera per essere un buon videogiornalista o una macchina fotografica per essere un grande fotoreporter. Non tutti sono o diventeranno mai Robert Capa, Henri Cartier-Bresson o Ernest Hemingway. L’eccellenza, il sapere e il mestiere sono fondamentali. Se mi dici che c’è poco rispetto di questo sapere nel mondo contemporaneo, ti dico di sì. Ma bisogna farsi rispettare… Questo scarso rispetto è una componente di una più generalizzata avversione alle élite considerate detentrici di ingiusti privilegi. E i giornalisti ne farebbero parte… Ma le élite sono necessarie, non esiste governo delle cose umane e, naturalmente, neanche delle aziende, senza élite. L’élite è connaturata all’esistenza dell’uomo, quindi in realtà quello a cui stiamo assistendo oggi prefigura ed è la lotta di una élite che tenta di farsi e sostituirsi a un’altra. Un puro paradosso. E il giornalista in tutto questo cosa può e deve fare? Continuare a fare il giornalista e tenere la schiena dritta. C’è chi pensa che la schiena dritta si abbia solo se si parteggia per una parte o per l’altra. Non si parteggia per nessuna delle due, si possono avere naturalmente le proprie idee, ma si deve essere plurali. Nelle redazioni mainstream, invece, si confonde spesso la propria idea, la propria parte e il proprio desiderio con il fatto. E forse è anche questo che in molti contestano ai giornali, quello di essere schierati e funzionali a una fazione politica, o agli interessi di lobby potenti.

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È innegabile che i quotidiani abbiano oggi bisogno di una forte identità. È chiaro che abbiano un punto di vista molto tagliato. Che La Repubblica come La Verità o Il Corriere portino avanti le loro sacrosante battaglie e idee. Ne hanno diritto, è necessario e, aggiungo, è un bene che abbiano una loro marcata identità. Noi facciamo un altro mestiere e siamo al loro servizio. L’identità delle agenzie, lo ripeto, è quella di essere aperte, di dare i giusti spazi a tutte le posizioni possibili. Avere per editore un’azienda come l’Eni non vi pone limiti in questo? Tutt’altro, essendo un’azienda con una grandissima cultura, una multinazionale, è un vantaggio. Perché capiscono la dimensione particolare dei problemi del giornalismo. Torniamo a parlare dell’agenzia: come siete strutturati sul territorio? Abbiamo sedi in tutte le regioni italiane, una a Bruxelles e una a Houston. Abbiamo 72 giornalisti più tutti i collaboratori, insomma una macchina importante con una redazione fantastica, ci tengo davvero a dirlo, perché ho trovato giornalisti davvero bravi, entusiasti del loro lavoro che mi hanno riservato una grande accoglienza e offerto da subito la massima collaborazione. Ottime premesse per realizzare i tuoi progetti, buon giornalismo e più ricavi… Certo. Già in queste prime settimane abbiamo lavorato molto al notiziario e interverremo presto anche sul sito. L’impronta nuova è la velocità e lo scoop. Velocità che non può essere a discapito dell’accuratezza. Anche la scomposizione della notizia è importante, come la scelta dei tempi e il modo di lanciarla, con flash soltanto su news importanti. Questo aiuta lettori e abbonati a capire quello che più

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conta. Curiamo molto anche i titoli della giornata che proponiamo in più edizioni, una ogni due ore. Sto lavorando al sito, che sarà un sito di agenzia e non un giornale. Procediamo spediti sulla via della digitalizzazione. Perché il fatto che io esalti la tradizione non significa che non voglia digitalizzare, tutt’altro. Quando io mi occupavo di modem e digitale eravamo in pochi a farlo. Ho avuto la fortuna di lavorare nel Gruppo Unione Sarda, che è stato pioniere dell’era di internet. A tal proposito, la rivoluzione digitale come ha modificato il lavoro giornalistico nelle agenzie di stampa? Lo ha trasformato profondamente. Basti pensare che un tempo si facevano i cable con le telescriventi, mentre oggi l’intensità e la velocità delle trasmissioni sono incrementate enormemente. Come un forte impulso si è avuto anche sul fronte dello spezzettamento delle notizie, che sono più numerose. Oggi sono oltre mille i lanci giornalieri di Agi e cresceranno ancora, però… Però? Non deve mai venire meno l’attenzione al prodotto. Non mi piacciono gli errori, le sbavature. Occorre essere tempestivi, precisi, equilibrati. Per questo punto a controllare tutto. Un bell’impegno… Fare il direttore di un’agenzia non è un mestiere consigliabile a chi non ha tempra. Bisogna alzarsi molto presto, andare avanti 12, 14 ore al giorno. Però tutto dipende da come interpreti questo ruolo. Se ti dedichi soprattutto alle relazioni puoi fare una vita anche molto più tranquilla, non dico serena soltanto perché l’aggettivo non porta molto bene. Ma io non sono così. Devo e sento il bisogno di fare il giornalista. È l’unico modo per po-


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ter lasciare un buon ricordo professionale quando, arrivato a un certo punto, smetterò, perché non ho certo l’ambizione di essere eterno.

E dopo? Tornerò in Sardegna a scrivere, libri, cose mie, che è quello che mi interessa e appassiona di più.

Update La sabbia scorre nella clessidra, più di un anno dopo questa intervista il 2020 è entrato in scena con uno shock, la pandemia. Una crisi globale che stiamo vivendo come un’occasione per accelerare il piano editoriale di Agi. Per noi è una grande prova. È arrivato un nuovo Amministratore delegato, Giuseppe Macchia (25 anni all’Eni, il creatore della start-up Enjoy, un manager solido, creativo, positivo), lavoriamo fianco a fianco per rafforzare Agi, mantenere alto il mestiere del giornalismo e rinnovarlo. È un lavoro straordinario in tempi straordinari e abbiamo il totale sostegno dell’azionista: la presidente di Eni, Lucia Calvosa, è anche al vertice del consiglio d’amministrazione di Agi, un segno importante e un contributo di esperienza per tutti noi fondamentale. C’è passione, fiducia concreta, competenza manageriale, stima e rispetto, la consapevolezza di quanto sia importante il giornalismo, questo per me rappresenta un continuo stimolo a dare il massimo ogni giorno. Il numero dei lanci di Agi ha avuto un andamento esponenziale, al di là di ogni previsione, è il frutto di una riorganizzazione del lavoro giornalistico, siamo solo all’inizio di un cambiamento profondo. Abbiamo un nuovo sito, Agi.it è uno dei migliori esempi di newsdesign, informazione equilibrata, al servizio del lettore. I risultati sono più che buoni, ma in questo settore quello che conta è l’eccellenza, dunque il lavoro non è finito, è solo il primo passo di un nuovo inizio. Sbarcheranno in rete nuovi prodotti editoriali, abbiamo realizzato una sala multimedia che è un gioiello di tecnologia e design, la mia missione americana per seguire le elezioni presidenziali è il modello, il giornalista che produce format diversi, testo, audio, video. Nessuna teoria, test sul campo, numeri, funziona. E conferma, ancora una volta, che “the content is the king”. Il 2021 sarà un anno compresso, intenso e accelerato, il contesto economico sarà migliore, quando arriverà il vaccino per il coronavirus ci sarà una forte ripresa dell’economia, ma non per tutti, il “new normal” non è un ritorno al passato. Entreremo in una nuova fase storica, ne vediamo già il bagliore, basta dare un’occhiata alla mappa della geopolitica, ci saranno investimenti massicci in settori chiave, energia, reti, infrastrutture, digitale, l’editoria è destinata a seguire questi processi inesorabili e accelerare il cambiamento, dobbiamo cavalcare la tigre. Mario Sechi

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INFORMARE È FARE OPINIONE

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onna, 34 anni, dal 1° agosto direttrice di un quotidiano con 160 anni di storia, com’è La Nazione di Firenze. Testata del Gruppo Monrif, affratellata al Resto del Carlino e al Giorno nel network nazionale di QN. È Agnese Pini. Di lei si è detto e scritto già molto. In Italia una nomina come la sua non poteva che destare attenzione e curiosità. Hanno presto iniziato anche a chiamarla in tv, nei talk show politici. In quelle trasmissioni all’estero di scarso successo, ma che da noi conquistano ancora una discreta audience, catturata dall’aspro confronto tra punti di vista dialettici, con i giornalisti della carta stampata a farla da protagonisti. In molti, oltre ad abbinare un volto a un nome, hanno potuto così apprezzare la sua lucidità e freschezza intellettuale, la sua chiarezza espositiva, le sue opinioni. Svincolate da sovrastrutture, retaggi e dietrologie da Prima Repubblica e, soprattutto, post-ideologiche per anagrafe e cultura. Sono proprio le opinioni, secondo il Pini pensiero, che il lettore cerca in un giornale e chiede a un giornalista. Non soltanto, quindi, nel piccolo schermo. «L’informazione è nata per fare opinione. E il gior-

Mori - Moggi/New Press Photo

LA FRECCIA INCONTRA AGNESE PINI, DIRETTRICE DE LA NAZIONE

Agnese Pini

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La Nazione, 2 agosto 2019. Il primo numero diretto da Agnese Pini

nale, storicamente, nasce proprio per rispondere a questo bisogno umano, dare un servizio, offrire un punto di vista, contribuire a fare scelte e prendere decisioni». Soltanto che oggi, con l’avvento dei social, sono in tanti a esibire le proprie opinioni e, pur senza averne competenza, a brandirle come verità inconfutabili. Sì, ma non dobbiamo essere troppo cattivi con il nostro pubblico e le persone in generale. Non tutte sono così sciocche e ignoranti da lasciarsi sedurre dalle scie chimiche o dai terrapiattisti. Certo, qualcuno c’è, come c’era prima chi credeva nei maghi e nelle streghe. Soltanto che oggi è tutto più pervasivo: i social network, con un click, ti consentono di raggiungere in

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tempo reale un’enorme moltitudine di persone. Così la questione si ingigantisce e la situazione appare peggiore di prima. Dall’ignoranza la difesa resta sempre la stessa: istruzione e cultura. Si parla invece di analfabetismo di ritorno, di una scuola che non assolve più ai suoi compiti, che ha perso autorevolezza. È un tema a cui sono particolarmente sensibile e che trova qui a Firenze una tradizione forte, con un preciso riferimento a Don Milani. Non a caso tra le prime novità che ho introdotto nel giornale c’è una rubrica, in uscita il lunedì sugli spazi regionali, dal titolo Lettere da una professoressa, che echeggia quello del famoso libro del prete di Barbiana. Oggi gli insegnanti si trovano spesso a essere i detentori di un sapere punitivo, bistrattati in scuole che non hanno servizi adeguati. Così abbiamo chiesto ai professori del territorio di darci un loro contributo da mettere sulla carta e poter commentare online. La rubrica è nuova, ma funziona, si sta aprendo un dibattito. Tornando al mondo dei media e dell’informazione, abbiamo visto come il giornalismo debba confrontarsi con testimoni oculari che postano le foto di eventi di cronaca, con politici che fanno le dirette facebook, twittano il loro pensiero. È un tasto molto delicato quello della disintermediazione. E spesso i giornali sono come travolti da questa follia, tanto da rincorrere i social ed echeggiarne i contenuti, abdicando al loro ruolo di creare un’opinione nel lettore e di farlo con autorevolezza. Al lettore devi però offrire chiavi di lettura, strumenti adeguati.


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Certo. Questa cosa l’ho sentita e vissuta sulla mia pelle. Decisi di fare la giornalista proprio 18 anni fa, dopo l’attentato dell’11 settembre. Il crollo delle torri gemelle mi aveva scioccata, il trauma era planetario. Ecco, allora sentii il desiderio di leggere qualcosa su quello che stava succedendo. Le mie certezze erano venute meno: i buoni e cattivi dell’infanzia e dell’adolescenza non c’erano più. Di chi era la colpa? Del capitalismo, dei terroristi, degli islamisti, degli americani che aprivano McDonald’s dove non dovevano? Cercavi risposte… E così comprai il mio primo giornale, il Corriere della Sera, che fece un’operazione straordinaria. Iniziò a ospitare nomi incredibili del giornalismo: Oriana Fallaci, Tiziano Terzani, Dacia Maraini, Enzo Biagi. Punti di vista e interpretazioni diverse che però mi aiutavano a capire, a farmi un’opinione. Di fronte a quel dramma e in quel contesto non era facile, qualcuno non ce l’ha neppure oggi… E infatti quando lessi la Fallaci sposai le sue tesi, il giorno dopo scrisse Terzani, che la pensava all’opposto, e sentivo che aveva ragione anche lui. Però è proprio lì che ho capito l’importanza dell’opinione, e ho cominciato a leggere i giornali, i libri e guardare gli approfondimenti in tv. Offrire un preciso punto di vista, l’hai appena ricordato, significa schierarsi. Ma le persone hanno bisogno di riconoscersi in qualcosa. I giornali devono essere connotati, l’idea del giornale asettico, che fa solo informazione, non corrisponde davvero al bisogno dei lettori. Detto ciò, non c’è dubbio che l’informazione debba essere corretta

e veritiera, ma non un semplice specchio, come vorrebbe certa tradizione anglosassone. Come vive la giornalista e direttrice Pini questo compito non facile di schierarsi e connotarsi? Con la consapevolezza che farlo richiede grande rigore morale e un altrettanto grande esercizio intellettuale. Su La Nazione è tradizione che il direttore ogni domenica pubblichi un suo commento, un suo editoriale. Ecco, tutte le volte che mi accingo a scriverlo ho molta ansia, perché avere un’opinione vera e sentita su qualsiasi argomento è una responsabilità incredibile. Che, tornando ai social e senza volerli demonizzare, non trovi in quel mondo. Però uno dei motivi del loro successo è proprio quello di essere vetrine di opinioni. E, ribadisco, concorrenti spietati dei media tradizionali, fornitori di notizie in real time. Anche per questo l’informazione non può essere più una rincorsa di qualcosa che è già di dominio pubblico, pena la condanna all’estinzione dei giornali. Ormai è sparito il timore di svegliarsi la mattina e scoprire che un altro giornale ha in pagina una notizia che tu non hai. La fame del lettore, oggi più di ieri, è capire le cose, non saperle. E occorre riuscire a raccontarle in maniera efficace sapendo offrire i necessari spunti di riflessione. Sono finiti anche i tempi in cui i giornali, soprattutto locali, aumentavano le vendite con i fatti di nera? Certo. Dieci o 15 anni fa l’incidente mortale strillato in locandina ti faceva vendere tante copie in più, oggi no. Però, vediamo i flussi online e sul web,

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quella notizia è ancora cercata e letta moltissimo. Significa che i gusti del lettore non sono cambiati, ma quella domanda viene soddisfatta su un’altra piattaforma e non più sulla carta. Dove il lettore chiede altro. Tutto ciò impone un’integrazione tra le redazioni, l’acquisizione di nuove tecnicalità rispetto a fare il quotidiano tradizionale. La Nazione è il sesto giornale in Italia per vendite in edicola. Insomma, vendiamo bene, abbiamo lettori fedeli, ma dobbiamo recuperare sul web. Quello che mi propongo è eliminare le ultime resistenze di chi pensa che internet sia un corpo estraneo alla carta. Marciamo sullo stesso binario ma dobbiamo offrire prodotti diversi per un pubblico differente. Bisogna calibrarsi su questa diversa domanda. È un percorso già avviato dai miei predecessori, dobbiamo però proseguirlo con sempre maggiore convinzione. Trasformazioni in vista, quindi… Viviamo in un’epoca di trasformazione. I giornali che siamo abituati a vedere e a toccare, pensati e strutturati più o meno come lo erano un secolo fa, non potranno più essere così, neanche nella loro organizzazione. Occorre un cambio di passo, un’evoluzione nel modo di vivere la professione, a cominciare da come la vivono i giornalisti della carta stampata. Lo impone internet. E il web è già il passato. Ormai la gente utilizza lo smartphone, l’iPad, i device mobili. Il digitale è un processo sempre più inarrestabile. Prima per navigare dovevo avere un filo, il modem da attaccare, cinque minuti di attesa.

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Lì la carta ancora vinceva. Oggi con lo smartphone ho tutto con me, in ogni momento della giornata, e il suo uso è facile e intuitivo, accessibile a bambini e anziani. È diventato una sorta di propaggine della mano. È il supporto e il suo linguaggio che vincono. Tornando in Toscana, in Umbria e in Liguria, i vostri territori, e al ruolo di un quotidiano di vicinanza, se oggi la cronaca tira meno, oltre a offrire opinioni, cosa può smuovere le vendite? Gli approfondimenti. Per esempio sull’economia, su come gestire i risparmi, su come andare in pensione. Oppure gli argomenti di servizio, come cambia la mappa del traffico stradale in città da qui ai prossimi mesi per i cantieri. E poi il confronto, l’interazione con i lettori. Invito i miei giornalisti, anche quelli delle redazioni locali che sento ogni giorno in videoconferenza, a scrivere quel che pensano, prendere posizione, accendere un dibattito. Puoi farci un esempio? Abbiamo inaugurato una doppia pagina d’inchiesta su temi trasversali in uscita una volta a settimana. Io chiedo ai miei giornalisti di metterci la faccia. Credo molto nella necessità di diminuire la distanza tra chi legge e chi scrive. I lettori trovano una loro foto, un numero Whatsapp e i loro indirizzi e-mail per inviare commenti e spunti per nuove inchieste. Chiediamo anche di sottoporci problemi o denunciare situazioni di degrado, pubblichiamo le foto e ci mettiamo in contatto con chi può risolverli. Funziona? La partecipazione arriva? Eccome. Faccio un altro esempio. Qualche domenica fa si è formata una coda molto lunga in A12 per un incidente. Abbiamo scorporato la cronaca nera


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da quella di servizio, per evitare fraintendimenti, e chiesto ai lettori di mandarci foto e segnalazioni in tempo reale. Siamo stati invasi da video, messaggi, foto, commenti di chi si trovava in coda. È stata una risposta che mi ha colpito perché veramente ampia e immediata. Anche vedersi in una foto pubblicata sul giornale o sul web risponde a una domanda forte, e non nuova, che incentiva la fruizione dei media… Ma, in generale, è la domanda di informazione che è cresciuta e cresce. La carta stampata sta vivendo una crisi inevitabile per la concorrenza delle altre piattaforme. Un po’ com’è stato con il vinile o i cd per la musica. Non si vendono più o li acquistano solo alcuni appassionati, ma la gente ascolta più musica di una volta. E così si informa più di prima perché può farlo ogni secondo della giornata con una facilità estrema e, quasi sempre, gratis. Quindi non è il giornalismo in crisi ma

semmai il modello di business? Certo, quello su cui siamo vulnerabili è che siamo in gran parte noi a riempire di contenuti di qualità il web, ma in maniera quasi gratuita e facendo guadagnare altri. Però qui il problema si fa politico e deve essere affrontato a livello sovranazionale. Web, digitale, device mobili…ma anche le radici sono fondamentali. Un giornale come il nostro è tradizione, a Firenze è un’istituzione, lo stesso vale un po’ in tutta la Toscana, in Umbria, a La Spezia. È sempre commovente vedere con quanta attenzione il giornale viene sfogliato e letto. Se siamo il sesto giornale in edicola è anche perché possiamo contare su questo zoccolo duro di lettori affezionati. Per questo sulla cronaca locale avremo ancora lunga vita e una bella strada davanti a noi. Che La Freccia, augura ad Agnese di percorrere, da direttrice, con successo e soddisfazione.

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«O TI SPIAZZA E TI FA REAGIRE O NON SERVE A NIENTE» LE QUALITÀ DI UN GIORNALE E DELL’INFORMAZIONE OGGI, SECONDO CLAUDIO CERASA, DIRETTORE DEL FOGLIO

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aggiungo la redazione del Foglio, nella centralissima via del Tritone, in una di quelle splendide giornate autunnali che Roma regala per mitigare la nostalgia dell’estate e illuderti che non sia finita. Incontro Claudio Cerasa nel suo ufficio, al secondo piano del palazzo della Sorgente Group, la società proprietaria della testata fondata nel 1996 da Giuliano Ferrara, oggi presidente della cooperativa di giornalisti che la gestisce. Claudio Cerasa diventa direttore del Foglio a 32 anni, nel gennaio del 2015, dopo esserne stato caporedattore. Com’è ormai consuetudine per molti direttori, è diventato anche un opinionista politico ben conosciuto dal pubblico dei talk televisivi. Grazie a quella fortunata contaminazione transmediale, di cui abbiamo scritto altre volte, che fa perno su un perdurante coinvolgimento passionale sprigionato dall’agone politico, nonostante le disillusioni e i sussulti anti-establishment. Cerasa è incisivo, asciutto, diretto, pragmatico. Il nostro breve ma denso incontro, incastonato tra i suoi mille impegni, ne è conferma. Il Foglio, fin dalla sua nascita, è stato

Claudio Cerasa

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Il Foglio, 18 ottobre 2019

un giornale sui generis. A cominciare dall’aspetto: caratteri minuti, interlinea stretta, colonne piene. Ecco, oggi che la disabitudine alla lettura va di pari passo con la contrazione dei tempi di attenzione tutto questo funziona ancora? Intanto, se parliamo di giornale cartaceo, i suoi articoli devono essere potenzialmente ritagliabili. Insomma devono indurti a conservarli, a metterli da parte. Se un giornale funziona devi sentire il bisogno di strapparne una pagina. Se me lo dici significa che in tanti ritagliano articoli del Foglio. Quindi non conta la lunghezza, quanto piuttosto il contenuto? Ma sì. Abbiamo la riprova sul web, dove vediamo che gli articoli lunghi sono letti esattamente come quelli corti. Sia sul

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telefonino sia sui computer. I formati restano essenzialmente due. Quelli più corti servono per darti un’idea, raccontarti un fatto, offrirti una rapida interpretazione del mondo. Ecco, sono un po’ come lo schiocco delle dita che richiama la tua attenzione. Poi ci sono quelli che invece ti accompagnano in una lettura necessariamente più lunga perché quel tema lo approfondiscono. E tu, lettore, vuoi sapere tutto di quel tema lì. E certo non ti lasci impaurire dal tempo necessario. La crisi dell’editoria tradizionale e dei giornali cartacei appare irreversibile. Quel modello di business non funziona più. Quali sono le alternative? Comprare un quotidiano in edicola è diventato per molti un lusso. Ma non è una questione da dirimere, è come la forza di gravità. A qualcuno capita di più, ad altri di meno, ma sta succedendo. Paradossalmente i grandi giornali possono solo calare, mentre i piccoli possono ancora crescere, e molto. Insomma, tutto questo non vuol dire che i giornali debbano sparire. Forse è il momento più eccitante per immaginarsi nuovi prodotti e nuovi contenuti, cercando di utilizzare questa fase di distruzione delle vecchie modalità di giornalismo per crearne di nuove. Ecco, siamo di fronte a una distruzione creatrice, come ci insegna il modello schumpeteriano. Ossia la cosiddetta burrasca di Schumpeter, dal nome dell’economista del secolo scorso, che comprende quei cambiamenti repentini introdotti dalla tecnologia. Come quando il vinile ha lasciato il posto alla musicassetta, che lo ha ceduto poi al cd, poi al lettore mp3 e dopo allo streaming…ma la musica comunque resta. Anche il gior-


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nalismo, quindi, resisterà. Ma in quali forme e modalità? Da qui in poi dobbiamo pensare a una testata giornalistica come a una specie di hub. Diciamo a una stazione, usando una metafora ferroviaria. Una stazione da cui partono tantissimi treni diversi che vanno in mille direzioni. La sfida è riuscire a inventarsi nuovi modi di creare contenuti, utili per essere poi acquistati nei modi più vari. Oggi anche la terminologia “il giornale” è quindi sbagliata. Perché il giornale è solo una parte del tutto, è un binario. Gli altri non sono stati ancora percorsi. E ce ne sono e saranno tanti. Dai podcast, per ascoltare il giornale senza sfogliarlo con le mani o senza muovere le dita su uno schermo, ai convegni e agli appuntamenti in cui le persone si possono vedere e confrontare. Dal personalizzare l’offerta facendo abbonamenti ad hoc, cuciti addosso alla singola persona, fino alla multimedialità video e radio con palinsesti diversificati. Mi sembra tu abbia le idee piuttosto chiare e un programma ben preciso. Stai forse parlando di un cantiere aperto al Foglio? Sbaglio? Non sbagli. È la sfida che abbiamo davanti nei prossimi mesi e anni, a cui stiamo lavorando: trasformare la nostra testata in un brand, in una specie di casa editrice, un hub, appunto. Diversificheremo l’offerta anche con produzioni settimanali e mensili, creando una sorta di galassia intorno al sole del Foglio. Nel fare questo abbiamo la possibilità e il vantaggio di essere molto veloci, perché siamo un piccolo giornale. E, soprattutto, con la nostra cooperativa, siamo di fatto l’editore di noi stessi. Questo ci garantisce indipendenza e libertà assoluta, che ci viene concessa,

ovviamente, da chi ha in mano la testata. È proprio una questione di dna del giornale. Quindi il prossimo anno assisteremo all’inizio di questa burrasca creativa? Sarà un’evoluzione continua, in parte già iniziata. Perché Il Foglio già oggi è un giornale piuttosto all’avanguardia nella capacità di creare contenuti, utili per essere poi acquistati. Siamo stati i primi ad avere un paywall quasi totale. Con una formula che hanno pochi altri, la freemium, ossia un po’ di contenuti free e altri a pagamento. Le nostre entrate sul sito sono prevalentemente legate ai contenuti acquistati. Quindi c’è domanda di informazione? E, così, anche spazi per realizzare margini? C’è un interesse fortissimo soprattutto per la politica, basti pensare al boom di spettatori che ha avuto lo scorso ottobre il confronto tra Salvini e Renzi in tv da Bruno Vespa. Non è vero neppure che i ragazzi non si informano, magari leggono su piattaforme disordinate, su facebook o su altri social network, e non sono affezionati ad alcuna testata. Un’altra azione che abbiamo in serbo per i prossimi mesi sarà cercare di avvicinarsi al mondo universitario, e ai tanti giovani che sono alla ricerca di una qualche testata in cui riconoscersi e di cui innamorarsi. Strappandoli dai social? Proprio nell’epoca in cui l’informazione si pesca a caso navigando sulla Rete e con il sospetto che possa essere viziata da notizie false, cresce la necessità di testate credibili e autorevoli. Testate che abbiano una loro storia e affidabilità e possano diventare una risposta alla post verità e un antidoto alle fake news.

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Però la ricerca di informazione sul web nasce anche dalla sfiducia verso un giornalismo ritenuto fazioso. Quasi come se l’ondata populista e antiestablishment, che tempo addietro in un tuo intervento definivi comunque in buona parte rientrata o ammorbidita, avesse minato anche la credibilità dell’informazione tradizionale, anch’essa parte dell’establishment. Non penso sia assolutamente questo il problema, anzi penso che i giornali hanno senso soltanto se rappresentano degli interessi, perché non raccontano la verità, ma un punto di vista. I giornali che dicono di voler raccontare la verità stanno imbrogliando i loro lettori, perché la verità non esiste. Quindi la notizia oggettiva, asettica, non esiste… I giornalisti sono come i fotografi, hanno la loro macchina fotografica e ciascuno ha un proprio punto di vista, un’inquadratura diversa rispetto a quello che accade nel mondo. Quel che conta è ammettere qual è il proprio punto di vista, la propria posizione, spiegare come si guarda il mondo e che idea se ne ha. Così, dicendo sinceramente da che parte stai, il tuo lettore può fare la tara, essere d’accordo o contrario a quel che scrivi e dici. In ogni caso il compito di un giornale oggi è quello di farti reagire, un giornale che informa e basta non serve più. Farti reagire. Mi sembra un obiettivo dirimente, deciso. Il titolo di un manifesto? Ma sì, devi avere i tuoi scoop, i tuoi reportage. Mettere insieme tante azioni che suscitino delle reazioni, se non susciti nessun tipo di reazione fai un giornale che non serve a niente. Un’altra

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forza dei giornali deve essere quella di andare a rappresentare alcune nicchie, alcuni mondi particolari che hanno voglia di essere rappresentati. Ecco, i giornali omnibus, che rappresentano tutto, secondo me sono destinati a essere rivoluzionati con altri modelli di sviluppo. Quali altre qualità deve possedere, oggi, un’informazione meritevole di essere acquistata? In primo luogo credibilità. Per riacquistarla bisogna cercare di raccontare il mondo senza dare al lettore quello che già sa. Devi essere imprevedibile e un po’ sorprendente. Spiazzare e prendere posizione. I giornali terzisti, che non prendono posizione, che surfano su una notizia senza però cavalcare fino in fondo l’onda e che non sentono mai il bisogno di andare contro corrente, sono giornali inutili, scontati. Poi, perché comprare notizie se le trovi ovunque, gratis? Infatti, oggi non ha più senso fare i giornali dicendo «ieri è successo questo», perché chi pretendiamo di informare è già una persona ben informata. Quindi o hai informazioni tue esclusive oppure ha senso darle soltanto se inserite in un contesto che serve a dimostrare altro o a interpretare un avvenimento. Le idee di Claudio Cerasa sono nitide, nette, senza concessioni a sfumature e annacquamenti. Lo salutiamo con l’augurio che dall’hub del Foglio i treni arrivino e partano sempre in orario. Ma soprattutto, che abbiano tutti, a bordo, tante persone desiderose di viaggiare, conoscere, capire e farsi un’idea. E capaci anche, leggendo e viaggiando, di cambiarla.


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LA CONSAPEVOLEZZA CAMBIA IL MONDO L’INFORMAZIONE DI QUALITÀ SECONDO MARCO TARQUINIO, DIRETTORE DI AVVENIRE

È

da dieci anni il direttore di Avvenire, quotidiano dove lavora e scrive da un quarto di secolo. Marco Tarquinio, umbro di Assisi, è professionista dall’eloquio pacato e raffinato, condito da una gentilezza d’altri tempi, che sottendono la tenacia nel definire e dare concretezza ad alcuni inalienabili valori. Innanzitutto il rigore e l’onestà intellettuale («la potenza senza controllo è nulla»), insieme al rispetto delle persone («ogni pezzo che scriviamo è impastato con la vita della gente») e dei fatti («la libertà dei giornalisti è sempre specchio della libertà dei lettori»). Ottimista, per sua esplicita ammissione, ha scelto come motto suo e del giornale questa frase: «La consapevolezza cambia il mondo». Perché una sana informazione ha una funzione pedagogica e rigenerativa, come la misericordia a cui papa Francesco assegna identico fine. E la si realizza anche abbattendo le omologazioni, le vulgate di moda e oltrepassando le bolle nelle quali troviamo conforto e conferme per «vedere anche con gli occhi di un altro e trovare opinioni diverse che ci costringano a pensare di più». Il nostro incontro inizia davanti a una tazzina di caffè, nella sede romana del

Marco Tarquinio

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MEDIALOGANDO

Giovedì 14 novembre 2019 ANNO LII n° 270 1,50 € Sant’Ipazio di Gangra vescovo e martire

Opportunità di acquisto in edicola: Avvenire + Luoghi dell’Infinito

4,20 €

Quotidiano di ispirazione cattolica w w w. a v v e n i r e . i t Quotidiano di ispirazione cattolica w w w. a v v e n i r e . i t

Editoriale

Questo dramma visto dal cuore

IL FATTO La città sotto la peggior marea dal 1966. Due vittime e danni enormi da San Marco all’intero patrimonio culturale. Accuse per i ritardi del Mose

Naufragio Venezia Disastro annunciato

IN OGNUNO C’È UN PO’ DI LEI MARINA CORRADI

L

a notte di Venezia del 12 novembre, nei video di chi c’era, è una serie di brevi frammenti ripresi da mani spesso tremanti. Luci oscillanti nell’acqua di calli allagate, il fango che preme e viola le soglie delle case. Il sonoro di queste immagini è un forte sciabordio di acqua, come si fosse in mezzo al mare; e schianti di pontili che si spaccano, e sorde imprecazioni in veneziano, e un "Madonna!", come un’invocazione, mentre il video si interrompe. L’acqua tumultuosa che irrompe in via Garibaldi sembra un fiume nell’impeto di una piena rabbiosa. Le onde gonfiate da uno scirocco a cento all’ora sul Canal Grande sbattono come fuscelli le barche contro le rive. Piazza San Marco nella notte, sommersa e deserta in una luce livida, pare morta, mentre suonano angosciose le sirene, annunciando l’imminente picco di marea. Un disastro come nel 1966, dicono quelli che c’erano. Ma non c’erano, nel ’66, gli smartphone e il web, a mostrarci, quasi fossimo lì anche noi, Venezia invasa e sopraffatta. Si rimane davanti allo schermo del pc, attoniti, a guardare la cripta della Basilica sommersa, le poderose colonne e la tomba di marmo di un antico vescovo lambite dall’acqua limacciosa. In alto i mosaici d’oro, e, sotto, la devastazione. Un senso di dolore: come vedendo il volto di una donna bella e amata, che si ricorda sorridente, ora disfatto, illividito, sfregiato. Perché c’è un pezzo di Venezia nel cuore di milioni di persone. Almeno una volta noi italiani ci siamo andati quasi tutti: in viaggio di nozze magari, i più anziani – quante foto in bianco e nero di giovani sposi sulla Laguna, nelle nostre case, in cornici d’argento.

Alle 23.30 di martedì, quando suonano le sirene, Venezia è avvolta nella paura. Piove, il vento soffia a 100 km orari. L’acqua è alta 187 centimetri. Sette in meno dell’alluvione 1966. Per l’80% la città è sommersa. Un metro e 20 nella cripta della basilica di San Marco. L’isola di Pellestrina sprofonda, due vittime. Un disastro enorme, arriva anche il premier Conte: sarà stato di emergenza. Primopiano alle pagine 4, 5, 6 e 7

I nostri temi

FAMIGLIA E LAVORO

Congedi ai padri per far ripartire la natalità FRANCESCO GESUALDI

Il segnale è timido, ma va nella giusta direzione. Arriva col così detto congedo papà, l’obbligo anche per i padri, di assentarsi dal lavoro dipendente... A pagina 3

continua a pagina 3

UDIENZA

Editoriale

Questo dramma visto dalla Laguna

NOI, DISTRUTTORI O MAGARI NO SERENA SPINAZZI LUCCHESI

S

aremo ricordati, noi uomini e donne vissuti a cavallo tra XX e XXI secolo, come coloro che hanno distrutto Venezia. Spogliata di abitanti, trasformata in un parco giochi turistico e annientata dall’acqua alta. Dopo mezzo secolo, nonostante quel "Mai più" risuonato a gran voce nel 1966, l’acqua granda ha invaso di nuovo Venezia. E stavolta l’ha lasciata in ginocchio. Ci sono state persino due vittime, a Pellestrina. A smentire tutti quelli che in questi anni ripetevano il mantra che comunque l’acqua non è pericolosa, cala e cresce, poi basta ripulire tutto... Sì, come no? Ammettiamo a questo punto di non essere stati in grado di preservarla. Diciamo soprattutto che si deve urgentemente aprire una strada: si consenta alla città di decidere la propria salvezza dando voce a quanto chiedono i veneziani coinvolgendo finalmente le amministrazioni locali. Una strada, questa, che i Governi che si sono succeduti in mezzo secolo non hanno concesso. E il risultato si vede. Lo Stato italiano ha erogato miliardi nella grande opera del Mose, senza preoccuparsi di nient’altro. Neppure di come venivano spesi per davvero tutti quei soldi. Se non viene creato un ponte di comando unitario, che ponga la città al centro, alziamo bandiera bianca. È una provocazione. Ma, al di là delle boutade, oggi a Venezia servono decisioni condivise con tempi certi. Con coraggio. Con venezianità. Il Mose, per cominciare. Funzionerà o no? A chi dobbiamo chiedere i danni? Ci sono responsabilità precise per quanto è stato fatto e non fatto in questo tempo. Adesso è il momento di chiudere i conti. continua a pagina 3

IL REPORTAGE

L’INCHIESTA

L’INTERVISTA / IL PATRIARCA

Già attivi sul campo gli angeli della bellezza

«Il Mose? Necessario imparare dall’Olanda»

Moraglia: c’è il rischio di diventare "Pompei"

Quando il buio annuncia un’altra sera di quiete bugiarda, l’improvviso ululato delle sirene promette una sinistra notte di luna piena e acqua alta.

L’esperto del Politecnico di Milano, Giuseppe Passoni: «In Olanda il mare interno è stato "chiuso" con dighe fisse. Bisogna proseguire con il Mose».

L’amarezza del Patriarca: mai viste onde così in piazza San Marco, Chiesa vicina a chi ha perso tutto. Lo Stato non fa abbastanza, zone intere spopolate.

Scavo

Viana

Dal Mas

nel primopiano a pagina 5

nel primopiano a pagina 6

nel primopiano a pagina 7

USA DAVANTI ALLA TV

Testi contro Trump Impeachment al via Molinari a pagina 14

ÈVITA

SCONTRO SENZA TREGUA

Casini Bandini: superiamo i muri

Gaza conta 26 morti e tira razzi su Israele

Ognibene alle pagine 20-21

Martegani a pagina 15

Di questo mondo

Bimbi sottratti Dal Papa le vittime del Modenese LUCIA BELLASPIGA

«I bravi fedeli di Mirandola! Io vi ringrazio per come avete portato la croce e per come avete avuto il coraggio di difendere il parroco che era innocente»... A pagina 11

POPOTUS

A Roma, visite gratis ai bisognosi Otto pagine tabloid

Agorà

Marina Terragni

Sogno d’amore

C

arolina ha 68 anni e vive a Milano con i suoi gatti. Nemmeno un parente, giusto qualche amico. Passa il tempo su Facebook e un giorno comincia a chattare con tale Matteo: francese, vedovo, una trentina d’anni meno di lei. Matteo la lusinga. Le parla d’amore. Progettano l’incontro. Carolina si prepara come una sposa. Va dal parrucchiere, rinnova il guardaroba. Ma c’è sempre qualche impiccio. Lui è nei guai. Ha bisogno di soldi. Lei soldi non ne ha, e chiede un prestito di 10 mila euro per dargli una mano. Passa una giornata ad aspettarlo all’aeroporto di Linate, ma niente. Un amico la riporta brutalmente a terra: Carolina, Carolina, guarda che

SPIRITUALITÀ quell’uomo non esiste, quella faccia non è la sua. Le foto le ha rubate a un avvenente e ignaro attore azerbaigiano. Le racconta delle truffe romantiche. La convince a denunciare. Carolina denuncia. Ma con i carabinieri che verbalizzano insiste: «eppure lui mi ama…». Gravemente diabetica, comincia a ingozzarsi di dolci. Si uccide con tutta la dolcezza che non ha avuto. Muore lei per tenere vivo il sogno d’amore. Sono ormai alcune centinaia le vittime di truffe romantiche, circuite con love bombing da organizzazioni criminali con sede in Nigeria e nel Ghana. A tutte loro non chiedo: com’è stato possibile? com’è che ci siete cascate? A loro voglio solo dire: vi voglio bene. Ve ne voglio tanto. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Clément: cristianesimo, volti e bellezza Righetto a pagina 24

MUSICA

La lezione di coraggio di Mango Pedrinelli a pagina 27

CALCIO

Trent’anni fa l’omicidio di Bergamini Castellani a pagina 28

Una prima pagina di Avvenire

quotidiano. Tarquinio ricorda l’imprinting familiare: «Da ragazzo ho avuto la fortuna che a casa mia ne entrassero quattro di giornali, tutti di orientamento diverso. Papà era professore di filosofia e mamma maestra, quindi non erano dei nababbi ma libri e giornali non sono mai mancati e mi hanno guastato, come si vede», ride. Altro che guastato! Ti hanno donato radici sane e solide, direi. Ma iniziamo a parlare di quelle del quotidiano che dirigi, che ha mezzo secolo di storia. Sì, Avvenire nasce nel 1968, per volere di papa Paolo VI. Un giornale glocal, lo si definirebbe oggi, radicato nella realtà italiana ma aperto al mondo. Nasce dalla fusione di due grandi quotidiani, L’Italia di Milano e L’Avvenire d’Italia, entrambi di ispirazione cattolica, guidati da

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uomini di grande tempra, capaci durante il Ventennio fascista di non scendere mai a patti con il regime. Tra le loro fila anche Odoardo Focherini, l’unico giornalista beato italiano, a capo di una rete clandestina per far espatriare ebrei e perseguitati politici. Aveva sette figli, il settimo, una bimba, nacque mentre lui moriva in campo di concentramento. Saldi valori che scorrono ancora nelle vene del vostro giornale. Uno dei problemi del nostro tempo è che abbiamo perso di vista, in nome del relativismo assoluto, il bene e il male. Un po’ di sano relativismo è indispensabile, per smussare gli spigoli. Ma se perdiamo la consapevolezza del bene e del male non comprendiamo più perché qualcuno possa sacrificare la propria vita per salvare quella di un altro o l’intero patrimonio di famiglia per salvare la sua impresa, insieme al lavoro delle sue maestranze. Non capiamo più queste vite buone e questi eroismi civili che fanno invece parte della nostra storia. Informare e raccontare storie virtuose aiuterebbe a essere tutti più virtuosi. È così? Guarda, io sono tendenzialmente ottimista, ma so anche fare i conti con la realtà. Tuttavia ogni giorno in Italia accadono tante cose giuste e se riusciamo a raccontarle, come cerco di fare con i miei colleghi, diamo cittadinanza mediatica all’altra parte del Paese e del mondo, a chi fa qualcosa di giusto, nell’impresa, nella scuola, nelle relazioni personali. Eppure i nostri media danno spazio soprattutto alla cronaca nera… È vero. I dati raccolti ogni anno dall’Osservatorio della Fondazione Unipolis insieme all’Osservatorio di Pavia e a Ilvo Diamanti e Nando Pagnoncelli


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dicono che siamo un Paese ammalato di cronaca nera. Che arriva a costituire il 54% delle notizie totali, in particolare nel sistema televisivo. Negli altri grandi Paesi europei si oscilla tra il 9 e il 18%. Eppure viviamo in uno dei Paesi più sicuri del mondo, tra quelli dove si vive meglio, dove c’è più rispetto gli uni per gli altri, abbiamo un impasto sociale ancora straordinariamente buono ma enfatizziamo sempre gli aspetti negativi e alimentiamo una depressione terribile. E allora perché continuiamo a raccontare il peggio? Noi giornalisti diciamo che la gente vuole questo. Ma è un grande alibi, perché io faccio un giornale diverso, eppure funziona. Siamo stati un caso editoriale perché abbiamo tenuto tutte le copie mentre altri le perdevano e siamo passati dall’undicesimo al quarto posto nella classifica dei quotidiani italiani più diffusi e letti, quinto nell’aggregato cartaceo-digitale. Quindi? Vuol dire che un’informazione diversa si può fare, aiutando la gente a non vedere tutto nero e a non restare chiusa dentro casa mettendo i sacchetti di sabbia vicino alla finestra, come cantava Lucio Dalla. Insomma, oltre alle fake news e alle post-verità, esiste una questione di scelte e dosaggi informativi che offrono una realtà falsata. Sì, la manipolazione delle notizie non consiste soltanto nel come le scrivi ma anche nel menù che confezioniamo. Se escludiamo alcuni ingredienti, stiamo manipolando il senso complessivo. Però esiste anche una questione di come le notizie vengono raccontate. Qualche tua collega, estremizzando, ha

detto che la verità non esiste. Io credo che esistano, invece, le verità minuscole della cronaca e una verità più grande. Un giornale che dichiara la propria ispirazione cattolica di questo è profondamente convinto. Lo so che l’obiettività è difficile, ma l’onestà è necessaria. Bisogna essere molto onesti nel rapportarsi ai fatti, con i quali non si litiga ma si fanno i conti. Come mi hanno insegnato grandi maestri, credenti o non credenti. Spiegaci meglio. Prima di tutto si raccontano i fatti per quello che sono, e non per quello che vorremmo fossero. Poi accanto ai fatti, e non sopra, si mettono le nostre opinioni. E lì c’è lo schieramento, dici come la pensi, ma il fatto deve essere riconoscibile, giudicabile dal lettore a prescindere dalla tua opinione. Come recitava lo slogan di Lamberto Sechi a Panorama, «i fatti separati dalle opinioni». A me piace dire che i fatti non devono essere mai incrostati dalle nostre opinioni. Troppo spesso in Italia abbiamo ormai anche un’informazione che non fornisce neppure i cinque elementi basilari della cronaca. Ma anche le opinioni hanno il loro peso… Eccome, noi di Avvenire siamo l’unico giornale italiano che mette le idee e le opinioni a pagina 2 e 3 per cominciare il racconto del giorno, facendo parlare anche i lettori. Come cambiano il mestiere del giornalista e i media con la rivoluzione digitale? Io ho già vissuto la prima rivoluzione, quella che ci ha portato all’impaginazione elettronica. Pensavo bastasse! Questa seconda è tale che il giornale sembra non esca più una sola volta al giorno, ma

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ogni cinque minuti, online. Però in realtà il nostro lavoro non è cambiato. Perché? Perché a noi informatori professionali viene ancora chiesto di garantire l’informazione di qualità, verificata e verificabile, che assicuri, a chi l’acquista o la scelga, qualcosa di solido, non di magmatico e di traditore. Sul web con la fretta di arrivare primi vengono spesso messe in circolazione non bufale, ma mostruosità informative che hanno fatto e continuano a fare danni. Gli errori sul web sono duri a passare, perché la Rete ha la fluidità del fiume in piena, ma anche la fissità della gogna medievale. Una gogna che trova il suo apice sui social. Dico sempre che i social sono come la celata e la mazza del cavaliere medievale, senza però le regole della cavalleria: disgraziato a chi ci dà occasione. Per questo con il nostro bravissimo social manager Gigio Rancilio abbiamo introdotto un galateo molto severo, dichiarato subito sulla nostra pagina facebook. Chiediamo a tutti di essere molto sorvegliati e ricordarsi che stiamo parlando con persone. Per il giornalista si chiamano deontologia e serietà professionale. Noi giornalisti avremo un futuro se ci dimostreremo e saremo percepiti e accettati come guardiani dei pozzi d’acqua potabile dell’informazione, nel tempo di un’informazione spesso fangosa e addirittura avvelenata. Custodi dell’obiettività e della libertà. Ponendoci anche un’altra impegnativa ambizione: dimostrare ancora l’utilità e, anzi, l’essenzialità dello strumento giornale. In che senso? Viviamo un tempo di informazione dif-

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fusa, siamo raggiunti in mille modi da notizie selezionate grazie ai nostri circuiti di amicizie, a qualche algoritmo o ai cookie che abbiamo accumulato. Io la chiamo l’informazione selfie, perché alla fine, sopra tutte le notizie, c’è la nostra faccia con l’opinione che abbiamo già. Ma l’unico modo giusto, lo dice un cattolico laico, per approcciare qualunque realtà è vederla anche con gli occhi di un altro. Se ti fidi di un giornale e lo consideri attendibile e serio puoi trovarci anche un’opinione che non collima con la tua, però l’accetti, ti ci misuri e magari resti della tua idea, ma intanto ti ha fatto riflettere. Insomma, giornali e informazione di qualità sono ancora necessari. Hegel definiva il giornale la preghiera laica del mattino, per un cittadino a pieno titolo. Perché fare un giornale è prendere un giorno della vita del mondo, interpretarlo con delle chiavi di lettura, organizzarlo gerarchicamente e metterlo in mano a chi si fida di te. Dobbiamo dimostrare che tutto questo serve ancora. Oggi più che mai. Hai detto che confrontarsi con le opinioni altrui è fondamentale. Chi ti ha preceduto come direttore aveva coniato per Avvenire il motto «per amare quelli che non credono». Sì, Avvenire era ed è un giornale che parla a tutti, dove scrivono anche diversamente credenti o non credenti. Solo quando ho portato Sergio Staino è successo un pandemonio, perché hanno scoperto che un ateo vi disegnava le strisce con Gesù. Ma, come si dice, oportet ut scandala eveniant, è bene che succedano anche scandali di questo tipo. Insomma qualche “scossa” che faccia discutere serve.


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Serve raccontare il lato giusto della cronaca, perché altrimenti ti deprimi, ma anche aprire gli occhi del lettore, senza reticenze. Le guerre cominciano a finire quando qualcuno riesce a fartele vedere con tutta la loro violenza e ingiustizia. Così è per il potere della mafia, per la corruzione. Non è vero che la gente non riesce più a scandalizzarsi, ma deve poter distinguere tra comportamenti corretti e porcherie. Altrimenti finiamo nella notte hegeliana dove tutte le vacche son nere... Per questo uno dei compiti del giornalista è rompere le scatole, dentro le quali chiudiamo la realtà e le persone, e mostrare cosa c’è dentro davvero, così la gente riesce a vedere il bene, il male e a indignarsi quando ce n’è motivo e serve. Per fare quel che dici occorre tenacia, libertà e coraggio. È vero. Un nostro collega è stato messo sotto scorta per un’inchiesta internazionale, per minacce che gli arrivano dalla Libia. Perché siamo andati a dimostrare che i trafficanti di esseri umani hanno anche la divisa della Guardia costiera libica, e sono interlocutori dei governi da quest’altra parte del mare, compreso il nostro. Abbiamo mostrato

che le cose sono ben diverse da un certo racconto. Quelli che passano per essere gli alleati della legge sono i veri alleati dei trafficanti, anzi sono i trafficanti stessi, mentre gli altri, i buoni finora dipinti come cattivi, non sono alleati di nessuno, se non di quei disgraziati che finiscono dentro questa tenaglia e rischiano di morirci, affogati. Di cos’altro sei soddisfatto del tuo giornale? Del continuo dialogo con i lettori. Del fatto che, a mezzanotte in punto, la nostra prima edizione di Avvenire è già sui tablet e gli smartphone. Che siamo il giornale cartaceo con più abbonamenti in Italia, oltre 80mila. E il più letto nelle carceri, con settemila copie diffuse grazie a un progetto a cui tengo molto, che guarda al recupero delle persone che hanno sbagliato. Perché nessuno è perso per sempre. Per questo chiedo ai miei colleghi, scrivendo di grandi fatti di cronaca giudiziaria, di rispettare tutti: dalle vittime a quelli che stanno sul banco degli imputati. E anche questo è un fatto di qualità e controllo, che non dovrebbero mai mancare nella buona informazione.

Update È passato un anno dall’intervista alla pubblicazione di questa raccolta. Niente è cambiato rispetto alle riflessioni svolte allora e all’idea di giornalismo espressa in quella conversazione. Semmai la pandemia, il lockdown, la seconda ondata di contagi e il racconto e le storie che se ne possono trarre richiedono ancora di più attenzione e, soprattutto, un giornalismo vigile, equilibrato, rigoroso e intellettualmente onesto. Marco Tarquinio

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DOVE ERAVAMO GENNAIO-DICEMBRE 2020

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a sera del 9 marzo 2020 l’Italia scopre il significato della parola lockdown. L’intero territorio italiano viene messo in quarantena, tutte le attività pubbliche vengono chiuse, a eccezione degli esercizi di generi alimentari, supermercati, farmacie, e altre attività fornitrici di beni di prima necessità. È la risposta del Governo alla pandemia da Covid-19. Il 30 gennaio era stato, per primo, il Governo cinese a imporre la quarantena nella metropoli di Wuhan. In Italia, il primo focolaio di Covid-19 viene identificato dal 21 febbraio, a Codogno (Lodi). Il lockdown della prima ondata in Italia dura fino al 3 maggio. Ma non è finita. La pandemia spinge la crisi, con pesanti ripercussioni sull’economia, sul turismo, sulle attività produttive e sulla vita delle persone. Anche il mondo dell’informazione è chiamato a un difficile compito. Informare, senza cadere nelle trappole del sensazionalismo. Le edicole, durante il lockdown, restano aperte e l’informazione online contribuisce ad aggiornare costantemente sull’andamento della pandemia. Le televisioni e le radio danno voce ad esperti e virologi. Le aziende sono chiamate a cambiare il loro modello di business, e a supportare la ripartenza dell’Italia. La nuova priorità dei viaggiatori è la tutela della salute. Il Gruppo FS non si tira indietro, accelerando negli investimenti e nella digitalizzazione, arma vincente per contrastare la diffusione del Covid-19. Durante il lockdown sono oltre 5 milioni le tonnellate di merci (beni di prima necessità, alimentari, farmaci) trasportate dal Polo Mercitalia in Italia e in Europa. Mentre chiudiamo questa raccolta di conversazioni sui temi dell’informazione e stiamo per andare in stampa è in corso la seconda ondata, con nuove misure restrittive emanate dal Governo Conte II. La nostra ricostruzione storica è finita, continua il presente.

Chi abbiamo incontrato Maurizio Molinari - Giuseppina Paterniti - Andrea Monda - Giuseppe De Bellis Franco Locatelli - Massimiliano Montefusco - Gianluca Teodori - Fabio Insenga Giorgio Baglio - Stefano Feltri - Mattia Feltri - Bruno Vespa - Maurizio Molinari

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MEDIALOGANDO GENNAIO 2020

L’OTTIMISMO DELLA QUALITÀ

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edialogando inaugura il 2020 con Maurizio Molinari, che proprio il 1° gennaio ha festeggiato il suo quarto anno alla guida de La Stampa di Torino. Sul quotidiano piemontese, fondato più di un secolo e mezzo fa, Molinari scrive dal 1997. Per circa 15 anni ne è stato corrispondente dall’estero, 13 da New York. Saggista, acuto commentatore politico, il suo attento sguardo sul panorama internazionale ne ha fatto l’apprezzato ospite di molti talk show televisivi. Molinari ci paleserà, nel corso della nostra conversazione, un inaspettato ottimismo sulle sorti del giornalismo e dei quotidiani. Un ottimismo ragionato e ragionevole che assumiamo come benaugurale, all’alba del nuovo decennio e di fronte alle innovazioni che si porterà con sé, non solo nel mondo dei media. Che significa essere giornalisti oggi? Significa coniugare la valorizzazione del vecchio mestiere con la sua declinazione su più piattaforme tecnologiche. E come si coniuga tradizione e innovazione? Facendo crescere all’interno della redazione la consapevolezza del valore delle notizie, la necessità di una loro netta separazione dalle opinioni, la loro

© Alberto Giachino © Alberto Giachino

MAURIZIO MOLINARI, DIRETTORE DE LA STAMPA, E IL GIORNALISMO DI FRONTE ALLE SFIDE DEL DIGITALE

Maurizio Molinari

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MEDIALOGANDO

NAMI

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ALBERTO MATTIOLI — P. 24

Calcio La Roma ferma l’Inter Stasera la risposta della Juve

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Teatro Tosca in tv dalla A alla Z Sarà la Prima più social di sempre

Feste Se la tavola natalizia è come una partita a scacchi ROSELINA SALEMI — PP. 30-31

CONDIO, D’ORSI, GARANZINI E ODDENINO — PP. 34-35

LA STAMPA SABATO 7 DICEMBRE 2019

QUOTIDIANO FONDATO NEL 1867 2 , 0 0 € ( C O N T U T T O L I B R I ) II ANNO 153 II N. 334 II IN ITALIA IISPEDIZIONE ABB. POSTALEIID.L. 353/03 (CONV.INL.27/02/04) II ART. 1 COMMA 1, DCB- TO II www.lastampa.it

ST+

STAMPA PLUS

IL LAGER NAZISTA MAURO MONDELLO

Merkel ad Auschwitz ricorda Primo Levi “Può succedere ancora” P. 13

cristiani in africa

Nella Nigeria dilaniata dai jihadisti BERNARD-HENRI LÉVY

L’appello mi è arrivato da un cristiano pentecostale nigeriano. È direttore di un’associazione che auspica il riavvicinamento tra le due comunità, cristiana e musulmana. – PP. 2-3

LIBIA FRANCESCA SFORZA

Il premier a Lavrov “Bisogna evitare guerre per procura” P. 12

LUIS TATO/GETTY IMAGES

la maggioranza trova l’accordo: azzerata l’imposta sulle auto aziendali

Conte salva la manovra Renzi frena le nuove Tax Si fa cassa con le lotterie Centeno: spropositati i timori del governo sul Mes, ma l’intesa li placherà Trovato l’accordo sulla manovra: slittano plastic e sugar tax, spunta una stretta sul gioco d’azzardo. Mario Centeno, ministro portoghese e presidente dell’Eurogruppo, in un’intervista a «La Stampa»: «Spropositati i timori dell’Italia sul Mes». BERTINI, BRESOLIN, DI MATTEO E SORGI – PP. 4-5

GIUSTIZIA INTERVISTA A BONAFEDE

I PROCESSI LUNGHI GUASTANO I CONTI

FRANCESCO GRIGNETTI — P. 6

ALESSANDRO DE NICOLA — P. 23

BUONGIORNO

y(7HB1C2*LRQLNN( +}!#!$!"!_

L’ANALISI

“Sulla prescrizione nessuno slittamento”

Gli uomini deboli

Gli eredi di Riina

Un solo indirizzo londinese per tutte le mafie LORENZO BAGNOLI MATTEO CIVILLINI GIANLUCA PAOLUCCI

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na palazzina elegante nel cuore di Londra è la sede delle attività degli eredi del «capo dei capi» della Mafia, di un faccendiere legato ai clan della Camorra e dei «colletti bianchi» coinvolti in una maxinchiesta sulla 'Ndrangheta. L’indirizzo, 29 Harley Street, è anche lo stesso utilizzato da politici corrotti di mezzo mondo, criminali comuni, aziende statali di paesi sotto embargo.

LE STORIE GIUSEPPE ORRÙ

Cercasi volontari per ascoltare gli anziani in ospizio P. 32

FRANCA NEBBIA

La pizza del Monferrato con la mozzarella arrivata dalla Campania P. 32

CONTINUA A PAGINA 15

MATTIA FELTRI

Il quarantotto per cento degli italiani, dice l’ultimo rap- perché non sappiamo che comporti l’uomo forte divinporto del Censis, vorrebbe al potere un uomo forte che colato dagli impicci delle elezioni e del Parlamento, non debba curarsi di impicci come le elezioni e il Parla- cioè la dittatura. Tutto dimenticato, non abbiamo più mento. Traduzione: metà di noi s’è stufata della demo- padri e spesso nemmeno nonni che la dittatura l’abbiacrazia. Non della casta, non ce l’abbiamo coi papaveri in no incisa sulla pelle e ce lo raccontino, è sbiadito tutto auto blu, quella è roba superata: ci siamo stufati del siste- quanto è stato scritto, tutto è perduto in un tempo di ma di governo del mondo liberale occidentale, come la noncuranza senza passato né futuro. La storia non ci interza generazione che, dopo la prima segna nulla, è stato detto con senno. La che ha fondato l’azienda e la seconda LA DOPPIA ITALIA DEL CENSIS democrazia non ci ha reso felici, stop. che l’ha ingrandita, per noia sperpera le La democrazia è un cumulo di difetti, fortune ignorando la fatica di accumu- INNOVATORI stop. La democrazia non ci ha issati sui larle. E’ sempre più facile buttare giù piedistalli, stop. La democrazia non ha qualcosa che tirarla su, e noi oggi ci ap- CONTRO ANSIOSI detto abracadabra. prestiamo a buttare giù la democrazia SERVIZI — PP. 10-11 CONTINUA A PAGINA 23

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La Stampa, 7 dicembre 2019

ricerca con quella ingenuità, capacità di sorprendere, studio, approfondimento e, soprattutto, umiltà di ascoltare, che sono da sempre gli ingredienti di questo mestiere. Il giornalismo non cambia e i suoi elementi di forza rimangono gli stessi, cambia la declinazione sulle varie piattaforme. Se fino a pochi anni fa la principale e quasi esclusiva era la carta, oggi abbiamo la scrittura digitale, i video digitali, le radio digitali, i social network, la realtà aumentata e uno scenario destinato ad arricchirsi ancora nell’arco di pochi anni. Tutto questo richiede, quindi, specifiche competenze. Nascono infatti nuove professionalità, capaci di trovare il linguaggio e il modo

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adeguato per raggiungere mercati e tipologie di pubblico molto diversi. Con un’ulteriore novità: nelle redazioni l’interazione non sarà più soltanto quella tradizionale tra giornalisti e tipografi, che comunque resterà, perché i giornali di carta continueranno a uscire, ma con altri compagni di banco come i graphic designer, i video maker, i data scientist. Sei convinto che i giornali di carta resisteranno? Lo scorso agosto il NYT ha dedicato un’interessante inchiesta a questo tema. Tutti i dati parlano di un continuo e diffuso declino di vendite. Da cosa deriva questo tuo ottimismo? L’esperienza del New York Times come del Guardian ci dicono che il modello cartaceo sta in piedi quando le copie vendute equivalgono agli abbonamenti digitali, meglio ancora se il loro numero supera quello delle copie vendute in carta. Semmai il vero interrogativo sulla scomparsa della carta riguarda quei giornali che non riusciranno, in tempo utile, a creare questo sano equilibrio. Ecco, quella scadenza può essere feroce, e ravvicinata. Tre, cinque anni. O si riesce, in tempo celere, a trovare gli abbonati digitali, o si chiude. Un processo delicato, che pretende misure adeguate e pochi tentennamenti. Sì, ma lo dobbiamo gestire con ottimismo, con adeguati investimenti, con la consapevolezza che la trasformazione creerà molteplici professionalità, cambierà dall’interno le redazioni, ma conserverà, alla carta, il ruolo di prodotto privilegiato per il rafforzamento e consolidamento del valore del brand. Consentimi di dire che il panorama non promette bene. Perché siamo soltanto all’inizio di questo processo, e non si possono fare


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considerazioni finali su un processo appena iniziato. Comunque, se guardiamo alle aree dove sono più diffusi cultura e abitudini verso il digitale e gli acquisti online, come la Scandinavia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, i dati sugli abbonamenti digitali non sono affatto così negativi. E il fenomeno comunque cresce, seppur lentamente, anche altrove, compresa l’Italia. Non credi che il declino dei media tradizionali, e in particolare dei giornali, sia anche conseguenza di una insofferenza verso l’informazione mainstream, percepita come asservita a interessi di parte? Il che giustifica l’esplosione dell’informazione fai-da-te, sui social… Tutto questo è l’attuale Far West. Che si spiega perché siamo ancora in una fase nella quale nel web non ci sono le regole, e abbiamo l’informazione gratuita che cannibalizza i contenuti. Stiamo uscendo dall’homo homini lupus e lentamente si iniziano a costruire delle regole. Quindi anche quel mondo di libertà sconfinata ha necessità di regole, come tanti sostengono. Sebbene su come introdurle il dibattito sia apertissimo e complesso. Gli abbonamenti digitali servono anche a questo. Quando l’informazione è gratuita e tu non sai chi paga per produrla, si apre la finestra all’interno della quale si sviluppano le fake news. Che non nascono sui giornali con un nome, un cognome, un indirizzo e un editore responsabile, perché se tradisci il lettore il tuo business finisce. Quindi, per garantire la libertà di informazione, i giornali devono puntare sulla qualità, ma i lettori devono accettare di pagare per i contenuti. Insomma, il digitale è una prateria di opportunità ma anche di insidie, mi

sembra che anche di questo parli il tuo ultimo libro, Assedio all’Occidente. Quali le difese? Sono due le misure strategiche da adottare: una verso l’esterno e una interna. Ogni nazione deve difendere il proprio spazio cibernetico così come difende i suoi confini fisici, è una questione di sovranità nazionale. Se non lo fai qualcun altro si insedia e inizia a fare i propri interessi all’interno della tua comunità nazionale. Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele, Corea del Sud, Olanda presidiano già efficacemente il proprio spazio cibernetico, in altri Paesi come Francia, Germania, Italia e Spagna questo processo è ancora in corso. Servono poi norme per distinguere i dati che si possono condividere da quelli che vanno protetti. La normativa emanata dal governo italiano, con il Conte II, è positiva ed è considerata, da molti, all’avanguardia in Europa, perché istituisce nei settori strategici il sistema del Golden Power. Ossia uno strumento che impedisce di rendere pubblici i dati di importanza strategica per la sicurezza. E la misura interna? La lotta alle fake news. Che oltre a regole e informazione di qualità richiede un grande senso di responsabilità e di autodisciplina da parte dei giornalisti. Chi scrive per un grande giornale, con una propria eco nel Paese, non può produrre e diffondere propri individuali contenuti che finirebbero, di fatto, per essere identificati con quelli del suo giornale. La libertà di opinione è un valore ma se la eserciti solo a favore di una precisa azienda o di uno specifico partito politico diventa faziosità. Cos’altro si chiede a un giornalista nell’epoca digitale?

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MEDIALOGANDO

Senz’altro deve essere più flessibile, più rapido, e consapevole che il mercato gli darà un voto, il che lo obbliga a produrre contenuti di qualità. Ed è apprezzata questa qualità? Eccome, e i dati sono sorprendenti. Gli articoli digitali che fanno più traffico non sono quelli con le donne nude o con le parolacce, ma quelli di qualità. Perché il pubblico è intelligente. Ho imparato una regola negli Stati Uniti, che i lettori sono più intelligenti di noi, ed è vero. Il pubblico premia la qualità e questo, consentimi, mi permette di essere ancora più ottimista. La qualità dell’informazione cammina di pari passo anche con le risorse per pagare chi la produce. Quelle provenienti dalla pubblicità sono in costante calo. Le risorse si recuperano con una nuova idea di pubblicità, con lo sviluppo di una nuova organizzazione del lavoro e sapendo cogliere le potenzialità offerte dalla moltiplicazione delle piattaforme. La raccolta della pubblicità nella realtà digitale non può essere più quella del ‘900, con le vendite porta a porta e i centri media, ma passerà da meccanismi sempre più automatici legati al traffico sviluppato. Insomma, parliamo di una riforma di sistema. La Stampa come sta vivendo questa riforma? E cos’è di cui vai più orgoglioso in questi quattro anni di tua direzione? Senz’altro dell’integrazione. Abbiamo fatto due lavori fondamentali, abbiamo integrato le redazioni tra loro, creando dei macro desk. Uno di hard news per cronache, politica, esteri ed economia. Uno di soft news con cultura, spettacoli e società. E infine un macro desk locale con tutte le province e la cronaca di Torino. Questa integrazione ha fatto collaborare

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colleghi che per molti anni lavoravano fianco a fianco ma faticavano a parlarsi, ciascuno coltivando il proprio giardinetto. E ha aiutato la produzione di contenuti di qualità. Adesso stiamo lentamente replicando questo concetto tra carta e web, chiedendo a ogni giornalista della carta di lavorare anche per il web e viceversa. Questo è il fronte dell’integrazione industriale all’interno de La Stampa. Necessario per ottimizzare l’utilizzo delle risorse. Sì, poi c’è un’altra integrazione, più emozionante, della quale ho avuto l’onore di avere la responsabilità a dicembre 2017, che riguarda la GNN (Gedi News Network), ovvero l’integrazione fra La Stampa e i quotidiani locali dell’ex Gruppo Espresso. Tredici giornali locali con i quali abbiamo un’interazione quotidiana. Loro pubblicano i nostri contenuti nazionali, mentre le loro storie confluiscono sul giornale nazionale, che abbiamo aperto più volte con notizie dal Veneto, dall’Emilia, dalla Toscana. Questo dialogo fra La Stampa e i giornali locali è, sinceramente, la cosa più divertente e importante perché ci consente di avere una forte presenza sul territorio e di essere un Gruppo davvero glocal. Dove l’elemento globale che viene dal dna della Stampa si coniuga al forte radicamento locale di quelle testate. Che cosa resta da fare? Dobbiamo iniziare a correre verso una più efficace integrazione tra carta e digitale. Ma la parte più avanzata e difficile di questa frontiera sono i social network. Perché qui parliamo di un lavoro completamente diverso da quello giornalistico. Qui devi monitorare cosa avviene, capire di cosa si sta parlando, quali sono i contenuti del tuo sito che possono in-


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teragire con la conversazione in corso, postarli, moderare le reazioni. È un altro lavoro che richiede altre qualità e specializzazioni. Tutto questo ti mette a durissima prova, però è emozionante e schiude nuovi orizzonti. Stiamo anche pensando ad accordi con più università per avere in redazione, a partire dalla primavera del 2020, data scientist. Con quali obiettivi? Questi scienziati dei dati leggono e interpretano il traffico digitale sui singoli contenuti e ci forniranno informazioni per rispondere meglio alle richieste dei nostri lettori. Oggi ne sappiamo ancora troppo poco. Sappiamo però che la maggioranza sono uomini, le donne sono soltanto il 38%. E che l’età media dei nostri user è di 55 anni. Già questi dati ci consentono di capire che abbiamo una carenza di contenuti capaci di attrarre la loro attenzione. Quindi le prime due sfide sono: più giovani e più donne. Ma le notizie sono notizie. Forse conta come darle e come dosarle dentro il palinsesto complessivo? Certo, per esempio il fatto che la maggioranza siano di cronaca nera non at-

trae il pubblico delle lettrici. Potendo analizzare i dati puntualmente ti scontri con qualcosa senza appello, e a quel punto sei obbligato a ragionare. Scopri, ad esempio, l’energia del territorio, con storie che hanno una forza di penetrazione sul digitale enorme. E capisci quanto investire risorse sulle storie locali significhi creare nuovi mercati. Sei spesso in tv. Ormai un buon giornalista è anche un reclamato opinion leader… È vero, però attenzione, questo non sostituisce il vecchio mestiere. Non c’è niente da fare, quando hai un reportage di una tua giornalista che da Algeri ti fa ascoltare le donne algerine coinvolte nella sfida tra i liberali e gli estremisti islamici, o hai l’intervista all’astronauta della stazione spaziale internazionale o al cittadino che ha dovuto abbandonare la sua casa per l’esondazione del fiume Tanaro e ti racconta come è cambiata la sua vita… quelli sono pezzi unici, e non ce n’è per nessuno. La notizia continua ad essere imbattibile, insostituibile ed è la ragione grazie alla quale l’informazione di qualità potrà avere ancora successo.

Update Maurizio Molinari dal 23 aprile 2020 è direttore di Repubblica. Le sue convinzioni sul giornalismo non sono certo cambiate ma in questa nuova veste Molinari è tornato ospite della Freccia di dicembre 2020. Per raccontarci gli obiettivi e i primi risultati raggiunti, iniziando dalla profonda e accurata rivisitazione, inaugurata a ottobre, del sito web, diventato “mobile first” e che egli stesso ha salutato come “l’esperienza digitale più avanzata e innovativa sul mercato editoriale italiano”. E per parlarci di Green&Blu, il content hub comune a Repubblica e alle altre testate del Gruppo Gedi dedicato a innovazione e ambiente, con al centro clima e biodiversità, energia e mobilità, economia e tecnologia. Nota dei curatori

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MEDIALOGANDO FEBBRAIO 2020

L’INFORMAZIONE COME PRESIDIO DI DEMOCRAZIA NUOVI LINGUAGGI PER RAGGIUNGERE I PIÙ GIOVANI. LA FRECCIA INCONTRA GIUSEPPINA PATERNITI, DIRETTRICE DEL TG3

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a Freccia è tornata nella cittadella Rai di Saxa Rubra per incontrare la direttrice del Tg3, Giuseppina Paterniti. Ho conosciuto Giuseppina quasi 20 anni fa, quando, abbandonata la quieta dimensione della provincia, ho iniziato a lavorare nella Capitale. Professionista tosta e rigorosa, è stata una delle prime giornaliste con cui, dall’Ufficio stampa di Ferrovie dello Stato, ho intrattenuto frequenti contatti di lavoro incardinati sempre sulla massima correttezza e trasparenza e presto facilitati da una reciproca stima. Anche allora era al Tg3, nella redazione economica. Poi ci siamo persi di vista. La ritrovo oggi, affabile nei toni e nei modi quanto coriacea e rigorosa nella difesa dei principi e dei fini della professione e, nel contempo, appassionata e dinamica nel voler valorizzare le potenzialità dei nuovi strumenti di comunicazione. Il giornalismo cambia, ma i fondamentali restano, sei d’accordo? Certo, io reputo tra le cose più importanti che mi siano capitate nella vita quella di aver trascorso circa 13 anni nella redazione economica del Tg3.

Giuseppina Paterniti

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Perché mi ha dato la possibilità di strutturarmi mentalmente sapendo che non si può rimanere sulla superficie delle notizie. Che occorre essere rigorosi, perché spostare una virgola o un punto cambia il significato del tuo racconto. E meticolosi. Ho seguito ben 12 Leggi Finanziarie concentrata a leggere riga per riga tutti i fogli e gli emendamenti perché niente mi sfuggisse. E poi ho imparato a guardare con occhio attento i vari fenomeni sociali, il rapporto tra le istituzioni dello Stato e tra le varie componenti della società. Anche tra quelle che oggi qualcuno reputa marginali, come il mondo sindacale, ma che di fatto coinvolgono milioni di persone. Poi sei stata a Bruxelles, e hai avuto modo di acquisire un diverso punto di vista. È stata una fase di grande impegno e studio, rispetto a istituzioni e a valori in cui ho sempre creduto. Sono arrivata quando l’attività di Bruxelles stava languendo, era l’epoca della prima

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commissione Barroso. A risvegliarla è stata la drammatica crisi finanziaria del 2008, scoppiata oltre Atlantico e poi arrivata anche da noi, in tutta la sua virulenza. Costringendoci a prendere atto della profonda trasformazione in corso, che non riguardava solo la finanza e includeva la crisi del debito sovrano, quello della Grecia in particolare. Ecco, lì l’Europa è tornata a essere centrale, per sotto molti punti di vista, ma è anche emersa con chiarezza la necessità di una maggiore integrazione politica senza la quale sarà impossibile che l’Unione muova concreti passi in avanti. Cos’altro ti ha insegnato l’esperienza in Europa? Ha confermato l’assoluta convinzione della centralità del nostro ruolo di giornalisti come presidio di democrazia, soprattutto in questa fase di evoluzione della comunicazione e del linguaggio. Quando ero a Bruxelles, il problema di riuscire a porre domande ai nostri interlocutori era serissimo. Perché c’era chi, ad esempio gli esponenti della Cina, le rifiutavano, limitandosi a rilasciare dichiarazioni. Altri no, come la cancelliera Merkel, che quando finiva un incontro, fosse stata anche notte fonda, era lì, pronta ad ascoltarci e a risponderci. Insomma, l’informazione non può limitarsi a fare da megafono alle dichiarazioni dei politici, che tra l’altro ormai con i social si rivolgono direttamente al loro pubblico. No, la stampa dovrebbe lavorare e lavora per garantire ai cittadini informazioni corrette, in modo che possano avere un controllo quanto più diretto sull’operato della politica. Abbiamo una grande tradizione su cui fare


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perno. Non possiamo rinunciare, con l’avvento dei social e delle varie piattaforme digitali, al nostro compito, alla mediazione giornalistica, a essere uno dei pilastri della nostra democrazia. Questo implica un’evoluzione della professione, capace di adottare linguaggi e usare strumenti nuovi. Quando sono tornata da Bruxelles, dopo otto anni, accettando il ruolo di vice direttore del Tgr, l’ho fatto, se vuoi, anche per completare la mia formazione professionale, affrontando l’informazione locale. Ma la vera sfida è stata un’altra: impegnarmi su un fronte che oggi considero fondamentale, quello del web e delle informazioni che si confrontano con i social. In quel periodo abbiamo siglato 12 accordi con il sindacato per aprire altrettante pagine social del Tgr, al momento ne sono aperte 11, abbiamo formato e qualificato giornalisti al linguaggio digitale, inaugurato profili facebook, twitter e instagram, offrendo un’informazione pubblica in modalità multimediale e crossmediale. Abbiamo chiesto ai nostri giornalisti di usare lo smartphone come strumento per scattare la prima foto o filmare il primo video, di mandarlo direttamente al sito web per poi diffonderlo sulle varie piattaforme digitali. La sfida oggi è questa… È una sfida anche più ampia, più generale, quella di riqualificarci come giornalisti non solo nel linguaggio ma nella capacità di comprendere e raccontare una società complessa, plurale, multietnica, fatta di città e paesi, che vive la grande difficoltà di comunicare, soprattutto tra vecchie e giovani generazioni. Allora il compito, della Rai in par-

ticolare, come servizio pubblico, credo sia quello di allargare il proprio orizzonte iniziando a occuparsi sempre di più dei giovani, dei loro interessi, della loro sensibilità. Noi, tanto per fare un esempio, qualche tempo fa abbiamo seguito il dialogo tra Nicola Lagioia, direttore del Salone del libro di Torino, e una rapper, nella sede della cultura italiana che è la Treccani. Contaminazioni al limite del sacrilego… Ma positive. Come giornalisti dobbiamo rifletterci e ridisegnare il nostro ambito di movimento. Quello di cui sono più soddisfatta in quest’anno passato al Tg3 (è direttrice dal novembre 2018, ndr) è che siamo riusciti a crescere in termini di audience sulle fasce più giovanili. Perché abbiamo puntato molto sulle scuole, sulle associazioni, sui movimenti, abbiamo seguito Greta e tutti i Fridays for future fin dall’inizio. Abbiamo condiviso i nostri contenuti sui social, ottenendo ottimi riscontri come quando abbiamo pubblicato video su instagram sottotitolati e scelti accuratamente per quel tipo di pubblico. Anche pezzi non propriamente leggeri. Con un occhio attento alle diverse caratteristiche di ogni piattaforma, sapendo della disaffezione dei più giovani verso facebook e twitter. E i risultati arrivano? Certo, lo constatiamo dalle visite, dalle interazioni con la nostra redazione di media management. La stessa Greta ha interagito con i nostri profili, con due like su twitter. Ecco, il nostro interesse, almeno come Tg3, è riuscire a raggiungere un pubblico sempre più ampio, in particolare quello che non guarda più, o quasi più, la televisione.

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Sui social vi muovete su un terreno minato, tra fake news, haters, superficialità imperante, strategie di persuasione di massa. È vero, il mondo dell’informazione sta attraversando un momento delicatissimo. Sappiamo come da una fake news possano nascere conseguenze durissime persino per le democrazie, è quindi estremamente importante offrire, proprio su queste piattaforme, un marchio e un’informazione qualificata e certificata che i Tg della Rai, come tanti grandi giornali, possono garantire. Serve restare centrali. C’è però chi questa autorevolezza e terzietà l’ha messa in discussione, immaginando di trovare nel “libero” web un’informazione indipendente, senza un editore con i propri interessi da difendere. Che le diverse testate abbiano un proprio orientamento è del tutto legittimo, quello che occorre sempre è raccontare e scavare bene nei fatti, cercando di andare un po’ al di là della cronaca spicciola e del commento immediato. Invece sui social i pareri vengono facilmente assimilati alle verità storiche. E rispetto a un fatto, che oggettivamente ha una sua consistenza, la contrapposizione di due o tre pareri rende relativo perfino il fatto. La nostra presenza su quelle piattaforme può fare la differenza. Perché se ci sei, come Tg Rai, qualcuno può cercarti e chiedersi: «Vediamo cosa dice la Rai». C’è chi mette in discussione anche l’obiettività e terzietà dell’informazione Rai… Guarda, a volte le scelte possono essere difficili e più complesse, ma in quest’anno trascorso alla direzione

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del Tg3 non mi sento di dire di essere stata condizionata mai nelle mie decisioni. Forse si sa che sono una con cui non è facile discutere, per carattere (ride, ndr). E comunque basta esigere il rispetto dell’articolo 6 del nostro contratto nazionale, che conferisce al direttore il potere di lavorare in piena libertà e autonomia e ti difende da ingerenze esterne. Qual è il tratto caratteristico del Tg3? Nel nostro mondo c’è chi per conquistare audience o lettori costruisce titoli a effetto, chi dà grande spazio alla cronaca nera o rosa, a notizie curiose, a immagini pruriginose o spiritose… Noi la cronaca nera, se possibile, la evitiamo con grande accuratezza, non è la nostra vena. Piuttosto raccontiamo molto il sociale, cercando di cogliere le spinte verso il cambiamento, l’innovazione, le startup. Ce ne sono, e ne abbiamo parlato, nate in Italia che hanno conquistato notorietà mondiale. Ecco, raccontiamo quel che emerge di buono nella società, le storie di resistenza rispetto al crimine organizzato e alle mafie. A metà gennaio, mentre la cronaca riferiva della maxi retata contro la mafia dei Nebrodi, abbiamo mostrato l’esempio virtuoso di Troina, un paese che in quel territorio ha costruito un suo modello cooperativo per opporsi alle infiltrazioni mafiose. Insomma, informazione e impegno civile. Com’è nella tradizione del Tg3. La squadra con cui lavoro è eccezionale, fatta di colleghi capaci e impegnati. Un grande lavoro corale in cui nessuno si risparmia. Del resto, noi facciamo un giornale di servizio pubblico e compiamo scelte diverse rispetto a testate


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che hanno altre identità e logiche. Sono convinta che con la notizia morbosa di cronaca nera o rosa puoi ottenere un picco di visite su un sito, ma la credibilità è qualcosa che conquisti poco a poco, la formi nel telespettatore e nel lettore fornendo con continuità un certo tipo di notizie di qualità fino a diventare per loro un punto di riferimento. Spesso mi chiedo se non ci sia anche un problema di qualità dei lettori, un immiserimento culturale, indotto in parte da una scuola che non forma più come una volta. Non sono d’accordo, nel raffronto con le scuole e le università del resto d’Europa credo che l’Italia vanti un ottimo livello di preparazione dei docenti e dia una buona formazione che poi consente ai nostri giovani di emergere all’estero. È che i docenti sono chiamati spesso a sopperire ad altri vuoti sociali. Fino a qualche anno fa c’era una rete di corpi intermedi che potevano dare risposte a problemi che la famiglia, oggi più di un tempo, con genitori mol-

to occupati o assenti, non riesce più a risolvere, demandando questo ruolo alla scuola. Chi informa può anche educare? Se c’è un problema di crisi educativa, più che nella scuola, è nell’assenza di una connessione credibile tra i corpi intermedi rimasti attivi in questo Paese, ossia di quei luoghi dove si affermano temi e valori intorno ai quali un ragazzo può spendersi e dare un senso alla propria vita. L’informazione può e deve lavorare per meglio connettere le generazioni e indurre una reale comunicazione tra loro. Ma io, che guardo al mondo giovanile con grandissima attenzione, sono ottimista, sono sicura che i giovani faranno meglio di noi. Del resto i Fridays for future ne sono una testimonianza formidabile. In Germania il loro movimento ha già spinto i Lander ad accelerare l’abbandono delle produzioni a carbone. C’è soltanto da augurarsi che crescendo non diventino cinici e poco lungimiranti come tanti, troppi adulti.

Update Da maggio 2020 Giuseppina Paterniti è stata nominata direttrice editoriale per l’offerta informativa della Rai e ha lasciato il suo precedente incarico alla direzione del Tg3. Al di là del diverso impegno professionale la direttrice non ha potuto che confermare quanto già espresso in questa intervista sul ruolo dell’informazione e del giornalismo come presidio di democrazia e sulla necessità di sperimentare nuovi linguaggi per raggiungere le nuove generazioni. Nota dei curatori

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MEDIALOGANDO MARZO 2020

CON LO SGUARDO DI UN FORESTIERO PER UN’INFORMAZIONE MAI BANALE O SCONTATA. E LIBERA, PERCHÉ RESPONSABILE. A COLLOQUIO CON ANDREA MONDA, DIRETTORE DELL’OSSERVATORE ROMANO

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arco il cancello di Sant’Anna in una tiepida mattina di febbraio. Accompagnato da un ex manager di FS, oggi firma dell’Osservatore Romano, entro in un’altra città, ben più distante da Roma e dall’Italia dei pochi passi appena percorsi. Perché la sensazione, superato il filtro delle Guardie Svizzere e dei gendarmi vaticani, è di trovarsi in una dimensione quasi aliena, proiettato in un’atmosfera rarefatta ma densa di storia e spiritualità. Un po’ è suggestione, lo ammetto. Ma, da qui dentro, il mondo lo percepisci davvero con altri occhi. Me lo conferma Andrea Monda, da dicembre 2018 direttore dello storico quotidiano del Papa, fondato da due laici nove anni prima che le truppe di Vittorio Emanuele II, sfondate le Mura aureliane, invadessero Roma e decretassero la fine dello Stato Pontificio. «Ogni mattina varco il confine ed entro in un Paese straniero, da quel momento l’Italia scompare o comunque, da direttore del giornale, sono libero dal doverne parlare. L’Italia va nella pagina internazionale, ma soltanto se ci sono notizie che lo meritano. E, comunque, in mezzo a tante altre che arrivano da tutte le parti del mondo. Di fatto dirigere questo giornale mi ha sprovincializzato lo sguardo», mi spiega.

Andrea Monda

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Una prima pagina de L'Osservatore Romano

Servirebbe alla stragrande maggioranza dei nostri giornali e media, concentrati a tal punto sulle vicende nazionali da cadere in una sorta di strabismo autoreferenziale. Ecco, quello che invece voglio contraddistingua il nostro quotidiano è raccontare i fatti e interrogarsi con uno sguardo da forestiero. È un’espressione che ho usato nel mio primo editoriale, scritto quasi di getto, il 20 dicembre 2018, ispirandomi a un passo del Vangelo secondo Luca, all’Episodio di Emmaus, quando Gesù risorto va incontro a due suoi discepoli che parlano di lui, della sua crocifissione. Discutono quindi della cronaca, però senza capire il senso di quell’avvenimento. Quando lui chiede di cosa stiano parlando, e fa finta di non sapere niente, loro si meravigliano che lui sia così forestiero da

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ignorare cosa sia accaduto. Ecco, io usavo questa immagine per dire cosa deve fare l’Osservatore Romano: entrare nelle conversazioni degli uomini per stare sul pezzo, per parlare del fatto del giorno, ma con lo sguardo di un forestiero. Capace di stupirsi ogni volta e poi sorprendere con un’interpretazione non banale o scontata. In che senso? Come quella di qualcuno che sia, appunto, un po’ fuori fase, come se vivesse da un’altra parte, del resto per un cristiano la vera patria non è questa ma quella celeste. Dobbiamo avere uno sguardo che ci consenta di cogliere il senso più profondo dei fatti, che altrimenti diventano solamente cronaca destinata ad accumularsi come sabbia in una clessidra, tutti i giorni, indifferentemente. Voi avete anche un’altra sfasatura, quella temporale, perché rispetto alla quasi totalità degli altri quotidiani uscite nel pomeriggio… Montini nel 1961, quando ancora non era Pontefice, scrisse un articolo per il centenario del giornale e lo chiamò «singolarissimo quotidiano», non paragonabile a nessun altro, e in effetti noi non assomigliamo agli altri giornali, finanche nell’orario di uscita. In passato, in Italia, c’erano altri quotidiani del pomeriggio o della sera, ma ormai siamo rimasti gli unici a uscire nel pomeriggio. In Francia, per esempio, come noi c’è Le Monde. Su questo punto abbiamo avviato una discussione, sebbene cambiare non sia facile. Cambiare in Vaticano non è mai facile. Comunque, questo orario di uscita ha i suoi vantaggi. Come far decantare l’emotività rispetto ad alcune notizie? E trovare il tempo per approfondire con quello “sguardo forestiero”?


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È così, è una necessità che sento come congenita. Comunque, se la copia stampata arriva tardi, il giornale si può leggere, in formato digitale, subito dopo il mio “visto si stampi”. In tutto il mondo, e gratis. Perché al Papa interessa la diffusione. Anche questa è un’altra singolarità, noi non siamo un’impresa commerciale, siamo un’altra cosa. A differenza degli altri quotidiani, qui da noi l’impresa coincide con la missione della Chiesa. Insomma, il numero di copie vendute ha scarsa rilevanza... Esatto, puntiamo più sulla qualità che sulla quantità: i nostri lettori sono infatti non tanti ma molto qualificati e sono sensibili e attenti. C’è l’intero corpo della Chiesa, dai Cardinali fino ai più lontani missionari che dall’Africa mandano le monetine raccolte per l’abbonamento, perché nel giornale sentono il loro legame con la cattedra di Pietro. L’Osservatore ha un’edizione settimanale in inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese. E una mensile in polacco, inaugurata nel 1981, dopo tre anni di pontificato di Giovanni Paolo II. Per otto anni è entrata in Polonia e, pur sottoposta a censura, è stata la prima rivista straniera a farlo. Oggi siamo letti in tutte le sedi diplomatiche nel mondo e dai capi di Stato. Insomma, raggiungiamo uno spicchio di mondo estremamente qualificato e, soprattutto, grazie a Papa Francesco, destiamo molto interesse anche al di fuori della cerchia della cattolicità. In queste pagine abbiamo affrontato spesso il tema della sostenibilità finanziaria di un giornale, che per voi sembra non costituire un problema. Talvolta il tentativo di vendere più copie e guadagnarsi pubblicità spinge all’esasperata ricerca dello scoop o del titolo a effetto.

Tu in un editoriale hai scritto che abbiamo perso il senso del limite, non ci assumiamo le conseguenze delle nostre azioni. Spiegaci meglio… È così. È il tema della libertà disgiunta dalla responsabilità. Un tema sul quale mi sono soffermato, e ho voluto aprire un dibattito, coinvolgendo altri direttori e giornalisti. Ci siamo riuniti lo scorso 29 novembre in una tavola rotonda nella Sala Marconi a Palazzo Pio, per interrogarci su come svolgiamo il nostro lavoro. Perché con la libertà di stampa ci riempiamo la bocca, ed è giusto, è il segno della qualità di una democrazia, ma la responsabilità della stampa è altrettanto importante, perché la libertà priva della responsabilità può trasformarsi in qualcosa di molto pericoloso. Tema delicatissimo, qualsiasi misura che esca dall’autodisciplina deontologica può essere tacciata di atto censorio. Io ho posto una questione quasi politica: in un sistema democratico ogni potere deve avere un bilanciamento, la stampa e l’informazione dovrebbero essere un servizio, ma di fatto sono un potere. E a chi rispondono? Chi li limita o controlla? Non possiamo cavarcela con l’autodisciplina, o con l’affidarci al giudizio dei lettori, che peraltro ci stanno penalizzando, offrendoci un monito di cui non possiamo non tener conto. Vuoi dire che i lettori abbandonano i giornali perché nauseati dalla loro irresponsabilità? C’è anche altro, certo, ma è un fatto innegabile che alcune notizie e il modo in cui si diffondono possono provocare danni enormi, sui quali dobbiamo interrogarci. Pensa a quando l’informazione tocca le inchieste giudiziarie e comunichiamo un

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avviso di garanzia… Presentato e percepito già come una condanna… Ecco, non è che io sia per il bavaglio all’informazione, ma altra cosa sarebbe, per esempio, se dessimo quella notizia se e quando si arriva almeno al rinvio a giudizio. Comunque la questione va posta, perché in alcuni casi i danni sono maggiori del servizio offerto. Tutti i giorni abbiamo casi che finiscono nel tritacarne di un fuoco incrociato tra magistratura e stampa. Così non va. Nella contiguità tra magistratura, inchieste giudiziarie e comunicazione c’è un nervo scoperto, ed è la carne viva della questione. E dalla tavola rotonda cosa è emerso? Riflessioni stimolanti su quanto sia fondamentale il rispetto verso le persone, il controllo, il senso del dovere e dei limiti, l’affidabilità. Non c’è libertà senza responsabilità. Ho pubblicato tutti gli interventi sul quotidiano dell’11 dicembre 2019 e si possono leggere anche online. Vorrei trasformare questo incontro in un appuntamento annuale e coinvolgere anche la stampa internazionale. Chi è intervenuto alla tavola rotonda si è messo in gioco, senza “fare accademia”, ma raccontando storie personali e ponendo quesiti concreti. Per esempio? Antonio Spadaro (direttore di Civiltà Cattolica, ndr) ha posto una domanda precisa: la famosa foto del cadavere di Aylan, il bambino annegato riverso su una spiaggia turca, in quanti l’avrebbero pubblicata? Io forse non l’avrei pubblicata. Cosa significa che i giornalisti devono dare la notizia? Sono esseri umani e, come tali, devono porsi anche questioni di tipo morale su ciò che è giusto fare o non fare. In questo caso non tanto sul dare una

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notizia, ma su come darla… Esatto. Vedo che quasi nessuno si pone la questione dei limiti. Ho apprezzato molto Monica Maggioni quando decise che non avrebbe mai mandato in onda i video dei terroristi che decapitavano i prigionieri. Ha fatto una cosa sacrosanta, ma è stata l’unica a dirlo esplicitamente. Per questo ho chiesto di aprire un osservatorio sulla qualità e le conseguenze di certe nostre scelte giornalistiche. E mi riferisco anche ai talk show televisivi, diventate una sorta di arena con tifoserie urlanti che fomentano l’odio e non promuovono alcun ragionamento, e al mondo dei social. Che è quello della disintermediazione per eccellenza, dove in tanti credono di trovare la verità non edulcorata, elaborata, ma diretta. Ed entrano in gioco l’affidabilità, le relazioni… Quello di internet è un mondo senza padri, dove la voce di chiunque diventa autorevole, con effetti deleteri ormai evidenti. Un mondo che prescinde dalla funzione di mediazione che è propria dei corpi intermedi. Un mondo dove siamo tutti commentatori e pensatori, dove l’incompetenza diventa quasi una virtù, un controsenso…ma questa non è più comunicazione. Il successo dei social è una propaggine di quella lotta all’élite che sta mostrando i suoi paradossi e la sua inconcludenza, per non dire peggio. Un degrado che ha contaminato persino il linguaggio della politica Il Papa su questo ha avuto parole molto significative invitandoci a passare dalla cultura dell’aggettivo alla teologia del sostantivo. Ecco, anche la politica si è ridotta a una gara tra chi trova la migliore aggettivazione e risulta efficace nel breve periodo. Trasformandosi in marketing


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e lasciando indietro la sostanza, la persona, le storie individuali, da conoscere e, soprattutto, da rispettare. Comunque il mondo dell’informazione è cambiato e i social sono una realtà dalla quale non può prescindere neanche il Papa… È innegabile che Papa Francesco oggi sia, forse, il più grande comunicatore, capace e libero giustamente di muoversi in totale autonomia. E lo staff che deve curare la sua comunicazione è quindi coinvolto in maniera impegnativa. Su twitter ha milioni di follower. E noi pubblichiamo i suoi tweet, interagiamo coordinandoci con il sito di Vatican News. L’account twitter Pontifex lo aveva avviato già Benedetto XVI, cogliendo la necessità di una comunicazione spedita e diretta. Francesco arriva e, dopo due anni, prosegue su quella scia e avvia la riforma dei media vaticani. L’Osservatore Romano, prima della radio unico strumento di informazione, è stato affiancato negli anni dalla televisione e poi da tutto ciò che è il digitale. Serve un coordinamento. Francesco istituisce così un dicastero ad hoc e lo affida prima a don Dario Viganò e poi a Paolo Ruffini. Una piccola, ma neanche

tanto piccola, rivoluzione, perché chiama a guidarlo un laico, grande esperto di comunicazione. Perché dalla multimedialità non si può più prescindere, la carta, da sola, è ormai un retaggio del passato. Appunto, e la riforma voluta da Francesco ne tiene conto, il nuovo dicastero ha il compito di creare un’adeguata integrazione tra i nostri mass media: la radio, il Centro Televisivo Vaticano, l’Osservatore Romano e tutto ciò che adesso è rete. Noi direttori ci incontriamo in riunioni periodiche settimanali il lunedì pomeriggio, nell’ordinarietà. E ogni volta che si presentano momenti più delicati che necessitano di un efficace coordinamento. Ma il Papa, il tuo editore, è contento del giornale? Qualche tempo fa mi ha avvicinato e mi ha detto: «Io ho un problema». Preoccupato, gli ho chiesto: «Quale, Santo Padre?». «Ogni giorno perdo un’ora del mio tempo per leggere l’Osservatore Romano». Poi mi ha chiesto: «Lei fa un giornale di alto livello, è in grado di mantenerlo?». E io: «Ci proviamo». Con il suo sottile umorismo, ma mi è parso un bell’apprezzamento, giusto?

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SKY TG24, LA NOTIZIA E TUTTO IL RESTO

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ncontriamo virtualmente, come si conviene ai tempi del coronavirus, Giuseppe De Bellis, 42 anni, direttore di Sky TG24 dal 1° gennaio 2019. Medialoghiamo a distanza, lui in sede, a Milano, tra mille conference call di lavoro e un fiume di notizie drammatiche che si susseguono da settimane. L’informazione classica, con l’avvento dei social e l’avanzata di movimenti anti-establishment, è entrata in crisi. Però poi arrivano tragedie come quella che sta vivendo il pianeta oggi e gli equilibri cambiano di nuovo. E la tv torna ad acquisire una centralità che sembrava aver perso. Sì, quando la notizia è una vera, grande, gigantesca notizia, la tv riprende il suo scettro per autorevolezza e per il flusso continuo di aggiornamenti. È accaduto di recente, per eventi di risonanza mondiale, come il rogo di Notre-Dame, o per situazioni come quella che stiamo vivendo con il coronavirus. In questi casi, fare la tv è ancor di più un onore e una responsabilità. Voi con Sky TG24 avevate comunque già messo a punto adeguate contromosse Perché la grande cavalcata dell’informazione digitale, e soprattutto dei

© julehering

FATTI, ANTEFATTI, CONTESTI: QUANTO SERVE PER FARSI UN’OPINIONE. LA FRECCIA INCONTRA IL DIRETTORE DELLA TESTATA ALL NEWS GIUSEPPE DE BELLIS

Giuseppe De Bellis

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© Carmine Conte

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social media, imponeva alla tv una riflessione. Parlo della tv che fa informazione 24 ore su 24. Che per anni è stato il mezzo più veloce e immediato e all’improvviso rischiava di diventare vecchio. Possibile? Sì, possibile. A questo punto c’erano due scenari: resistere o rilanciare. Noi da un anno e mezzo abbiamo rilanciato. Come? Integrando. Sviluppiamo tantissimo l’informazione web e social con il nostro brand che significa rigore, autorevolezza e velocità. La tv resta però il nostro punto di forza, sebbene per la gran parte delle notizie piccole, quotidiane, basic non può competere sulla velocità con il web e i social. Quindi, oltre a dare le notizie, le contestualizza, le spiega, le interpreta e le sviluppa. In che modo?

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Scegliendo di più. L’ordine cronologico delle notizie conta meno, notizia nuova non scalza più notizia vecchia, ma notizia importante scalza notiziola. E la più grande merita approfondimento, quindi momenti dedicati con esperti per capire di più e meglio. Il nostro claim è: «Per farsi un’opinione, serve uno sguardo d’insieme. Sky TG24, la notizia e tutto il resto». Tornando allo scenario odierno, inedito e inaudito, che ruolo ha giocato e gioca l’informazione? Un ruolo fondamentale. Ha riscoperto la sua rilevanza, che qualcuno metteva in discussione. È tornata a essere un bene primario. Senza l’informazione conteremmo probabilmente milioni di morti nel mondo. Eppure anche i media, parlo in generale, forse qualche autocritica dovrebbero farla. La critica è che spesso vengono forniti dati senza interpretarli. E questo genera confusione. Noi non dobbiamo solo riportare, ma anche comprendere e decrittare. In un contesto complicatissimo, dove le notizie si rincorrono, tra presunte e reali fake news, distorsioni, annunci di complotti, falsi ma verosimili, e di scoperte terapeutiche mirabolanti dopo poco smentite, come si può fare informazione di qualità e affidabile? Si deve avere il coraggio di aspettare. Di non cedere alla tentazione della velocità. Perché la velocità è nemica della precisione. Del discernimento del vero dal verosimile e dal falso. È difficile e per questo ci vuole tempo: dieci minuti, mezz’ora, un’ora, due ore in più per capire e poi diffondere una notizia. Oggi più che mai.


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Sei alla guida di questa testata da 15 mesi, come si connota la “tua” Sky TG24? Come detto, il nostro claim editoriale spiega bene la nuova filosofia. Puntiamo allo sguardo d’insieme. «Sky TG24, la notizia e tutto il resto» significa aggiungere da subito più informazioni di contesto, punti di vista laterali e tutti gli elementi che davvero permettono di capire. E poi si tratta anche di togliere. Oggi la sfida per una testata che si voglia qualificare come autorevole non è più la copertura totale, ma la scelta di non parlare del superfluo, del ridondante, in qualche caso anche del fittizio che dilaga e ci invade. È un esercizio essenziale se vuoi rafforzare la tua identità e accrescere la credibilità. Ma scegli bene solo se sai chi sei e dove hai deciso di andare. Radici solide fanno albero robusto. Noi ci posizioniamo nel solco segnato da 15 anni di lavoro corretto ed efficace di chi mi ha preceduto e di tutta la redazione. Quando è arrivata in Italia, Sky TG24 è stata subito percepita come una tv all news con un respiro e un’immagine internazionali, che fa della tensione verso un’informazione obiettiva un valore chiave, con una proposta diversa e riconoscibile rispetto ad altre testate. L’indiscutibile terzietà e l’indipendenza rimangono l’aspetto più importante del nostro posizionamento. Torno alla metafora di prima, radici editoriali estese in altri Paesi e continenti fanno la differenza. Aggiungono la possibilità di avere una rete di collaborazioni, contenuti, esperienze uniche. Essere entrati in Comcast, proprietaria di NbcNews, ci offre possibilità che in pochi possono

avere. Così come condividere l’esperienza di informazione con Sky News nel Regno Unito alimenta le nostre possibilità tecniche, tecnologiche ed editoriali. Ci ha permesso di andare in giro per il mondo a raccontare grandi storie e di lavorare a inchieste molto delicate collaborando con le altre testate del Gruppo. La nostra intervista a Nicolás Maduro l’abbiamo data a tutto il Gruppo e ceduta anche a Reuters e CNN. La mia intervista a Yuval Noah Harari è andata anche su Nbc e Sky News. Sul coronavirus abbiamo lavorato tantissimo insieme ai nostri colleghi americani e inglesi. Al di là della straordinarietà di queste settimane, per farsi preferire ad altre, una testata giornalistica oltre ad autorevolezza e indipendenza deve offrire anche un menù attrattivo e gradevole. Qual è il vostro? Il nostro palinsesto ordinario ormai non è più caratterizzato dalle varie edizioni delle news che si susseguono una dietro l’altra, con il riferimento all’ultim’ora e all’agenda quotidiana come elementi che aggiornano una proposizione fisiologicamente ripetitiva. L’enfasi adesso è sui mini contenitori, una sorta di tessuto connettivo e piattaforma di lancio dei notiziari. Con i volti dei colleghi alla conduzione, sempre gli stessi, così da diventare familiari al nostro pubblico. Questo al netto delle grandi notizie. Perché la grande notizia resta la nostra vita: di fronte alla quale tutto si annulla e tutto ricomincia. È stato così per la crisi di governo dell’estate scorsa. In un giorno è cambiata l’Italia e per raccontarla abbiamo cambiato registro anche noi: siamo andati in edizione monografica per tre settimane. La copertura del

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coronavirus è stata una sfida ancora più forte: la monografica dura da mesi. Tenere in piedi e far girare una testata giornalistica così possente non è un esercizio semplice. Quanti siete e come siete organizzati? Siamo una struttura complessa, che lavora a ritmi molto intensi nella quale devi delegare molto, sincronizzarti e fidarti. Facciamo quattro riunioni al giorno fisse, più altre in base agli eventi. Ma il lavoro è continuo e diverso ogni giorno. Siamo poco meno di 300, compresi produttori, montatori, registi, cameramen. I giornalisti sono 150 circa, con quelli della sede di Roma e di sette sedi regionali. Abbiamo quattro sedi estere a New York, Londra, Tokyo e Bruxelles. Ho una squadra forte e la sto riorganizzando in ragione del nuovo tipo di offerta che abbiamo cominciato a impostare. Se cambi la filosofia di messa in onda devi cambiare per forza anche l’organizzazione, però il gruppo di lavoro è rimasto sostanzialmente immutato. Allora parlaci dei tuoi più vicini collaboratori… Ci sono i vicedirettori che hanno contribuito al successo di Sky TG24 fino a oggi, come Ivano Santovincenzo, vicario, Alessandro Marenzi, delegato all’economia e alle inchieste, e Marco Marini, responsabile dell’organizzazione del lavoro, dell’intake. A loro si è aggiunto Omar Schillaci che viene da Wired e ha la delega allo spettacolo e alle iniziative offline, come gli eventi sul territorio. Un professionista contemporaneo, versatile, che si integra perfettamente con il resto del gruppo. Con tutti loro lavora a strettissimo contatto l’ufficio centrale, guidato da Daniele Moretti.

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Anche tra i caporedattori c’è grande complementarietà, le professionalità di ciascuno si incastrano con quelle degli altri. E poi un’ottima squadra di coordinatori, conduttori, inviati, redattori, produttori, registi, montatori, operatori e tecnici. È una redazione piena di talento. Perché alla fine l’organizzazione conta, ma sono le donne e gli uomini a fare la vera differenza. Ho avuto la fortuna di avere avuto editori che mi hanno concesso grande fiducia permettendomi di far emergere il merito. Se ci sono energie, talenti, professionalità che portano valore alla testata, brio e spunti nuovi, devono poter emergere ed essere premiati. Niente più di questo consente a un canale di essere sempre fresco e innovativo, vivo. Io ho il compito di guidarli, di indicare la direzione, tirare fuori da loro il meglio e far capire a tutti che anche noi ci evolviamo: non saremo mai quelli che eravamo nel 2003. La pandemia di coronavirus ha cambiato il modo di lavorare in tanti settori, con l’estesa adozione dello smart working. Sta cambiando molto anche il modo di fare informazione televisiva. È vero. Noi avevamo già cominciato un percorso di smart working, che in tv sembrava difficile da praticare per l’essenza stessa della tv, con la necessità di studi, regie, attrezzature e con i suoi riti, riunioni, fisicità. La crisi del coronavirus ha imposto un’accelerazione. Abbiamo innanzitutto lavorato su una nuova organizzazione, poi sugli strumenti: li abbiamo provati tutti e alla fine abbiamo trovato la nostra strada. La self production, ovvero il giornalista che con pochi strumenti, Skype, LiveU


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e altre applicazioni, può andare in onda quasi da solo. La stavamo sperimentando da mesi, ora è operativa in maniera massiccia. Sappiamo che si può fare, ma sappiamo anche che, in condizioni di normalità, la tv non può essere fatta tutta così. Gli strumenti di cui mi parli sono quelli che ti consentono anche di competere con l’immediatezza di altri media digitali. Ecco, quello della crossmedialità è un altro terreno interessante. Cambiano i linguaggi, in parte anche il pubblico. Come accennavo, abbiamo creato e sviluppato siti e pagine social molto competitivi e convincenti, integrati sempre più strettamente nel nostro sistema di offerta, e su questo aspetto investiremo ancora di più. Stiamo crescendo con numeri impressionanti e vogliamo scalare le graduatorie dei consensi digital. Ma non ha alcun senso per il canale misurarsi con i nuovi media in termini di velocità. Ogni mezzo ha la sua specificità ed è su questa che vogliamo lavorare: fare informazione su instagram è diverso da farla su facebook, twitter o tiktok. Ognuno ha il suo linguaggio e la sua cifra, ma per ognuno c’è un filo conduttore: l’identità del brand. Che però in quelle arene non sempre è percepito come valore. Lì purtroppo

le regole sono diverse, o non ci sono. Alcuni vostri giornalisti hanno subito persino offese e minacce. Come vi state muovendo? Le minacce non arrivano dal mezzo in sé, ma dall’utilizzo che l’utente ne fa. Noi possiamo solo continuare a fare bene il nostro lavoro e difenderci dagli attacchi con i fatti. Non ci eviterà di essere oggetto di insulti, ma ci renderà certi di aver fatto bene il nostro dovere. Gli insulti e le minacce qualificano chi li e le fa. Noi possiamo e dobbiamo denunciare. Torniamo a questi giorni difficili. Come saremo dopo, come ci cambierà, se ci cambierà, questa pandemia? E il nostro sistema economico e produttivo come ne uscirà? Saremo diversi. Credo più attenti agli spazi di condivisione, avremo uffici diversi, organizzazioni del lavoro diverse, abitudini diverse. E dovremo fare per forza i conti con un mondo che sarà alle prese con la più grande crisi economica dal Dopoguerra. Ci rialzeremo? E come? Sarà dura. Ma ci rialzeremo sicuramente. E forse sarà anche l’occasione per disegnare un futuro migliore di quello che potevamo immaginare. Ma prima passeremo per una crisi di identità globale. La vera sfida sarà trasformarla in un’opportunità.

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INDIPENDENZA COME GARANZIA DI AFFIDABILITÀ L’INFORMAZIONE ONLINE SECONDO FRANCO LOCATELLI, DIRETTORE DEL GIORNALE DI ECONOMIA E FINANZA FIRSTONLINE

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a lunga quarantena ha impresso un’accelerazione ai sovvertimenti gerarchici che vive da tempo la costellazione dei media, provocando «un grande boom dell’informazione online». Muove da qui il nostro dialogo con Franco Locatelli, socio fondatore, amministratore e direttore responsabile di FIRSTonline. Professionista di grande esperienza, ha vissuto già altre rivoluzioni nel mondo giornalistico. A quella digitale ha creduto con tanta convinzione che, come racconta egli stesso sulla testata, ha cominciato a progettare un giornale online di informazione economica e finanziaria il giorno dopo la sua uscita, nella primavera del 2010, dal Sole 24 Ore, dove ha trascorso più di 25 anni, molti dei quali da capo della redazione Finanza e Mercati. Ai tempi del coronavirus il web stravince sui media tradizionali? Direi di sì. Noi di FIRSTonline ne siamo una testimonianza. Ad aprile abbiamo stabilito il record di visite dirette al sito, oltre 207mila in un solo giorno. Il trend ascensionale era già iniziato l’autunno scorso ma è stato molto sospinto

Franco Locatelli

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© vectorfusionart/AdobeStock

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dall’emergenza coronavirus. Tant’è vero che a marzo abbiamo registrato il record mensile che, in termini aggregati, ossia sommando alle visite dirette quelle alla nostra pagina facebook e ai nostri contenuti veicolati dal portale di Microsoft Italia, vale quattro milioni e 700mila visite, in ulteriore crescita ad aprile. Quali le ragioni? In queste settimane sono cambiate le abitudini e gli stili di vita. C’è una grande fame di notizie e di conoscenza perché la gente ha paura, sia del coronavirus sia della profonda recessione che ci aspetta. Insomma si legge di più, ma non i giornali di carta, che in questo periodo si comprano sempre meno, quanto le testate online che sono in gran parte ancora gratis. E c’è più tempo, restando a casa, per approfondire,

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soffermarsi sui servizi giornalistici e valutarne la qualità. Che mi sembra un tema fondamentale. Il web finora è stato ed è terreno fertile anche per fake news, post-verità, battaglie discutibili come quelle dei no vax… In una nostra recente intervista, la professoressa Maria Carla Re, a capo dei virologi del Policlinico Sant’Orsola di Bologna, ha detto che l’unica cosa positiva di questa tragedia è proprio la sparizione dei no vax, che non hanno più il coraggio di presentarsi dopo le sciocchezze seminate in questi anni anche sui social. La verità è che le loro battaglie, come tante bufale costruite ad arte sul web, scaldano gli animi e fanno presa. Però con la situazione che stiamo vivendo la gente ha bisogno e cerca informazione di qualità. Può anche cadere nelle bufale una, due, tre volte ma alla fine impara a distinguere tra le testate affidabili, credibili e quelle che non lo sono, e premia le più serie. Cercandole però in una realtà dove si trova tutto gratis, o quasi, come hai appena detto, mentre la qualità ha un costo e dovrebbe avere un prezzo. Ma non è stata ancora trovata una formula vincente in assoluto per farsela pagare. Salvo pochi casi di successo nel mondo anglosassone, come alcune testate per lo più americane che sono riuscite ad affermare questo principio. In Italia siamo in una fase analoga a quella conosciuta all’inizio dalle paytv, frenate dal fatto che il pubblico, abituato ad avere a disposizione tanti canali gratis, non ne percepiva quei vantaggi che poi ha piano piano imparato ad apprezzare. Credo che accadrà


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così anche nell’informazione online, si arriverà a capire che se paghi puoi avere più qualità e un prodotto ancora più raffinato. Nel frattempo come se ne esce? Voi, soprattutto, quale soluzione avete trovato? Noi, con First, abbiamo costruito un modello di business che si basa su due leve, quella pubblicitaria e quella degli abbonamenti, ma non individuali. La pubblicità online sta crescendo perché le aziende capiscono che costa meno, dura di più e arriva in tutto il mondo, mentre il giornale arriva solo dove lo vendi. Gli abbonamenti sono corporate e li sottoscrivono circa 40 grandi aziende. Questo ci evita di essere colonizzati, ci garantisce le basi per un’informazione pluralistica insieme alle risorse per rendere sostenibile il nostro modello industriale che ruota su una redazione snella, con sette giornalisti e due tecnici (una segretaria e un webmaster), ai quali si aggiungono molti autorevoli collaboratori a titolo volontario. Un ruolo speciale svolge poi il nostro presidente, Ernesto Auci, ex direttore del Sole 24 Ore, a cui è delegata la gestione manageriale della società ma che, essendo anche un grande giornalista, scrive spesso commenti e analisi sull'attualità economica e politica. E chi è l’editore? Gli editori siamo noi, una società composta da cinque azionisti, quelli di controllo siamo io e il presidente Auci. Siamo tra i pochi siti d’informazione che non hanno un grande Gruppo alle spalle. E così non ci sono condizionamenti esterni, né timori reverenziali per chicchessia. La gente percepisce il valore di questa indipendenza. In più,

da nove anni chiudiamo il nostro bilancio in pareggio o in attivo. Credo che questo dica tutto sulla qualità sia del nostro modello di business sia dell’informazione che offriamo. Che è prevalentemente economico-finanziaria. Di fatto siete quel che si dice un “verticale”. E allora come spieghi il successo di queste settimane? È vero, non era scontato che l’emergenza coronavirus potesse avere questi effetti su di noi, è più un tema da sito generalista, però noi lo abbiamo affrontato con un’informazione selettiva, semplice, chiara, ma soprattutto valorizzando gli aspetti più strettamente economici, finanziari, industriali e sociali, e questo probabilmente è piaciuto al pubblico. Insomma, l’economia e la finanza evidentemente appassionano. Ma ci sarà anche altro all’origine di questo successo… È che noi siamo solo impropriamente un sito d’informazione, in realtà siamo un web journal, che non si limita a dare notizie in tempo reale ma offre un’informazione di servizio, la spiegazione delle notizie con l’indicazione delle chiavi interpretative e di lettura dei fatti, soprattutto quelli che più interessano larghi strati di lettori e cittadini. E poi approfondimenti, commenti, analisi, interviste in esclusiva. Caso rarissimo, perché gli altri siti in genere importano le interviste dai giornali di carta, noi invece le realizziamo ad hoc. Ecco, la miscela che ho descritto rappresenta il format di successo che ci ha portato ai risultati di questi giorni e a essere il quinto sito nazionale di economia e finanza, dietro a due colossi editoriali

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con decine e decine di giornalisti e due siti di trading online. Facciamo una riflessione più generale: economico o politico, sportivo o di cronaca, il buon giornalismo ha le sue regole. Valgono anche nell’epoca attuale? Sì, senz’altro, ma un dato certo è che la rivoluzione digitale sta spiazzando il giornalismo cartaceo, a meno che, come è successo negli Stati Uniti, quest’ultimo non si ripensi valorizzando la qualità e accettando il concetto “online first”, perché altrimenti il giornale continuerà a uscire inevitabilmente vecchio. Valorizzare la qualità. È un obiettivo tanto scontato quanto vago. Come lo declina FIRSTonline? In primo luogo con l’indipendenza di giudizio, e il nostro assetto azionario ce lo permette. Poi lavorando su due fattori che hanno costituito le chiavi della nostra ascesa: da un lato il format che ho descritto prima, costituito da una sapiente unione di informazione in tempo reale, di servizio e di approfondimento, dall’altro una forte identità basata sull’affidabilità. Chi ci legge non deve smarrirsi e perdere tempo per capire se le notizie che diamo sono vere o no. Sono vere! Certo, essendo in real time possono evolversi, e noi le aggiorniamo. Quindi c’è l’affidabilità delle notizie, la qualità, la competenza, la fantasia, perché i titoli, come i servizi, devono essere creativi, devono intrigare il lettore, attirarlo, incuriosirlo. Ma fondamentale, direi il pilastro di un’informazione affidabile, è l’indipendenza. Torniamo alle specificità dell’informazione digitale. Oltre alla velocità e all’aggiornamento continuo ci sono

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altri plus, come la multimedialità. Che può essere declinata in molti modi: il primo è la facilità di instaurare rapporti diretti con il lettore. Riceviamo molti interventi, opinioni, commenti che pubblichiamo e ai quali qualche volta rispondiamo, soprattutto quando ci chiedono informazioni. Poi abbiamo un nostro canale youtube per i video e stiamo facendo esperimenti per uno sviluppo sempre maggiore del podcast, per consentire l’ascolto dei nostri principali servizi. Quella dell’audio-lettura è una modalità di fruizione non ancora molto diffusa, ma con un trend in crescita e tutte le principali testate hanno cominciato a muoversi in tal senso. Questo mese FIRSTonline compie nove anni. Come si è evoluta? Resta l’ammiraglia del nostro Gruppo, però nel tempo abbiamo creato altri tre siti verticali specialistici: uno è First Arte, dedicato principalmente al mercato dell’arte; un altro, First&Food, parla di enogastronomia e made in Italy in campo agroalimentare; il terzo è First Tutorial, che si propone di aiutare e assistere il lettore e il cittadino di fronte ai problemi con il fisco, la burocrazia, le bollette, o anche a piccoli problemi quotidiani. Che so, ti cade un telefonino nell’acqua: lo butti o lo puoi recuperare? E noi spieghiamo come lo si può recuperare. Una domanda al giornalista economico-finanziario di lunga e comprovata esperienza. Come lo vedi il futuro del Paese dopo lo tsunami Covid-19? Purtroppo vedo buio, intanto perché c’è grande incertezza sulla possibilità di domare il coronavirus. Gli scienziati ci dicono che dovremo conviverci per


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mesi e potremo vincerlo solamente quando sarà trovato un vaccino, se va bene nel 2021. Questa incertezza si riflette non solo nella vita di tutti noi ma anche nell’economia e nella finanza. Non sapendo qual è il futuro prossimo, la gente tende a non consumare e le imprese a non investire. Il combinato disposto di questi due elementi fa sì che le previsioni sull’andamento delle economie mondiali, e di quella italiana in particolare, siano molto pesanti. C’è la possibilità che alla fine del primo semestre 2020 il Pil italiano abbia un calo del 15% o anche maggiore. La recessione, se va bene, si attesterà a livello annuo a -6%, ma può arrivare a -9%. Significa non solo che i redditi si ridurranno ma che molte aziende non riapriranno e molti posti di lavoro spariranno. Poi bisognerà capire come sarà la ripresa, la speranza di tutti è che la curva sia a V, che a una caduta rapida segua una risalita rapida, però ci sono molti elementi che inducono a pensare che non sarà così, almeno per un Paese zavorrato dal debito pubblico come l’Italia. La ripresa ci sarà ma non sarà immediata, sarà molto lenta, quindi si aspettano tempi difficili. Desolante. Vorrei provare a chiudere l’intervista con qualche nota positiva. C’è la pur remota possibilità di dire che non tutto il male vien per nuocere? Ad aprile abbiamo pubblicato un articolo di Giorgio Brunetti, professore eme-

rito della Bocconi, che indicava come non tutte le attività perdano durante il coronavirus, ci sono filiere in grande crescita, come quella dell’e-commerce, dei gestori delle piattaforme tecnologiche, del digitale. Poi in queste settimane, con lo smart working, abbiamo fatto un esperimento di massa, e molti hanno capito che da remoto si può lavorare meglio. Certo, non è applicabile a tutti i settori. Però, me lo confermava un economista del lavoro, non solo metterà radici, ma migliorerà la produttività, porterà a decisioni più rapide, renderà le riunioni molto sobrie e veloci, aiuterà a migliorare l’organizzazione complessiva del lavoro. E poi c’è una speranza. Quale? Franco Amatori, docente alla Bocconi, tra i più celebri storici dell’economia, in un articolo che ha scritto per noi, ragionava sulle possibili condizioni per un terzo miracolo economico che, dopo quelli del primo ’900 e del secondo dopoguerra, permetta all’Italia di riemergere e affermarsi. Allora, più che sperare, lavoriamo perché così sia. Secondo Amatori occorre evitare «una chiusura dell’Italia su stessa» facendo emergere «le forze profonde […] le energie e le competenze imprenditoriali capaci di aprire il Paese alle dinamiche dell’economia globale […] valorizzare l’integrazione europea […] non aver paura dell’inevitabile integrazione mondiale».

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MEDIALOGANDO GIUGNO 2020

«AMO LA RADIO» ANCHE IN TEMPI DI PANDEMIA UN MIX VINCENTE DI INTRATTENIMENTO, INFORMAZIONE, INTERAZIONE. NE PARLIAMO CON MASSIMILIANO MONTEFUSCO, GENERAL MANAGER DI RDS, E CON GIANLUCA TEODORI, A CAPO DELLA REDAZIONE GIORNALISTICA

Gianluca Teodori

«A

mo la radio perché arriva dalla gente. Entra nelle case. E ci parla direttamente». Così cantava Eugenio Finardi nel 1976, due anni più tardi a Roma nasceva RDS, una delle prime radio private italiane, oggi la seconda per audience, con cinque milioni e mezzo di ascoltatori medi al giorno che superano, su alcuni contenuti distribuiti a un circuito di 26 emit-

Massimiliano Montefusco

tenti locali sparse in tutta Italia, i nove milioni. Chiediamo a Massimiliano Montefusco, general manager di RDS, e a Gianluca Teodori, a capo della redazione giornalistica, e di fatto direttore responsabile dei contenuti informativi della radio, quanto ci sia di vero, ancora oggi, o forse oggi più che mai, nelle parole di quella canzone.

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[M.M.] Come RDS abbiamo commissionato una ricerca dalla quale emerge che durante i quasi due mesi del lockdown i nostri ascoltatori si sentivano ancora di più parte di una community, e chiedevano di partecipare e interagire con noi. Ed è proprio questo ruolo attivo di chi ci segue, una sorta di caratteristica genetica del medium radiofonico, che ha consentito alla nostra emittente, ma un po’ a tutte le radio, di mantenere elevati livelli di ascolto anche da casa e avere la meglio sulle piattaforme on demand. Certo, ha giovato anche la nostra capacità di saper mixare intrattenimento e informazione. Compito che immagino vi siate impegnati ad assolvere con grande attenzione, perché in certi momenti i due aspetti contrastavano drammaticamente, tanto da apparire antinomici. [M.M.] Era un dualismo inevitabile: da

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un lato informare in modo corretto e preciso, dall'altro trasmettere un mood positivo, capace di dare la carica e, lavorando sulle emozioni, anche distrarre per quanto possibile dalla situazione generale e da quella individuale, con gran parte della popolazione italiana costretta a vivere in casa, con uno spazio limitato a disposizione, poca o nessuna privacy. Andiamo sull’informazione. Come trattare in radio una vicenda così delicata e, soprattutto, inedita e inimmaginabile? [G.T.] Ci siamo confrontati a lungo tra di noi, all'inizio, per capire se fosse giusto drammatizzare il quadro o renderlo in termini più normali. Abbiamo cercato di capire, e trovare un adeguato equilibrio, così ci siamo mossi in anticipo su temi diventati poi dominanti, facendo le stesse domande piuttosto elementari che si poneva la gente. Abbiamo sentito la Protezione Civile e Angelo Borrelli ben prima della realizzazione del comitato tecnico scientifico a proposito dei controlli su chi arrivava dalla Cina attraverso scali intermedi. E il professor Roberto Burioni, già a febbraio. Alla fine lo tsunami ha travolto tutti, compresi voi… [G.T.] E la prima reazione è stata di panico, perché ti rendi conto di come tutto venga fagocitato da un gigantesco tragico macro argomento. Però, se vuoi, da un punto di vista strettamente giornalistico il lavoro diventa persino più facile, perché hai tempo di metabolizzare la notizia, riflettere su come trattarla, nei suoi molteplici aspetti. E quello che cambia, nel tempo, abbiamo modo di seguirlo in strettissima relazione con le richieste dei nostri ascoltatori.


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E cosa hanno chiesto e chiedono? [G.T.] La loro è una curiosità a 360 gradi sul fenomeno e ci chiedono di non indulgere al catastrofismo o al complottismo. Abbiamo cercato di sentire un po' tutti perché ciascuno possa farsi una propria idea attraverso approfondimenti e spunti di riflessione, senza mai cavalcare una sponda o un'altra. Noi i provvedimenti del governo li registriamo e cerchiamo di renderli intellegibili. Non diciamo se sono giusti o sbagliati. L’equilibrio va trovato anche tra informazione e approfondimento, tra esposizione dei fatti e commento. Il vostro palinsesto lo consente? [G.T.] Ogni giorno trasmettiamo 20 notiziari in 18 ore e nove appuntamenti di approfondimento con il nostro format 100 secondi: cinque quotidiani con Enrico Mentana, uno con Riccardo Luna sull'aspetto tecnologico del nostro vivere, uno un po' più leggero affidato a Carlo Rossella e due di sport. Poi quattro rubriche che fanno parte del nostro arredo quotidiano: una dedicata al lifestyle, una alle imprese del made in Italy, un appuntamento green e un altro dedicato ai motori. Con l’esplosione dei contagi e la conseguente emergenza sanitaria e sociale c’è stato un immediato allineamento, avvenuto in maniera estremamente armonica, che ha riguardato sia le rubriche sia ovviamente i 100 secondi. A ogni appuntamento un compito diverso, quindi. Separando fatti da opinioni. [G.T.] Certo. Il nostro notiziario è molto snello, tendenzialmente non va oltre i due minuti, punta a un'informazione diretta, spicciola e didascalica. Nei momenti più critici, da metà marzo a fine

aprile, giusto il tempo per rendere conto delle cifre che ci investivano come un macigno. Le rubriche in pochi giorni sono diventate i nostri ulteriori spazi di approfondimento. Lifestyle è stato modulato sulla vita in casa, su aspetti del quotidiano che fino ad allora non avevamo mai pensato di affrontare, dall'alimentazione all'esercizio fisico, fino ai risvolti psicologici derivanti dalla grande incertezza e dall’isolamento. Dopo una settimana, nella rubrica green avevamo già iniziato a parlare dello smaltimento dei dispositivi di protezione personale, un tema diventato oggi dibattutissimo. Con Made in Italy abbiamo raccontato delle conversioni produttive, dai marchi di moda che si mettevano a fare mascherine a quelli della tecnologia che lavoravano sui respiratori. Ed è stato interessante scoprire questa dote di versatilità dell'impresa italiana capace in breve tempo di cambiare pelle. [M.M.] Il nostro obiettivo era tenere aggiornati gli ascoltatori con un’informazione concisa, senza assumere il ruolo del radiogiornale continuo e con spunti di riflessione live ma, allo stesso tempo, accompagnarli durante tutta la giornata, lavorare nell’area del sentiment e delle emozioni positive e toccanti. Quindi un intrattenimento che generi empatia, condivisione. Corretto? [M.M.] Coinvolgimento è la parola giusta. C’è un altro studio sulle radio italiane, commissionato da TER (società che rappresenta la quasi totalità delle componenti produttive pubbliche e private della radiofonia italiana, ndr) durante il lockdown che, a fronte di un’inevitabile per quanto contenuta

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diminuzione di ascoltatori – legata alla forte riduzione della mobilità automobilistica e, con essa, di una delle occasioni privilegiate di fruizione radiofonica – ha registrato una crescita di partecipazione interattiva del pubblico. Il 35% delle persone in questo periodo ha ascoltato la radio più a lungo e con maggiore attenzione, e in 37 milioni l’hanno definita l'amica sempre vicina. Perché rasserena e ci fa sentire uniti, hanno detto in tanti. [G.T.] Empatia e condivisione valgono anche per l’informazione e le nostre rubriche. Sempre con Lifestyle abbiamo trattato un tema clamorosamente importante durante il lockdown, e da tanti invece trascurato, quello dei bambini. Gli aspetti psicologici, l’insegnamento, l’osservazione del loro comportamento. E i nostri ascoltatori hanno gradito, sono stati coinvolti. Veniamo al tema della crossmedialità e di un’evoluzione genetica del mondo dei media. Ormai anche RDS da semplice emittente radiofonica è diventata un’altra cosa: in una vostra presentazione vi definite “entertainment company”. [M.M.] Lo siamo diventati perché generiamo una serie di opportunità di incontro, intrattenimento e coinvolgimento del pubblico, inclusi eventi e concerti che speriamo possano quanto prima tornare a svolgersi. Poi ci sono due aspetti: primo la fruizione dei contenuti che avviene da tanti diversi device, oltre ai tradizionali apparecchi radio si va dagli smartphone ai pc, dai tablet alla tv fino agli smart speaker che stanno prendendo sempre più piede nelle nostre case. Poi i contenuti che si plasmano in una specie di co-creazione continua con chi interviene sulle varie piattaforme digitali.

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Sulle quali siete ben presenti. Sì, con una redazione digital che eroga contenuti di evasione e intrattenimento, anche perché social media come instagram o facebook nascono per quello. Quei contenuti li ritroviamo in maniera diretta e intera su RDS.it, producendo una sorta di ping pong con la radio che li tratta in una modalità audio, con un’attitudine a trasformarli in audiovisivi e in video veri e propri da fruire soprattutto in mobilità con gli smartphone. Ormai siamo ben oltre quello che cantava Finardi in tempi nei quali interagivi con la radio chiedendo per telefono una canzone e una dedica. [M.M.] Abbiamo conosciuto l'interazione ipertestuale, attraverso un sms o un post su facebook o messenger e oggi quella vocale con i messaggi su whatsapp. Così, su un determinato spunto o sondaggio, interpelliamo gli ascoltatori e mandiamo in onda i loro messaggi e le loro riflessioni. Tutto questo rafforza l'effetto community e la spinta di protagonismo attivo, sfrutta le tante piattaforme social disponibili e, alla fine, massimizza l'efficacia del mezzo radiofonico. Torniamo a oggi. Eccezionalità e normalità, quella che tutti auspichiamo arrivi presto sebbene avrà forse una fisionomia diversa da quella che conoscevamo. Cosa è cambiato e cambierà nel mondo della pubblicità sui media e dell’informazione? [M.M.] Intanto, durante il lockdown il 50% delle aziende per vari motivi non ha investito. Per cominciare, banalmente, non aveva la creatività opportuna. I messaggi già confezionati erano distonici rispetto a una realtà mutata in maniera così radicale. Le imprese commerciali erano e molte restano ancora chiuse,


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l’automotive – che rappresenta il 30% del nostro market share, bloccato. Ora occorre necessariamente cambiare il paradigma, ridisegnare i servizi e i prodotti, reinterpretare il ruolo anche in termini di comunicazione per conquistare la soddisfazione e la vicinanza degli ascoltatori e dei consumatori i cui atteggiamenti sono profondamente cambiati dal clima di incertezza che viviamo. Tutte le aziende stanno rivisitando i propri modelli di business, lavorando a una comunicazione integrale, in una modalità omnichannel, puntando al digitale e a superare la dicotomia tra reale e virtuale. [G.T.] Nell’eccezionalità degli eventi siamo rimasti legati al nostro palinsesto usando tutte le rubriche che avevamo a disposizione per informare, sempre con equilibrio, su quel che accadeva. Solo nella settimana di Pasqua abbiamo cercato di evadere, ritrovare una certa normalità parlando dei prodotti consueti della festività. Ma il discorso è scivolato sull’attualità da cui non puoi sfuggire, su come le aziende avevano affrontato

l'emergenza continuando a lavorare con le difficoltà di un organico ridotto e controlli molto stringenti. Sulle rubriche di sport, come quella sui motori, si è aperta l’unica vera voragine. [M.M.] Sì, il nostro palinsesto ha funzionato, soprattutto con il format peculiare dei 100 secondi che ha arricchito la cronaca, grazie all’intervento di direttori di successo capaci di aprire una finestra sul mondo andando oltre il solo ascolto degli esperti. E raggiungendo un target molto ampio, perché i 100 secondi diventano un podcast, le riflessioni dall’ambito radiofonico passano a quello multimediale, fruibili sia in app sia sui nostri siti, in modalità audio e audiovideo. Insomma, le regole del giornalismo non cambiano ma non sempre il mezzo è il messaggio. O non del tutto. Piuttosto il mezzo può moltiplicare il messaggio, esaltandone alcuni contenuti. È anche evidente che i ferri del mestiere cambiano e diventano sempre più smart e digital. Ma la radio su questo fronte è già molto avanti. E resta evergreen. Ancora in salute e sulla breccia.

Update Cross-medialità e creazione di una community co-creatrice dei contenuti. Oggi RDS ha arricchito il suo ecosistema di un altro strumento, la Social TV, al canale 265 del digitale terrestre. Si tratta di una novità assoluta nel panorama mediatico, con una grande capacità di interazione che unisce lo streaming radiofonico ai contenuti social in modo organico e compatto consentendo l’interazione con chi interviene sulle varie piattaforme digitali. Un’interazione diretta e facile, con i tasti del telecomando della TV: per mettere un like alla canzone in onda, conoscere meglio i propri artisti preferiti e il testo della canzone, accedere a informazioni sulla propria città, dal meteo agli eventi, guardare il videoclip del brano. Nota dei curatori

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RIGORE, INDIPENDENZA, AUTOREVOLEZZA

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a due anni di vita, in Italia. Novanta negli Stati Uniti, dove la testata Fortune è nata all’indomani del famoso crollo di Wall Street e, negli anni, è diventata sinonimo di competenza, indipendenza e qualità. Un faro nel mondo del business, della finanza e dell’imprenditoria, con i suoi celebri ranking che certificano il prestigio e il successo di aziende e manager di tutto il globo. Fortune, la casa madre di oltreoceano, ha concesso licenze e uso del proprio marchio all’estero con grande parsimonia e oculatezza. Il via libera alle pubblicazioni, per l’editore italiano, è arrivato dopo una lunga formazione ed è stato accompagnato, nei primi mesi, da uno strettissimo controllo che si è poi piano piano allentato per dare spazio a feconde sinergie. A parlarcene è Fabio Insenga, 45 anni, romano, a Fortune Italia fin dal lancio del progetto, prima come caporedattore e poi, dall’agosto 2018, come direttore responsabile. Alle spalle 15 anni all’Adnkronos, otto dei quali da capo della redazione economica, oltre a varie collaborazioni con Il Messaggero, Il Tempo e Il Riformista. Com’è lavorare con gli americani?

© Krasnig Roberta

FORTUNE ITALIA RIPROPONE NEL NOSTRO PAESE I CAPISALDI DEL MIGLIOR GIORNALISMO D’OLTREOCEANO. A COLLOQUIO CON IL DIRETTORE FABIO INSENGA

Fabio Insenga

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Numero di aprile 2020

Il giornalismo italiano in generale ha tanto da imparare da quello di matrice anglosassone, estremamente rigoroso e severo con se stesso, capace di mettersi sempre in discussione, di riconoscere e ragionare su presunti errori, trasparente e mai accondiscendente con l’interlocutore. Però anche loro hanno molto da imparare da noi, dalla nostra creatività ed elasticità che, oltre a mitigare certi eccessi di rigidità e schematismo, diventa essenziale per affrontare situazioni imprevedibili come quella determinata dall’esplosione della pandemia, che ti costringe a modificare in extremis un timone già pronto e studiato a lungo. Fortune Italia si può definire a tutti gli effetti la start up di un franchising di successo in un settore però in crisi, quale quello dell’editoria e dell’informazione. È così?

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Sì, importare il modello Fortune in Italia, per noi che siamo nati come una vera e propria start up, costruendo da zero la redazione e tutta la struttura che si muove oggi intorno al marchio, ha significato cercare un nostro spazio in un mercato ben presidiato da altre testate storiche e in un periodo certo non facile. Però le indagini preliminari di mercato ci portavano a ritenere che uno spazio l’avremmo trovato. E ci siete riusciti? Direi di sì. I numeri ci confortano, con 30mila copie del magazine mensile distribuite dove la nostra licenza ce lo consente: Italia, Svizzera, Principato di Monaco, San Marino, e Città del Vaticano, e visite al nostro sito che tra il 10 marzo e il 10 aprile hanno toccato il milione di pageview. Ma a funzionare è il sistema nel suo complesso, che mette insieme carta, digitale, social, eventi, oggi realizzati un po’ come tutti sulle piattaforme digitali. E poi i ranking, che sono un punto di riferimento assoluto nella metrica di valutazione delle imprese e dei manager, come la famosa Fortune 500, la classifica delle prime 500 aziende americane per fatturato. Quale la chiave? L’operazione è stata quella di importare un modello di giornalismo che si fonda essenzialmente sull’autorevolezza del proprio brand. Questo è il tratto distintivo di Fortune negli Stati Uniti e nella comunità finanziaria e manageriale internazionale. La qualità del giornalismo è la chiave per poter accedere a un’audience sempre più ampia e specializzata. Sempre, però, un target ben delineato e delimitato. Ma sbarcando anche sui social vi trovate a confrontarvi con una


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platea ben più estesa che forse non vi cerca ma vi trova e interagisce... Sì, negli ultimi tempi la proporzione tra chi interagisce con insulti o considerazioni da bar e chi cerca un confronto rispettoso e per meglio comprendere i contenuti è però cambiata, a favore di questi ultimi. Comunque si tratta di un mondo, quello dei social, che va trattato con attenzione, l’errore del giornalismo è stato sottovalutarne l’importanza. L’accesso alle informazioni oggi si è allargato. Fino a qualche anno fa il giornalista era una sorta di alieno, ormai non più, e le notizie non devi cercarle, ti raggiungono sullo smartphone. Quindi è importante mettere insieme contenuti corretti e di qualità esposti con chiarezza di linguaggio, offrendo accessibilità e ampia fruibilità dell’informazione. È vero, sembra che la pandemia abbia modificato, mi auguro non solo temporaneamente, il rapporto con il mondo dell’informazione. L’autorevolezza, cos’è e come la si ottiene? È frutto di un’attenzione quasi maniacale a tutto quello che è la verifica delle fonti, del reporting e soprattutto del rapporto che c’è fra giornalismo e comunicazione d’impresa, fra la notizia e il contenuto veicolato dalle aziende. E qui la questione si fa delicata, quando le aziende di cui parli sono anche quelle che ti acquistano pagine pubblicitarie e, quindi, ti sostengono finanziariamente. Potrei essere tacciato di romanticismo, ma se Fortune ha successo nel mondo è perché può aiutare il business a crescere. Che non vuol dire compiacere l’impresa e celebrare il businessman, cosa che potrà avere un ritorno immediato ma si perde poi nel tempo. Aiutare il

business a crescere significa, nella loro ottica, raccontare, stimolare, criticare lì dove ci sono errori e incongruenze. Perché essere su Fortune è già un traguardo che ti conferisce uno status. Ti rende utile al resto della comunità del business, per capire un trend o intuire la soluzione di un problema. E tu speri che anche l’imprenditoria italiana lo capisca e accetti di investire restando indifferente ai contenuti che una testata produce su di lei? Difficile, ma gioverebbe. Una delle interviste più importanti di Fortune negli Stati Uniti nell’ultimo anno è stata quella al global managing partner di McKinsey, Kevin Sneader, dopo che il New York Times aveva messo in discussione la trasparenza di alcune pratiche della società nel mondo. È stata un’intervista che ha messo in difficoltà l’interlocutore, lo ha costretto a una serie di ammissioni e ha fatto emergere alcuni problemi da risolvere. Eppure McKinsey è un partner storico di Fortune. Una contraddizione? No. Quell’intervista è stata poi utilizzata positivamente in termini di comunicazione d’impresa quale esempio di trasparenza e capacità di mettersi in discussione. Molto meglio di un’intervista concordata e celebrativa. Fenomeno che non è una costante del nostro giornalismo, ma lo è, forse, nella percezione di coloro, e non sono pochi, che vanno alla ricerca della cosiddetta informazione disintermediata, ritenendola scevra da condizionamenti e interessi distorsivi. Un’altra delle ragioni di crisi del settore. Sono d’accordo. Si è persa un po’ nel tempo la forza della stampa come soggetto terzo, anche se per fortuna sono ancora tante le testate autorevoli

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in Italia che producono contenuti indipendenti. Però la crisi dell’editoria e la perdita di potere contrattuale del giornalismo nel corso degli ultimi 15 anni si devono anche all’assenza di forti capacità manageriali nel settore. Spiegati meglio. La trasformazione digitale, la globalizzazione e tutti i mega trend che conosciamo stanno avendo un impatto dirompente in tanti settori, incluso il nostro, ma si potevano e dovevano prevedere e gestire, non soltanto subire. Ecco, nel settore dell’editoria, secondo me, questo non è accaduto soprattutto per l’assenza di un management con una visione strategica capace di conciliare il conto economico di un’impresa con adeguati investimenti sulla qualità del giornalismo. I giornalisti non hanno colpe? Per anni è passato il messaggio che fosse il giornalismo, inteso come casta, a fare resistenza al cambiamento. Posso assicurarti che da quando faccio questo mestiere, sono ormai 25 anni, ho visto sempre una risposta più pronta da parte dei giornalisti, al netto di qualche resistenza fisiologica iniziale, a sperimentare tutto quello che la tecnologia propone, rispetto alla reazione delle aziende. Il bilancio di un’impresa editoriale, fatte salve strutture efficienti e costi adeguati, non può dipendere, quanto a entrate, quasi esclusivamente da pubblicità o finanziamenti pubblici. Devi essere capace di produrre contenuti di qualità e saperli monetizzare facendoteli pagare. Con una strategia appropriata e sapendo da tempo che la carta avrebbe perso copie e terreno rispetto al digitale. Hai parlato di costi. Una start up ha bisogno di tenerli molto sotto controllo.

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In che modo la contrazione dei costi si concilia con la qualità? La nostra redazione è piuttosto snella, e giovane. Ho quattro redattori a tempo pieno e un caporedattore. Intorno a questo piccolo nucleo, solido ma agile, che lavora sul sito e sul magazine, c’è una rete di collaboratori con grande esperienza e professionalità che non sono un accessorio esterno ma hanno un valore importantissimo. Certo, sarebbe più facile lavorare con una redazione più ampia e strutturata ma è evidente che uno dei problemi delle testate giornalistiche, in passato, è stato aver fatto crescere gli organici in una misura non coerente con le dinamiche di mercato. Un mercato che progressivamente ha penalizzato l’editoria tradizionale riducendone i ricavi. Questo ha reso indispensabile una trasformazione di tutto il sistema editoriale che oggi spazia, come ho detto, dal magazine agli eventi passando per il digitale, per creare contenuti che durino nel tempo. Che vuol dire? Che attraverso il mensile, non costretto a dipendere dalla stretta attualità come il sito internet, sviluppi un livello di approfondimento tale da trasferire poi alcuni temi e concetti in veri e propri percorsi di comunicazione, in contenuti che non si esauriscono nel singolo prodotto giornalistico: articolo, intervista o inchiesta che sia. Insomma, filoni di approfondimento che ci consentono, intorno al marchio Fortune, negli Stati Uniti come in Italia, di creare una community di lettori, ascoltatori e addetti ai lavori fidelizzati. Torniamo alla stretta attualità. La pandemia sembra aver fatto riacquistare al giornalismo tradizionale un po’ di quel-


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la stima e credibilità perduta. È tornato in auge il ruolo del mediatore e dell’esperto. Semmai adesso rischiamo l’inflazione e l’effetto boomerang, soprattutto quando gli esperti ci forniscono risposte contraddittorie. Sì, l’esperienza del coronavirus, oltre a produrre un’accelerazione di tanti processi interni alle redazioni per mettere in condizione i giornalisti di lavorare in un periodo così complicato, ha responsabilizzato ancora di più l’intero settore, per una volta sia i giornalisti sia gli editori. È cambiato il modo di porsi e di fruire le informazioni da parte degli utenti, per l’esigenza di informarsi rispetto a qualcosa che non si comprende e di cui si ha paura. Ora questo ritrovato ruolo del giornalismo è una circostanza che va saputa capitalizzare. Come? Mantenendo da parte nostra la ritrovata o accresciuta attenzione nella verifica di fonti e dati per riacquisire in pieno quel ruolo di certificatori di ciò che accade. Ma, soprattutto, non dilapidando la crescita dell’audience ed evitando che gli editori approfittino degli strumenti di gestione della crisi economica per operare tagli indiscriminati. Mantenere l’audience. Hai molta stima negli utenti, ma la pandemia non ha fatto sparire del tutto i terrapiattisti, i no vax e i complottisti vari.

Sì, ma al di là di una certa quota fisiologica di irrecuperabili, c’è stata una presa di coscienza di un’ampia fascia di popolazione recuperabile, che ha interesse a essere informata, che magari aveva perso l’abitudine a comprare il giornale o a fruire di un contenuto certificato prodotto da una testata riconosciuta. È lì che si gioca il futuro, sia in termini di copie vendute che di informazione digitale, nel recuperare quel rapporto fra la testata giornalistica e i lettori. Anche con l’interazione che, nell’epoca del digitale, è forse la frontiera più interessante e fertile. Sì, che è cresciuta come qualità e che sul sito stiamo stimolando, offrendo spazio alle opinioni e alle analisi di ospiti per alimentare il dibattito e un confronto. Immagino che il post Covid sia uno dei temi centrali. Su questo abbiamo lanciato il progetto di Fortune Italia Ricostruzione, per riflettere sull’uscita dall’emergenza e sulla ripartenza in tutti i settori di cui ci occupiamo. E abbiamo costruito alcuni nostri percorsi tematici di approfondimento e realizzato oltre 40 interviste singole oltre a una decina di e-meeting su argomenti specifici quali mobilità, energia, finanza. In sintesi estrema, da un’informazione somministrata a una sempre più interattiva e partecipata.

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UPDAY, NEWS A PORTATA DI SMARTPHONE LA PRIMA APP EUROPEA CHE OFFRE NOTIZIE SU MOBILE. NE PARLIAMO CON GIORGIO BAGLIO, COUNTRY MANAGER E DIRETTORE DELL’EDIZIONE ITALIANA

L’

evoluzione del mondo dell’informazione parla il linguaggio digitale degli algoritmi, dell’internet of things, dei big data e si concretizza con l’utilizzo di media capaci di trovarti ovunque. Anche davanti al frigorifero di casa dove, mentre ti accingi a prendere il latte per colazione, uno schermo sullo sportello ti mostra l’ultima breaking news. Per proporti, come fa lo smartphone che ogni tanto allontaniamo dagli occhi, gli argomenti preferiti senza dover sfogliare compulsivamente il giornale. Abbiamo incontrato Giorgio Baglio, country manager e direttore di Upday, un’app che fa questo, e bene. Tanto che in pochi anni ha scalato le classifiche di audiweb ed è oggi stabilmente tra i primi dieci brand dell’informazione online più letti in Italia, subito dietro corrazzate come il Corriere della Sera e La Repubblica. Giorgio Baglio, 36 anni, già con importanti esperienze giornalistiche alle spalle, tra cui otto anni all’Agi, è a capo di una redazione composta da altri cinque giornalisti tutti più giovani di lui. Come dire, tutti possono fare tutto, ma fino a un certo punto. Il ricambio gene-

Giorgio Baglio

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razionale non apporta solo entusiasmo ma anche visioni davvero disruptive e innovative. Nel concreto e non nella retorica di quegli slogan che fanno dell’aggettivo nuovo, paradossalmente, l’attributo più consunto e abusato. Iniziamo dalla domanda più semplice: cos’è Upday e che fa? È un’app sviluppata da Axel Springer, il principale editore digitale europeo, preinstallata su tutti gli smartphone Samsung, nata con l’obiettivo di fare giornalismo di qualità e contrastare le fake news. È partita così nel 2016, è arrivata in Italia a febbraio del 2017 e, sempre nel corso dello stesso anno, in altri 16 Paesi europei. Ora siamo in 34 Paesi. Contrastare le fake news, un nobilissimo obiettivo. Sì, è stato il nostro filo conduttore, fin dall’inizio. Come ha ribadito in una re-

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cente intervista Mathias Döpfner, l’Amministratore delegato di Axel Springer. Siamo editori, ci mettiamo la faccia, abbiamo dei giornalisti che ci lavorano, quindi se pubblico una fake news ne ho piena e totale responsabilità. Insomma, non un semplice aggregatore che, su input di algoritmi o scelte del lettore, pesca qua e là nel web. Di questi ne esistono da tempo… Appunto, la novità, l’esperimento iniziale, direi riuscito, consiste nel coniugare l’algoritmo con il lavoro giornalistico, i cui fondamentali restano sempre gli stessi, non cambiano con l’evolversi delle tecnologie. Perché gli algoritmi riescono a scegliere le notizie adatte a ogni singolo lettore ma non a selezionarle e a verificarne l’attendibilità. Esperimento di successo, perché i numeri vi danno ragione. Siamo la prima fonte di informazione su dispositivi mobili in Europa. In Italia, secondo i dati audiweb, abbiamo circa due milioni di lettori. Premiati anche dalla permanenza sull’app, con un indice altissimo che arriva fino a cinque, sei minuti. Quindi da un lato il traffico elevato e dall’altro la lettura attenta dei contenuti. Evidentemente facciamo una buona selezione. Solo selezione? No, anche se già questo è un lavoro importante. Perché il compito e la funzione sociale del giornalista consistono anche nel mettere un filtro tra la massa di informazioni e il pubblico. Se togli questa mediazione rischi di essere inondato di fake news che, soprattutto nel delicato momento che stiamo vivendo, sono pericolosissime. Spiegami allora come siete organizzati, qual è il vostro lavoro.


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Ogni Paese ha una sua redazione. In Europa siamo in tutto 55 giornalisti e una cinquantina di persone dedicate a Upday a Berlino, all’interno di Axel Springer, con gli sviluppatori, gli addetti al marketing e alla pubblicità. Qui in Italia siamo in sei e abbiamo dei turni come in un’agenzia di stampa. Apriamo alle sei e chiudiamo intorno a mezzanotte, sette giorni su sette. Selezioniamo le fonti migliori, senza fare un semplice copia e incolla degli articoli scelti, ma presentandoli con un titolo e un testo scritti da noi. Così come per le foto, abbiamo i nostri abbonamenti all’Ansa e a Getty. I giornalisti si occupano della sezione Top News, le prime dieci notizie sull’app. Continuando a scorrere c’è la sezione My News, in cui un algoritmo, sviluppato internamente, seleziona le notizie in base agli interessi e alle preferenze di lettura. Ma siamo anche una testata giornalistica e abbiamo i nostri contenuti, articoli scritti dai nostri redattori che, facendo squadra con gli altri editori, hanno quindi un taglio diverso da quello delle altre testate. Insomma, non facciamo concorrenza alla Repubblica o al Post o al Sole 24 Ore, dai quali scegliamo, per esempio, le breaking news che, cliccate sulla nostra app, portano poi traffico diretto a loro. Questo è un passaggio importante, da spiegare bene. Non sottraete traffico o, ancor peggio, non vi impossessate indebitamente del lavoro intellettuale altrui, come molti editori lamentano che accada, ma portate traffico a vantaggio degli editori vostri partner. È così. E gli editori che lo ricevono lo monetizzano con le revenue pubblicitarie che vanno al 100% a loro. Insom-

ma, siamo un editore che fa squadra con gli altri editori. Tutti? A livello europeo abbiamo tutti i più importanti. In Italia l’unico che manca è il Corriere della Sera, che ha un paywall sul sito e, visionato un certo numero di articoli, richiede di attivare un abbonamento. Abbiamo una partnership molto stretta con Il Sole 24 Ore, il cui paywall è sul modello “freemium”, con alcuni contenuti non accessibili e altri aperti che pubblichiamo sull’app. Poi altri accordi ancora, come con La Repubblica e La Stampa, che ci consentono di rilanciare anche alcuni articoli a pagamento. Upday finora ha scelto di non avere contenuti premium. Per farlo occorre una versione dell’app non più gratuita. Però vediamo, stiamo lavorando su tanti progetti. Quali? Per esempio quello di aumentare la nostra produzione editoriale, sperimentando nuovi formati e offrendo contenuti anche sui podcast. Innovare, non fermarsi mai, restare avanguardia nel mondo dell’informazione digitale. Sì, l’accordo con Samsung è sempre più forte ma col tempo abbiamo sviluppato anche altre app, come earliNews, disponibile anche per iPhone, ed earliAudio, un’app di podcast preinstallata su Samsung ma disponibile anche su Apple, quindi ci siamo allargati a tutto il mondo mobile. Stiamo puntando sui podcast anche in virtù di un accordo con una nota casa automobilistica tedesca che ci consentirà di essere preinstallati sulle loro autovetture. L’obiettivo è arrivare ovunque, su tutti i dispositivi, dai frigoriferi Sam-

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sung ai telefoni, dalle auto agli orologi. Poi c’è l’accordo con Facebook che è molto promettente, anche a livello di immagine. Facebook ci ha scelti per curare il loro speciale sul Covid-19. E qui ha pagato la nostra serietà e attenzione alle notizie che diffondiamo. Torniamo lì, i fondamentali del mestiere non cambiano. Il mio primo capo redattore all’Ansa, dove stavo facendo uno stage, davanti a una vecchia tastiera consumata dalle sigarette, quando ancora si fumava in ufficio, mi disse: «Questa tastiera si può trasformare in un AK-47, in un fucile d'assalto, soprattutto se fai la giudiziaria». Quindi, massima attenzione a quello che pubblichiamo. Con precise indicazioni che da buon direttore darai alla tua giovanissima squadra... Guarda, fin dai nostri primi passi, quando avevamo ancora poche centinaia di utenti, ho sempre chiesto ai miei di non intasare gli smartphone con le notifiche push breaking e di controllare sempre tutto, anche 200 volte, perché noi arriviamo sui telefoni nelle mani di tutti e dobbiamo essere guidati da un grande senso di responsabilità. Sul Covid-19 abbiamo avuto un’attenzione veramente maniacale, mai replicato o dato risonanza a voci su complotti, farmaci o terapie miracolose. Evitiamo titoli acchiappa click. Che spesso, venendo meno alle buone regole deontologiche, si pongono a servizio del marketing per rincorrere una sostenibilità economica sempre più difficile da raggiungere per tanti prodotti editoriali, sia analogici che digitali. Il futuro del giornalismo è senz’altro sul

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mobile. La carta stampata non scomparirà a breve ma è ormai costretta a svendere gli spazi pubblicitari, e le notizie che leggi sono già vecchie. Così come i siti di solo testo. Potranno sopravvivere, ma come strumenti di approfondimento. Resiste ancora un po’ la tv, ma la pubblicità ormai si sta spostando sul mobile e sul digitale. Perché ti permettono di targettizzare i messaggi arrivando a proporre campagne pubblicitarie personalizzate. E non la trovo una cosa negativa o disdicevole, tutt’altro. Se in questo periodo voglio cambiare macchina, e leggo molte news sui motori, non può che interessarmi ricevere la pubblicità di un’auto, magari un native advertising fatto bene, con le caratteristiche del veicolo, un video, belle foto. Mentre diventa irritante, oltre che inutile, se quegli stessi messaggi li riceve un ecologista convinto, che va solo in bicicletta e odia i motori. Insomma mi vuoi dire che una delle chiavi del successo è la capacità di veicolare pubblicità insita nel medium. Il nostro modello di business è incentrato sulla pubblicità, il che non va disgiunto dalla qualità dell’informazione che offri. E anche nella pubblicità lavoriamo in coordinamento con Berlino e abbiamo sviluppato formati molto innovativi, come quello che scorre in orizzontale, con le snap story. Così, nonostante il periodo difficilissimo, reggiamo bene e, addirittura in pieno lockdown, abbiamo avuto due campagne advertising di due case automobilistiche. Upday è arrivata al break even l’anno scorso, in tre anni. È qualcosa di estremamente importante per un’azienda editoriale.


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Certo, essere preinstallati sui dispositivi Samsung vi ha aiutato molto… Senz’altro, ma le app si possono anche disinstallare. Un altro parametro per testare il nostro lavoro è il numero di utenti che disattivano il servizio. È una percentuale bassissima. Come quella di chi disattiva le notifiche push, appena il 20%. Poi facciamo sondaggi tra i nostri utenti, a campione, e anche quelli sono molto positivi. L’ultimo lo abbiamo condotto per capire come era percepita la nostra informazione sulla pandemia. Se era troppo invasiva, o non sufficiente. Insomma, curiamo molto il rapporto con i lettori. Una cura che non potrà mai darti nessun algoritmo. Ripeto, la figura del giornalista resta cruciale. L’hai detto, anche in chiave anti fake news. Ma la storia del giornalismo è ricca di bufale e leggende metropolitane scambiate per verità anche sui giornali blasonati. Quindi il terreno che frequentate è minato… Proprio per questo, quando esce una notizia, i colleghi di turno la cercano e la leggono su diverse testate, e confrontano i contenuti. Se per esempio viene citato un articolo della stampa americana, il collega va a vedersi la fonte originale. Solo dopo decide se

pubblicare o no e sceglie quella che reputa la fonte migliore, indipendentemente dagli accordi che abbiamo con gli editori. Ecco, le fonti. Devo dire che io sono un costante fruitore della vostra app. Trovo un po’ di tutto, anche articoli di testate semisconosciute e di gossip. Abbiamo fatto una selezione delle fonti per la sezione My News, quella gestita dall’algoritmo, però c’è davvero un po’ di tutto. È un tema sul quale mi confronto spesso con Berlino, io sono per ridurle, però noi abbiamo lettori di ogni genere quindi, alla fine, bisogna essere il più generalisti possibile. E se abbiamo appassionati di gossip, dobbiamo far sì che possano trovare gli articoli di loro interesse. Insomma, se oggi molti giornali e periodici cercano un’ancora di salvezza, e di sostenibilità economica, nello schierarsi in maniera netta, nel rivolgersi a una nicchia, nel ritagliarsi un proprio target e nel fidelizzarlo, Upday si apre a ventaglio. Perché tutti hanno uno smartphone in tasca e (presto) uno smart speaker a casa. O, addirittura, un frigorifero che offrirà loro le notizie fresche di giornata, e di loro gusto.

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IL GIORNALE DEI LETTORI, POLITICO E ACCOGLIENTE L’OBIETTIVO È «MIGLIORARE E AMPLIARE IL DIBATTITO PUBBLICO». LA NUOVA TESTATA DOMANI – IN EDICOLA E ONLINE DAL 15 SETTEMBRE – RACCONTATA DAL SUO DIRETTORE, STEFANO FELTRI

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na sfida da far tremare i polsi, tanto avvincente quanto ambiziosa, aprire un giornale ai giorni d’oggi. In piena crisi economica da pandemia sovrapposta a quella, ormai cronica, dell’editoria tradizionale. A lanciare la sfida è stato Carlo De Benedetti, lasciata alle spalle La Repubblica, affidando il compito di gestirla e vincerla a Stefano Feltri, 36 anni il 7 settembre. Feltri ha scritto per Il Foglio e Il Riformista ed è stato vicedirettore del Fatto Quotidiano dal 2015 al 2019, continuando poi a collaborarvi da Chicago dove, per poco meno di un anno, ha diretto il blog ProMarket.org dello Stigler Center, centro di ricerca guidato dal professor Luigi Zingales alla Booth School of Business della locale università. Ci incontriamo digitalmente, ciascuno nella sua redazione, com’è ormai d’uso di questi tempi. Stefano, possiamo dire che avere alle spalle un imprenditore forte, se non è garanzia di successo, è un bel viatico per partire con il piede giusto? Direi di sì. Grazie all’investimento di Carlo De Benedetti, per Domani abbiamo costituito da subito una redazio- Stefano Feltri

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© Dario Campagna

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ne con 15 giornalisti tutti già formati, molto bravi e competenti, assunti con contratti regolari, che lavoreranno superando i modelli tradizionali, senza la classica divisione per servizi, gestendo ciascuno alcuni collaboratori esterni. E possiamo contare su un team di giornalisti d’inchiesta, delegati a un lavoro di approfondimento e agli scoop. Quindi una bella e solida base… Certo, se pensi che negli ultimi anni si era diffusa l’idea tra gli editori che i nuovi giornali dovessero avere meno giornalisti possibili, pagati il meno possibile, soprattutto per fare contenuti online gratuiti. Noi facciamo una cosa diversa. Che però dovrà sostenersi economicamente… La mia idea è che il giornalismo sia davvero un bene pubblico e come tutti i beni pubblici, lo dico da una prospettiva economica com’è nella mia formazione, è un bene che viene prodotto in quantità inferiori a quelle che sarebbero ottimali. Perché tutti ci guadagnano

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se c’è un buon giornalismo, ma pochi sono disposti a sostenerne il costo. Quindi? Noi cerchiamo di risolvere questo problema. Se alcune persone si fanno carico di piccoli costi possiamo ottenere un giornalismo che abbia un grande impatto pubblico e una sua indipendenza. La nostra idea è che il giornalismo è un contropotere e il successo di un giornale si misura da quanto riesce a migliorare la qualità del dibattito pubblico. Con la sola vendita del giornale o i soli abbonamenti digitali pensi si riesca a sostenere i costi? Noi ci proviamo, confidando anche in un assetto societario che è garanzia di indipendenza e solidità. Perché Domani nasce con una società per azioni, finanziata e controllata in questo momento da De Benedetti ma, superati i necessari tempi tecnici, avrà alle spalle una fondazione. Ed ecco l’idea del giornalismo come bene pubblico che viene gestito e finanziato per la collettività da una collettività. Per l’Italia è qualcosa di nuovo che riempie un campo lasciato libero da altre testate. E non temete neppure la difficile congiuntura, soprattutto economica? Per una coincidenza di tempi non del tutto casuale, nasciamo dopo o, meglio, durante una pandemia che ha dimostrato quanto enorme sia il bisogno di un’informazione di qualità, seria, poco concentrata sulle polemiche e molto sulla sostanza. Insomma, dici che la qualità farà il resto? Ma le statistiche indicano che anche i quotidiani più blasonati e autorevoli sono in caduta libera. Intanto il nostro sarà un giornale online


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e poi di carta. Ed è fondamentale dirlo in questo ordine, perché in Italia il web è ancora usato dagli editori come vetrina del loro prodotto principale, che resta di carta. Tutt’al più è il giornale di carta fruito in pdf. Quindi il vostro business plan ha il web come suo centro di gravità. Sì, e il sito avrà una parte gratuita e una a pagamento, per abbonati. Quello che devono offrire i giornalisti oggi è l’approfondimento, oppure l’inchiesta, e il giornale di carta sarà come il punto fermo di questo flusso. Detto così non sembra un’idea del tutto nuova, sono tante le testate online con un paywall o alcuni contenuti free e altri a pagamento. Ma noi vogliamo essere un giornale accogliente, sia con chi non ha mai letto i giornali sia con chi li ha letti ma non ci si ritrova più e vuole qualcosa di nuovo. Quindi, non metteremo niente che scoraggi il lettore, come i paywall che dopo tre righe ti bloccano. La gente deve trovare sempre una ragione per venire su Domani e l’idea è offrirle un menù gratuito che non cannibalizzi il lavoro giornalistico vero e proprio, e poi un’altra versione, veloce ma sostenibile. Abbiamo preso spunto da un sito americano di grande successo che si chiama Axios. È interamente gratuito perchè si regge sulla pubblicità, noi invece vogliamo puntare sugli abbonamenti. Ma sappiamo anche che molta gente ha poco tempo e intendiamo offrirgli questa duplice opzione. Spiegaci meglio. Ogni articolo avrà due versioni. Una organizzata per punti, con tre bullet point, più o meno la quantità di testo che sta nello schermo di uno smart-

phone. Chi ha poco tempo o non è abbonato può farsi un’idea in pochissimi secondi. Se poi il lettore è interessato, si può abbonare e leggere gli articoli integrali. E saranno abbastanza lunghi, approfonditi, perché non è affatto vero che meno testo c’è più il lettore legge. Cose rapide e immediate si trovano ovunque, da facebook a twitter, ma se uno fa lo sforzo di pagare per un giornale deve trovare l’approfondimento e qualcosa che non conosce ancora. Regola che ha ancor più peso sulla carta. Certo, il nostro giornale di carta sarà di questo tipo. Uscirà sette giorni su sette, avrà un numero di pagine tra le 16 e le 20 e una scansione non per sezioni tradizionali ma per tipi di articoli: i fatti, le analisi e le idee. Con l’ambizione di dare un’agenda di priorità, invece che riproporre al lettore quello che ha già visto online. E graficamente come sarà? Molto pulito, elegante, senza quegli elementi aggiunti a contorno degli articoli che finiscono per distrarre il lettore. Niente boxini, schede, ammennicoli, immagini scontornate. Avremo grafici, ma non decorativi: saranno prodotti frutto del lavoro sui dati di un nostro giornalista che ha una formazione da economista. Sarà un giornale di articoli, da leggere e non soltanto da sfogliare. Il 15 settembre saremo online e su carta ma nel frattempo stiamo facendo una newsletter per oltre settemila iscritti e abbiamo già venduto circa cinquemila abbonamenti. Torniamo sulla vostra missione. De Benedetti in un’intervista televisiva ha letto uno stralcio della lettera con la quale ti ha conferito l’incarico di diret-

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tore. Sembrava l’incipit di un programma politico… Perché saremo un giornale politico, non vicino a un partito ma che vuole incidere sulla politica attraverso inchieste e analisi indipendenti, chiedendo conto a chiunque delle decisioni prese. Saremo un riferimento per chi cerca un giornale progressista o, come si direbbe in America, liberal. Con alcune precise priorità: ambiente, lavoro, salute e disuguaglianze. Con una linea editoriale che, forse per la prima volta in Italia, viene esplicitata e dichiarata. Una linea liberaldemocratica, attenta ai valori della democrazia e a quelli del pluralismo, critica verso tutti i poteri. In cos’altro volete contraddistinguervi dalle altre testate? Per cominciare guarderemo alle vicende globali con una prospettiva italiana e a quelle italiane con una prospettiva globale. Per uscire da quel provincialismo che ci porta a ritenere che quanto accade in Germania ci riguardi meno di quel che avviene a Civitavecchia. Poi avremo le nostre inchieste con un pool di giornalisti molto bravi e la giornata riassunta in brevissimi articoli, con una spiegazione più ampia ma molto comprensibile del tema del giorno. E, nella sezione Analisi, offriremo sia i commenti tradizionali e le opinioni ma soprattutto un genere che si pratica poco nel giornalismo italiano: le news analysis. Ossia? Spesso tutti conoscono il fatto in sé, ma pochi e non sempre quel che davvero significa, la sua contestualizzazione e le conseguenze che comporta. Le nostre newsletter contengono già questi pezzi, e la gente che ci segue mostra di apprezzarli, perché ha molta fame

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di capire e approfondire e assai meno di leggere il pezzo di colore o di quelle spigolature che, se vuole, può trovare a piene mani sui social. Ci sarà poi la terza pagina, la cultura? Anche qui faremo qualcosa di diverso, più che commentare prodotti culturali altrui vorremmo produrne di nostri. Quindi non recensioni, con stelline, punteggi e suggerimenti su cosa guardare nel weekend ma pezzi letterari di scrittori come Jonathan Bazzi, Antonella Lattanzi, Daniele Mencarelli, Walter Siti. Articoli nei quali magari si parla anche di film e di libri ma creando percorsi e connessioni. Vogliamo riportare l’offerta giornalistica alla sua essenza, a qualcosa che interessi il lettore e non sia in funzione soltanto delle agenzie, degli uffici stampa o di altri input esterni. Quali per esempio la pubblicità, che è una fonte di finanziamento in forte contrazione ma non da trascurare. Il nostro modello di business punta a reggersi essenzialmente sugli abbonati. Abbonamenti digitali e il giornale in edicola. Cosa che, fatta in un certo modo, può essere ancora remunerativa. Poi avremo anche la pubblicità, certo, ma noi vogliamo dipendere dai lettori e non dagli inserzionisti. Lettori quindi da coinvolgere, ingaggiare fino a creare una community, con eventi e iniziative ad hoc. Un po’ come stanno facendo tanti editori, creando un ecosistema complesso… Sì, ma anche qui vogliamo tentare esperimenti nuovi. Per esempio, abbiamo creato un modello di inchieste che vengono proposte dai giornalisti freelance e poi sottoposte alla valutazione dei nostri lettori e abbonati. Una volta


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che gli abbonati hanno scelto i progetti, i giornalisti selezionati svolgono una specie di campagna di raccolta fondi sui nostri social per trovare chi finanzi le loro proposte: una parte dei soldi li mettono i lettori e il resto lo mette il giornale. Così i freelance hanno il budget per un serio lavoro giornalistico e i lettori un’informazione a cui tengono al punto da finanziarla direttamente. Faremo in modo che questi progetti si trasformino anche in eventi, sul territorio o in digitale, durante i quali si presentano i risultati di un’inchiesta che ha coinvolto i lettori fin dall’inizio. Lettori, ma anche committenti e finanziatori. Soprattutto persone che si avvicinano al giornale non per il nome della testata ma per un progetto specifico. Che magari, come accade per i temi ambientali, interessa una comunità ristretta che ha visto ferito il proprio territorio e cerca qualcuno che ne indaghi le ragioni e individui i responsabili. Storie locali pronte a diventare di interesse nazionale. Vogliamo essere un giornale orizzontale, più il punto di incontro di una community che semplicemente un prodotto da comprare.

Veniamo ai media. Oggi newsletter, ma già anche social media, domani sito, giornale di carta. Terreno fertile per altre sperimentazioni. Sì, stiamo lavorando su progetti di podcast e su altre iniziative sia di prodotto sia di network. Su twitter abbiamo già molto seguito ma il canale su cui punteremo sempre di più è instagram. Il nostro obiettivo è diventare il giornale italiano più attivo su questo social, utilizzandolo non come vetrina ma come medium per raggiungere più persone in più modi. Stiamo già sperimentando strategie e linguaggi nuovi, come quiz a risposta multipla per veicolare informazioni attraverso una sorta di articoli interattivi. Oppure gli audiogram, cioè audio con un apparato video per trasmettere i contenuti di un pezzo giornalistico con un linguaggio diverso, integrando testo, immagine e video. Esercizio non meno nobile di scrivere un articolo di diecimila battute. Che il giornalismo sia in perpetua mutazione è ormai un assioma. Anche se – e Stefano Feltri lo sa bene – i principi fondamentali restano immutabili, a garanzia di serietà, qualità e rispetto dei lettori.

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MEDIALOGANDO OTTOBRE 2020

INFORMARE SENZA RINCORRERE I TREND AUTOREVOLEZZA E GERARCHIA DI NOTIZIE SUL WEB. A CONFRONTO CON MATTIA FELTRI, DIRETTORE DELL’HUFFINGTON POST, DA NOVEMBRE COMPLETAMENTE RINNOVATO

© Nicola Ughi

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i incontriamo su Skype. Tutto facile, e diretto, con Mattia Feltri, che con il cambio di proprietà del Gruppo Gedi da aprile scorso è il nuovo direttore dell’Huffington Post. Il suo eloquio è sapido e intenso, cola riflessioni mai banali, e ti sorprende, ma poi neppure tanto, quando confessa di non aver mai aspirato a diventare giornalista. Sollecitato dal padre, per guadagnare qualche soldo ai tempi dell’università, ha iniziato a scrivere su Bergamo Oggi, il quotidiano della sua città. Da allora non ha più smesso: «Perché l’unica cosa che mi piaceva era mettermi lì e scrivere, e così sono andato avanti». E direi che di strada ne hai fatta. Ma anche oggi tutti gli aspetti del giornalismo che mi piacciono di più hanno a che vedere con il leggere e lo scrivere. Nessun mito di consumare le suole, o bruciante ansia per lo scoop. A me piace interrogarmi su cos’è il mondo, dove sta andando, perché si fa il cinema o la musica in un certo modo. Ed è lo spirito che anima il tuo quotidiano Buongiorno dalla prima pagina della Stampa, anche oggi che sei direttore dell’Huffington Post.

Mattia Feltri

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Immagine tratta dal nuovo sito dell’HUFFPOST

Non senza qualche difficoltà, ti confesso. Perché lavorare per due quotidiani è come viaggiare tutto il giorno su due treni paralleli. Complicato, ma con tante occasioni di ispirazione. Sì, ma a ispirarmi non è sempre l’attualità. Ho un mio metodo di lavoro che in un certo senso inverte il processo. Ossia? Da qualche anno, senza sapere che mi sarebbe poi servito, tengo un mio taccuino, oggi diventato un file, dove annoto le cose che leggo, mi colpiscono e possono spostare il punto di vista su tante questioni. Non sempre il percorso è: succede qualcosa e quindi ne parlo. Ma spesso ne parlo perché ho accantonato qualcosa che ne dà un’interpretazione interessante. Ed è bello vedere come quello che è stato detto e scritto dieci, 100, 300 anni fa stia guardando noi e parlando a noi in questo momento.

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Nihil novum sub sole, sotto mutevoli forme tornano analoghi interrogativi, conflitti e drammi. Mi ha colpito la tua riflessione, tratta da uno scritto di Albert Camus, sulla pena di morte, reclamata ancora oggi come atto di giustizia di fronte a crimini efferati. Quel racconto viene dal libro Riflessioni sulla pena di morte. Il padre di Camus decide di assistere all’esecuzione di un uomo, ghigliottinato per aver compiuto un’orrenda strage familiare. Furibondo e indignato è convinto che fargliela pagare con la stessa moneta sia un atto di giustizia. Assiste all’esecuzione, torna e vomita. Vomitare fu l’unico suo commento. Ecco, questo tuo particolare approccio nello scandagliare l’attualità penso incida anche sulle tue scelte da direttore. Ma come vivi questo nuovo capitolo professionale? Come una duplice avventura, perché è la mia prima esperienza da direttore e


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lo è in una testata esclusivamente sul web, dopo 30 anni di carta stampata. E sebbene il giornalismo online lo abbia frequentato a lungo, finché non ci sei dentro non ti rendi conto di tutte le sue peculiarità. Per esempio, un titolo bello, fantasioso ed efficace sulla carta su internet non funziona, mentre magari un titolo brutto sì. Perché la gente cerca parole chiave, servono quelle. Poi l’online non ha edizioni, sulla carta stampata lavori tutto il giorno per realizzare l’indomani una gerarchia e un’armonia che sul web cerchi invece via via che impagini e pubblichi i tuoi articoli. E la ottieni? In teoria sì, perché nell’homepage una gerarchia c’è, ma i nostri articoli da home vengono visti appena da un quinto dei lettori. Così puoi avere un’apertura serissima ma poi accade che dei circa 100 pezzi pubblicati ogni giorno il numero 89 in gerarchia, più leggero, compaia su twitter o facebook e, per chi lo legge, avrà la stessa rilevanza degli altri. E, magari, che tu sia contestato per quell’articolo lì. Contestato? Mi è capitato, soprattutto all’inizio, con un tweet o una mail. Io andavo a cercarlo in home e non lo trovavo, era stato prodotto per i social. Non sempre la gerarchia che dai è colta da chi legge. Insomma accade che guadagnino visibilità articoli che non hai neanche visto o sui quali non avresti scommesso… E me ne rendo conto la mattina, guardando i nostri dati. Ma se un pezzo è andato meglio di quanto immaginassi è perché ha incontrato gusti che magari non hanno niente a che vedere con la

mia idea dell’informazione. E va benissimo così. Dici così perché online il traffico, quando arriva, è sempre ben accetto, e alimenta la pubblicità? È realismo, perché come diceva Piero Gobetti l’azione distrugge l’utopia. Quindi preferisco non essere troppo critico. Puoi avere tante belle idee ma poi devi fare i conti con la realtà. Questo è un quotidiano che in media fa un po’ più di un milione di contatti unici al giorno, e pubblica anche molte notizie leggere che nel mio giornale ideale non ci starebbero. Ma quello, appunto, è il giornale ideale. Evito però gattini e cagnolini che abbaiano quando torna il loro padrone o vecchiette che cadono dal centesimo piano e si salvano miracolosamente. Perdiamo qualche contatto ma lo facciamo molto volentieri. Del resto potete contare su un editore forte alle spalle. E questo ci garantisce anche indipendenza. Tutte le critiche fatte quando siamo passati da Carlo De Benedetti a John Elkann le trovo particolarmente ridicole. Elkann è il mio editore da 15 anni, ho avuto una breve parentesi con De Benedetti e non mi sono nemmeno accorto della differenza. Nessuna interferenza e ampia libertà. Quanto aiuta avere alle spalle un editore forte? Oggi i giornali si vendono sempre meno e la loro sostenibilità è sempre più precaria. Certo la qualità e la libertà costano denaro. Se sei un giornale ricco puoi pretendere e conservare la tua libertà, se sei povero, con i debiti, fai molta più fatica. E dipendi molto di più dalla pubblicità e dai provvedimenti legislativi. Quindi, in generale, occorre trovare

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una via per uscire da questa crisi e ricominciare ad avere quella qualità e indipendenza che, anche involontariamente, passetto dopo passetto, si rischia di perdere. Però io comincio a vedere la luce da questa scrivania dove lavoro. Su cosa basi questo cauto ottimismo? Sul fatto che questa enorme tragedia del Covid-19, e da bergamasco puoi immaginare quanto mi abbia potuto toccare, ci sta facendo capire tutti gli errori che stavamo commettendo. Le città, il turismo, i trasporti, la sanità e il lavoro, così come sono stati pensati fino a oggi, non possono più funzionare. Durante il periodo di lockdown i lettori si sono buttati in massa sui siti e anche noi di Huffington, come tutti gli altri, magari spesso sbagliando, abbiamo cercato di offrire informazione vera, approfondita e di qualità. E si stanno cominciando a vedere i frutti. La qualità dei siti giornalistici è migliorata, l’informazione è molto più approfondita e corredata da audiovisivi, podcast, piccoli documentari, long read. Così oggi ci sono giornali con decine di migliaia di abbonati sui contenuti premium dei loro siti, e stanno arrivando dei soldi. Altre testate, penso al New York Times, lo facevano da anni. Il Covid-19 ci ha dato uno spintone, ci ha buttati sulla strada nuova e abbiamo capito che è percorribile. La libertà costa perché non ti costringe a ricorrere a discutibili escamotage per guadagnare traffico. Ma l’esasperata ricerca di consenso e visibilità non ti sembra sia soprattutto un costume dei tempi? Lo è senz’altro per tanti politici che vanno sui social per farsi portabandiera dell’idea prevalente, anziché avere una

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propria idea del mondo, proporla e poi fare di tutto perché convinca la maggioranza. Purtroppo succede anche ai giornalisti. Come accade di scegliere l’argomento di un corsivo o un articolo in base alla tendenza su twitter o facebook. Qui il rischio è che il mainstream diventi più pericoloso, rinfocolare l’uno con l’altro l’idea spessissimo sbagliata del momento. Un’idea frutto di superficialità. Ma non è nemmeno superficialità, è l’immediatezza, il voler dire qualche cosa, possibilmente più forte di ciò che è stato detto un istante prima, essere dentro un mucchio che si sta muovendo in una direzione, probabilmente verso il linciaggio del giorno. Complice un degrado culturale sotteso al mito dell’uno vale uno. Più che un degrado culturale accade che sui social abbia diritto di parola anche chi non ha studiato o non ha approfondito l’argomento di cui sta parlando. E prevale questa enorme massa urlante che non sa di cosa parla. Un mondo che si fa un giudizio sempre a prima vista, leggendo un tweet, commentandolo e rilanciandolo, senza interrogarsi sulla sua veridicità. Immediatezza e assenza di verifiche antitetiche al buon giornalismo. Anche se sul web arrivare primi conta. Sì, ma può trasformarsi persino in una dittatura. Ci sono aggregatori come Apple News che se pubblicano una tua notizia fanno impennare il traffico del tuo sito. Ma perché ti riprendano devi essere tra i primi a pubblicarla. E come ci si salva? Bisogna essere rigorosi con se stessi e sapere che è meglio arrivare secondi o terzi che primi sulla bufala. Veloci di


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testa, distinguere bene le fonti, fare verifiche subito e poi agire di conseguenza. Abbiamo il dovere di dare le notizie più o meno in tempo reale, ma anche di approfondirle e analizzarle prendendoci tutto il tempo necessario. C’è un pezzo che io ho commissionato dieci giorni fa e arriverà tra 20 giorni. Ma dovrà essere un gran pezzo. La qualità costa denaro, tempo e firme autorevoli. I giornali che leggevo negli anni ’70 e ’80 erano più ricchi, potevano permettersi di andare da Pier Paolo Pasolini o da Eugenio Montale e offrire loro un milione di lire per un pezzo. Oggi no. Spesso non riesci a prendere neppure qualche bravo giornalista disoccupato con alle spalle una lunga esperienza. All’Huffington Post di questo non puoi lamentarti. No, oltre a una redazione di 18 persone posso contare su un prestigioso parterre di collaboratori. Ne cito alcuni: Gianni Riotta, Alessandro Barbano, Ugo Magri, Gianni Vernetti, Michele Valensise, Cesare Martinetti. E poi ci sono le partnership. Pubblichiamo pezzi di Luiss Open, la rivista della Luiss, dell’Università Cattolica, dell’Accademia dei Lincei. Veniamo alla linea editoriale, dettata da direttore ed editore. Qual è quella dell’Huffington? Una sola, ereditata da Lucia Annunziata che ha fondato e fatto grande questo giornale. Mettere assieme politiche e politici che magari hanno voci e idee diverse ma accomunate da un fondo di sensatezza democratica. Perché il bipolarismo oggi non è più tra destra e sinistra, ma fra chi è sensatamente democratico e chi è insensatamente, e

spesso inconsapevolmente, antidemocratico, tendente ai regimi illiberali dai quali siamo circondati. Alla sostanza della linea editoriale serve anche una forma che la renda efficace e attrattiva. Novità su questo fronte? Sì, una vera riforma. Il 2 novembre il sito cambierà volto e sarà più bello da vedere ma soprattutto più evoluto e ricco tecnologicamente. Avremo un canale video, uno per i podcast e alcuni canali verticali monotematici. Uno si chiamerà Futuro e parlerà di tutte le offerte formative, soprattutto per le scuole superiori e le università in Italia e nel mondo. Ho voluto, però, preservare la gerarchia delle notizie. Oggi Huffington forse è un po’ bruttino ma l’infilata di titoli tutti a colori è di un’efficacia straordinaria. E quindi ho rinunciato a utilizzare quei sistemi che ti portano automaticamente in testa i pezzi più letti. Altrimenti la gerarchia la costruiscono i paradigmi dei social. E saremmo di nuovo punto e a capo. Invece se miri ad avere abbonati che pagano per leggerti, come per esempio La Repubblica, in procinto anche lei di rielaborare il suo sito, devi essere tu che offri tanto e bene: un giornale che ti racconta il mondo e non un contenitore in cui butti dentro tutto quello che hai. Hai citato La Repubblica. Che significa essere dentro un grande gruppo multimediale? Moltiplicare le potenzialità di ciascun media. Mai come in questo caso valgono le teorie olistiche per cui le somme sono sempre maggiori delle unità che le producono. Così uno più uno più uno non fa tre, ma può fare anche sei.

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APPROFONDIRE E FARSI CAPIRE BRUNO VESPA RACCONTA 25 ANNI DI PORTA A PORTA: INFORMAZIONE, CONFRONTO ORDINATO E UN PIZZICO DI INTRATTENIMENTO

© La Malfa

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are dell’intervistatore per eccellenza un intervistato d’eccellenza è, più che un gioco di parole, un divertente esperimento per dimostrare quanto la tv, almeno per la mia generazione, sia ancora uno strumento di comunicazione di straordinaria efficacia. Perché (me)dialogare con Bruno Vespa – il mio incipit roboante vuole dissimulare l’inaugurale soggezione ma tradisce lo spirito di questa rubrica – sembra come parlare con uno di famiglia, tale e tanta è la consuetudine domestica con quel volto e quell’inconfondibile timbro di voce. Tratti diventati familiari, perché ci accompagnano da oltre 50 anni dallo schermo televisivo sintonizzato sulla rete ammiraglia della Rai. Mi viene da definirti un colosso, un monumento del giornalismo, poi penso all’amico Emilio Giannelli, anch’egli ospite di questa rubrica, che rifiuta l’appellativo ricordando – autoironico e realista – che sui monumenti ci cagano i piccioni. No, no, né colosso né monumento… Però il tuo percorso professionale ha pochi termini di confronto. Sì, dai, direi che è andata bene. E il tuo punto di vista su come se la passa oggi il mondo dell’informazione ha un peso specifico non da poco.

Bruno Vespa

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© Sandro Michahelles Fotografo

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Senz’altro è un momento di grande crisi e di grande trasformazione. Sai, io ho cominciato a fare questo lavoro quando non esisteva nemmeno il fax ma soltanto le telescriventi e, soprattutto, per noi di provincia esistevano gli stenografi, loro sì veri monumenti, di una bravura imbarazzante. Quindi di rivoluzioni ne ho vissute tante, e quella di internet è stata, in positivo e in negativo, una grande rivoluzione. In positivo non devo spiegartelo, sto pensando soltanto ai miei libri, per esempio. Ecco, se devo verificare una data non devo perdere tempo, come succedeva 20 anni fa, a sfogliarmi un’enciclopedia, mi basta un nanosecondo. In negativo perché purtroppo c’è uno scarsissimo

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controllo delle fonti anche da parte dei nostri colleghi. E siccome online esce di tutto, questo è assolutamente devastante. Molto pericoloso, come i social che sono diventati uno strumento di distruzione di massa. D’istruzione e distruzione, suona uguale ma c’è tanta differenza. E quindi, come ci si difende? Non fidandosi di nessuno, tantomeno delle informazioni assunte sul web che, ripeto, è uno strumento prezioso ma anche straordinariamente pericoloso. Si torna a una delle regole principi del giornalismo, il controllo delle fonti. Sì, ai miei colleghi di redazione, da 25 anni, dico sempre che siccome noi non possiamo sbagliare perché se agli altri perdonano tutto a noi non perdonano niente, il controllo delle fonti deve essere assolutamente rigoroso. E questo vale per tutti, evidentemente. Ogni volta ripeto: «Non mi dite mai: “L’ho letto sul giornale”, perché il giornale può essere una prima fonte, ma non è la fonte». Un giornale ti può avvertire che è successa una cosa ma poi devi verificare se davvero è andata così. È anche vero, come sostiene Pierluigi Battista intitolando così un suo corso di scrittura giornalistica, che “i fatti sono opinioni”. E vale anche la chiosa “le opinioni non sono fatti”. Sono assolutamente d’accordo con Pigi, parole sante. Basta vedere come si titolano le condanne e le assoluzioni: in maniera totalmente diversa a seconda di come la pensi. E, comunque, per una condanna sei colonne in prima pagina, per l’assoluzione due in 24esima. E qui c’entra la ricerca di sensazionalismo, per fare della notizia un prodotto da vendere, oppure la partigianeria,


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che quando è dichiarata è discutibile ma lecita, ma anche l’impossibilità a essere totalmente oggettivi. Sì, certo, ma occorre comunque onestà. Io mi ricordo sempre, e sto parlando di più di 30 anni fa, che prima di Mani Pulite arrestarono un assessore regionale, mi pare della Liguria, e noi demmo la notizia nel sommario del telegiornale, proprio nei titoli principali. Quando fu prosciolto io pretesi che fosse messo nei titoli del telegiornale. Cosa che non succede mai, mai. Perché sono tali e tanti i danni che noi riusciamo a procurare alla vita delle persone che insomma queste riparazioni sono... Più che doverose. Assolutamente, una regola di vita dalla quale non si può derogare in maniera assoluta. Parlando prima dei colleghi di redazione che da 25 anni ammonisci sul controllo delle fonti ti riferivi a quelli di Porta a Porta. Un quarto di secolo di approfondimenti e confronti politici. Venticinque anni a gennaio, quelli solari, ma questa è già la 26esima stagione. Porta a Porta è nata il 22 gennaio del 1996, Romano Prodi fu il primo ospite. E gli portasti fortuna. Tutta la prima puntata fu molto fortunata. Quando Prodi venne da noi stava per essere fatto fuori da candidato premier dell’Ulivo. Questo succedeva il lunedì e il mercoledì ci fu il confronto tra Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi che poi avrebbero mandato per aria l’ipotesi di un governo Maccanico. E questo salvò Prodi. Da subito, in qualche modo, Porta a Porta fu testimone di un episodio decisivo. Quasi un elemento della vita politica italiana, tant’è che Giulio Andreotti la

definiva la “terza Camera”. Testimone, testimone. Però è vero, Andreotti diceva: «Se io parlo in Senato non mi si fila nessuno, se vengo a Porta a Porta poi mi telefonano tutti». La politica è stata senz’altro uno dei temi centrali della trasmissione, con gli inevitabili corollari di polemiche, penso anche alla famosa firma di Berlusconi del contratto con gli italiani. Però anche la cronaca, tante vicende che hanno appassionato gli spettatori e tu hai approfondito, sviscerato, chiamando a raccolta tecnici, esperti, opinionisti. Ecco, qual è il confine tra informazione e intrattenimento e come quest’ultimo è funzionale a conquistare attenzione e ascolto? Quando nacque Porta a Porta, il direttore di Rai1 era il bravissimo Brando Giordani, che in qualche modo questa trasmissione la subì, non ci credeva. Non credeva che si potesse fare politica educatamente su Rai1, perché quelli erano i tempi di Samarcanda, del sangue, dell’arena, la politica era proprio battaglia, robe terribili. Invece ci riuscimmo e, a proposito di intrattenimento e politica, contaminammo proprio la politica con le persone dello spettacolo. Scusami, che significa la subì? Le cose andarono così: io ero stato direttore del telegiornale fino al ‘93 e mi dimisi senza condizioni, fui un imbecille assoluto. Avrei dovuto fare la prima serata di informazione e non me la fecero fare. Ero a Palermo per seguire la prima udienza del processo Andreotti e rientrando in albergo, per caso, sentii uno spot: seconda serata a Carmen Lasorella, cinque serate su cinque. Allora, tornato a Roma, andai a viale Mazzini

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da Letizia Moratti che, pur essendo presidente, era la donna forte dell’azienda e le dissi: «Ma lei vuole che io me ne vada?». E allora dettero tre serate a Lasorella e due a me. Da lì tutto un susseguirsi di successi di share fino a che Porta a Porta non diventa la regina della seconda serata televisiva. Quale il segreto? Se guardiamo le analisi degli ascolti, emerge che siamo leader nella fascia più colta e in quella più elementare, questo da sempre. E fin dall’inizio. Lo dissi a Gianni Agnelli che mi chiedeva come andava la trasmissione e anche a Carlo De Benedetti. Noi parliamo molto molto semplicemente e cerchiamo di far capire. Questo non significa naturalmente parlare in maniera banale, però nessuno può dire: «Ma quelli parlano in maniera complicata». Oppure: «Litigano e non si capisce niente». Poi ciascuno può non essere d’accordo con le posizioni espresse dalla trasmissione, ma quello che cerchiamo di fare è mantenere il confronto e la discussione ordinati, certe volte fin troppo, in modo che tutti quanti capiscano. Ecco, questa è la nostra caratteristica da sempre. Una caratteristica vincente, a quanto pare. Più di un direttore di giornale mi ha detto che il suo quotidiano dà spazio a opinioni contrapposte così che sia poi il lettore a “farsi un’idea propria”. Ma in tv oltre al contenuto delle opinioni conta anche come uno le propone e interagisce con l’altro. È così. E la televisione offre, insieme a numerose opportunità di approfondimento, la possibilità proprio di mettere a confronto opinioni e personalità diverse, per questo credo che la tv, anche quella generalista, abbia ancora

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lunga vita. Perché per un certo tipo di informazione ancora serve. Non per le notizie in sé, che la gente già sa, sempre e subito. Una delle cause, questa, della crisi dei giornali. Ma per approfondire e capire. Tu hai fatto radio, tv, sei stato direttore editoriale di QN Quotidiano Nazionale, scrivi libri. Media diversi, tecnicalità diverse… Sì, ci sono delle differenze tecniche ma l’informazione è la stessa, le regole sono le stesse. Poi sai che parli a pubblici diversi, e ti adatti. Io però uso sempre lo stesso linguaggio dovunque, dai libri ai giornali, dalla radio alla televisione, e cerco di farmi capire. Farsi capire, il contrario del latinorum tanto elitario quanto vacuo dell’azzeccagarbugli manzoniano, un demone che alligna in molti di noi. La tua si è dimostrata una scelta popolare e di successo. Ebbene sì, questa cosa ci ha portato bene e funziona anche nei libri. Io racconto la storia in maniera molto colloquiale, perché la storia è fatta di persone, di amori, di sentimenti insomma. La vita di Benito Mussolini è affascinante perché appunto c’è una personalità molto forte con tutte le sue sfaccettature, paradossalmente anche le sue insicurezze, le sue diffidenze, i suoi casini sentimentali. Sono persone e come persone vanno raccontate. Ecco, parliamo di Mussolini, che è di nuovo il protagonista del tuo ultimo libro, uscito a fine ottobre. Un tema di gran voga, penso anche al successo editoriale di Antonio Scurati con M. Il figlio del secolo… Beh, io ero partito ben prima, la mia Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi


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ha venduto 300mila copie, molti anni fa. L’anno scorso ho dato alle stampe Perché l’Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare), quest’anno Perché l’Italia amò Mussolini (e come ha resistito alla dittatura del Covid) e, se Dio vuole, l’anno prossimo Come Mussolini distrusse l’Italia. Perché tanto interesse verso il Duce? Forse perché dietro la storia di Mussolini c’è la storia di questo Paese, di come gli italiani siano in perenne ricerca di un condottiero, di un padre che li guidi, ma anche di quanto siano volubili e pronti a ripudiarlo? Sì, è proprio così. Lui diceva, e aveva perfettamente ragione: «La folla è una puttana, va sempre con chi vince». E questo è vero, ed è una caratteristica anche degli italiani. Vorrei tornare a Porta a Porta e a quel dosato mix di informazione e intrattenimento. Che è poi una ricetta adottata anche da altri, con alterne fortune. Hai detto: «Contaminammo la politica

con persone dello spettacolo». Un tuo ricordo? Penso alla nostra prima puntata, quando oltre a Prodi ospitammo Milly Carlucci, poi alla puntata con Valeria Marini che era al massimo della bellezza e del successo. Allora andavamo in onda un’ora prima, la seconda serata era ancora in un orario decente. E poi le sorprese. Quando entravano gli ospiti ce n’era sempre una: il benzinaio amico di Gianfranco Fini o il ciclista amico di Prodi. Era talmente percepito come un piccolo evento che una sera dovetti lasciare in anticipo una cena alla quale era presente Agnelli, dicendo: «Scusate ho la trasmissione». E l’Avvocato mi chiese: «Qual è la sorpresa stasera?». Nel raccontare l’episodio e ricordare la domanda di Agnelli, Vespa imita la sua voce e la sua celebre erre moscia. Ecco, il segreto del successo sta anche in questo, in un’empatia e bonarietà mai scontate. E neppure tanto frequenti, tra i giornalisti.

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LA RIVOLUZIONE DEL GIORNALISMO DIGITALE IL DIRETTORE DELLA REPUBBLICA MAURIZIO MOLINARI RACCONTA COME CAMBIANO LINGUAGGIO E RAPPORTI CON IL LETTORE

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edialogando chiude il 2020 con lo stesso ospite che lo ha inaugurato, Maurizio Molinari. A gennaio lo incontrammo come direttore della Stampa, oggi è con noi per parlarci della testata che dirige dall’aprile scorso, La Repubblica. Il secondo quotidiano italiano per diffusione (ma «l’unico vero giornale nazionale, perché presente in maniera omogenea su tutto il territorio», come tiene a precisare Molinari), saldamente primo nei ranking dell’informazione online. Nel mezzo un anno drammatico, sconquassato da un’apocalisse sanitaria e sociale planetaria i cui effetti si riverberano anche sull’informazione e la comunicazione. Se in 12 mesi l’opinione di Molinari sui fondamentali del giornalismo non è cambiata, il mutato scenario e la sua attuale veste inducono nuove e interessanti riflessioni. Maurizio, da gennaio a oggi il Covid-19 ha stravolto il mondo, anche quello dei media… È vero, è come se fossimo in guerra. La pandemia è come un conflitto, con oltre 50mila morti, a oggi, soltanto in Italia. Con intere famiglie, parenti e conoscenti coinvolti, qualcosa di agghiacciante. Quando le persone vivono

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una situazione di questo tipo, costrette per lunghi periodi a starsene rifugiate, cosa cercano? Il cibo e l’informazione. In guerra hai bisogno di mangiare e sapere che cosa succede. Per il cibo ogni tanto esci e vai al supermercato ma l’informazione la cerchi e la trovi grazie al digitale. Con un’impennata dell’informazione online. Esatto. Il Covid-19 ha portato un imponente aumento degli abbonati digitali, all’inizio della pandemia La Repubblica ne aveva 40mila, oggi 130mila. E credo che anche gli altri giornali abbiano registrato una crescita simile, segnale di un forte trasferimento dei lettori nel mondo digitale. Non accontentandosi più, però, dell’informazione gratuita offerta dal web, in un mare magnum di disintermediazione che non assicura né qualità né autorevolezza. Sai, fino a quando tu giochi e scherzi può valere tutto, ma in guerra hai biso-

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gno di credere a chi ti dà le informazioni. Poi sono accadute altre due cose. È cresciuta l’abitudine a informarsi online, in alternativa alla carta, da parte però di chi ancora compra la carta, non di chi l’abbandona. E anche la propensione agli acquisti sul web. Prima eravamo indietro come Paese, esitavamo a utilizzare la carta di credito, ora invece si spende di più. Noi peraltro abbiamo incentivato questo percorso, le promozioni non sono mancate. In ogni caso la pandemia costituisce uno spartiacque per il giornalismo digitale nostrano, per volumi e qualità dei prodotti. Anche se la strada è lunga… Sì, del resto sono proprio queste situazioni di difficoltà che conducono a novità e accelerazione dei processi. Noi siamo nel bel mezzo della rivoluzione digitale, e abbiamo bisogno di qualità per imporla. E La Repubblica ha tantissimi giornalisti che hanno qualità e capacità. La sfida è trasferirle sulle nuove piattaforme, con un gioco di squadra che coinvolge tutto il gruppo Gedi e vede il quotidiano come nave ammiraglia. Sei alla Repubblica da quasi otto mesi, capitano di una nave che ha intrapreso una speciale rotta proprio sotto l’insegna del digitale… L’editore mi ha dato la responsabilità di ripetere l’esperienza di quel giornalismo digitale testato alla Stampa, che mostrava di funzionare, in un’organizzazione di lavoro più grande e sofisticata. In quello che considero il laboratorio oggi più avanzato di informazione digitale nel nostro Paese. Perché La Repubblica ha un suo digital lab che nasce dalla storia del giornale: il primo


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a realizzare un proprio sito internet, a svilupparlo, a investirci, con una tradizione di giornalisti e tecnici specializzati affiancati ora da nuove risorse. L’intero terzo piano della nostra sede è occupato da un open space dove una trentina di ragazzi, tutti sotto i 35 anni, per la maggioranza donne, lavorano in continuazione su software digitali, provano programmi e incrociano video con registrazioni audio e infografiche per realizzare una nuova generazione di contenuti intellettuali di altissima qualità. Bene, parlaci di questi prodotti di ultima generazione. Abbiamo iniziato con i long-form, due mesi dopo il mio arrivo. Sono inchieste settimanali frutto del lavoro di un team di giornalisti che si occupano insieme di un tema specifico: come, per esempio, l’origine del Covid-19. Li pubblichiamo online il mercoledì e su carta la domenica seguente. Sul web si presentano con una scrittura integrata da vari contenuti multimediali. Sono racconti digitali la cui lettura prende diversi minuti, abbonamenti e traffico dimostrano che funzionano e sono molto graditi. Siamo nel campo degli approfondimenti che rappresentano uno dei plus del giornalismo professionale. In questa forma innovativa sono capaci di catturare meglio l’attenzione del lettore. Sì, ma l’informazione digitale tout court ha un prodotto ancora più innovativo, il video reporting. Il New York Times lo ha usato per raccontare l’uccisione di George Floyd a Minneapolis. Si tratta di video brevi nei quali si mettono assieme tutte le informazioni e i documenti utili

su un singolo episodio per raccontarlo come se si fosse presenti nel momento in cui avviene. Noi lo abbiamo fatto prima con l’incidente ad Alex Zanardi, poi con l’omicidio del povero Willy, poi siamo tornati a ripeterlo sul caso Cerciello, il carabiniere ucciso a Roma. In otto-dieci minuti ti consente di fare un’esperienza davvero coinvolgente, di rivivere un episodio di cronaca come se fossi lì: con le voci, le immagini dei droni e l’infografica che analizza e illustra dettagli come, che so, la posizione della ruota dell’handbike di Zanardi durante l’impatto con il camion che lo ha investito. E poi è arrivata una profonda rivisitazione del sito La Repubblica. Sì, oggi è molto semplificato, pulito, di facile consultazione, sul modello del New York Times, quello che trovi sul giornale lo trovi sul sito. Ha riscosso un grande successo, abbiamo avuto un boom di contatti. Noi ogni giorno facciamo dai sei ai sette milioni di utenti unici e siamo arrivati, durante le elezioni americane, a 12 milioni. Dodici milioni in un Paese di 60 milioni di abitanti. Questo ti dà l’idea della crescita che abbiamo di fronte e del perché stiamo progressivamente adattando a questo la redazione, il lavoro, i compiti. La cosa bella è che i giornalisti di fronte a questa sfida danno il meglio di sé, perché percepiscono che è la nuova frontiera. E così fanno i tanti collaboratori esterni, circa una ventina, come Roberto Saviano, Stefano Massini o Corrado Augias. Prima hai utilizzato l’espressione “rivoluzione digitale”, quindi non è un’iperbole, almeno per La Repubblica? No, non lo è. Quel che stiamo vivendo è

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una sfida avveniristica ed emozionante, vista dall’interno. E il nostro interesse è che anche la concorrenza faccia altrettanto, che il mercato dell’informazione digitale si ampli come sta succedendo in Europa. Colgo l’occasione per ringraziare il sottosegretario all’editoria, Andrea Martella, che ha capito la fase in cui siamo, l’importanza dell’editoria digitale, le nuove professionalità che richiede e le opportunità di lavoro che crea. Solo l’altra settimana, qui a La Repubblica, abbiamo messo su un’unità di sette analisti di dati. Insieme alle enormi potenzialità di espressione, e ci torneremo, ci sono quelle di diffusione, alle quali hai appena fatto riferimento. Le sfide, quindi, sono molteplici. Per continuare a catturare lettori e pubblici nuovi, occorre scovarli in bacini diversi da quelli tradizionali. Sei d’accordo? È proprio questa la vera competizione, non tanto prendere i lettori del Corriere della Sera – quella è una sfida che c’è e ci sarà sempre – ma saper declinare il lavoro giornalistico alle nuove piattaforme, per andare su youtube o tiktok e portare le persone che non hanno mai letto un giornale sui propri contenuti di qualità. E come ci si riesce? Sperimentando. Il nostro laboratorio digitale procede per test, con tentativi che, se funzionano, vengono sviluppati, altrimenti si chiudono lì. Ha funzionato quello su tiktok. Un mese fa un redattore della Repubblica ha girato alcuni video su questa piattaforma, inferiori a 60 secondi, nei quali si vede solo il suo volto mentre pronuncia tre frasi che rispondono a una domanda difficile, non so: «Come si elegge il presidente degli

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Stati Uniti?» o «cos’è una zona rossa?». Un interrogativo di largo interesse, con una risposta in tre frasi. In un mese ha fatto un milione e 100mila visualizzazioni. Il presidente di Gedi, John Elkann, assicurando «la più alta concentrazione di investimenti nel settore» ha indicato un preciso obiettivo: costruire un diverso rapporto con i lettori. Con un’interazione e un’esperienza simile a quella offerta da società come Amazon, Spotify o Netflix. Non basta quindi la trasformazione del linguaggio e la ricerca di nuove piattaforme… A quelle si aggiunge altro, e riguarda i canali verticali, l’iperlocal e la distribuzione. Iniziamo dai verticali: sappiamo che il tasso di crescita dell’homepage di una testata giornalistica ha un suo livello di saturazione. Allora il punto è: come crescere indipendentemente da quel livello? Il primo a dare una risposta editoriale e industriale è stato il Financial Times aprendo dei canali interni al sito destinati a settori particolari di pubblico, che crescono per conto loro. Per questo abbiamo inaugurato a settembre due verticali che stanno andando molto bene: Salute e Green&Blue, rivolti a chi ha un forte interesse per i temi della salute e a chi lo ha per l’ambiente e la sostenibilità. Anche nell’editoria tradizionale quelli meno penalizzati dalla crisi generale sembrerebbero proprio i verticali, le riviste di nicchia. Si tratta di soddisfare gruppi omogenei per interessi, passioni… E per questo noi abbiamo a disposizione anche nove redazioni locali. Cosa c’è di più verticale di un canale locale? Dobbiamo rafforzarle sul piano digita-


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le per dialogare meglio con il pubblico della città e fare in modo che la loro informazione diventi sempre più localistica, e non guardi solo alla città, ma ai quartieri, ai condomini, insomma diventi iperlocal. Abbiamo iniziato con Roma, e da aprile a ottobre siamo passati da cinque a dieci milioni di utenti unici. Adesso stiamo ripetendo l’operazione con Bari, e proseguiremo con le altre redazioni. Quel giornalismo locale che si pensava dovesse declinare irrimediabilmente offre occasioni di lavoro e praterie sconfinate. Perché poi abbiamo 20 milioni di italiani in America, 20 milioni in Argentina, persone che desiderano avere notizie dei Paesi o dei quartieri da cui provengono. Elkann ha parlato anche di distribuzione. Ho incontrato Daniel Ek, il CEO di Spotify, e abbiamo discusso di possibili interazioni: loro hanno la musica, noi abbiamo i contenuti, si tratta di trovare un modo per metterli assieme. È una bellissima sfida, fino a questo momento la risposta non ce l’abbiamo, però bisogna tentare di far viaggiare l’infor-

mazione anche su canali diversi. L’esempio di Spotify potrebbe suggerire anche l’offerta di prodotti self-made, con abbonamenti o acquisti on demand. Poi c’è Netflix… Anche il riferimento a Netflix è molto interessante. Nei 18 mesi che hanno preceduto il mio arrivo alla Repubblica ho viaggiato molto e visitato tante redazioni: l’esperienza altrui è molto utile. Quando ho incontrato la direttrice dell’Economist e le ho chiesto quale fosse la loro sfida, il loro obiettivo, mi ha risposto: «Fare concorrenza a Netflix». Che significa? Significa che se Netflix ha successo realizzando e distribuendo film, fiction e serie di grande qualità, perché non provare a fare altrettanto sui temi di propria competenza? Un documentario su Boris Johnson come potrebbe farlo l’Economist non lo potrebbe fare nessun altro. Allora perché non immaginare di usare il nostro laboratorio digitale per creare, se non dei film, dei mini documentari o una mini fiction che raccontino grandi fatti di cronaca?

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ell’era dell’iperinformazione l’illusione di sentirsi ben informati è una bolla che rischia di scoppiare. Fake news, disintermediazione digitale, frammentazione e molteplicità dei canali di comunicazione sono le parole chiave in un periodo caratterizzato da repentini mutamenti sociali, politici, economici, e da una pandemia che sta mettendo a dura prova il mondo che conosciamo. Oggi i media - vecchi e nuovi – sono ancora in grado di creare valore, informare correttamente le persone e essere cani da guardia del potere? E il giornalismo al tempo della biomedialità (cioè la sovrapposizione tra uso dei media e creazione della propria identità personale digitale, secondo una definizione del Rapporto sulla comunicazione Censis e Ucsi) serve ancora? Il Covid-19 ha costretto il mondo dell’informazione a fare i conti con sé stesso, con temi e questioni note da tempo, ma che ora, nell’urgenza e nell’emergenza della pandemia, sono diventate pericolosamente reali. Mesi di convivenza con il virus hanno dimostrato ancora una volta che i cittadini hanno diritto e necessitano di buona informazione e che quello che era nato come citizen journalism per poi trasformarsi, almeno in parte, in informazione-selfie non è, e non può essere, la panacea di tutti i mali. Oggi, più che mai, serve autorevolezza. E il giornalismo ha il compito, se non il dovere, di essere autorevole. Lo stesso ruolo del giornalista è cambiato: la notizia non è più il solo pane quotidiano, e trovare le “notizie”, gli scoop, non è più l’unica cosa che conta. Il bravo giornalista è anche colui che sa interpretare, mettere in riga, ordinare il caos del mare magnum dell’informazione e fornire alle persone una chiave di lettura. E che sappia leggere e far parlare i dati. Non è un caso come negli ultimi anni si stia facendo largo la figura del data scientist, sempre più ricercata dalle aziende e dalle testate giornalistiche. Non è, insomma, l’informazione ad essere in crisi, ma il sistema su cui fino ad ora si è retta. Un sistema basato sul predominio, e sulla “necessità”, della carta. Qual è dunque la giusta ricetta per il giornalismo del futuro? Ciò che emerge dalle idee e dalle riflessioni dei direttori delle principali testate italiane è che siamo appena all’inizio di un cambiamento epocale che, forse, sarebbe dovuto cominciare molti anni fa. Il New York Times già dal 2014, sei anni fa, ha scelto la formula del digital first. E in Italia? Tentativi di creare qualcosa di nuovo, di innovativo, sono in atto. E su più fronti. Ma il digital first, l’essere prima sul web, già non basta più. Il giornalismo oggi impone nuovi linguaggi, che cambiano e mutano nel momento stesso in cui vengono codificati. Servono nuove competenze, nuovi ruoli, nuove professionalità. Serve sperimentare, restando, però, sempre autorevoli. Il potersi fidare, l’avere fiducia, forse è davvero l’unica cosa che conta. Anche nel giornalismo.

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Ringraziamenti Gli autori e i curatori di questo volume ringraziano FS Italiane, proprietaria della testata La Freccia, nella persona del suo Amministratore delegato Gianfranco Battisti, e del Direttore centrale comunicazione esterna di FS Italiane, Angelo Bonerba, per aver creduto nel valore della rubrica Medialogando, consentendo che diventasse, nel tempo, un appuntamento fisso della rivista, creando quindi i presupposti per questa raccolta.


EDITORE

INTERVISTE TRATTE DA LA FRECCIA FINITO DI STAMPARE A DICEMBRE 2020 TIRATURA 500 COPIE ISBN 978-88-94063-81-3 Foto e illustrazioni FS Italiane | PHOTO AdobeStock Tutti i diritti riservati. Se non diversamente indicato, nessuna parte della pubblicazione può essere riprodotta,rielaborata o diffusa senza il consenso espresso dell’editore. I CONTENUTI SONO RESI DISPONIBILI MEDIANTE LICENZA CREATIVE COMMONS BY-NC-ND 3.0 IT Info su creativecommons.org/licenses/ by-ncnd/3.0/it/deed.it

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Ogni mese, per tre anni, con Medialogando, abbiamo costruito uno spazio dove parlare di informazione e mondo dei media, offrendo l’opportunità ai nostri lettori, viaggiando sulle Frecce o nel web, di conoscere meglio quel mondo e alcuni fra i suoi protagonisti. Tante le riflessioni sull’evoluzione di una realtà che si sta misurando con le sfide e le opportunità della rivoluzione digitale, con l’avvento dei social, la multimedialità, la disintermediazione, la continua interazione con lettori e pubblico. È emerso, tra gli altri, il supremo valore del pluralismo, la possibilità di ascoltare più voci e leggere la realtà e gli eventi con gli occhi di chi non la pensa come noi. Un esercizio che può consentirci di fare almeno capolino fuori dalle nostre confortevoli bolle e mettere in discussione le nostre opinioni. Il web renderebbe più facile questo nobile esercizio se solo chi vi naviga avesse buone bussole e adeguate cognizioni di nautica. Questo libro non ha la presunzione di potervele fornire, ma di offrirvi almeno uno stimolo a cercarle e apprenderle, questa sì.

ISBN 978-88-94063-81-3

ISBN

9 788894 063813


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