Storie da ridere della tradizione popolare pugliese

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C'è tutta la multiformità dell'umorismo in questi esempi di letteratura popolare raccolti e reinventati in Puglia, grazie a intersezioni di poetica e stile post-rurali, che li insapori­ scono senza tradirne le scaturigini. [ ... ] Le Storie da ridere sono storielle, e pure fllastrooche, fra il realistico e il grottesco, fra il paradosso e l'equivoco, ma anche il macabro. I loro protagonisti sono quelli consueti, a. cui ha. abituato la grande tradizione della. novellistica italia­ na colta e popolare: donne sotto vari aspetti intemperanti; preti e monaci a.vidi, razziatori, e lussuriosi; mariti stolti e cornuti; contadini o villani sciocchi e creduloni, che ricevo­ no la loro dose di bastona.te; "furbi'' che lo sono davvero o che invece finiscono con l'essere gabbati. [dalla Prefazione di Daniela Marcheschi] I temi dei racconti attingono a un repertorio uniformemente diffuso in un'area che va dall'alta murgia alla marina barese, e possono ridursi ai seguenti: monaci e preti, morte e riso, scempiaggine e furbizia. È l'alternanza di questi temi a ritmare la struttura della. presente raooolta, formando delle triadi comiche regolarmente sequenziate. Le storie sono state registrate (tra il 1984 e il 1992) dalla viva voce dei seguenti testimoni: Addolorata De Bellis, Anna De Bellis, Giuseppe Nuzzaco, Pietro Paciolla., Angelantonio Cappelli (Cassano delle Murge); Nino De Caro (Gioia del Colle); Angelino Gasparro (AdeUla); Maria Spalluti (Locoro­ tondo); Giuseppe Carbonara, Isabella. Lovecchio (Monopoli); Lucia Boccuzzi (Polignano a Mare). È possibile ascoltare online le registrazioni delle narrazioni, nelle versioni originali, all'indirizzo: www.youtube.com/user/EdizioniPaginalplaylists


Indice

Prefazione di Daniela Marcheschi Premessa Avvertenza

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Tessa A uno a uno Educazione alla ’ngule

3 10 12

I tredici monaci (anzi quattordici) Preghiere al funerale La zita tesa tesa

15 20 22

Il prete falso di campagna Compari bastonati I tre zappatori

27 31 33

La giumenta della signora La proprietà del priso La moglie curiosa

38 41 46

Due monaci colti sul fatto All’orto sta lui! La pelle bastonata

50 54 56

Zi’ monaco fottuto Preti al funerale Quello dell’uovo

62 68 70


Il toro di don Ludovico L’acquata e il vino buono La pasta tosta

73 78 82

Il monaco non tanto monaco La vedova taccagna La frittatina di Rosa Rosina

88 96 99

Ăˆ maschio! Mi raccomando a quello... Il pastore avvocato

104 110 113

Nonsense da (non) ridere

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Prefazione di Daniela Marcheschi

C’è tutta la multiformità dell’umorismo in questi esempi di letteratura popolare raccolti e reinventati in Puglia, grazie a intersezioni di poetica e stile post-rurali, che li insaporiscono senza tradirne le scaturigini. Dunque, non una semplice trascrizione di materiali orali – Italo Calvino insegna –, bensì la loro raccolta e rinarrazione nel solco di una prova di scrittura contemporanea retta dagli intrecci fra dialetto e italiano (e non solo), secondo precise, e oramai storicizzate, concezioni del linguaggio e dell’attività letteraria. Ben si comprende come gli autori siano stati attratti da una simile sfida: una funzione delle reinvenzioni narrative – da Carlo Collodi e Luigi Capuana in poi – è proprio quella di essere esercizio di scrittura liberante, favorito dall’incursione nel genere letterario e nella tradizione polifonica per eccellenza dell’umorismo, così come la individuò il teorico francese dell’estetica Charles Lalo. In queste pagine, il lettore troverà così ironia, beffa, comico, giochi di parole e motti, sarcasmo o humour nero, in una continua mobilità dello sguardo e in un intreccio senza altra regola che quella di dover seguire soltanto le illimitate leggi del riso e del sorriso. Le Storie da ridere sono storielle, e pure filastrocche, fra il realistico e il grottesco, fra il paradosso e l’equivoco, ma anche il macabro. I loro protagonisti sono quelli consueti, a cui ha abituato la grande tradizione della novellistica italiana colta e popolare: donne sotto vari aspetti intemperanti; preti e monaci avidi, razziatori, e lussuriosi; mariti stolti e cornuti; contadini o villani sciocchi e creduloni, che vii


ricevono la loro dose di bastonate (come in Due compari bastonati); “furbi” che lo sono davvero o che invece finiscono con l’essere gabbati. Accade parallelamente a tante presunte “furbe”, nell’alveo della più perfetta tradizione delle «malizie delle donne», ricostruita di recente dalla studiosa portoghese Luísa Marinho Antunes. In alcuni casi i “prestiti” dalla tradizione colta sono addirittura sfacciati: la storiella di Quello dell’uovo – su una moglie che diffonde la voce che il marito avesse fatto un uovo, rendendolo così lo zimbello del paese – è tratta dalla novella di Anton Francesco Doni: La Marietta di Tofano fa spargere voce che suo marito cacasse uova durante la notte. La narrazione pugliese si configura però in partenza come la scommessa fra due amici: un giovane celibe e «dritto» e un amico sposato, convinto di aver preso in moglie una donna speciale. Il risultato sarà che non solo la moglie e il marito, troppo fiducioso nell’eccellenza femminile, ne usciranno derisi, ma che persino i loro discendenti saranno ironicamente indicati come «‘la figlia di quello dell’uovo’» o «‘il figlio di quello dell’uovo’, fino alla settima generazione». Allo stesso modo, fanno capolino in questi testi altri topoi della novellistica – da Boccaccio a Pietro Fortini – e del teatro comico (in specie del Molière del Malato immaginario), cioè il fingersi morto: ad esempio nella storia La moglie taccagna, in cui un vecchio si finge morto, per verificare se la moglie manterrà la promessa, tante volte fattagli, di vestirlo con l’abito, che fu già delle nozze, nel giorno dei suoi funerali. E a Boccaccio rimandano alcune situazioni e delle presenze o, meglio, dei protagonisti, inevitabili di tante storielle ridicole: monaci e preti sorpresi in momenti scabrosi (in Due monaci colti sul fatto), oppure beffatori e, soprattutto, beffati, ma – a quella maniera feroce che caratterizza le novelle del Lasca – perfino a subirne la conseguenza estrema della morte, come accade in I tredici monaci (anzi quattordici) o Il monaco non tanto monaco. Perché, parlando di umorismo o di comico, una cosa è certa, e la comprese bene Lorenzo il Magnifico, quando volle prendere le diviii


stanze dall’amico e compagno di avventure letterarie Luigi Pulci, per accostarsi al neoplatonismo di Marsilio Ficino. Tutti i sottogeneri o generi connessi alla vasta galassia dell’umorismo si possono esplicare in maniera pluridirezionale: nel senso delle gerarchie sociali, dall’alto verso il basso, come càpita nel caso dei contadini babbei e dileggiati in I tre zappatori; ma anche dal basso verso l’alto, come nella storia La frittatina di Rosa Rosina, in cui assistiamo a una beffa doppia o speculare. Il giudice che vuol essere beffatore della sempliciotta Rosa Rosina, comminando una pena “adeguata” alla mosca che ne ha rubato la frittatina, risulta infine il vero beffato, perché la donna, autorizzata a farsi giustizia con le sue proprie mani, uccide con un violento ceffone l’insetto posatosi sul naso del giudice stesso. La stessa letteratura popolare, e il genere della novella in particolare, funzionano spesso nella medesima maniera poliedrica e multilaterale. Nel senso che, da un lato, le classi subalterne si impadroniscono, magari variandoli anche di poco, di testi che hanno avuto origine in altri ambiti: ne abbiamo un esempio macroscopico con Quello dell’uovo, lo ribadiamo. Dall’altro, esse ne producono di propri, che possono diventare a loro volta patrimonio di scrittori e della letteratura colta: ne abbiamo esempi, fra i non molti che hanno contraddistinto finora la cultura italiana e che abbiamo menzionato rapidamente, in opere come La ragazza con il vestito di legno e altre fiabe (Frassinelli, Milano 1992) di Elio Pecora, e la trascrizione/riscrittura dei miti e delle leggende ladine che Nicola Dal Falco sta conducendo dal 2012 per gli editori Palombi di Roma. Angiuli, Cappelli e Di Turi hanno il merito di essere scesi anche loro in campo, restituendoci il sapore di commistioni, che contribuiscono agli sviluppi delle conoscenze e della civiltà letteraria di una nazione.

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Premessa

“Stipa che trovi” recitava un noto detto sapienziale riveniente dalla medesima cultura che ha generato il materiale raccolto in questo libro: un consiglio preindustriale e anticonsumistico che noi abbiamo voluto applicare a partire da quando, per strade e in tempi diversi, viaggiando attraverso i nostri paesi in compagnia di un registratore portatile, ci facevamo cercatori di memorie e di reperti della cultura orale, nella prospettiva di documentarne in qualche modo le labili tracce. Abbiamo stipato a lungo e adesso ri-troviamo ciò che, nel giro di pochi decenni, è quasi del tutto scomparso dall’orizzonte comunitario, sotto le spinte di un’omologazione che non è andata tanto per il sottile nel cancellare le forme espressive di un immaginario frutto di secoli, se non di millenni, con vere e proprie azioni di colonizzazione culturale, non sempre indirizzate allo sviluppo “equo e solidale” dei soggetti appartenenti al polo debole dello scontro di civiltà che si è consumato sotto i nostri occhi nei termini spesso espressi da Pasolini. Come effetto di questa trasformazione per certi tratti violenta, più o meno consapevoli che di fronte alla cosiddetta modernità si è finito per gettare l’acqua con tutto il bambino – anche sull’onda di un sotterraneo senso di colpa per così dire antropologico o di qualche eccessiva pulsione nostalgica –, molti hanno dato luogo alla riproposizione (spesso strumentale, in quanto asservita all’industria del tempo libero) di tradizioni, ricettari, rituali, comportamenti resuscitati con lo scopo di ritrovare il tempo perduto, per non smarrire del tutto il contatto con ciò che eravamo e che, comunque, influisce carsicamente su ciò che siamo. xi


La nostra operazione, ieri come oggi, muove però da un altro tipo di spinta e di considerazione: più che tentare di rimettere in circolazione un materiale che ci faccia viaggiare all’indietro nel tempo, noi riteniamo che vada restituito alla comunità del cosiddetto popolo quello che alla comunità del cosiddetto popolo appartiene e che da essa ci è stato trasmesso attraverso gli strumenti primari della bocca e della lingua. Restituito e, possibilmente, condiviso, come mezzo di tutela identitaria, all’insegna di quel rispetto che si deve verso ogni cultura. Per fare questo, abbiamo dovuto riprendere contatto con la nostra infanzia (il “bambino” che non è stato del tutto “buttato” con l’acqua) e provare a dare espressione scritta alle versioni orali raccolte con i nostri registratori portatili, conservate negli archivi della mente e dell’orecchio. Nel riaprire i cassetti della memoria, non abbiamo potuto non considerare e apprezzare, ancora una volta, certe qualità della cultura che ci siamo lasciati alle spalle, una cultura costruita e abitata da soggetti quasi sempre e quasi tutti illetterati, che comunque riusciva a dare risposte strutturate alle domande esistenziali con una serie di sorprendenti trovate fantastiche e di estrose risorse inventive, come quelle qui testimoniate: trovate e risorse che, sotto il comportamento ludico portatore di comicità, affrontavano e risolvevano questioni impegnative come la sessualità, i ruoli sociali, il lutto (per la morte) o la scelta della moglie (per la vita). Il tutto in chiave leggera e comunitaria, nei paraggi di un braciere, per il tempo libero, o durante pesanti lavori svolti in compagnia (pensiamo alla mietitura). Anche in queste fasi e tregue, sia pure camuffato sotto forme comiche e farsesche, si riusciva a far passare un messaggio didascalico per non dire morale, o di vera e propria iniziazione. In tal senso va letto l’apprezzamento espresso da Walter Ong: «Le culture orali sanno organizzare pensiero ed esperienza in modo sorprendentemente complesso, intelligente e bello» (Oralità e scrittura, il Mulino, Bologna 1986). I temi dei racconti che seguono attingono a un repertorio uniforxii


memente diffuso nell’area da noi battuta (dall’alta murgia barese alla marina), e possono in grandi linee ridursi ai seguenti: monaci e preti (e loro malefatte, condite di sesso), morte e riso (soprattutto nelle lamentazioni), scempiaggine e furbizia (con figure capaci dell’una e dell’altra “virtù”). Sarà l’alternanza di questi temi a ritmare la struttura della presente raccolta, formando delle triadi comiche regolarmente sequenziate. Ma la comicità, svincolata dall’oralità e dal contesto performativo originario del racconto, risulta notevolmente depotenziata o diversificata. È pertanto una sfida letteraria quella che ripropone per iscritto dei racconti “comici” che hanno avuto tutt’altra origine e modalità espressiva (si pensi, per fare un solo esempio, al riso contagioso che sollecita il narratore in carne e ossa con i suoi frequenti scrosci di risa, parti integranti – insieme alle sospensioni, agli ammiccamenti, alle intonazioni mimetiche della voce, ecc. – del contenuto narrativo comunicato). Riproporre in tutta la loro spontanea naïveté i materiali raccolti attraverso un’evidente operazione di mimesi linguistica è stato il compito che si è cercato di svolgere, pur sapendo che, in questo caso, la scrittura ha potuto e dovuto proporre una traduzione “infedele” o parzialmente fedele, facendosi carico, grazie ai propri strumenti, di tutte le suggestioni e della ricchezza drammatica della comunicazione orale, che si cercherà di recuperare attraverso delle pubbliche letture. «Il mezzo è il messaggio», sentenziava un grande del secolo scorso che di comunicazione se ne intendeva. Gli esiti di tale operazione, che è anche operazione di mediazione culturale, li affidiamo a chi abbia desiderio, bisogno o curiosità di fare i conti con la memoria, sia privata che collettiva, e che, sollecitato dai narratori cui abbiamo restituito voce, voglia anche cogliere l’occasione per divertirsi un po’. Lino Angiuli, Piero Cappelli, Lino Di Turi

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Tessa

C’erano una volta un lui e una lei, lui giovane lei giovane, lui la voleva lei lo voleva, e datosi che si volevano si pigliarono, si fidanzarono e si sposarono. Dopo sposati, tre quattro mesi dopo, il marito, che non trovava la fatica al paese, pigliò il legno per l’America e se ne andiede a trovarla là la fatica. Mo’ lasciamo il marito all’America e vediamo qua che cosa capitò la moglie, che intanto era uscita incinta quasi alla prima botta. Lei andò dal prete e si confessò. «Vacantina?», attaccò il prete. «No, sposata fresca.» «Fresca quanto?» «Quattro mesi.» «E tuo marito che fa?» «Non sai, padre? Per trovare la fatica ha preso il legno per l’America e mi trovo gravida di due mesi.» «Uuuh!», fece preoccupato il prete che buttò subito l’occhio alla pancia della cristiana, «Uuuuuh! Che brutto peccato che ha fatto tuo marito! Speriamo che Dio lo vuole perdonare!». Si agitò assai la femmina: «E com’è stato, padre, che ha fatto tanto peccato il marito mio, che è buono buono?». «Ma, figlia mia, tu stai incinta! Stai incinta e la creatura, lui, non ha finito di completarla; ti ha ingravidato e se n’è andato prima di finire il servizio! E sì; è bello così! Tutti sono capaci. Ma sono cose che non si fanno! Peccato... Peccato grave che può far nascere un mostro!» «Oh Madonna mia santa! E mo’ come devo fare io poveretta?»

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«Andiamo! Le vie del Signore sono infinite, figlia mia che figlia mi puoi essere. Non ti agitare, ché gli nuoce al creaturo, te lo completo io, te lo completo io il creaturo. So come si fa. Anzi fai una bella cosa: vieni domani che dobbiamo vedere di fare il possibile. Adesso vai, va’ con la Madonna, che ti protegge, santa figlia. Vai! A domani, mi raccomando, eh?» Quando il giorno appresso andò, zi’ prete si mise col pensiero e... dolce dolce cominciò a completarla la creatura. Poi, ’na volta fatto il fatto, disse, aggiustandosi benebene: «Beh, per mo’ può bastare. Abbiamo fatto le gambe. Che doveva nascere un mostro? Ma però c’è da faticare ancora per fare quello che doveva fare quello screanzato di tuo marito. Questi lavori non si lasciano mai in mezzo; bisogna finirli in grazia di Dio!». Un altro giorno: «Beh», fece lui, «oggi abbiamo fatto pure le braccia!». Insomma, un poco alla volta, il prete si mise col pensiero e la mise... a posto. Poi... quando arrivò che quella si doveva partorire: «Beh, figlia bella mia, ora che il fatto è fatto, non venire più ché ce l’abbiamo fatta e ce la siamo fatta. Va’ e la Madonna ti accompagni! E non temere, ché tuo figlio nascerà salvo, sano e santo!». Quando fu il tempo giusto, il creaturo nacque bello e sano. E non vuoi che proprio per venire a vedere il bambino, il marito fa uno strappo dall’America? Come vide il creaturo, lasciò con la bocca aperta e non si riusciva a mantenere la contentezza, ogni minuto a dire sempre «Iiiih, moglie mia! Iiiih figlio mio bello! Iiiiih che bello! Mi somiglia proprio a me!!!». E se li baciava e abbracciava, a lei e al piccininno. E di qua e di là, una parola io una parola tu, finché alla moglie le scappò la pazienza, si voltò e disse: «Ssè, figlio mio figlio mio... tu tieni l’acqua nella capa! Menomale che siamo stati fortunati, ché se stavo a te, questo bel figlio poteva nascere mostro, lo sai? E tieni pure il coraggio di avvantarti, dopo il peccato brutto che hai fatto».

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«Come come come? Un mostro? Peccato?», fece il marito, aggiungendo qualche mezza parolaccia ’mericana tipo “salamabbicce”, che poi vuol dire “figlio di puttana”! «Embèh! Essì! Eggià! Meno male che mi andai a confessare i miei peccati a quel sant’uomo del prete che, come sentì tutto il fatto mio, si spaventò e mi spaventò! Non ero io che avevo fatto peccato ma tu, lasciandomi senza completare per bene il creaturo! Lo sai o non lo sai che poteva nascere un mostro, hai capito? Bella cosa hai fatto! Meno male che il santo prete si dette da fare a fare il servizio necessario.» «Ah! Di così è il fatto? E allora... te l’ha completato lui il creaturo, vero?», capì subito il guaglione come era andata tutta la storia. «Ho capito! Hai capito zi’ prete! E bravo e bravo! Che santo cristiano! E vabbene, vabbene! Mo’ se la deve vedere con me, il dritto pezzo di merda. E tu devi vedere come se la deve vedere! Possa andare il veleno da ’nganna lui e tutta la razza sua!» «E vabbene, marito mio, fai tu e fai piovere.» Il giovanotto non ci pensò sopra più di una volta e capì che il prete se n’era approfittato della buona fede e fessaggine della moglie e, per completare il creaturo, aveva fatto il servizio completo alla madre cioè alla moglie sua. Mo’ andiamo a dire che questo marito giovane era pure un bel giovane e dalla sua teneva pure una faccia gentile gentile che, con gli aggiusti giusti, lo poteva far parere femmina. E allora vediamo che fece. Si vestì a femmina e andò alla casa di zi’ prete che teneva con lui, dentro alla casa, tre nipoti fresche d’età e signorine. Tuppe tuppe: «Sono una femmina sola e onesta; non tengo gli occhi per piangere ma tengo bisogno di lavorare per abbuscarmi il pane. Mi volete a servizio?». «Manco la bocca devi aprire! Sissì! Tengo tre nipoti che ne hanno di bisogno! Sissì! Vieni a servizio, bella figlia!» E se la guardava pure da sopra a sotto l’infamone. Entrò in casa e subito il prete zio e le ragazze nipoti la misero a servizio. Ma dove doveva dormire, mo’, la cristiana? «’Mbeh, datosi

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che è femmina e giovane», pensò il prete e lo disse alle nipoti, «la mettiamo a dormire dentro la stanza con voi!»: proprio quello che il giovane/femmina andava cercando. Insomma, fu messo insieme alle nipoti. Quello, lui, o propriamente lei, lo abbiamo detto, era di cervello fino e si era nascosto, con una fasciatura come si deve, tutto il capitale perché, se no, si vedeva; capito il fatto? Si stette con le nipoti e si misero subito in confidenza colla giovane: che ne sapevano quelle di che cosa portava sotto, quella? Cominciarono a dire e a fare tanti pensieri di donne e una di quelle disse: «Aaaah, come doveva essere bello se qui adesso stava con noi un maschio! Come lo dovevamo fare: a un’ora di notte!? Ci pensate? Tutt’e quattro e un maschio! Doveva essere come una cosa turca e si doveva ritirare carico di meraviglia». Allora, con certe maniere da ruffiana, la giovane (che poi lo sappiamo solo noi era il giovane) disse: «So un fatto bello assai: se si va sopra alla loggia e si prega di una certa maniera, può succedere che...». «Veramente?», domandarono in coro. «E che preghiera dobbiamo recitare?» La finta giovane fece la finta di ricordarselo e poi a una delle nipoti: «Tu va’ per prima sopra alla loggia, inginòcchiati e di’: Luna mia dei santi Fammi crescere un palmo davanti

e se la preghiera viene recitata col cuore... al sottopanza succede quello che deve succedere!». «Ihhh! Madonna, che bello, che bello questo trucco di magia!» Andò la prima sulla loggia e pregò Luna mia dei santi / fammi crescere un palmo davanti! Lo disse tante volte ma, un po’ scocciata, rientrò. «Che devi fare: non è cresciuto il resto di niente!». «Non può essere! Mi faccio una meraviglia. Si vede che l’hai recitata così e così!»

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«’Mbeh, allora levatevi davanti ché mo’ vado io e vediamo se funziona!», fece la seconda nipote. «Sissì, vai tu e vediamo se a te ti succede qualcheccosa.» Andò la seconda e, occhi chiusi, speranza in petto e un pensiero al sottopanza, recitò Luna mia dei santi / fammi crescere un palmo davanti... e una e due e tre volte ma... ni-e-n-te ni-e-n-te ni-e-n-te! La terza: ci andò, recitò ma manco a lei successe il resto di niente: davanti non cresceva e non cresceva né con la luna e né col sole. All’ultimo il giovane, opps... la giovane andò e disse: «Vabbe’, mo’ vado e vedo». Andò, con un sorriso sulla bocca recitò, il capitale dalla fascia liberò e il palmo ritornò. Allora con tutti i finimenti in regola e col sottopanza a posto rientrò allegra allegra e disse: «Evviva! A me è successo quello che doveva succedere. A me è cresciuto veramente veramente!». «Veramente?» «Veramente?» «Veramente?» «Essì, e certo, veramente!», fece la falsa serva. «Iiiih, Mado’! Fammelo vedere!» «No, lo voglio vedere prima io!» «No, no! Prima io, ché sono la grande! Attocca a me.» Il giovane: «Calma, calma, un poco per una non fa male a nessuna. Un’alla volta per carità, per caritààà!». Una alla volta, senza carità, le tre sorelle da verginelle diventarono saputelle. Una volta e due e tre, una alla volta le tre nipoti passarono, diciamo, dalle mani di quello. Zi’ prete, mo’, a vedere la serva, se la guardava e se la figurava e, siccome era entrato pure lui, come le nipoti, in confidenza con quello... con quella, si pensò: “Madonna mia, ma questa è troppo bella! Me la voglio ’ngroppare! Un paio di botte e via! Me la porto alla campagna mia e nella cantina del mio villino me la faccio... senza tante chiacchiere!”. Poi, alla giovane: «Figliola, il giorno dell’indomani tu devi venire con me alla campagna mia che stanno pure i contadini miei», che teneva una bella vigna là, «così ci facciamo i servizi in santa pace e, se sai fare, ti metto a fare l’abbracciante agricola nelle mie terre».

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«Con la Signoria vostra vengo dove mi porta e porta con molto piacere!», fece il giovane che aveva ammuzzato le intenzioni del padre chiavicone. L’indomani: partenza e arrivo. Ai contadini il prete fece questo discorso: «Io e la serva andiamo in cantina ché ci sono tanti servizi lunghi da fare e questa mi aiuta a me. Se sentite le voci alzate, non vi incaricate. Continuate il vostro lavoro perché non è nulla, non vi state a pigliare bile! Rimanetevi al posto vostro, capito?». «Va beeeene!», i contadini. Quello la prende e la porta sotto sotto, alla cantina, e comincia ad attaccare bottone e a dare chiacchiera. «Ma tu, non l’hai detto, com’è che ti chiami?» E quella: «Mi chiamo...», non ci aveva pensato, «mi chiamo... ecco mi chiamo Tessa», il primo nome che le era venuto in capa. E arrivarono in cantina. Là il mulacchione malpensante cominciò, come niente, a fare una sfrusciata e un’altra sfrusciata e, poi, dice: «Lo vedi quante botti di vino?», ma le mani dicevano diversamente allungandosi e toccando l’aiutante. «Vedi, vedi! Guarda bene!» E guarda di qua e guarda di là... la... giovane faceva di tutto per tenerlo a freno. Quello s’infastidì e, insegnalando una botte: «Hai visto quante botti, ho detto? Questa botte è vacante. Vuoi vedere quant’è grande? Affacciati: mettiti di capa dentro così...», voleva dire quello che abbiamo capito, «poi così e poi cosà!» Quello si fece una risata dentro e: «Io devo mettere la capa dentro e vi devo dare le spalle a voi? Non sia mai. Prego, reverendo, dopo di voi. Mettila prima tu, ché io vedo come si fa e poi lo faccio io». Il prete, che voleva arrivare dove voleva, non ci pensò due volte, tanto poi... E così mise la capa dentro alla botte. Allora quella lo sapete che fece? Quella, la donna, che poi era quel giovane marito di sua moglie, prese un palo del tendone che stava in cantina e che aveva adocchiato già da prima... prese il palo, bello grosso, gli alzò la tonaca a quello, gli abbassò di volata i calzoni e... ’nzacchete e plaffete... glielo ficcò là, sì, proprio là, avete capito, nel posto dove non batte il sole.

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Mado’ che successe! Quello gridava come una cantante del Petruzzello. E più gridava e più il giovane spingeva il palo. «Ahi, Ahi. Aiuto, aiutatemi!», gridava don “rottinculo”. I lavoranti della campagna, da fuori, sentivano eccome se sentivano gridare, ma la consegna era che se si sentiva gridare non si dovevano muovere. Eppoi, quelli se lo pensavano quello che stava a fare il prete sotto alla cantina con quella femmina, perché il sant’uomo s’era fatta una bella nominata dentro al paese. “Povera figlia, che guaio sta passando la poveretta!”, dicevano nel pensiero quelli là. Mo’ dobbiamo sapere che la cantina teneva un’altra uscita fuori dalla vista dei contadini e, da quella, il giovane, sparecchiato di tutto il camuffo da donna, se la squagliò lasciando il prete a sckamare. E non è finita qua. Arrivò la sera, le grida diventarono lamenti e gli operai pensarono bene, prima di ritirarsi, di andare ad aiutare la sfortunata che era finita tra le ciampe del malnato. Quando scesero e videro quel palo in quel posto, si fecero il quadro di quello ch’era successo. Gli tolsero il palo da dove stava, lo arriggettarono e lo portarono alla casa dalle nipoti. Le nipoti: «Oooh, zio zio zio! Ch’è successo? E la donna dei servizi dove sta?». «Ohi ohi ohi! Quella? Tessa?» «Sì, Tessa! Dove sta Tessa?», facevano le nipoti, pensando al loro gioco e alle loro gioie. «Eeeeh, Tessa Tessa! Io rotto di culo e voi di fessa!», concluse lui. [Fonte: Anna De Bellis, Cassano delle Murge, 1985]

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A uno a uno

Stavano due vecchi marito e moglie. Un giorno a tutt’e due gli venne il desiderio di mangiarsi le sarde fritte, ché da tanto tempo se le stavano a sognare ma, vuoi per mancanza di soldi o vuoi perché in quel paese lontano dal mare non si vendevano le cose di mare, non si potevano togliere quello sfizio loro. Un giorno arrivò il carretto con la voce del venditore che vantava la roba sua: «Cristiani di terra è arrivato il mare fino a qui! Sarde fresche, alici vive, polpi di scoglio... l’odore del mare. Venite. Assaggiate la vera cozza tarantina!». I due vecchi si buttarono fuori di casa e con lo sparagno fatto si accattarono un bel chilo di sarde che – la verità – zompavano agli occhi tanto erano fresche. Accattate le sarde, subito andarono dentro con quel bendiddio dentro il rotolo di carta. Gli faceva la schiuma alla bocca a tutt’e due a pensare a come si dovevano fare. «Ci pensi, oh? Le sarde! Fritte! Da mo’ è che...! Moh!!!» Mentre che la vecchia manovrava la figlietta dell’olio e lo metteva a fare forte, il vecchio si preparò la tavola a gusto suo. Le sarde, passate nella farina, cominciarono a sfriggersi dentro all’olio che zompava nella frissola e l’odore di mare fritto cominciò a riempire tutta la casa. ’Mbeh! – certe volte come si va a congiungere la vita, oh! – non vuoi che, o per il fatto di aspettare col desiderio forte o puramente per il piacere che gli entrava in corpo da dentro le nasche, non vuoi che al povero vecchio gli prende una mossa e rimane come a un baccalà sopra alla sedia azzeccata alla tavola preparata?

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«Oh, Madonna santa... Madonna mia... Madonna bella... e mo’? Proprio mo’ te ne dovevi andare? Che mala sorte alla casa mia!», piangeva la vecchia che non si sapeva dare ragione. Però... però, prima di dare voce ai paesani, prese le sarde fritte, calde calde, e le mise dentro un piatto che ficcò sotto al letto grande, in modo tale che non si dovevano vedere. Non è che le poteva gettare! Quando arrivarono i cristiani, a vedere quel povero vecchio rimasto acceppinato alla tavola, si disperavano pure loro. Comunque presero il morto, lo vestirono da morto e lo piazzarono teso teso sopra al letto grande. La vecchia a piangere il marito a capa del letto e, attorno al letto, tutti seduti gli altri a fare i lamenti e le lagne loro. «Che peccato!» da qua e «Che peccato!» da là. ’Mbeh, a quel punto una gatta – si sa che quelle sfaccime di gatte sentono l’odore del pesce pure a chilometri di distanza, ’ngul’a loro – ’mbeh, non vuoi che la gatta si va a ficcare sotto il letto e se ne esce gnaua gnaua con una sarda tra i denti? La vecchia, pure che teneva gli occhi pieni di lacrime, vede tutto il movimento. E aspe’. Dopo che si è frecata la prima sarda, quella, la gatta, fa avanti e indietro da sotto al letto e a una a una se le freca tutte quante le cacchie delle sarde. E la vecchia, direte voi? La vecchia vedeva e – come si dice: “un occhio al pesce e l’altro alla frissola” – piangeva e vedeva, vedeva e piangeva; sì piangeva, tutta acciangata: un poco per il marito e un poco per i pesci, che se ne andavano tutti al creatore. «Aah, quella morte! A uno a uno se li porta!», si lamentava lei ad alta voce. «Essì, a chi prima e a chi dopo!», dicevano gli altri, senza sapere che la vecchia parlava dei pesci che la gatta, uno alla volta, se li stava a portare via. [Fonte: Giuseppe Nuzzaco, Cassano delle Murge, 1985]

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