Nicola Signorile
Goodbye Murat La tradizione del Moderno nella Bari di Giuseppe Gimma
Prefazione di Mauro Galantino
Indice
Prefazione di Mauro Galantino
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Goodbye Murat Introduzione 25 Palazzo Maggi
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Complesso San Ferdinando
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Il palazzo della Rinascente
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Palazzo De Florio
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Palazzo Laterza
70
Palazzo della Sgpe 75 La filiale della Fiat
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Palazzo della ÂŤGazzetta del MezzogiornoÂť
88
Teatro Petruzzelli
96 5
I due palazzi Picos
103
Il palazzo Petroni 37
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Un colloquio e quattro interviste impossibili Murattiano centro storico? Spericolata inversione di marcia
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Giuseppe Gimma: «Di quale identità vanno fantasticando? Qui tutto è cambiato»
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Vittore Fiore: «Che monotonia la bella Bari del tempo che fu!»
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Michele Cifarelli: «Una protesta perpetua per l’ambiente»
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Bruno Zevi: «Il mondo di ieri serve solo all’accademia»
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Vittorio Chiaia: «Ci vuol coraggio per far svettare allegri grattacieli»
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Goodbye Murat
Y también tú, ciudad rectangular, inaceptable y lógica, nacida del apresuramiento y de la guerra, brotada del cemento renacido [E anche tu, città rettangolare, inaccettabile e logica, nata dalla fretta e dalla guerra, sbocciata dal cemento rinato] Pablo Neruda, Elegia dell’assenza
Figura 1. Vignetta apparsa sul periodico «Duemila» (12 novembre 1934): sullo sfondo di una mappa che indica via Sparano, l’architetto Forcignanò mostra il plastico di un palazzo a forma di cavolo. E il signor Mincuzzi commenta: «Cerchiamo il posto dove piantare il terzo palazzo».
Introduzione
Le vicende dell’architettura a Bari nella seconda metà del Novecento sono state condizionate da due eventi di straordinaria portata: la poderosa, selvaggia attività edilizia degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso e la lunga gestazione del Piano regolatore di Ludovico Quaroni, adottato nel 1976 e tuttora vigente. Due fatti tra loro fortemente correlati, giacché i motivi del mancato concretarsi del Piano di Quaroni – considerato dalla critica l’ultimo Grand Récit dell’urbanistica italiana1, una delle più mature espressioni del disegno urbano – stanno proprio nell’ambizione di Quaroni di dare forma e norma ad un’espansione urbana fino a quel momento governata solo dalla rapacità della rendita fondiaria: un’espansione assecondata dal precedente Piano di Calza Bini e Piacentini (1950). Il primo edificio del quartiere murattiano cadde nel 1954. Da allora, scrive Mauro Scionti in Storia di Bari. Il Novecento: «Una strage infinita, che solo tra il 1963 e il 1964 conta 1 Cfr. M. Ferrari, Il progetto urbano in Italia 1940-1990, Alinea, Firenze 2005, pp. 91-94, 110; U. Cassese, Trasformazioni a Bari, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 104-109; R. Telesforo, Pietre e uomini a Bari, Progedit, Bari 2005, pp. 37-52; Aa.Vv., Bari, questione urbana e piano regolatore, Edizione dell’Istituto Gramsci (sezione pugliese), Bari 1978, pp. 85-122, 177-209.
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oltre 200 sostituzioni edilizie, fondata sulla diffusa opinione che nulla è da tutelare nel murattiano e più in generale entro la cinta daziaria, non sussistendo reali motivi storici, artistici, estetici»2. Il Comune di Bari, nel 1965, interpellò due fra i più grandi architetti e urbanisti d’Italia per affidare loro lo studio della variante generale al Piano regolatore: Giuseppe Samonà e Ludovico Quaroni. Samonà (che conosceva bene Bari per aver progettato l’Ospedale traumatologico dell’Inail accanto alla Fiera e prima ancora per aver partecipato nel 1931 al concorso nazionale per il palazzo dei Lavori pubblici, sul lungomare) si mise le mani nei capelli per quanto la situazione era compromessa. Poi Quaroni decise di accettare l’incarico, ma mentre per un decennio si trascinava l’approvazione del suo Prg, contro quello stesso piano non ancora efficace, sulle macerie dell’edilizia dell’Ottocento, si ricostruiva il borgo murattiano. Sul periodico democristiano «Il Progresso di Bari» del maggio del 1962 si legge: La città va a terra giorno per giorno e giorno per giorno rispunta con palazzi più alti, più moderni (più belli? qualche volta sì, parecchie altre no) più dotati di comodità [...]. Ma per decine di migliaia di baresi resta solo il miraggio inaccessibile di una casa nuova, dignitosa, perché i fitti sono troppo alti. Non si può certo “pianificare” il volto di una città: ma cercare di evitare, prima che sia definitivamente troppo tardi, ch’essa divenga la nuova patria di Arlecchino, questo sì.
Edili in rivolta Una massa di imprese nate dal nulla, spesso solo capomastri trasformati in ditta. Per avere un’idea concreta delle dimen2 M. Scionti, L’immagine della città. Architettura e urbanistica nella Bari del Novecento, in F. Tateo (a cura di), Storia di Bari. Il Novecento, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 55.
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sioni del fenomeno e dell’incapacità di governarlo in cui si trovarono le storiche imprese di costruzione, tornano utili alcune cifre: dal 1919 al 1945 si costruivano in media a Bari 800 vani l’anno; dal 1946 al 1960 la media sale a 6.700 vani l’anno; dal 1960 al 1970 14.500 vani l’anno. È in questo clima che esplode la rivolta degli edili, nel 19623. Anni dopo, Bruno Zevi sarà costretto a descrivere il quartiere murattiano come «sfigurato dalle banditesche imprese della speculazione, fino al diffuso vandalismo del dopoguerra il cui prodotto più sgargiante è fornito dal grattacielo Motta»4. Ma la degenerazione del quartiere murattiano era forse determinata già nel suo atto di nascita. E già alla fine dell’Ottocento vengono autorizzate le prime sopraelevazioni di edifici di due piani con un terzo e talvolta un quarto livello. Il fenomeno diventa massiccio a partire degli anni Venti del XX secolo, mentre iniziano le prime sostituzioni edilizie nella attuale via Sparano, con i due palazzi Mincuzzi (1926 e 1932) e con il palazzo della Rinascente (1925). La precoce caduta della tensione formale nel nuovo borgo, presto ridotta alla dimensione in pianta degli isolati e dei lotti edificati, è riconosciuta ed evidenziata da Marcello Petrignani, che non manca di sottolineare il carattere speculativo della sostituzione edilizia: L’aver interpretato il piano come un sistema innescato da far procedere autonomamente, con correzioni a volta a volta derivate da criteri economici e strettamente speculativi, ne determinerà lo snaturamento e la perdita della tensione formale, ridotta alla fine all’intenzione colta nella sola rappresentazione plani3 Cfr. P. Martino, Quelli di Bari del Sessantadue. Storia della rivolta degli edili, Edlico, Bari 1984. 4 B. Zevi, Trapianto nel cuore murattiano, in Id., Cronache di architettura, vol. 22, Dalla National Gallery di I. M. Pei alla polemica sui «falsi» bolognesi (1247), Laterza, Roma-Bari 1979, p. 84.
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metrica. Avere assimilato la sua “semplicità” – che era invece il risultato di un’intenzione artistica – alle ragioni di crescita speculativa della città, dimostra poi in generale il degradamento che subisce il principio della maglia rettangolare quando si scopre come il più economico al tentativo di organizzazione totale del suolo urbano5.
Nella Variante al piano regolatore di Calza Bini e Piacentini, che già nel 1950 fissa a 500 mila abitanti la prospettiva di crescita della popolazione al 1982, la superficie destinata alla viabilità, che è pari al 40%, nel borgo murattiano viene portata a 136 ettari, pari all’11%. Ciò è addirittura indicato come un’opportuna scelta urbanistica, poiché «sia nella spesa di costruzione, sia nella spesa di manutenzione il gravame che avrà il Comune sarà indubbiamente minimo»6. L’affermazione di Alberto Calza Bini in Consiglio comunale è coerente con il dibattito che si era sviluppato tra la fine del 1947 e l’inizio del 1948 sulla riforma del regolamento edilizio del 1935 il quale stabiliva l’altezza massima degli edifici pari a una volta e mezzo la larghezza delle strade. L’ingegner Vincenzo Chiaia, ad esempio, contestando «la balorda ripartizione fra area edificabile e area non edificabile» affermava – scrivendo sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 18 dicembre 1947 – che in centro era preferibile abbattere e ricostruire, piuttosto che sopraelevare. «Che il regolamento in vigore sia antiquato lo dimostra la recente attività edilizia cittadina, la quale ne ha già fatto giustizia superando nella quasi totalità delle nuove costruzioni abbondantemente e purtroppo senza alcuna disciplina i limiti di altezza consentiti». M. Petrignani, Bari, il borgo murattiano. Esproprio, forma e problema della città, Dedalo, Bari 1981, p. 48. 6 Cfr. A. Calza Bini, M. Piacentini, Il piano regolatore, in V. Accolti Gil (a cura di), Bari nel quinquennio 1947-1951, Favia, Bari-Roma 1952, p. 57. 5
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Palazzo della «Gazzetta del Mezzogiorno»
«Rabbrividii quando mi accorsi che stavano smontando le statue ai piedi di quell’antico palazzo». L’archeologa Raffaella Cassano si ritrovò per caso ad essere testimone del primo atto di demolizione dell’edificio che per mezzo secolo era stato la sede della «Gazzetta di Puglia» (poi «Gazzetta del Mezzogiorno»). Lo ricorda bene ancora oggi: «Andavo in stazione, dovevo prendere il treno per Roma. Era l’alba, un’alba oscura, benché fosse agosto». Oggi Raffaella Cassano giudica quella demolizione una perdita grave per la storia della città; addirittura per qualcuno è stata una ferita alla identità dei baresi. «Ma allora – dice l’archeologa che presiede l’associazione Italia Nostra – a Bari non si usava alzare la voce così. Non ricordo proteste, mobilitazione dell’opinione pubblica. Certo oggi il fatto non sarebbe passato inosservato». Era il 1983. Il rimpianto per quel pezzo tanto amato della cartolina barese è lievitato col tempo. Ma già allora un’associazione, l’Adirt, lanciò il lamento. Anzi, le ruspe entrarono in azione in piazza Moro subito dopo la mostra organizzata dal sodalizio, intitolata Bari 1950-1980. La guerra dei trent’anni e dedicata alle distruzioni nel borgo murattiano. Sicché il capitolo della «Gazzetta» (con la scomparsa pres88
Figura 21. Saverio Dioguardi, palazzo della ÂŤGazzetta del MezzogiornoÂť: veduta prospettica e scorcio della scuola Pitagora, s.d. (anni Quaranta e Cinquanta del 1900) (ASBa, archivio fotografico Michele Ficarelli, parte II, pacco 91, documento 21).
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Figura 22. Beniamino Cirillo, edificio per uffici, piazza Moro.
soché contemporanea di palazzo Banfi, nella stessa piazza) andò ad arricchire il catalogo che apparve un anno dopo, a cura di Nino Lavermicocca. «Mi rattristò partecipare a quella sostituzione edilizia. E comunque non pensavo che il mio progetto avrebbe avuto davvero un seguito», dice oggi l’architetto Beniamino Cirillo. È sua la firma al palazzo di vetro che ha sostituito quello antico. Un progetto per il quale si incrinarono i suoi rapporti professionali ed anche di amicizia con Gianfranco Dioguardi. A quel tempo Cirillo collaborava strettamente con l’impresa edile e, ricorda oggi, «Gianfranco me ne disse di tutti i colori». Per l’imprenditore si trattava di una faccenda sentimentale, innanzitutto perché quel palazzo di fronte alla stazione centrale l’aveva progettato suo padre, Saverio Dioguardi, fra il 1924 e il 1927. Calendario alla mano, avrebbe potuto essere tutelato 90
dalla Soprintendenza ai beni architettonici, «ma quelli erano tempi – nota Cirillo – in cui il vincolo lo chiedevano solo i proprietari, per accrescere il valore dell’immobile». Dioguardi progettò l’edificio avendo in mente la sistemazione urbanistica di tutta la piazza. Sono rimasti negli archivi i suoi disegni, che dimostrano l’intenzione di demolire tutto quel che nel frattempo era stato costruito intorno, solo pochi decenni prima, per fare spazio a isolati monumentali e facciate scenografiche. Il palazzo del giornale doveva rappresentare il fulcro di quello spazio urbano del tutto nuovo. Un punto di riferimento e, per chiunque arrivasse a Bari con il treno, un racconto della città moderna. L’America, perché no? D’altra parte non era la prima volta che Dioguardi si occupava della sede di un quotidiano. Nel 1920, quando ottenne la licenza di professore di Disegno architettonico all’Accademia di Belle arti di Bologna, affrontò tra le prove d’esame proprio il tema del palazzo del giornale. E poi nel 1922 partecipò al concorso internazionale per la nuova sede del Chicago Tribune (il giornale più letto al mondo, allora). Non vinse né aveva molte chance contro i favoriti di casa, i newyorkesi Howells e Hood, ma si confrontò con i grandissimi dell’architettura del tempo: da Walter Gropius a Bruno Taut, da Adolf Loos a Eliel Saarinen. Era inevitabile che almeno un po’ di quel suo grattacielo americano, attraversato da un grande arco e ricchissimo di paraste e colonne, fregi e capitelli, logge e cornicioni, si ritrovasse nel progetto barese di un edificio assai più piccolo ma non per questo meno monumentale, con le coppie di telamoni (figure di nudi schiavi) che sorreggono balcone, pilastri e la cupola ottagonale sormontata dal globo vetrato e illuminato. Ma questo eclettismo neoclassico, telamoni compresi, dovrà venire presto a noia allo stesso architetto se, già nel 1932, riconoscerà le concessioni fatte controvoglia e pochi anni prima al gusto del pubblico: «Pur essendo io 91
Figura 23. Saverio Dioguardi, concorso per il palazzo del ÂŤChicago TribuneÂť, prospettiva, 1922 (Archivio Fondazione Gianfranco Dioguardi).
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ribelle – scrive Dioguardi – a seguire ancora le forme neoclassiche, ho dovuto mio malgrado, in questo periodo di intensa attività costruttiva, con tormento del mio spirito, assecondare l’ambiente. Ed è evidente lo sforzo per la ricerca di effetti architettonici conciliantisi con la mentalità locale ancora legata alle forme tradizionali»1. «Non era una delle opere migliori di Dioguardi. Era un po’ – come dire? – osé. La struttura dei piani superiori era davvero buona, ma non il piano terra, con quelle statue di cemento», dice Cirillo mentre ricorda la sua prima visita nel palazzo che avrebbe dovuto tirare giù. Lo accompagnò un giornalista, Michele Lomaglio. «Avevo avuto un incarico informale – racconta l’architetto – dall’imprenditore Stefano Romanazzi che voleva da me un progetto di massima, per verificare cosa si poteva fare in effetti. Voleva capire se gli conveniva acquistare la Gazzetta e se sarebbe stato possibile rivendere senza difficoltà». L’acquirente era una società di assicurazioni, con la sede a Milano, che avrebbe concluso l’affare solo con la garanzia che il palazzo sarebbe stato subito e interamente affittato, ricorda Cirillo. «Andai a Milano con il mio progetto di un edificio in prefabbricato, ma la compagnia di assicurazioni restò delusa dalle dimensioni. Volevano fare un investimento importante. Romanazzi allora decise di acquistare anche altri due palazzi, l’attiguo hotel Roma, una modesta costruzione di stile “campagnolo”, che era già stata sopraelevata, e poi la sede delle Ferrovie del Sud-est, ancora più brutta». Nasce così il secondo progetto, quello che si realizza. Ma non del tutto. «Il palazzo è incompleto – rivela Cirillo – perché manca il coronamento. Una fascia terminale alta due metri con la quale oggi sarebbero occultati gli impian1
S. Dioguardi, Architettura, Società Editrice Tipografica, Bari 1932,
p. 3.
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ti tecnologici, che in effetti sono orribili a vedersi. E dire che erano una novità: per la prima volta caldaie e serbatoi al disopra anziché al di sotto. Ma se l’avessi saputo, avrei trovato un’altra soluzione». Perché non fu realizzato il coronamento? Perché il palazzo – spiega Cirillo – ormai era già stato venduto e Romanazzi ordinò di fermare tutto, ché non era più necessario spendere altri soldi. Non facemmo in tempo nemmeno a posare la moquette e chi aveva comprato, incredibilmente, sembrò non accorgersene. Ci rimasi male e anche l’ingegner Rossi, il titolare della Ines, l’impresa di costruzione che aveva vinto l’appalto. Si dispiacque molto di questa chiusura anticipata e frettolosa. Ma non decidevamo né lui né io. L’ultima parola ce l’aveva il direttore dei lavori, l’ingegner Domingo Sylos Labini, e cioè Romanazzi.
Per quanto incompleto, il nuovo palazzo ha una presenza autoritaria nella piazza. Non si può certo dire che l’architetto affrontò il tema della relazione con il contesto urbano mimetizzando o quanto meno mitigando la nuova presenza. Quali considerazioni portarono alla scelta di un parallelepipedo di vetro scuro, senza aggetti né rientranze, il cui unico movimento plastico è rappresentato dai pilastri circolari in cemento armato a vista? «I due terzi della piazza non avevano nessun valore architettonico, ormai – dice Cirillo – e quale dialogo formale si sarebbe mai potuto instaurare con i condomini realizzati negli anni Sessanta?». D’altra parte non esistevano stringenti indicazioni urbanistiche. Il Piano particolareggiato che Ludovico Quaroni imponeva nel nuovo Piano regolatore per il Murattiano (zona B di completamento) non era stato nemmeno affidato. «C’era solo un atto di indirizzo, assai generico, definito dall’ingegnere capo del Comune, Francesco Tatò», ricorda Cirillo che però ammette di essersi dato un punto di riferimento nella stra94
tegia architettonica. «Era la filiale del Monte dei Paschi di Siena», progettata da Vittorio Chiaia e Massimo Napolitano nel cui studio aveva lavorato lo stesso Cirillo. Quel curtain wall, a pochi metri di distanza, diventa così la prima fonte di ispirazione per la facciata continua del nuovo palazzo. Una soluzione innovativa per la scena barese, che Cirillo aveva visto realizzata a Milano Due dalla stessa impresa cui sarà affidata l’esecuzione dei lavori a Bari. Ma c‘è anche qualcos’altro all’origine di questo progetto. Un viaggio a New York, dove Cirillo rimane ammirato davanti alla Trump Tower. Di nuovo, il sogno americano. Quanto alla scomparsa del sogno americano di Dioguardi, oggi restano solo i telamoni esposti nell’atrio di Palazzo di città. E da qualche parte dev’esser ancora conservato il grande globo di vetro e acciaio. Cirillo ricorda la delicata, impegnativa operazione dello smontaggio, di notte, con due gru. «Avremmo voluto rimontarla sul nuovo edificio» rivela l’architetto. Ma anche l’omaggio alla memoria ha un costo e la nostalgia non si compra ai saldi. Oggi si assolve, Cirillo: «All’architetto non si addice l’obiezione di coscienza – dice – perché la responsabilità etica del costruire ricade tutta sui committenti: loro acquistano, loro vendono, loro fanno i contratti. E di solito se ne infischiano dell’oggetto del contratto».
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Bruno Zevi: «Il mondo di ieri serve solo all’accademia»
Azzanna la pipa mentre parla tra i denti e gesticola assai. Con le mani squadra lo spazio davanti sé e guarda all’insù. Non c’è dubbio che sia lui, però un fantasma col papillon non s’era mai visto: nonostante sia scomparso già dal 2000, Bruno Zevi è puntualissimo all’incontro. Dapprima riluttante, ha accettato di rilasciare questa intervista impossibile dopo aver letto quelle precedenti a Vittore Fiore e a Michele Cifarelli, con il quale aveva condiviso la militanza nel Partito d’azione. A differenza di Fiore, Bruno Zevi un architetto lo è davvero, anzi professore e critico dell’architettura. Professor Zevi, cosa pensa del vincolo diffuso che la Soprintendenza vuole applicare ai quartieri centrali di Bari? Sciocchezze. Nonostante le analogie, la città non si può né vincolare né tutelare come se fosse un singolo edificio. Cosa lo impedisce? La città non è un’entità immobile, può cambiare veste. Ma l’operazione è efficace quando vi sia un organismo spaziale da rinvigorire; altrimenti, è un rimedio evasivo. Chi vuole il vincolo sostiene che il quartiere murattiano e insieme il Libertà e Madonnella siano un bene paesaggistico 135
da difendere da demolizioni e ricostruzioni che ne farebbero perdere i caratteri identitari. Non è d’accordo? Nello scenario di Bari hanno dominato edifici pubblici di una mediocrità impressionante. Dalla tetra sequenza dei “monumenti” fascisti che opprimono il lungomare alle recenti strutture per banche ed enti statali, non si raggiunge nemmeno il livello del decoro. Progetti redatti da uffici tecnici anodini o da professionisti romani che sfruttavano il Mezzogiorno come se fosse una colonia. Non salva proprio nulla? Altroché! Molti edifici contemporanei sono di grande interesse. Alcuni sono stati anche recensiti sulla mia rivista L’architettura. Cronache e storia: i lavori di Sangirardi, di Pezzuto, di Cirielli e di Mangini. Ecco, per esempio, bisognerebbe vincolare il palazzo della Sgpe. Intende quello che era sede dell’Enel e che l’Università ha acquistato per ristrutturare? Sì, quello in via Crisanzio. E cos’ha di speciale? Con quell’edificio la Società generale pugliese di elettricità nel 1957 ha determinato una svolta, riconoscendo che esistono in loco architetti competenti e qualificati: Vittorio Chiaia e Massimo Napolitano allora avevano appena toccato la quarantina ma il loro curriculum era già ricco di pregevoli realizzazioni. Ma quel palazzo, poiché è stato costruito dopo il 1952, è escluso dal vincolo. È architettura contemporanea... Sa, il Codice dei Beni culturali... E invece è una delle poche cose che conviene salvare perché costituisce un atto di rottura. In che senso? 136
Il borgo murattiano è caratterizzato dall’originale scacchiera stradale, chiusa marginalmente da un’insopportabile edilizia commerciale. Con quell’edificio, nessun problema di ambientamento; occorreva anzi spezzare l’impianto tradizionale, segnando un punto di partenza per la creazione di un ambiente nuovo. Obiettivo pienamente raggiunto. Paragoniamo le mascherate fasciste a queste opere realizzate nel dopoguerra: il bilancio indica un decisivo progresso. Per caso o per necessità, un colpo di spugna sul passato. Senza un’arte contemporanea che funga da filtro, il passato serve a poco o serve all’accademia. Lei dunque preferisce l’odiato anticorodàl e le facciate continue di vetro al mite neoclassicismo del Murattiano delle origini? Tutto appare “pseudo” nell’architettura come nell’urbanistica ottocentesca, benché quest’ultima sia ricca di proposte e nobili realizzazioni. Dunque, ne conviene: in fin dei conti anche il Murattiano è da tutelare nel suo insieme. Ma non esiste più, perbacco! Il Murattiano è stato poi sfigurato dalle banditesche imprese della speculazione; fino al diffuso vandalismo del dopoguerra, il cui prodotto più sgargiante è fornito dal grattacielo Motta. Come dicono i miei amici Marcello Petrignani e Marina Ruggiero: emblema rappresentativo di un fenomeno che ha effettivamente cambiato il volto di Bari. Quel grattacielo, su cui da tempo non c’è più l’insegna al neon della Motta, fu progettato da Vincenzo e Luigi Rizzi, ma dietro c’era la mano di Marcello Piacentini, autore con Alberto Calza Bini del Piano regolatore di Bari del 1952. La figura di Piacentini non rientra nella storia dell’architettura moderna e perciò eviteremo di parlarne. 137