Dove non c'è, lì è la vita, di Giovanni Cera

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Giovanni Cera

Dove non c’è, lì è la vita


Indice

Il piacere della libertà

7

Memoria dell’origine

28

Vicino e lontano

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Logica non formale delle qualità

37

La nostalgia del futuro

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Noi amiamo le opere belle

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Gli uni agli altri sconosciuti

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Il racconto del tempo

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Corpo e cibo

109

Il senso del pulito

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Il sacro dell’uomo

118

Verità in attesa di verità

122

In è più di non 136 Potere e non potere

142

La prudenza

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Bibliografia

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Gli uni agli altri sconosciuti

Nel racconto di Maupassant La morta si parla di un tradimento. Una donna nasconde all’uomo con cui vive una parte di sé: le cose che fa in sua assenza, la relazione che ha con un altro uomo. Infine, la donna muore. L’uomo tradito non sa del tradimento. Per lui la verità della donna sta nelle parole che fa incidere sulla sua tomba. Ma non è la verità. Nell’invenzione letteraria è la donna che, di notte, uscita dalla tomba, riscrive quelle parole. Le parole che lei scrive sono le parole della sua vita non deviata dalle apparenze. Ma si tratta di un’invenzione. Non si dà che il defunto possa rettificare il senso che ne ha il superstite. Come i cuori, le tombe custodiscono vite non sapute. Il mondo è un immenso palcoscenico dove gli uomini recitano. Recitano anche quelli che non recitano. Sono gli altri a non vedere ciò che di essi dovrebbero vedere. (La verità è impossibile. E per questo la invochiamo continuamente. Vogliamo la verità, la inseguiamo, la pretendiamo. Le cose impossibili sono le più desiderate, in un certo senso. La verità è la giustizia della cosa. È questo evento qual è. È il suo essersi determinato come si è determinato. Ma tu non sei nell’evento. Non ne saprai mai. Mai sarai certo che è come ti appare o come te lo si fa apparire. Noi siamo dei segreti in movimento. E restiamo tali, sempre. Neppure io so la verità di me pur essendo il solo a sapere veramente di me.


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Siamo nascosti. Io a te, tu a me. Tu esci di casa e non sai che cosa fa chi resta in casa. E chi resta in casa non sa che cosa fai tu che sei fuori di casa. È così. Ci sono momenti, squarci di verità. Non più che questo. Anche le relazioni più riuscite sono relazioni tra sconosciuti). *** Per esserci vita occorre che la cosa sia vedente e vista – vita non solo da vis, per dire della sua potenza e delle sue cieche radici, ma anche da vide-re, per indicare la sua operatività. È vedente persino la cosa che non vede: la sedia nel presentarsi a te come sedia è come se ti vedesse. Vedere è anche sottostare alla cosa che si vede. Non si vive più se non si vede più, se non si è più visti. Muore anche un fiore: scompare come fiore e dunque non vede, non si fa vedere, non lo si vede. Morire è, soprattutto, non essere più visti. Non solo per il fatto che non si è più nella luce della vita ma anche perché di chi muore non si sa nulla. Non si sa che cosa capiti a chi muore. Si ha come la sensazione che morire sia sottrarsi allo sguardo di chi continua a vivere. Per altro verso, morire è pure liberarsi di questo sguardo. E liberarlo. *** Conoscere è scoprire, è togliere il velo, è non far essere più altro l’altro. Ma l’altro resta altro. Non più altro solo per ciò che di esso si vede o si pensa di vedere. Conoscere è dare luce, è far essere nella luce. È far vivere perché vivere è essere nella luce. Per questo la verità come esito della conoscenza è valore. Perché è il finire dello stato di oscurità


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nel quale prevale l’altro come altro, l’altro non come altra vita ma come pericolo per la vita. L’altro, in quanto non è visto, è insidioso. Quando non c’è verità, non c’è vita. La verità va detta, allora. Non dirla è impedirla, la vita. È favorire la non vita. Di qui il fatto che nascondere a te qualcosa di me è già tradirti. Tanto più quando nasconderlo non fa bene a te. La verità che fa vivere fa anche morire, tuttavia. È l’ambivalenza della verità. Sapere ciò che non so mi turberebbe. Meglio non saperlo. Se dirti la verità è farti soffrire, quella stessa verità che non è buona per te, così lo è. La pace sta pure nel silenzio. Tacere perché si viva. Vivere coprendo. Nelle relazioni la noia talvolta è più sopportabile dei litigi. Nella guerra c’è la morte. È un paradosso: la vita data non dalla luce ma dalla non luce. Non vedere è come se fosse vedere. Com’è, in qualche maniera, per la memoria e per l’oblio. Non si può vivere senza la memoria. La memoria fa essere la vita. Smemorati, non sapremmo che cosa fare, dove andare, chi amare. Fatto, un progetto sarebbe già dimenticato. E perciò non realizzato. Ogni momento sarebbe il primo momento. Prevarrebbe l’angoscia di un’infinita sfida del nuovo. Ma la stessa memoria è anche memoria di cose brutte. Quelle cose che si insinuano nell’anima e la tormentano. In un certo senso, solo l’oblio fa vivere. Se la memoria è essenziale per la vita, l’oblio lo è per il benessere nella vita. L’oblio è il restare fuori di me di ciò che è stato in me. Di ogni cosa da me vissuta e, dunque, anche dei miei traumi e dei miei dolori. L’oblio è faticoso. Fa vivere meglio ma costa. È la memoria contrastata. Ti viene da ricordare, ma tu devi opporti al ricordo. L’oblio, quando non è spontaneo, è lotta. E si dimentica perché si è presi dalla vita nel suo riemergere e ricomparire. Riemer-


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ge, ricompare la vita della mente insieme con quella del cuore. Riemergono, ricompaiono l’una e l’altra sia perché la mente e il cuore sono luoghi di incessante nascere e morire di pensieri e sentimenti sia perché si vede e si sente e si tocca nel mondo. Dal mondo viene il superamento dell’abbandono del mondo. L’oblio è anche quello del pensiero della morte. Non si potrebbe vivere se vivere volesse dire avere continuamente davanti il pensiero del non vivere. Più dimentichi, più vivi. E vivere è di per sé allontanarsi dalla vita: nel ricordarla vivendola, la si dimentica. Se ne vede un’altra.


Corpo e cibo

Afferma Sartre nella Critica della ragione dialettica, IV: «Nel Sud italiano, i lavoratori agricoli a giornata – quei semidisoccupati chiamati braccianti – non mangiano più di una volta al giorno o – in taluni casi – una volta ogni due giorni. A questo punto la fame come bisogno scompare [...]. E non perché non esista più, ma perché si è interiorizzata strutturandosi come una malattia cronica [...]. Il bisogno è passato nella generalità del corpo come exis, come lacuna inerte a cui l’organismo tutt’intero cerca di adattarsi degradandosi, mantenendosi in sordina per attenuare le sue esigenze». È il caso di chi non sente la fame perché costretto a lavorare a lungo ininterrottamente. Essa rallenta il suo apparire stabilizzandosi in una sorta di assecondamento della realtà. È la natura che mostra la sua storicità. L’uomo si conferma essere plastico. Quando non può fare diversamente si adatta come può alle cose. Nella fattispecie è un adattamento inconsapevole e indiretto. Non sono solo i braccianti di Sartre a provarlo. Lo fanno infiniti altri uomini. Per la penuria di cibo mangiano quando possono. Finché possono. In loro il bisogno è in un continuo stato di bisogno, l’umanità sempre in attesa di umanità. Là dove ci sono, viceversa, di solito è così, libertà e benessere, molti digiunano per volontà propria. Aspirano a far essere meno grave il corpo, a non ricordare, attraverso la sua voce, la


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propria fissazione alla terra. La magrezza del corpo simbolizzante la vita come superamento: si supera ciò che si è per non esserlo più così da essere ancora. Essere magri, per coloro che ambiscono ad esserlo, ha il nascosto significato di poter più agevolmente vivere. Non restare ma andare. Muoversi. Illudendosi di non cedere alla pesantezza che inchioda alla fine. *** Altra cosa è il digiuno dei mistici. Dimenticano il corpo, ignorano il cibo innalzando lo sguardo a Dio, annullandosi in lui. La visione di Dio diventa il loro nutrimento – non diverso è quando, invece che Dio, ti assorbe un progetto, un’impresa: preso dallo spirito, non avverti la carne. Le persone anoressiche, o quelle bulimiche in altro modo, al contrario, nel volerlo dimenticare, non dimenticano il corpo. Vi si sentono incarcerate. Tengono lontano da sé il cibo, volendo tenere lontano il corpo che il cibo sostiene. Vi scorgono, riflesso, il non senso della vita. Se ne vogliono disfare ma ci stanno continuamente dentro perché continuamente pensano a disfarsene. Per eccesso di interesse, lo distruggono. Il digiuno religioso rituale, poi, non ha per oggetto il corpo. Chi lo pratica si serve del corpo, non alimentandolo, allo scopo di offrire un sacrificio a Dio. Si fa soffrire il corpo per non far soffrire Dio. È il riconoscimento della propria dipendenza da lui e della propria salvezza in lui. Digiunando, si ammette che la verità non sta nella vita, ma nell’oltre di essa. Si accetta il fatto che si vivrà quando non si vivrà. O che l’essere non si esaurisce nel vivere. Sono, infine, vicini tra loro il digiuno del testimone e quello del lutto. Il primo è di chi simbolicamente


Corpo e cibo

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– e non solo, non potendosi escludere che la perda davvero – si dispone a dare la vita per difendere o per promuovere un principio, un valore. Il secondo, per le culture in cui vige – oggi meno di ieri, certamente – ha il significato di una condivisione ideale della morte. Non mangio, non vivo. Mi unisco a te che non sei più. Vorrei finire anch’io. Il digiuno del malato è imposto dal corpo. Il malato, come il sano, è il suo corpo. E il corpo ora non ha bisogno di cibo. Non lo vuole, lo rifiuta. O lo vuole, ma ridotto, adattato. Non ci sono sovrasignificati. C’è solo la memoria del corpo che regola il corpo. Memoria che è il corpo stesso che vive, come vive. Qui ed ora. La storia sociale ed esistenziale di chi lo vive è risolta in esso. Il corpo si regola come si regola, anche in ragione di questa storia. Alla fine, cioè nei fatti, è il corpo che è. Il corpo che ho vissuto l’ho dimenticato. L’ho perduto. Non è possibile riviverlo, perché non c’è più. È così per la vita tutta. La memoria della vita è la vita che vive. Se nella mia vita c’è, come c’è, il mio passato, esso fa tutt’uno con me che vivo. (In realtà, la memoria della vita non c’è. C’è l’oblio di essa. Io posso ricordare, ricordo che ho avuto un incontro con Carla l’anno scorso, ma non posso avere, non ho la memoria di quell’incontro. Dovrei poterlo rivivere, viverlo ancora come l’ho vissuto per averne la memoria. Vivere è non avere più la vita. La vita si annulla man mano che vive. Il ricordo è una costruzione esterna alla vita perché non è fatto della vita ma di immagini di essa – anche derivate e posteriori, per giunta. Ogni parola che dice la vita non riflette la vita, non è della vita. Fa parte della vita delle parole sulla vita. Parole che fanno vivere ma che non sono la vita). Per altro verso, al cibo si ricorre per fuggire da ciò


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che rende ostile la vita. Ti senti escluso, non hai avuto quello che avresti voluto avere. Sei stato abbandonato: ritrovi la vita nelle cose che primordialmente la consentono. Badiamo di più all’alimentazione quando vengono meno sogni e attese. Quando il senso è in crisi. Lo si vorrebbe, ma non c’è. Non è dato di averlo. Il tempo a cui si appartiene lo nega. Ci si ripiega su di sé. Si cerca di difendere quello che si ha se non si può avere quello che non si ha. E si tratta pure di una forma di regressione e, insieme, di rifugio. Cede la parte più colta e più recente ma anche più incerta del proprio essere e si ritrova la casa sicura dell’inizio. *** Mangiare è fare. Quando le altre attività si riducono perché non richieste come prima dalla vita, allora si dà maggiore spazio o si fa maggiore attenzione a quella del mangiare. Così si sorregge la spinta originaria a fare. Ed è meta, il mangiare. Tu pensi a quando pranzerai secondo le tue abitudini e i tuoi riti. Non vedi il vuoto nella vita. Hai qualcosa a cui guardare. È per questo che non pochi anziani, tanto più se soli, anticipano il momento dei pasti. Non più alle 13:00 ma alle 12:00. Non più alle 20:00 ma alle 19:00. Non avendo altro da fare, fanno quello che possono fare. E non vedono l’ora di farlo. E si preparano per tempo a farlo. È pur vero, poi, che quanto più diminuisce la vita tanto più aumenta l’atteggiamento spettacolare o teatrale di chi la vive. Ora la vita la si vede vivere agli altri. E se ne parla osservandola negli altri. È la vita non più mediata, ma surrogata dalla vista e dal linguaggio.


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*** Il corpo sei tu. Non devi uscire fuori di te per averlo. Com’è per le cose che trovi, se le trovi, dopo averle cercate nel mondo. Il corpo lo usi facilmente perché ne disponi. Se non hai altro, hai il tuo corpo. Lo hai e lo attivi com’è. Ti servi del corpo per esaltarti ma anche per umiliarti. Per salvarti, ma pure per dannarti. Ne hai facilmente la meglio quando non è lui ad avere la meglio di te. Perché nell’essere forte è debole. È rimesso a te. È anche il corpo delle sensazioni e delle pulsioni sessuali. Le puoi indurre o favorire tu stesso. Le soddisfi con facilità pur quando richiedono la presenza di un altro. Così vivi. Ma così vivi una vita irrinnovata. Nemmeno la vita che dà la vita, nella sua grandezza, è vita nuova. È la vita della ripetizione. È la vita non della scienza e dell’arte, non della scoperta e dell’invenzione senza fine. Alla fine, vedi il tuo corpo che si riconsegna alle funzioni di sempre. Il fondo, cioè il primario, della vita non ti dà il profondo di essa.


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