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Il popolo di Levi
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Archivio di Etnografia • n.s., a. III, n. 1 • 2008 • 39-46
Mi aveva catturato il libro di Carlo Levi fin dalla prima lettura, appena uscito: nell’immediato dopoguerra aveva rivelato ai miei occhi quel mondo che allora sembrava lontano e che io chiamavo Lucania. E avevo pensato ai volti di quelle persone ch’egli aveva descritto nel libro e illustrato nei quadri. Non immaginavo allora che un giorno sarei approdato, dalle Murge del Barese, in mezzo a quei calanchi per raccontare a modo mio, con la lente magica della mia Rolleiflex e con l’occhio della mia memoria, quello stesso mondo, fissando nella storia le immagini che Levi, appena ieri, aveva cantato per noi e per tutti: illuminando quella «terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose». Mi tornava nell’anima l’eco di quelle pagine: di «quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente», di quella «terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte». Ero arrivato nelle desolate terre della Lucania più profonda e più astrale. Ad Aliano, anno 1966: un paesino aggrappato disperatamente sui calanchi argillosi che, col sole o con la pioggia, perennemente perdevano pezzi franando a valle verso il desolato greto dell’Agri e portandosi dietro case e campi appena arati. Ero tornato sui passi di Carlo Levi, ero venuto nella “Gagliano” di Cristo si è fermato a Eboli. Levi ce lo aveva confinato il fascismo, trent’anni dopo io ci andavo per mia scelta a fare la rivoluzione proletaria: ero un giornalista impegnato. A modo mio. Col mio stile, che era anche quello di costruire pezzi di futuro studiando la storia di ieri. Mi chiedevo, allora, guardando le desolate contrade di Aliano e di Alianello, se quei volti che mi passavano sotto gli occhi fossero gli stessi osservati dal pittore torinese ispirandolo nelle sue tele e nei suoi scritti. Sì, erano gli stessi, mi dicevo, e cominciavo a immaginare che di tale patrimonio non sarebbe rimasta traccia o testimonianza di fronte alla corsa del tempo. Non era un ragionamento, il mio, ma solo un’intuizione, una sorta di tacita e segreta consapevolezza annidata in qualche punto imprecisato della mia anima. Ed avevo anche gli strumenti per dare corpo a quella intuizione, una biottica Rolleiflex, inseparabile compagna dei miei viaggi nella Lucania più profonda. Uno scatto dopo l’altro, dieci cento mille scatti entrarono allora definitivamente nella
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memoria della storia e restarono nel buio del mio archivio per quasi mezzo secolo: quasi a invecchiare, come un vino di qualità. Ma quel silenzio prima o poi doveva cessare, e doveva arrivare l’ora di rileggere quelle immagini con gli occhi di oggi. Quando sembrava che tutto fosse stato detto di Carlo Levi, del suo Cristo, dei suoi quadri, mi sono deciso a sfilare dai miei album una ad una quelle fotografie, a rileggerle, a rimeditare il passato e la storia, avviandomi così sui sentieri della scoperta di quel mondo antico dei santi padri contadini. I loro volti scorrono uno dopo l’altro fra le mie mani trepidanti e commosse, e rammento: la stasi, il lavoro, la gioia nella povertà, e il tranquillo scorrere dell’esistenza, l’apparente immobilità del tempo e delle cose, la fatica e la stanchezza, e la bellezza di aver vissuto nello scorrere stanco e fatale della disperata esistenza. E c’è la rassegnazione muta di chi non ha visto null’altro che il proprio luogo, ed è ugualmente felice perché non ha coscienza di quel che non ha visto e di ciò che ha perso lungo gli aspri e impervi sentieri di una vita senza emozioni e senza amore. Mi torna alla mente di quando, quattro decenni prima, errabondo e commosso per quelle plaghe assolate della “Gagliano” di Carlo Levi, incollavo il mio occhio alla macchina fotografica per fissare immagini che ora riemergono dal lungo sonno per raccontare storie antiche. Cosa vedevo allora? Vedevo volti di uomini e di donne, vedevo asini e uomini e donne legati ad un unico destino: era la Lucania che il Cristo mi aveva svelato e illustrato e che mi aveva fatto disperatamente amare. Ieri intuivo e fotografavo, oggi guardo e capisco: l’asino lavora, come l’uomo lavora, e l’uno e l’altro si svegliano all’alba, camminano, mangiano, sudano in silenzio, con muta rassegnazione, e non si lamentano, non occorre null’altro e si contentano di quel che fanno e di quel che hanno, e alla fine tornano al paese e alla stalla, nella fatale attesa di riprendere a fare domani quello che hanno fatto oggi e che fecero ieri, e da lungo tempo di generazione in generazione. Di lì a qualche ora, riprenderanno il ritmo lento e usuale della fatica e della rassegnata esistenza: accomunati da un identico destino, senza un pensiero, senza un ideale, senza un desiderio che non sia quello che la giornata finisca per mettere fine al tormento quotidiano della fatica. Senza la gioia di un sogno. Entrambi, uomini e bestie, bestie e donne, sanno di esistere per la fatica e per la rassegnazione, e non conoscono l’ambizione di nulla, neppure della furbizia di qualcosa in più. Sembrano calanchi quei volti rugosi, sui quali sono scolpite bocche che non sono labbra, e ti assale il sospetto che quelle bocche non hanno mai goduto la gioia di baciare un’altra bocca nel conforto dell’amore. Il sole e l’argilla hanno cotto anche i loro cuori. Asini e uomini e donne: le mie foto arrivavano a trent’anni dal confino di Levi, eppure sembrano immagini di una storia eterna, dove le ore trascorrono nella fissità del destino, e datano un’epoca che solo più tardi verrà spazzata via. Dovevano essere, le mie, le ultime immagini di quel mondo immobile e angosciante che il Cristo leviano aveva mostrato dinanzi agli occhi stupefatti e increduli del mondo intero, ed erano affidate all’ultima rappresentazione di una realtà destinata ad essere spazzata via. Da chi? Sentivo l’orgoglio comunista di essere partecipe della grande battaglia rivoluzionaria ingaggiata per cambiare il corso della storia, e allora ave-
vo una sorta di intuizione che bisognava in qualche modo documentare gli ultimi epigoni della storia contadina, fissarli nei volti di chi, sotto il sole dardeggiante sulla montagna d’argilla o frustrati dal vento gelido che soffia dai picchi innevati del Pollino e del Dolcedorme e del Sirino, ne sentiva la pelle rinsecchirsi come corteccia d’ulivo, volti nei quali solo gli occhi restavano a illuminarsi di un’ultima speranza. Tutto questo volevo fotografare, insieme ai primi segni del cambiamento imminente: i bambini soprattutto, i nipoti di Dio, che mai più dovevano indossare i panni laceri dei padri contadini, i quali stavano già sillabando le parole della libertà e del riscatto, finalmente sottratti al rischio della malaria che faceva gonfiare la pancia, senza il volto segnato dalle pustole, senza il tracoma a deturparne il viso, senza i patimenti della fame. Ero appena arrivato a fotografare gruppi di bambine e di bambini costretti a percorrere a piedi sette chilometri all’andata, sette al ritorno dalla frazione al paese, dal paese alla frazione, sotto il sole o con la pioggia, al freddo e al gelo per andare a esercitare il diritto allo studio nell’unico edificio di scuola media di Aliano. Posavano, quei bambini, dinanzi all’occhio della macchina fotografica perché sapevano che la loro immagine avrebbe fatto il giro dell’Italia incredula, stampata sulle pagine del quotidiano comunista, e che qualcosa doveva cambiare perché era arrivata la battaglia politica a strappare ai padroni e alla storia i diritti negati. Come difatti accadde. Ma accadde anche che di lì a pochi anni, meno di un lustro, sindaco di Aliano diventasse una donna, Maria Santomassimo, iscritta all’Azione Cattolica, candidata in una lista che non era democristiana, come era sempre stato. Prima donna eletta sindaco in Lucania, in una lista che aveva come simbolo la falce e martello del Pci. E accadde ancora che lì ad Aliano tornasse Carlo Levi per essere tumulato nella terra nuda del piccolo camposanto in cima alla collina dove, l’uno dopo l’altro, se ne andavano a farsi seppellire i protagonisti di Cristo si è fermato a Eboli. Questa è storia, è la storia che volli fissare in quelle fotografie, ora finalmente sottratte al silenzio dell’archivio, dove hanno giaciuto per oltre quattro decenni insieme ad altre immagini, che a decine e centinaia di migliaia vivono non dimenticate, solo in attesa di essere riammesse nel circuito della vita e della memoria. In quelle immagini c’è una Lucania, c’è un Mezzogiorno che la politica ha cambiato dopo la disperazione delle pratiche magiche, dopo l’eternità della rassegnazione, dopo il lungo silenzio della storia.
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Indice
ETNOGRAFIE Lorenzo Ferrarini Danze di etnografo e nativi: interazione e partecipazione per un metodo etnografico enattivo
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Sergio Torsello e Luigi Chiriatti «In ogni buco della terra c’era una taranta». Intervista a Mario Marsella, organettista, musicista delle tarantate
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REPERTORI 31
SEQUENZE Domenico Notarangelo Il popolo di Levi
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STORIE Mariano Fresta Il ciclismo fra il gioco e lo sport
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RETROSPETTIVE Ernesto de Martino Quattro lettere di braccianti lucani
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TACCUINO Silvano Palamà Pietre forate in Giappone
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LETTURE Domenico Copertino Sul Furto della storia di Jack Goody (2008)
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