Archivio di Etnografia 2/2013

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Indice

Eugenio Imbriani Per Sergio

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Daniele Parbuono “TrasiMemo. Banca della memoria del Trasimeno”: un progetto partecipato

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Studi Monica Dell’Aglio Il vicinato. Note di odonomastica materana

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Storie Francesca Castano Giovanni Tancredi folclorista e museografo: il suo contributo alla Mostra di Etnografia italiana del 1911 55

Retrospettive Maria Brandon Albini Dialoghi nel Sud II (a cura di Sergio Torsello)

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Discussioni Sergio Torsello Il morso d’amore della taranta. Intervista sul tarantismo a Luigi Chiriatti

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Taccuino Amelio Pezzetta Tradizioni su san Domenico abate, i lupi e i serpenti raccolte a Lama dei Peligni (Ch)

indice saggi

Patrimoni

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■ Indice

Letture Paola Falteri «Quante persone ci sono al mondo, le donne l’han fatti». Le prime fasi del ciclo di vita

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Abstracts

edited by Sandra Ferracuti

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Gli Autori

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Per Sergio

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Archivio di Etnografia • n.s., a. VIII, n. 2 • 2013 • 7-8

All’alba del 19 aprile 2015, nella sua casa di Alessano, a due passi da Leuca, è morto improvvisamente Sergio Torsello, amico e collaboratore dell’«Archivio di Etnografia»; aveva da poco compiuto cinquant’anni, essendo nato il 17 gennaio 1965. Ha lasciato la moglie, due figli molto giovani, un gran numero di amici e conoscenti commossi, impreparati. La sera precedente avrebbe dovuto partecipare alla presentazione pubblica di una delle sue ultime fatiche, i primi due volumi della serie «Storia e memoria del tarantismo» che dirigeva, per Carocci, con Andrea Carlino (il classico Della tarantola di Giorgio Baglivi, e Il tarantismo oggi di Gianni Pizza), ma era rimasto a casa, aveva un po’ di febbre, niente di preoccupante; poche ore dopo, invece, non c’era più. Aveva legato il suo nome alla nota manifestazione musicale La notte della taranta, che si svolge ad agosto nella provincia di Lecce, fin dal 2001, prima da responsabile dell’Istituto Carpitella, successivamente, con la nascita della Fondazione “Notte della taranta”, come direttore artistico del festival; era riuscito a costruire una fitta rete di relazioni e di contatti tra musicisti, tecnici, operatori culturali, intellettuali, istituzioni, con i quali aveva instaurato un dialogo costante e produttivo; giornalista di professione, era un infaticabile ricercatore di cose patrie, un acuto lettore di opere antropologiche, un analista attento di quel vasto e multiforme movimento culturale che ha caratterizzato la Puglia e, in particolare, il Salento, negli ultimi decenni. Credo che possedesse un archivio dettagliatissimo, sempre aggiornato, su ciò che veniva pubblicato nei suoi campi di interesse, la musica, la cultura popolare, la storia. Ancora: è stato uno studioso serio, maniacale compilatore di preziose bibliografie, esploratore di testi sconosciuti, autore e curatore di volumi importanti, direttore di collane editoriali, collaboratore di numerose riviste. Tra i suoi lavori più importanti, in una bibliografia notevole, conviene ricordare Il ritmo meridiano. La pizzica e le identità danzanti del Salento (curato con Vincenzo Santoro, Lecce, Aramirè, 2002), nel quale sono raccolti alcuni importanti contributi (gli autori: Cassano, Merico, Pizza, Portelli, Piccioni, Raheli, Gala, Gallini, Winspeare, Blasi) che danno conto dell’intenso dibattito sulla dimensione e sulla funzione identitaria della cultura musicale locale, nella fase più calda della sua costruzione come patrimonio; inoltre, La tela infinita. Bibliografia degli studi sul

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Eugenio Imbriani


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tarantismo mediterraneo 1945-2006 (curato con Gabriele Mina, Nardò, Besa, 2006), volume imprescindibile per chi voglia avvicinarsi agli studi sul tarantismo, una bibliografia densissima di titoli, ordinata, oltre che per anno e per autore, anche per unità tematiche, con utili saggi introduttivi, della quale contava di chiudere una nuova edizione; infine, mi piace ricordare la collana da poco avviata per l’editore Kurumuny (Calimera, Le) intitolata «Lo sguardo degli altri», inaugurata nel 2010 con un breve e intrigante saggio di Maria Brandon Albini, Viaggio nel Salento, risalente al 1959, l’anno della famosa spedizione guidata da de Martino; nella stessa collana sono apparse anche le ottocentesche Osservazioni sul tarantismo di Salvatore de Renzi. Ma ci sarà modo di tornare con maggiore ampiezza sui suoi scritti e sulla sua attività poliedrica. Sergio era un uomo molto alto, certo non esile; ma gli erano proprie una ritrosia e una sobrietà di stile che, specialmente nelle occasioni pubbliche, si imponevano, e allora quasi dava l’impressione di volersi accorciare e rimpicciolire, proponendosi con la sua gentilezza, i modi composti, la sua sensibilità; era bravissimo nel lasciar spazio ad altri, nel crearne per altri, e, sebbene il suo ruolo e le sue responsabilità in qualche misura gli imponessero la scena mediatica, non amava la ribalta e se ne ritraeva volentieri. Così operoso, generoso, instancabile organizzatore di iniziative, non fosse per la stazza, che rende oggettivamente incongruo il paragone, gli si attaglierebbe perfettamente l’epiteto di formica, ovviamente in una accezione vicina a quella di Tommaso Fiore, autore che amava citare; è stato un intellettuale serio, curioso, aperto al sapere critico. Avremmo preferito evitare il privilegio di rendergli questo omaggio. La redazione dell’«Archivio di Etnografia» saluta Sergio Torsello ed è vicina ai suoi familiari.


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Maria Brandon Albini retrospettive

Dialoghi nel Sud II

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Archivio di Etnografia • n.s., a. VIII, n. 2 • 2013 • 91-100

Il testo che qui si ripubblica è tratto da un più ampio saggio dal titolo Dialoghi nel Sud apparso in due puntate sulla rivista «Il Ponte» nel 1960 (la prima nel n. 8-9, agosto-settembre 1960, pp. 1270-1282; la seconda nel n. 10, ottobre 1960, pp. 1442-1456). Lo firma Maria Brandon Albini (1904-1995), una delle figure di maggior spicco del meridionalismo italiano nel dopoguerra. Giornalista, scrittrice, saggista, femminista ante litteram formatasi nel fervido ambiente antifascista milanese raccolto attorno alla figura di Edoardo Persico, emigrò negli anni Trenta in Francia, dove partecipò alla Resistenza e in seguito divenne una importante figura di “mediazione culturale” tra Italia e Francia (si veda in questo senso l’importante lavoro di Olivier Forlin, Les intellectuels français et l’Italie, 1945-1955. Médiation culturelle, engagements et représentations, L’Harmattan, Paris 2006). Collaboratrice di prestigiose riviste come «Europe» di Louis Aragon e «Les Temps Modernes» di Jean-Paul Sartre, tra gli anni Cinquanta e Sessanta pubblicò una serie di stimolanti libri di viaggio sul Mezzogiorno e numerose inchieste giornalistiche su Calabria, Sicilia, Sardegna, Puglia e Basilicata, guadagnandosi – come lei stessa ricorderà più tardi – l’appellativo di “Carlo Levi in gonnella”. Nel 1957 visitò il Gargano e l’anno successivo scrisse alcuni articoli in francese che fecero conoscere il promontorio pugliese quando ancora era estraneo ai flussi turistici sia italiani che internazionali. Sempre nel 1957, pubblicò un volume di grande successo sulla Calabria (Arthaud, Grenoble 1957, recentemente tradotto in italiano presso l’editore Rubbettino, con una stimolante introduzione di Salvatore Inglese). Nel 1959 pubblicò ancora una volta sul «Ponte» il bellissimo reportage dal titolo Viaggio nel Salento (ristampato da chi scrive nel 2010 per i tipi di Kurumuny Edizioni). Per una puntuale ricostruzione della produzione e della “presenza” meridionale della Albini, rinvio al recente, ottimo saggio di Michele Ferri, La Capitanata, la Puglia e il Mezzogiorno nell’opera di Maria Brandon Albini, apparso negli Atti del XXXI convegno nazionale sulla Preistoria - Protostoria - Storia della Daunia, San Severo 2011, pp. 307-323. In questo diario del viaggio in Basilicata ritroviamo la solita prosa della Albini, sempre a metà strada tra reportage e inchiesta, tensione narrativa e sensibilità etnografica. Ma soprattutto tornano i temi a lei più cari: le condizioni di vita delle genti (in particolare delle donne) del Sud, il folklore locale e l’“aggressione di una modernità incipiente”, la “grande bellezza” (a volte minacciosa) dei paesaggi, la fascinazione per

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a cura di Sergio Torsello


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un luogo, il Mezzogiorno, ancora in bilico tra passato e presente, tra rassegnazione e volontà di cambiamento. Come al solito la scrittrice (che già nel 1958 aveva fatto conoscere Scotellaro a Parigi, traducendo sulla rivista di Sartre alcune pagine dell’Uva puttanella) sceglie delle guide d’eccezione per addentrarsi nelle regioni che visita. In Calabria è ospite del barone Raffaele Lombardi Satriani, “il Pitrè della Calabria”, in Puglia il suo “Virgilio” è Tommaso Fiore, nella visita a Taranto è accompagnata dal folklorista Alfredo Majorano, dal poeta engagé Nerio Tebano e dallo scrittore salentino Giovanni Bernardini, in Basilicata, infine, grazie alla mediazione di Carlo Levi e del suo amico di adolescenza, Mario Bonfantini, si affida a Maria Padula e Giuseppe Leone. E come sempre, pur denunciando il “dramma storico” delle popolazioni del Sud, non rinuncia a puntare l’indice contro una certa atavica rassegnazione che emerge nei comportamenti dei meridionali. In questo saggio, forse per la prima volta nella sua sterminata produzione, sempre attraversata da una lucida tensione civile, affiora anche una nota di scoramento, una dolente riflessione sulla propria condizione umana. Ma su tutto domina – per usare le parole di Salvatore Inglese – «la sua coscienza inquieta di moderno soggetto europeo: donna, artista, intellettuale progressista». [...] Ho lasciato Taranto all’alba, per risalire verso il Nord. L’automotrice fila via entro la valle che da Metaponto conduce a Potenza; è la squallida valle del Basento. Ai due lati delle montagne a cocuzzolo che par si strappino a fatica agli erosi calanchi delle pendici, bianchissimi e merlettati, inaccessibili villaggi: Pisticci, Ferrandina... Da Potenza, una corriera mi conduce a Montemurro in poco più di tre ore, per una strada tortuosa che corre spesso in bilico su due versanti mentre sotto, a ventaglio, s’aprono vallette e valloni, fiumare aride sorpassate da esili ponti. Attorno colline e ondulazioni melanconiche. Due uomini intenti forse a raccogliere legna o sabbia nel greto, un cavallo con la testa penzolante, sembrano fantocci abbandonati. Passano Laurenzana, Armento, in punti scoscesi, a guardia delle strozzature della valle, erti su picchi franati; poi Montemurro, la casa dei miei amici LeonePadula; già un senso di famiglia, dopo un così lungo vagabondare. Maria Padula è nata qui. Beppe Leone, suo marito, vi si è come inserito; pittori a Napoli tutti e due, hanno affrescato molte chiese in Irpinia e Lucania, tra l’altro a Potenza e ad Armento, a Corleto. Amici di Carlo Levi e di Mario Bonfantini, sono diventati amici miei, per corrispondenza. Dopo un’ora che parlavo con loro, mi pareva già di averli conosciuti da sempre. Forse sono le poesie di lui, così attaccate alle cose di questa terra, così scarne, che mi fanno talvolta pensare a Scotellaro, forse sono i racconti di Maria, ancora inediti, calati ad evocare questo mondo rurale tradizionale, antico. O forse è anche la loro casa, grande e quasi povera, una seconda edizione, più modesta di quella del Barone Satriani; casa di “signori” di villaggio, radicati da secoli, grezza, che dà a sinistra sul vicolo dove stanno altre case di contadini, e, sotto, porcili e stalle, a destra è chiusa da alti muri che la rendono solitaria, in faccia s’apre su di un minuscolo giardino verde e profondo come un pozzo.


Tutto il villaggio l’ho visitato per varie mattine, con loro, che conoscono tutti. “Buongiorno, compare! buongiorno comare!”. Hanno tenuto a battesimo dozzine di bambini; altri sono stati padrini o le madrine dei loro quattro figli; dietro questi diretti “comparati” se ne intrecciamo altri, tra zii, cugini, nipoti, nonni, avoli... Esser “compare e comare”, qui, come in tutto il Sud, è esser più che parenti di sangue, è esser parenti di elezione. Ci si scambia doni e auguri, ci si consiglia e ci si aiuta; si è compare e comare per sette generazioni, perché il legame scende di padre in figlio, si rinnova ad ogni matrimonio, battesimo, cresima, comunione, nuove nozze dei figli, sino alla morte. Ho potuto così girare di casa in casa, chiacchierare di vicolo in vicolo, con tutti, senza quella sensazione un poco sgradevole dei miei precedenti viaggi solitari: ero la “straniera”, la “turista”, una donna indipendente che viaggia senza marito e senza codazzi di figli, come mai, come mai? E ssola, ssola ssoletta? Mi chiedevano le donne in Sicilia, in Calabria, in Lucania, in Puglia, negli Abruzzi, dal 1953 al 1959. Ma si, sola. Figli? Marito? Dove sono? Cosa fanno? Stanca di dover raccontare le mie disgrazie in cui questa gente, per curiosità e bisogno di partecipare, ficcava le sue dita con voluttà ingenua, talvolta ho inventato un romanzo. Niente più donna divorziata, un figlio morto, una vita fallita. Ma professoressa di lettere a Milano (ohoh! oh! Milano! che città!) moglie di un industriale ora in viaggio in America per affari (industriale, America, affari!!! oh oh oh!) e ho due figli di sedici e diciotto anni, l’uno studia inglese a Londra, l’altra si laurea quest’anno (oh oh oh! e cenni di testa, sorrisi di rispetto, di comprensione, figurarsi, Milano + l’America + un marito autentico + figli + professoressa! avevo riunito tutti gli ingredienti necessari per apparire una donna rispettabile, indipendente, sì, poiché viaggio da sola, ma fornita di tutte le appendici di figli e consorte e di soldi e di residenza atte a farmi invidiare e ammirare). Niente di simile a Montemurro, come del resto a San Costantino: ospite di signori del paese, ero subito adottata senza diffidenza. Si sente la montagna in queste casette erte a unica scala, a ballatoio piccolo, a finestre da dove sporge, su due spuntoni, una trave che regge “il giardino dei poveri”, qualche vaso di basilico, di prezzemolo, di capelvenere, di garofani. Sotto, nello scantinato, sta la stalla, la cantina e a pian terreno la dispensa: una capace stanza dal soffitto basso. Visitai anche la casa di un piccolo proprietario: la cantina lasciava scorgere un arco romanico, murato. La dispensa a volta aveva file di salsicce circondate di grasso e di sugna, che davano loro l’aspetto di provoloni; altri salumi, nuotanti nelle giare di olio, i cassoni del grano dal coperchio socchiuso lasciavano scorgere, in file di dieci, le uova affondate col muso all’insù. Così nascosti durano sette mesi, tutto l’inverno. La massaia li serbava per il pranzo di nozze di suo fratello, nel prossimo dicembre. E poi, la madia, lunga e scura; e in un angolo, una scodella piena di pasta di pane lievitata che sta fermentando. Domani, diventata lievito, sarà mescolata alla farina quando si intriderà il pane. Ogni massaia taglia un pezzo di pasta lievitata, lo passa alla vicina che deve far il suo pane. Così di casa in casa, le donne si passano il sacro elemento vitale, che non muore mai, e sempre rinasce e vivifica nuovo pane. «Sin dall’origine del mon-

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do, qui è così» dice in modo fantasioso una vecchia. Mistico manas della comunità contadina, simbolo della sua vita chiusa in un circolo di mutuo aiuto... Vanno le donne col loro pane su lunghe assi in bilico sul capo; e il forno, ruvido e scuro, apre la bocca rossa di fiamme mentre una donna vi getta dentro le fascine e un’altra fa scivolare dentro con l’asta i grossi pani rotondi. Su tutte le porte, di poveri e di ricchi, un ferro di cavallo o un corno. Maria Padula me lo mostra; i contadini sorridono, fingendo di scherzare. L’interno delle case è povero e pulito, spesso quasi bello nella sua nudità. Penzolano dinanzi al minuscolo focolare gli anelli, gli uni infilati sugli altri, che formano una catena più o meno lunga, per regolare l’altezza della marmitta sospesa sulla fiamma. Ma, dappertutto, c’è il Pibigas. Gli oggetti sono quasi tutti intagliati dal contadino durante i lunghi ozi invernali, lo schiacciapasta, il matterello, l’asse del pane, il cucchiaio di legno. Funzionalità di strumento creato dal povero alla sua misura, dice Beppe Leone ch’è pittore e si entusiasma. «Andiamo da zia Lella, è l’ultima vecchia che porti il costume». Zia Lella vive in fondo al paese, ha ottantasei anni, è sola, i figli son tutti in Australia. Porta fieramente il vestito nero dalla camicetta a sbuffi bianchi e maniche arricciate, col panno nero in testa. «È costume di negoziantessa, mio marito buon’anima era commerciante» dice. «Il costume di pacchiana* che più nessuno porta, ha un corsetto di velluto a fiori ricamati, e la sottana a colori». «Come vedi», dice Beppe Leone, mentre andiamo via, «il mondo tradizionale qui regge su un assieme di forme funzionali, di gesti, necessari per vivere, per continuare... La vita è durissima, i contadini sono piccoli proprietari o mezzadri a compartecipazione di due terzi, la terra montagnosa è poverissima. Spiégati la tradizione come corazza e difesa della società contro l’irrompere degli istinti, della individualità, della “libertà” cittadina o borghese, paventati le une e l’altro come terribili minacce alla sopravvivenza stessa della famiglia, della comunità». In questa parte di Lucania non esiste il baronaggio come in Sicilia o in certe parti della Calabria, come esistette sulla costa ionica dove il barone Berlingeri vide le sue terre invase e occupate dai contadini tra il ’43 e il ’44 (le famose azioni alle quali partecipò anche Scotellaro). È quella la Lucania pugliese già aperta ai movimenti socialisti, comunisti, dove vi sono roccaforti “rosse”, Irsina, Montescaglioso, Bernalda, che danno la mano oltre il “confine” a Gravina di Puglia, Altamura, Cerignola... questa è la «Lucania Lucania», così come dice Beppe Leone che ci tiene alla originalità del suo lembo di terra. I padroni vivevano sino a poco tempo fa, e ancora in parte continuano, di scambi; prodotti di terra contro prodotti che i mercati portano da Napoli o da Bari. Denaro liquido niente. Vita in fondo anche nei cosidetti “ricchi” scarsa e severa, vita schiava della terra e della avara produzione montana. Una famiglia, la famiglia “baronale” del paese, ha un palazzo scrostato, rozzo, unico lusso, assai ampio. Per stanchezza o perché i nipotini hanno sciamato tutti a Napoli, a Bari, a Roma e * Come tutti sanno, pacchiana = contadina in tutto il Sud continentale e non in senso dispregiativo, ma concreto, sociale.


tornano solo l’estate, i vecchi che rimangono a gestire le terre lasciano che i contadini vadano a far legna nei loro boschi, e che rubino nei loro conti del raccolto quando tirano le somme a fine settembre. D’altra parte i contadini possiedono piccole proprietà quasi tutti. La mancanza di feudi ha evitato occupazioni di terre. Par dunque questa una società meno disgregata e inquieta di quella che comincia a Tricarico, scende per le piane di Puglia e comincia a languire alle frontiere del Salento (altra landa arcaica e stagnante) per tornare “rossa” da Metaponto in giù in tutto il Marchesato di Crotone. Geografia politica che segue fedelmente la geografia naturale. Qui, chi è stanco, emigra e allora lo jato è definitivo e totale. L’emigrante, oggi, rifiuta di diventare contadino in Australia o in Venezuela, dove offrono tuttavia buone condizioni, avendo dovizia di terre incolte. Diventano manovali, venditori di frutta, commercianti, tutto fanno, pur di non riprendere l’odiato mestiere di contadino. Questo mestiere millenario che qui, finché non si muovono, continuano a esercitare con cocciuta, ferma, paziente “serenità”. Chi rimane accetta: votano a sinistra, senza passione. Curiosi dei fatti del mondo, sebbene incolti, intelligenti giudicano però con scorata “saggezza” la civiltà delle città, che rimane ancora, vista da Montemurro, un’onda che passa, rotola e scompare, un rumore che non li riguarda, che non può in nulla aiutarli a mutar il loro stato. Affondati nell’eternità immobile della terra, legati a faccende quotidiane, che esigono gesti continui, immediati, ripetuti, la tensione che li mantiene come cavalli legati alla storia, è la tradizione. Oppure, diciamo che la tradizione abbellisce, giustifica, coordina i gesti in un tutto, patina la miseria di convinzione ed ecco il rito, la magia, le credenze, elementi protettori contro il tempo e la povertà, contro il continuo rischio di perdita della vita, del cibo, della casa. Solo vale il gesto che da maggio a fine settembre fa seccare, preparare, riporre, per l’inverno, frutta, pomidoro, salsa, salumi, grano, fave, patate. Solo vale il gesto che da settembre a maggio, risparmia, prevede, e patisce. Tradizione, cemento di civiltà povera, modellata da secoli. D’altra parte, la religione si svela qui, una volta ancora, come interpretazione globale del mondo contadino; consolazione, evasione, persuasione, cultura e mito. La prima domenica di settembre a Viggiano, il grosso paese che si staglia come una ciotola capovolta in cima a un monte, accorrono contadini di ogni parte della Lucania e della Campania. Sul monte vicino, a 1.600 m, si erge il Santuario mariano. La stessa cosa accade all’altra festa della Madonna, in maggio: due date di antiche feste pagane, Giano o Demetra, chissà – l’apertura del ciclo fecondo, la fine del ciclo fecondo. Vi si venera una Madonna nera che era, si dice, un’antica statua italiota di legno, scoperta in modo miracoloso in un bosco. Statua di divinità pagana dei campi, divenuta Vergine Maria. Dopo la festa “ufficiale” col Vescovo, la processione, si scatena la festa popolare. Tutto qui ha un aspetto pagano, folle. I costumi che le donne tolgono dai cassoni, i gruppi di zampognari, gli altarini di fiori, di ceri, di penduli pani, di ghirlande di carta, portati sul capo delle giovani, i rami di lentisco e di quercia, alto-levati come lance, le danze nel paese, i fuochi artificiali, la fiera del bestiame, gli urli, il sudore, le risa, la gioia

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permessa due volte all’anno: lo strappo alla troppo severa esistenza, il tuffo nella letizia sfrenata. Tutto è dionisiaco.

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Sempre parlando, ce ne andiamo dal sindaco, l’avvocato Bonelli, un socialista del Psi, dal volto tormentato, gli occhi buoni, che par chiedano sempre scusa. Una specie di timido che si vince. La conversazione continua, si inoltra nella condizione contadina. «Vede? ci sono, sì, le vecchie famiglie ancor legate alla tradizione, alla povera economia rurale, però... Un tempo qui i “forestieri” erano considerati i pugliesi, i napoletani, i calabresi, venditori ambulanti, o mercanti, certi muratori, stabilitisi qui da qualche generazione. Essendo fuori dal loro nucleo familiare, dal loro “paese”, erano più affrancati, più liberi. Non c’è persona più pronta a sentirsi “libera” di un meridionale uscito dal suo ambiente». «Il proverbio francese On s’en fout, on n’est pas d’ici, nous», dico io, «esprime lo stesso senso di liberazione». «Oggi poi», continua il sindaco, «un altro elemento è venuto a muovere le acque. Subito dopo la guerra, i reduci che tornavano avendo veduto altre cose, altri costumi; dal ’44 al ’50, la politica, gli echi delle occupazioni di terra nelle zone vicine, più socialiste. Poi il governo ha organizzato con gli emigrati italiani in America l’arrivo dei pacchi dono, con lettere di minaccia e di supplica: Non votate rosso, se avete un governo comunista, l’America non vi aiuterà più. Sono stati elargiti alcuni aiuti, contributi unificati alle famiglie, piccole pensioni, cantieri di lavoro; elemosine gestite dai parroci, dall’azione cattolica, dall’opera pontificia di assistenza, con la minaccia, il ricatto antisocialista. L’urto “rosso” del dopoguerra è stato sviato, scoraggiato, messo all’indice, in parte “nutrito” di piccoli regali. Poi, tutto torna uguale; gli “assistenti sociali”, che dovrebbero occuparsi delle pratiche per le pensioni contadine, non fanno nulla; gli uffici non hanno che sprezzo dei poveri che vanno a portar le loro carte, e, ignoranti, si lasciano gabbare. L’incuria, la più solida vernice che tiene assieme il mondo meridionale, ha ripreso la sua splendida funzione di “tutelatore dell’ordine e del costume”. Guardi qui! Si sta facendo una diga sull’Agri, verso Spinosa; manovali ex contadini diventati “operai” da un giorno all’altro ci lavorano. Tra contributi unificati e salari ricevono, avendo grosse famiglie, circa 2.500 lire al giorno. Nasce sotto ai nostri occhi una “classe” avida di qualificarsi, di staccarsi dal contadiname donde è uscita. Che fare del denaro? Prima di tutto, saziano una fame secolare; li vedi nelle loro case misere, a Spinosa per esempio, la sera, arrostire all’uncino di ferro, sopra la fiamma, capretti interi. La carne, che prima mangiavano sì e no una volta all’anno, a Natale, se la sbranano passandosi quarti interi d’arrosto, addentandoli come selvaggi. E poi seguono i nuovi bisogni da soddisfare; l’uomo vuole il vino, le sigarette, la radio, magari la televisione, le camicie nuove. La donna, in compenso, vuole la lavatrice elettrica, il pibigas, la macchina per macinare il caffè; vuole vestiti scelti sui modelli dei giornalucoli del Nord; avendo fatto la lavandaia presso massari o contadini agiati sino a ieri, oggi passano davanti agli antichi “padroni” e


soprattutto “padrone” sfottendole, chiamandole pacchiane. Si sente già ascesa a una nuova “classe sociale”. Disgraziatamente, è una involuzione, non un’evoluzione; si forma una casta di nuovi ricchi, avidi e ottusi. Sindacalisti alla Cgil sino a che il bisogno li rendeva combattivi, passano subito alla Cisl e alla Democrazia cristiana, per salvarsi il “posto”. Leccano i piedi a chi ieri bestemmiavano o odiavano. Stanno sempre con chi comanda. Nessuna coscienza di classe in questi contadini conservatori, diventati manovali oggi, che ignorano tutto del socialismo e della libertà conquistata con la lotta. Vellicamento dei bisogni, ottundimento dei primi barlumi di coscienza socialista nata dopo la guerra. Insomma, una rassegnazione nuova, uguale all’antica, ch’era disperata nella miseria, una rassegnazione altrettanto diffidente dell’altra, e fondata ancora sulla inquietudine. E quanto durerà la cuccagna? Finita la diga, cosa faremo? Torneremo più poveri di prima? Emigreremo, ci impiccheremo? Non avendo consapevolezza, essendoci in giro un mare di statica miseria, che essi conoscono essendone appena usciti, la grande paura li rode, sotto sotto. Niente 1789, niente ’48 qui, niente lotta antifascista. Null’altro che una palude, da millenni. E queste caste sociali di manovali già si mimetizzano col “signore” e, sino a ieri atee, vanno in chiesa in ghingheri, perché anche quello, il rito della messa, è una qualificazione sociale, una promozione in mezzo alla “gente perbene”. La dialettica della storia, bella scoperta marxista per paesi aperti, qui gioca a vuoto, a rovescio. E sempre vengono su nuovi sfruttatori, nuovi padroni, peggiori degli antichi, perché figli di miserabili morti di fame. È la storia della Roba del Verga che all’infinito il Sud riproduce. Sino a che non verrà, dal di fuori, lo schianto». La coscienza di classe, in un modo antico, esiste invece a modo suo, presso queste famiglie di contadini, amiche dei miei amici Padula-Leone. La donna che viene a sbrigare le faccende non è la domestica che lo fa per mestiere, è un’amica di casa, la moglie del fattore. È signorile come una dama dell’Ottocento, e attentissima ad ogni mancanza di rispetto e di dignità verso di lei. Povera sì, ma serva no. Trattati con amicizia, questi esseri t’aprono il cuore, ti amano. Sempre attenti a non sconfinare in un gesto che paia “confidenza eccessiva verso coloro che servono” (sedersi alla stessa tavola, benché questa donna dia del tu a Maria e del voi a Leone, il bel voi familiare del meridionale); rifiutano una mancia. «Se vuoi farle un piacere, mi dice Maria Padula, inviale un regalo da Milano, una cartolina, una mancia mai. Non si merita una simile offesa. Questa fierezza viene da una desolata e serena saggezza millenaria. A Napoli, invece, trovi il servilismo, il mendicare, la disperazione diventata disgregazione e bassezza. Usata come mezzo per sfruttare. Capisci, ora, che cosa è per questi poveri paesi la “tradizione”. Un galateo e una religione». La tradizione? chi voglia capire, di noi intellettuali avidi di solitudine, di pace, di anacoretiche dimore fuor del mondo, venga con me a Castel Saraceno. Capirà che

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se forza di serenità, nuova tempra per il prossimo lavoro in città, e riscoperta di un io sommerso rappresenta per noi un soggiorno nelle remote solitudini delle campagne primitive – chi in queste plaghe vive, sempre, senza una adeguata base economica, si rinselvatichisce senza scampo. La strada si snoda prima entro ad un arioso paesaggio a poggi e colline, con montagne nude in fondo, il monte Raparo, dove stanno villaggi, buoi, aratri, contadini a cavalcioni sui muli, masserie, campicelli, ruscelli, come in un presepio napoletano del Seicento. Poi scorgi in fondo due spuntoni, stagliati in blu sul cielo chiaro ai due lati di una fenditura praticata da una mitica durlindana. È la gola che scende in Calabria, verso il monte Pollino. Ma a destra la strada si ferma sotto a un torrente, alcuni operai stanno costruendo il ponte: dall’altro lato la strada riprende, ancora in costruzione, verso Castel Saraceno. Il villaggio si impenna su di un lungo roccione a lama di coltello, e dietro questo scoscende in burroni, in anguste fini di valli che vanno a sbattere contro le montagne appena percorse da piste sottili. Al di sopra del paese altri frammenti di roccia, e i ruderi di un castello, dove passa un sentiero in bilico tra due abissi e tuttavia tutto orlato di casucce. Le straducole di Castel Saraceno sono alluvioni di sterco, di ciottoli sconnessi e di polvere e ci razzolano galline, porci, bambini. E alle porte di case alte e strette, belle per chi ami il pittoresco, orride per chi abbia sensibilità umana, stanno irsuti, miti e stralunati, i vecchi; una donna con un tumore all’occhio, fasciato di nero, che mi guarda strabuzzando l’altro tutto rosso in un viso giallo come cera. Un’altra che fa prillare il fuso, sotto un’arcata sconnessa, in cima al dirupo. E questa, coi capelli bianchi a cespuglio, e il viso nascosto tra le mani, i gomiti puntati sulle ginocchia, immobile quando salimmo, immobile ancora quando scendemmo. I vecchi, coi loro occhi acquosi e la barba che cresce frenetica e scompigliata, hanno sguardi acquosi e una irrigidita “dignità” di santoni sull’altare. In cresta di paese, sul sentiero sospeso nel vuoto, i porci sono incatenati (una volta, mi è stato detto, si incatenavano anche i bambini). Una donna batte con un grosso bastone i ceci, per sgranarli. Amabili e sorridenti, quasi inconsci, sembrano del loro stato derelitto. Forse, chi rimane, ormai ha rinunciato a sperare, a mutare. Vedo salire con passo lento, rassegnato, su dai bassi calanchi, poiché è già il tramonto (acquarello desolato e splendido – orrido) contadine e uomini, e bimbi di cinque anni che spingono il porcello, la capretta, le pecore. E mi par di essere in mezzo a una razza rejetta, destinata a spegnersi, come i Pigmei in Africa o certi preistorici Polinesiani delle isole del Pacifico; villaggio senza sbocchi, ingorgo di secoli che fluiscono e lo ignorano come in ansa di fiume l’acqua pantanosa e immobile, strozzatura di “civiltà” finita. Persino la chiesa ha questo tono di fantasma: un soffitto pennellato a calce azzurra, che lascia trasparire le macchie di umido delle travi, in arabeschi stupendi e astratti, grigio-fumo, neri e bianchicci. I tre santi, sull’altare, in legno scolpito, sant’Antonio, san Rocco e san Vito, i soliti santi stregoni contadini del Sud – sono attorniati da volute e fogliami d’un barocco paesano ingenuo, argenteo. E penzola, sull’arcata dell’altare maggiore, un velario nero, con lustrini e fiori e foglie di carta colorata in tenui tinte smorte (verde marcio, blu oltremare, giallo-marrone) tutta strappata, cimelio


di chissà quali lontane glorie e doni seicenteschi. Qui da sempre, mi vien detto, l’inverno (come da Longobucco in Calabria) partono famiglie intere per andare a svernare con le mandrie e i greggi sui pascoli tiepidi delle “marine” metapontine; e affittano il diritto di “pascolo” parte, a prezzi esosi, ai proprietari della pianura. Altri emigrano, fuggendo, come maledetti, il paese natio. Chi rimane è chiuso in questa “rassegnazione” atona, vi si lascia andare come nella melma, nell’inedia disperata e inerte di chi nulla vuole e sa sperare di più. Qui l’uomo non lotta contro la natura, non si asserraglia nella “tradizione” come in una norma “civile” (così fanno a Montemurro, a San Costantino, in tutto il Sud disgregato): qui l’uomo subisce la natura e il suo stato, lasciandosi divorare giorno per giorno. La nostra auto, che abbiamo lasciato giù, ai piedi del paese, dopo aver guadato a piedi il torrente, ci riconduce ora nella serafica notte stellata, verso casa. Salivo questa sera verso il cimitero di Montemurro; era appena il tramonto, vaste ondate di canto – i grilli – si stendevano entro i campi, nel giro della strada che passa tra colli sinuosi e poggi. Nella penombra gli ulivi, i rovi, le vigne, già fusi in tinte sfumate. Uscivano dai sentieri, scendendo verso il paese, donne in groppa agli asini, con cesti, fascine, erbe o grano in sacchi rotondi. Altre, accanto all’uomo, a piedi, tirano il mulo per la cavezza. Due vecchione si sostengono a vicenda, tutte nere in grembiuloni e fazzolettoni che le infagottano. Le incontro, mi guardano, le sorpasso. Alla svolta, sei ragazze ben vestite, sedute a tre a tre sulle panchine agli angoli della via, cantano una canzone della televisione. Rima con amore-ardore, baciaudaci, luna-bruna... Vedendomi, zittiscono, poi subito ripigliano, urlando, provocatrici. E mi sento sola, desolata, tagliata fuori da questo mondo lucano che non è il mio, anche se faccio finta di aderirvi. Il mio è quello della remota infanzia nella Brianza, che più non esiste in me, fatto memoria, perché oggi quella realtà s’è sbriciolata. Così me ne andavo con le zie al tramonto verso il cimitero, o la Madonna del Pianto, o la Forcella da dove si scorgeva l’Adda verde, incassata e gelida. E tornavano dai campi i “nostri” contadini e salutavano, familiari: Bunasira, sciuri! E in paese attorno al forno del Sandron le contadine si accalcavano per portare via, nella carriuola, l’enorme ruota di pane di granturco, giallo, crostoso, scavato da solchi, olezzante e tiepido, impastato in casa. Ero, allora, accordata alla terra ch’era “degli Albini” e ci ero nata. Così i miei amici Padula-Leone ritornano ogni anno a Montemurro dove hanno casa e poderi ed è un loro mondo d’infanzia e di realtà. Loro, non mia. A un tratto, sperduta, volto e torno in giù dietro le frotte di contadini, mi avvicino alle vecchie donne che chiacchierano ridendo con una coppia di giovani, che cacciano dinanzi a loro due maialini, una capra e alcune pecore, tirando l’asino per la cavezza. Ho come paura di annegare nella solitudine della campagna che tutti abbandonano in fretta, mentre s’accendono le luci di Grumento, di San Martino, rotonde corone di gioielli entro le colline lontanissime. Tutti scendono verso Montemurro, già caldo di luci, di fiati, di porte aperte, di minestre fumanti, di belati di capre, di strilli di bambini. Una vecchia mormora all’altra. «Chi è chidda?» e l’altra: «Nun te ne incaricà,

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sarà una forestiera». Dentro di me piango il mio passato: mai mi sento intera in nessuna cosa. Aderisco e ho aderito, anche facendo la Resistenza e pagando cara la mia attività, alle idee sociali nuove; ma non sono, non sarò mai atea. Il marxismo mi pare un ottimo strumento per capire contrasti economici, per tirare le somme e sbatterle in faccia agli idealisti nebulosi che hanno le tasche piene e amano le parole vuote. L’idealismo crociano, lo sento una formula superata, contingente, un formalismo. Il cattolicesimo che mi ha nutrita e abbeverata sino a 25 anni, è in me nostalgia e ricordo, venerazione per il mio passato, sete di infanzia perduta. Guardo la lunghissima vita mia, da quei lontani quindici anni in cui mio padre mettendomi in mano I Grandi Iniziati di Schurè mi disse: «Tutte le religioni si valgono, sul piano umano. Cristo non è risorto, è un’idea degli apostoli. O un fenomeno medianico». E la nonna, una Toniolo, della famiglia che vanta un luminare della religione cattolica, il professor Giuseppe, “lo zio santo” come lo chiamavano in casa di mamma mia, alzando la testa, ribatté: «Quando hai dubbi, cara, recita il credo e i precetti della chiesa e tutto andrà bene per te». E da quei lontani quindici anni, quel gesto di mio padre fu come il coltello che scalfisce la terra e scopre una sorgente acquattata, pronta a fluire. E ho letto e letto, pregato e meditato, e da sant’Agostino a san Paolo, dal Vangelo ai Veda, dal giapponese Tao al buddismo, da Jung a Freud, da Marx a Lenin, e di nuovo ai Veda, ai mistici tedeschi, gli anni sono passati, come in una nube; e ho amato, ho avuto un figlio e son di nuovo sola; e ho fatto la Resistenza in Francia e tutto ora è lì, disteso come tappe su di una strada. E mai, mai ho potuto credere che nulla “esiste” al di là, e mai sono stata atea, mai. Ma sono sola, senza compagni, senza famiglia, senza frontiere né chiese, sola. Sola? Forse, non è vero, come me ce ne sono tanti in Italia; nel mondo. Ora, Venere, la stella dei pastori, brilla, rosata, sopra al monte Raparo. Come un tempo con mia sorella, faccio le corna, tocco i miei due anelli d’oro, le fedi, ed esprimo i miei desideri; e penso ai miei morti, e ai miei vivi. Così facevo a Robbiate da bambina. Sciamano le stelle, la notte è finalmente nera. I giovani contadini si sono fermati; fanno pisciare il mulo, alla svolta, dove lunghe colate mi fan capire che altri prima di loro l’han fatto fare. Così la stalla rimane pulita. Alla svolta, una croce di pietra: una delle due vecchie vi striscia su il dito e si segna. L’uomo chiama la capra nera che strappa ciuffi di rovi dalle siepi, con un zzeeeeu soffocato e minaccioso; e subito anche le pecore si mettono a correre in fila, e i maialini si dispongono sul ciglio della strada e corrono a testa bassa sbattendo le orecchie molli, ubbidienti. La case del villaggio; ognuno svolta nel proprio vicolo, dicendo «Bonasera». Ad un angolo riconosco la domestica dei Padula: «Buonasera», mi dice sorridendo. «È andata a passeggio? Il pranzo è pronto». «Non avevo riconosciuto la vostra stradina», rispondo, «tutti i vicoli si assomigliano». Ritrovo il confine della mia coscienza solerte e attenta, e il grugnito del maiale, chiuso in fondo al suo stabbio, mi dà il benvenuto. Dalla porta aperta la luce è calda. Mi pare di essere a casa mia.


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