Firenze Architettura 2005-1&2

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razione dello spazio dato e dell’architettura con la soggettività dello spettatore…-6 in quel momento ero sicuro che sarebbero state comprese, perché il luogo riusciva a trasmettere un’emozione che nessuna parola poteva efficacemente descrivere. I quadri appesi alle pareti erano impressionanti per dimensione e impatto visivo. Evocavano quell’emotività misteriosa che trasfigurava il dipinto in un oggetto più da meditare che da assaporare piacevolmente. Si avvertiva chiaramente che erano il risultato di un’indagine perseguita attraverso un estremo rigore e una assoluta semplicità cromatica ed essenzialità compositiva. La sequenza con cui l’artista li aveva collocati e ordinati ci faceva comprendere con grande immediatezza il senso delle relazioni che venivano ad instaurarsi reciprocamente e con l’ambiente. Dovendo ricorrere ad una metafora, essi rappresentavano una sinfonia, un’opera composita dove ogni pezzo era collocato in sequenza e concorreva alla creazione di un unicum. Si veniva così a formare uno spazio nuovo, inscindibile, tra l’opera e l’ambiente. Uno spazio che non esprimeva dinamiche, né movimento, ma solo l’estremo silenzio delle profondità inesplorate della ragione e di un ordine superiore. Una atmosfera non terrena, immateriale sublimata dal colore e dalla luce. Ne è peraltro testimonianza il recente vincolo del Ministero dei beni ambientali a tutelare non solo le opere ma anche l’edificio che le contiene, gli Essiccatoi. Il riferimento alla dimensione spaziale, in un campo dove si fa più stretta la relazione con l’architettura, era già stato affrontato da Burri con il periodo dei Cretti e si era concretizzato in quella surreale operazione di land art a Gibellina. Una distesa di cemento bianco con le dimensioni di un quadrilatero dalla forma irregolare di circa 300 x 400 si dispiega dolcemente sul crinale della montagna ed è ben visibile anche da chi pro-

viene dalle altre località della valle del Belice. Avvicinandosi ulteriormente se ne coglie la particolare conformazione a blocchi dalle dimensioni variabili da 10 a 20 metri separati tra loro da profonde fenditure di 1,60 di profondità e 2, 3 metri di larghezza, percorribili a piedi. Ma il grande cretto di Gibellina è qualcosa di più di un’opera ambientale dalle dimensioni inusuali, è anche un immenso e terribile sacrario perché sorge sugli stessi luoghi dove un violento terremoto distrusse, nel lontano 1968, l’intero abitato di Gibellina. Sovrapponendosi a quelle rovine che non fu possibile né ricostruire, né rimuovere, questa gigantesca distesa di materia rievoca i terribili momenti della distruzione in cui tutto si è frantumato, immortala le sofferenze dei suoi abitanti e al tempo stesso, con la sua struttura, recupera la memoria dell’antico tracciato viario, con gli isolati e le piccole strade interne. Percorrendo quelle tracce è come immergersi in un sudario, se ne percepisce il senso di morte reso ancora più intenso dal singolare contrasto che l’opera crea con l’ambiente circostante, aspro soltanto a tratti, ma per lo più misurato e rassicurante per l’ordinata coltivatazioni dei vigneti lungo i pendii delle colline. I cretti rimandano alla materia, pur non essendo materia nel senso tradizionale. Richiamano alla mente aride distese assolate e terreni riarsi senza vita in cui una sorta di trama sottile, chiara e ordinata nella sua razionalità, ne ha tracciato e disegnato lo schema compositivo: dalla grande alla piccola scala. In una trama infinita di spaccature la luce è intrappolata e mette in equilibrio i vuoti con i pieni che hanno percettivamente il sopravvento sulla consistenza e natura della materia. Sono una materia ambigua, non naturale né totalmente artificiale, il cui ”valore dell’organico è tutt’uno con il geometrico, come se la nuova esistenza della materia spontaneamente si organizzasse secondo i ritmi profondi, gli appelli più

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