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Federico Zuccari, Porta Virtutis
Porta Virtutis
FOTO PAGINA A FIANCO: Federico Zuccari, Porta Virtutis (1581-1582 circa; penna, inchiostro marrone diluito e
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pietra nera, 387 x 286 mm; New York, The Pierpont Morgan Library, inv. 1974.25)
cangelo Michele a sancire la fine d’un’epidemia: è il leggendario episodio che avrebbe portato a cambiare la denominazione del mausoleo in “Castel Sant’Angelo”) ritraendo il pontefice vissuto nel VI secolo con le fattezze di papa Boncompagni, assieme allo stesso Ghiselli e a un altro dignitario, Ludovico Bianchetto, maestro di camera di Gregorio XIII. Il dipinto è andato perduto, ma lo conosciamo perché ne sopravvivono un paio di studî a penna e perché è rimasta un’incisione di Aliprando Caprioli, conservata alla Biblioteca Palatina di Parma, che traduce la pala con fini divulgativi, probabilmente secondo una precisa volontà di Federico Zuccari. La tela del pittore marchigiano fu però respinta: l’artista se la vide tornare a Roma dopo il carnevale del 1581, assieme a una missiva anonima che elencava tutti i presunti difetti del dipinto, e Ghiselli licenziò il pittore affidando l’incarico a un artista locale, Cesare Aretusi (Modena, 1549 – Parma, 1612). Da ciò che sappiamo, la pala di Zuccari venne ufficialmente scartata per ragioni di decoro: alla committenza dovevano essere apparsi sconvenienti i corpi degli appestati sbattuti in primo piano, così come i ritratti dei dignitarî pontifici, ritenuti eccessivi per un dipinto destinato a un edificio sacro. Aretusi lavorò riprendendo la composizione di Zuccari, ai limiti del plagio, ma emendandola dagli elementi che potevano esser ritenuti disdicevoli, attenendosi in maniera più serrata ai dettami della pittura controriformata di cui si discuteva proprio in quegli anni, e l’Emilia era uno dei centri nevralgici del dibattito: proprio nel 1582 il cardinale bolognese Gabriele Paleotti pubblicava il suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane, il testo che di fatto sancì i nuovi orientamenti, cui gli artisti dovevano attenersi. E del resto, ha scritto la studiosa Vera Fortunati Pierantonio, «le “correzioni” operate da Aretusi sul modello di Federico Zuccari mirano ad enfatizzare il ruolo centrale della istituzione ecclesiastica in sintonia cogli aspetti più politici della controriforma». La critica contemporanea ritiene però che ci siano altre motivazioni dietro il rifiuto del dipinto: è infatti altamente probabile che si fosse trattato principalmente d’una questione di puro campanilismo. In breve, i pittori bolognesi non sopportavano l’idea che una commissione così importante fosse stata data a un forestiero, e Ghiselli, per non finire nel mirino dei suoi concittadini, probabilmente finì per cedere, sollevando Zuccari dal proprio incarico, nonostante il pittore si fosse anche offerto di rifare il lavoro gratuitamente, e assicurando il compito ad Aretusi, che dipinse l’opera oggi ancora in situ. Com’è lecito attendersi, Federico Zuccari si sentì umiliato, e meditò una vendetta, che arrivò puntuale il giorno della festa di san Luca, patrono dei pittori, ovvero il 18 ottobre di quello stesso 1581: la mattina di quel giorno, l’artista si recò alla chiesa, oggi non più esistente, di San Luca all’Esquilino assieme al suo giovane collaboratore Domenico Crespi, detto il Passignano, cui Federico aveva affidato il compito di dipingere un grande cartone da lui ideato. Non sappiamo che fine abbia fatto l’originale, ma ci è noto perché ne sopravvivono uno schizzo conservato presso la Staatliche Graphische Sammlung di Monaco di Baviera, uno studio preparatorio custodito alla Christ Church Picture Gallery di Oxford, e soprattutto le riproduzioni successive, benché edulcorate, tra le quali quella magnifica, su tela, eseguita dall’artista stesso per Francesco Maria II Della Rovere duca di Urbino, acquistata con somma intelligenza dallo Stato nel 2007 e oggi esposta nella raccolta permanente della Galleria Nazionale delle Marche. Il soggetto è la Porta Virtutis, e il pittore ebbe non solo l’idea di esporla sul sagrato della chiesa di San Luca, ma anche quella d’illustrarne i contenuti. Non abbiamo idea di che cosa abbia detto Federico Zuccari quella mattina, ma possiamo immaginare che le sue parole siano state giudicate tremendamente oltraggiose dai pittori bolognesi, se questi decisero di portare l’artista in tribunale. La Porta Virtutis è un’opera nella quale Zuccari evoca e fonde in modo originale quella “coorte invisibile” (così l’ha definita Cristina Acidini) di temi iconografici desunti dalle fonti più diverse, sia antiche che moderne, e che vengono articolati attorno alla visione d’un grande arco, la “Porta della Virtù” appunto, «luogo del passaggio per eccellenza», sottolinea Acidini, dove «si addensano e divengono visi-
La Verità rivelata dal Tempo
FOTO PAGINA A FIANCO: Pieter Valck (da Federico
Zuccari), La Verità rivelata dal Tempo (1575; bulino,
360 x 249 mm; Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, inv. 8849 st.)
bili contrapposizioni fondamentali quali il dentro e il fuori, l’ammesso e l’escluso, il sacro e il profano». Un limite, evidentemente invalicabile, tra gli abissi dell’ignoranza e il paradiso dell’arte e dell’intelligenza, secondo la retorica zuccariana, ben guardato e difeso da Minerva, la dea della sapienza, che occupa imperiosa il fornice dell’arco, solleva lo scudo scintillante a guardia dell’eden che s’apre alle sue spalle, con la sua lancia schiaccia a terra il mostruoso Vizio, e «preclude l’accesso al giardino al branco indecente, che bivacca senza speranze davanti alla porta e fuori da essa». Il «branco indecente» brulica e s’ammassa nel primo piano, tra presenze mostruose e inquietanti che assieme sommano una composita e rumoreggiante allegoria dell’ignoranza, valida nel Cinquecento come oggi. A introdurre la scena con un gesto teatrale ed eloquente è un grande satiro dalla cui bocca escono fiammelle, fiancheggiato da due suoi simili più piccoli. È lo stesso Federico Zuccari che spiega il significato simbolico delle figure, in un memoriale consegnato al Governatore di Roma durante il processo, riportato nel Codice Vaticano Latino 7031 della Biblioteca Vaticana, e pubblicato per la prima volta nel 1958 da Detlef Heikamp. Il satiro grande è dunque uno dei “ministri” dell’Invidia, ed è «tutto macchiato di varii colori per la indigestione de li suoi veneni», spiegava l’artista. Sui due satiri gemelli lo scritto è piuttosto elusivo, e per comprenderne il significato occorre far riferimento ai disegni, dove quello armato di cesoie e forbici è identificato come “Parto di maldicenza”, e gli arnesi per tagliare alludono alla rottura delle relazioni che si verifica a causa della maldicenza, mentre l’altro, quello che sta nell’ombra, è la “Distrazione”. L’Invidia, perno di tutto il registro inferiore della composizione, è la donna vecchia dal seno cadente che crolla a terra avvolta dai serpenti di cui si nutre. «Et perché l’Invidia è chiamata serva de li da pochi», ovvero serva delle persone dappoco, «per tanto nasce ne li cuori vili che per se stessa non ha possanza di nocere, però si attaccha a li piedi del Ignorantia crassa»: vediamo infatti che con una mano abbranca uno dei piedi di re Mida, il capo di tutti coloro che «veramente non sanno, ma come audaci se intromettano a sindicare le fatiche altrui», il re allegoria dell’Ignoranza crassa. Nelle sue orecchie d’asino sussurrano l’Adulazione e la Presunzione, che gli mostrano una tavola di poco valore, lodata e tenuta in gran considerazione dal re ignorante, che pertanto nuoce infinitamente ai virtuosi. L’Ignoranza siede su alcuni libri, scaraventati a terra perché l’ignorante non sa che farsene, tiene in mano alcuni strumenti in malo modo, dal momento che non ne conosce l’utilizzo ma vuol comunque adoperarli, e tra le sue gambe, “rifugio de’ maligni”, accoglie un cinghiale e una volpe, simboli di bestialità e furbizia. Di tutt’altro segno sono invece le figure che accompagnano la tavola al centro del fornice: nei disegni originali s’intravedeva chiaramente il profilo della pala bolognese dipinta da Zuccari, mentre nelle riproduzioni che l’artista eseguì durante e dopo il processo (inclusa la tela di Urbino) la tavola è bianca, al più corredata dalla scritta “Tabula Zuccari”. La tavola è sorretta da quattro genî alati: sono Disegno, il Colorito, l’Invenzione e il Decoro. Sotto, alle spalle di Minerva, vediamo le tre grazie, simboli delle tre arti: pittura, scultura e architettura. Al loro fianco, un nudo maschile: è lo Spirito. L’arco intero è adorno di statue: riconosciamo, sulle nicchie frontali, la Fatica e la Diligenza, mentre all’interno, dietro a Minerva, ecco l’Amorevole Studio e l’Intelligenza, e sul cornicione le quattro statue dorate delle virtù cardinali, ovvero la Prudenza, la Temperanza, la Giustizia e la Fortezza. L’allegoria è conclusa dalle due figure alate, personificazioni della Fama, una che esalta il virtuoso e l’altra che distrugge i maldicenti. La Porta Virtutis, per Federico Zuccari, costituiva ben più d’una vendetta: era una specie di riscatto, era il modo per dar voce ai «poveri Virtuosi», per adoperare l’espressione con la quale lui stesso indicava gli sventurati protagonisti della sua allegoria, troppo spesso oppressi dall’ignoranza dei potenti, per di più sobillati da invidiosi e maldicenti. E probabilmente neppure la giustizia terrena, secondo lui, era sufficiente a farsi carico delle istanze degli oppressi: solo il tempo rivelatore avrebbe riabilitato









