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Federico Zuccari, Studî per la Verità rivelata dal Tempo
Porta Virtutis
FOTO PAGINA A FIANCO: Federico Zuccari, Porta Virtutis (1585 circa; olio su tela, 159 x 112 cm; Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, inv. D 300)
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carico della decorazione a monocromo della facciata di Palazzo Mattei. Il ciclo che Federico Zuccari dedica al fratello offre spunti per almeno un paio di riflessioni: la prima è sulle qualità che sono a suo giudizio ritenute indispensabile accompagnamento dell’artista. Federico insiste sulla costanza e sulla perseveranza del fratello che non s’arrende dinnanzi alle pesanti difficoltà ch’è costretto a subire fin dalla scoperta della sua vocazione per l’arte, sull’idea che lo studio continuo sia una delle chiavi del successo per un pittore di livello, e sulla triade Servitù-Fatica-Disagio che sono lo scotto da pagare per giungere all’affermazione personale, dato che episodî riferibili a questi tre concetti ricorrono per tutto il ciclo. La seconda è sulla condizione sociale dell’artista alla metà del Cinquecento, una condizione ch’era profondamente cambiata rispetto a quella del primo Rinascimento. Per un artista, specie se non introdotto o se, come Taddeo Zuccari, giunto in una grande città dalla provincia, le possibilità d’emergere eran molto più ridotte che in passato. In un saggio nel catalogo della mostra che si tenne al Getty, Robert Williams ha ben elencato le ragioni di questi profondi mutamenti: la platea dei committenti che s’era allargata e rendeva più pressante e urgente il lavoro, che richiedeva pertanto alle botteghe un’organizzazione protoindustriale, il conseguente inasprimento della competizione tra gli artisti per accaparrarsi le commesse (un’eco di queste rivalità, del resto, si può percepire scorrendo le pagine delle Vite di Giorgio Vasari, che spesso rilegge retroattivamente la storia dell’arte secondo un’ottica di competizione, che per lo storiografo aretino era sana in quanto sprone per far emergere l’eccellenza), il vastissimo numero di giovani interessati a percorrere una carriera nell’arte stanti le possibilità di riconoscimento sociale e le gratificazioni economiche che poteva comportare, i radicali cambiamenti dei percorsi formativi che imponevano all’artista, ormai riconosciuto come un intellettuale e non più come un artigiano, d’acquisire anche conoscenze di lettere o di scienze, tanto che di lì a poco sarebbero sorte le prime accademie. Non è una congettura romantica l’immagine del giovane artista che, nella Roma del Cinquecento, arriva dalla provincia e trascorre i primi tempi nella più totale indigenza: tanti pittori alle prime armi facevano davvero la fame, per di più lontani dai loro affetti in una città inospitale. Nell’Archivio di Stato di Roma si conserva un documento del 1581 relativo a un processo in cui è chiamato a testimoniare un giovane “senza barba” originario di Cortona, tale Giovanni Gerolamo Zafferino, che di mestiere fa il pittore: dalla sua deposizione veniamo a sapere che questo artista, uno dei tantissimi che popolavano la Roma del tempo, si trovava a vivere con un baiocco di pane al giorno, a lavorare quando capitava, e a dover dipingere in una stanza che gli veniva messa a disposizione dalla donna presso la quale aveva affittato la sua povera dimora nella capitale dello Stato Pontificio. Queste storie aiutano a comprendere il perché del vivo risentimento di Federico Zuccari quando le sue opere venivano stroncate dai colleghi: evidentemente il pittore si ritrovava nelle vicende del fratello e di coloro che, giunti dalla provincia senza protezioni e guidati solo dal loro talento, avevano faticato per ottenere quel successo ch’era poi messo costantemente sotto minaccia, anche perché l’azione delle corporazioni che nel Quattrocento proteggevano gli artisti s’era notevolmente indebolita nel secolo successivo. Tornando alle vicende che condussero al processo del 1581, si può tuttavia affermare con sicurezza che, a quel tempo, Federico Zuccari fosse un pittore affermato. Nel novembre del 1578 era stato contattato da Paolo Ghiselli, bolognese, scalco di papa Gregorio XIII, ovvero suo dignitario, che intendeva affidargli l’incarico d’eseguire una pala destinata alla cappella di famiglia nella chiesa di Santa Maria del Baraccano a Bologna. Il quadro doveva però essere anche un omaggio al pontefice, ragion per cui Ghiselli aveva pensato di far raffigurare a Federico Zuccari l’episodio della Processione e visione di san Gregorio magno, omonimo di papa Ugo Boncompagni. Federico attese alla realizzazione del dipinto appena giunto a Roma, nell’autunno del 1579, e lo terminò nel dicembre dell’anno successivo, data a cui risale l’invio della pala a Bologna. L’artista aveva raffigurato la visione miracolosa di Gregorio magno (cui era apparso, sopra il mausoleo di Adriano, l’ar-









