N.3
ISSN 2612-6931
ANNO I
SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE 2 0 1 9
anno I N.3 | settembre ottobre novembre 2019
15 OTTOBRE 2019 – 19 GENNAIO 2020 // APERTO TUTTI GIORNI ASSICURATEVI IL VOSTRO BIGLIETTO A FASCIA ORARIA SU CARAVAGGIO-BERNINI.KHM.AT
Miquel Barceló | Gonçalo Mabunda | Caroline Achaintre | Canaletto e Francesco Guardi | Andrea Doria Pietro da Cortona a Palazzo Barberini | La Cappella del Doge di Genova | L’immagine del mare tra Otto e Novecento
Caravaggio & Bernini
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GRAND TOUR
LA CRITICA
OPERE E ARTISTI
Pietro da Cortona a Palazzo Barberini
Documentari d’arte
La Cappella del Doge di Genova
CONTEMPORARY LOUNGE
L’immagine del mare tra Otto e Novecento Canaletto e Francesco Guardi
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ATTUALITÀ
Il trittico Ringli
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Miquel Barceló Gonçalo Mabunda Caroline Achaintre
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RENDEZ-VOUS
Andrea Doria
REMBRANDT
e il Secolo d’oro
MILANO PALAZZO REALE 19 GIUGNO 6 OTTOBRE 2019
Una mostra di
INFO E PRENOTAZIONI 02.54914 / ticket24ore.it
Dante Gabriel Rossetti, Monna Vanna (dettaglio), 1866. Tate. Acquistato nel 1916 attraverso l’Art Fund con il sostegno di Sir Arthur Du Cross e di Sir Otto Beit © Tate, London 2019
palazzorealemilano.it mostrapreraffaelliti.it
Nel 2019 i musei olandesi celebrano Rembrandt a 350 anni dalla sua morte
per maggiori informazioni visita www.holland.com
Print/Small Sizes 15 - 999 mm in width
DIRETTORE RESPONSABILE
DIRETTORE EDITORIALE
ART DIRECTOR
HANNO COLLABORATO
Federico Giannini
Natascia Bascherini REDAZIONE
Ilaria Baratta (responsabile), Gabriele Giannini, Marina Umelesi IMPAGINAZIONE
Nicola Grossi
COORDINAMENTO EDITORIALE
Manuela Graziani DIGITAL UNIT
Simone Lazzaroni, Tommaso Vietina FOTOGRAFIA
Alessandro Pasquali
Daniele Rocca
Francesca Della Ventura, Claudia Farini, Chiara Guidi, Gabriele Langosco, Fabrizio Magani, Giacomo Montanari, Alessandro Romanini RINGRAZIAMENTI
Andrea Acampa, Stein-Inge Århus, Giovanna Bacci di Capaci, Roberta Barbaro, Serena Bertolucci, Irene Biolchini, Maria Bonmassar, Raffaella Cecconi, Edwige Cochois, Stefania Corsini, Anna Defrancesco, Alexis De Kermel, Sim Eldem, Nicoletta Esposito, Elisa Facchin, Igor Festari, Francesco Gattuso, Neeltje van Gool, Annick Lemarreck, Susanna Sara Mandice, Nadia Marchioni, Christian Mooney, Laura Montesanti, Marina Pieroni, Silvia Pichini, Stefano Roni, Ayako Sato, Silvana Scannicchio, Max Shackleton, Camilla Talfani, Luca Toracca, Vanda Trippi, Tina Volk
CONCESSIONARIA PUBBLICITARIA
Danae Project Srl finestre@danaeproject.com 0585 624705 EDITORE
Danae Project STAMPA
Industrie Grafiche Pacini Via A. Gherardesca, 56121 Ospedaletto (PI) REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE DI MASSA
aut. n. 5 del 12/06/2017
PHOTO CREDITS Cover Canaletto, Chiesa del Redentore (1746 circa; olio su tela, 47,4 x 77,3 cm; Collezione privata) La Cappella del Doge Foto di Alessandro Pasquali – Danae Project © Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Genova Arte degli anni 2010 Caterina Marcelli p. 43 - Ritratto di Lorenzo Balbi Giorgio Perottino p. 44 - Ritratto di Ilaria Bonacossa Muhsin Akgun p. 44 - Ritratto di Nicolas Bourriaud Ela Bialkowska p. 45 - Ritratto di Mario Cristiani Peter Cox p. 45 - Ritratto di Charles Esche Jacopo Salvi p. 47 - Ritratto di Gianfranco Maraniello Wolfgang Tillmans p. 47 - Ritratto di Hans-Ulrich Obrist Mick Andersson p. 48 - Ritratto di Gitte Ørskou Bengt Oberger p. 49 - Ritratto di Magnus af Petersens Gina Folly p. 50 - Ritratto di Adam Szymczyk Josephine van de Walle p. 51 - Ritratto di Axel Wieder Jean Dubuffet a Venezia © De Jonckheere, Genève p. 52 - Prunes et lilas AFI. © Archives Fondation Dubuffet - Paris p. 53 - Jean Dubuffet a Venezia p. 54 - Nuancements au sol p. 55 - Terre rouge p. 58 - Tasse de thé p. 59 - Village Fantasque p. 60 - Tour aux récits p. 63 - Mire G 189 (Boléro)
© Musée de Grenoble p. 62 - Mire G 137 (Kowloon)
© National Maritime Museum p. 110 - Ritratto di Andrea Doria
Canaletto e Guardi forever © Ashmolean Museum, Oxford p. 70 - Veduta del ponte di Rialto infaza l’erberia
Immagini del mare tra Otto e Novecento © Comune di Fauglia p. 118 - Alberi sul mare
Documentarî d’arte © Courtesy Sky p. 76 - Michelangelo infinito
© Comune di Genova p. 120 - Vegetazione a Riomaggiore p. 130 - Mareggiata
© Fondazione Centro Studi sull’arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti p. 79 - Immagine per un critofilm p. 79 - Carlo Ludovico Ragghianti durante le riprese
© Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Gallerie degli Uffizi p. 120 - La libecciata p. 122 - Tramonto sul mare p. 123 - Veduta di colline (Tramonto sul mare)
Miquel Barceló Xavier Forcioli p. 80 - Ritratto di Miquel Barceló
© Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze p. 124 - Bilance a Bocca d’Arno
Agustì Torres p. 82 - Cap de peix
© Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona p. 125 - Il golfo di Genova
Andrè Morin p. 85 - 7 peixos, pans i cap de Boc
Giacomino Gallarate - Centro di Documentazione dei Musei Civici Novaresi © Comune di Novara p. 126 - Baci di sole p. 128 - Ditirambo
Tutte le foto su gentile concessione dell’artista. Caroline Achaintre Claire Dorn p. 90 - Duo Infernal p. 94 - Beedeebee p. 94 - Envers
© Fondazione Progetto Marzotto p. 131 - Luglio
Dirk Pauwels p. 93 - Fantômas, be-part
Capolavori di corallo © Comune di Lucignano p. 134 - Albero di Lucignano
Tutte le foto: courtesy l’artista Gonçalo Mabunda Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia p. 96 e 98 - foto delle opere dell’artista alla Biennale di Venezia Nicola Gnesi. Courtesy l’artista p. 100 - Untitled (Mask) p. 101 - Untitled (Mask) p. 102 - Untitled p. 102 - Untitled (Throne) p. 102 - Untitled (Throne) Andrea Doria © Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Pinacoteca di Brera p. 104 - Ritratto di Andrea Doria come Nettuno
© Fondazione Cariplo p. 131 - Marina, veduta di Palermo
Berndt Borchardt. © Collectors Room Berlin p. 136 - Wunderkammer Olbricht Emilie Brouchon. © Château de Fontainebleau p. 137 - Epée aux coraux © Museo Regionale di Trapani “Agostino Pepoli” - Regione Sicilia p. 138 - Lampada pensile p. 138 - Crocifisso Kunstkammer Georg Laue, Munich. © Olbricht Collection p. 139 - Albero di corallo Foto Giliberti. © Gallerie Estensi p. 140 - Presepe
© Foto DR p. 56 - Site urbain
© Museums Victoria p. 106 - Medaglia di Andrea Doria
Il Trionfo della Divina Provvidenza © Gallerie Nazionali di Arte Antica – Biblioteca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell’arte/Enrico Fontolan
Sandra Pointet. © Fondation Gandur pour l’art, Genève p. 57 - Epoux en visite
© The Morgan Library & Museum p. 107 - Studî per la medaglia di Andrea Doria
Il trittico Ringli torna nella sua chiesa Tutte le foto del trittico: courtesy Galleria Salamon
David Heald. © Solomon R. Guggenheim Foundation, New York p. 58 - Escalier VII
Alessandro Pasquali - Danae Project p. 109 - Monumento ad Andrea Doria
Luca Toracca. © Parrocchia di San Pietro Apostolo, Avenza di Carrara p. 164 - Chiesa di San Pietro Apostolo, interno
4 • FINESTRE SULL’ARTE
René Magritte, L’impero della luce, 1953–54. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia © René Magritte, by SIAE 2019
EDITORIALE. Cara Lettrice, Caro Lettore, tra le prime immagini legate al mare che le letterature europee ci hanno consegnato, mi piace ricordare le cantigas di Martín Codax, un giullare gallego vissuto con tutta probabilità verso la metà del Duecento, di cui non sappiamo alcunché: ci rimangono soltanto i testi delle sue liriche, che s’inseriscono nella tradizione galiziano-portoghese delle cantigas de amigo, semplici e delicate canzoni d’amore, spesso con protagonista una voce femminile, e dotate di struttura ricorrente (di solito, le strofe sono legate a coppie, con la successiva che introduce una piccola variante rispetto alla precedente). Il mare è un elemento tipico delle cantigas de amigo, e in particolare di quelle di Martín Codax, dove assume un ruolo quasi preponderante. Nelle sue canzoni, Martín Codax ha declinato il tema del mare da diversi punti di vista: per esempio, abbiamo una lirica in cui una giovane invita tutte coloro che sanno amare a fare un bagno tra le onde, mentre ne abbiamo un’altra nella quale un’innamorata si trova a contemplare il mare di Vigo in attesa del ritorno del suo amato. Nelle poesie di Martín Codax figurano molti dei topoi legati al mare: il mare come luogo dove passare momenti in compagnia, il mare come confine del mondo conosciuto, il mare che accompagna una riflessione amara e malinconica o che esprime uno stato d’animo. Baudelaire, del resto, sosteneva che il mare è il nostro specchio: tra le sue onde noi contempliamo la nostra anima. Per questo numero di Finestre sull’Arte on paper abbiamo pensato proprio alle tante vesti che il mare può indossare. E lo abbiamo fatto uscire nel mese di settembre, nel corso della stagione che più esalta la sua dimensione contemplativa. La copertina è dedicata al Canaletto: il viaggio parte da Venezia, ovvero da una città che, seppur non direttamente bagnata dal mare, sul mare ha fondato la propria storia millenaria. La luce di Venezia, nel numero che ti accingi a leggere, viene dipinta dal Canaletto e da Francesco Guardi, i due massimi rappresentanti del vedutismo veneto del Settecento. Ma Venezia è anche la città dell’arte contemporanea: ci siamo dunque recati in laguna per visitare la mostra Jean Dubuffet e Venezia, che ricostruisce il rapporto che con la città ebbe uno dei massimi artisti del Novecento, Jean Dubuffet. E se in un numero dedicato al mare si parla di Venezia, è impossibile non riferirsi anche all’altra grande potenza navale della storia d’Italia: Genova. Abbiamo voluto raccontare il capoluogo ligure attraverso le immagini del potere costruito grazie al dominio sul mare: prima esaminando il mecenatismo dell’ammiraglio Andrea Doria, e 6 • FINESTRE SULL’ARTE
poi entrando in uno dei luoghi più straordinarî della città, la Cappella del Doge, per conoscere uno spaccato della storia di Genova attraverso i sontuosi affreschi qui eseguiti entro il 1655 da Giovanni Battista Carlone. Per contestualizzare quest’opera tanto significativa, il viaggio prosegue a Roma: entriamo in Palazzo Barberini per ammirare il Trionfo della Divina Provvidenza di Pietro da Cortona, grande capolavoro della decorazione barocca. Si scende ancora lungo la penisola e s’arriva al sud: con soste a Trapani e a Torre del Greco scopriremo le origini della lavorazione artistica del corallo, presenza immancabile in ogni Wunderkammer che si rispetti. Sulle acque del Mediterraneo incontriamo un grande artista contemporaneo, Miquel Barceló, originario dell’isola di Maiorca: nell’intervista che ci ha rilasciato, abbiamo approfondito il suo peculiare legame con il mare. Il mare è però anche luogo di drammi e tragedie, e viene solcato ogni giorno da chi vuole lasciarsi alle spalle le guerre, le persecuzioni, la miseria: in questo numero abbiamo compiuto il percorso inverso rispetto a quello dei migranti desiderosi di raggiungere l’Europa, e abbiamo fatto tappa in Africa, per conoscere come un artista di rilievo internazionale, Gonçalo Mabunda, racconti attraverso le sue opere la guerra civile che per tanti anni ha devastato il suo paese, il Mozambico. Echi africani sono quelli che poi si respirano nell’arte di Caroline Achaintre, capace di fondere primitivismo ed espressionismo per un risultato di sicuro interesse per chi si trova a osservare le sue opere. Il viaggio si conclude con un ritorno in Italia: il mare fu anche luogo d’ispirazione per gli artisti e teatro di ricerche e sperimentazioni come quelle che avrebbero cambiato la storia dell’arte italiana tra Otto e Novecento, e alle quali è dedicato un articolo che ne ripercorre le vicende proprio attraverso le immagini del mare. Infine, a completare questo numero, abbiamo un excursus sulla storia dei documentarî d’arte, un approfondimento su di una storia unica e incredibile, quella del Trittico Ringli, un’opera del 1438 che dopo oltre cinque secoli torna nella chiesa per la quale fu realizzato (quella di San Pietro Apostolo ad Avenza), e il dibattito che affronta il tema dell’arte negli anni 2010: diversi grandi specialisti (tra critici, curatori e direttori di musei) riflettono sui motivi per i quali ricorderemo, nella storia, l’arte del decennio che s’avvia alla conclusione. Ti auguro, come sempre, una buona lettura.◊ Federico Giannini Direttore responsabile
13 ottobre 2019
8 marzo 2020
Ligornetto Ticino
Giappone. L’arte nel quotidiano
Manufatti mingei dalla Collezione Montgomery
S o m m a r i o.
66
26 26
AGENDA.
GRAND TOUR
La Cappella del Doge
12
di Giacomo Montanari
42
ATTUALITÀ
Arte degli anni 2010
52
DENTRO LA MOSTRA
Jean Dubuffet a Venezia di Ilaria Baratta
66
di Fabrizio Magani
76 Documentarî
Wunderkammer.
112
Monete antiche Grecia e Magna Grecia
OPERE E ARTISTI
Canaletto e Guardi forever LA CRITICA
d’arte
di Alessandro Romanini
80 Miquel
CONTEMPORARY LOUNGE
Barceló
intervista di Federico Giannini
90 Caroline
CONTEMPORARY LOUNGE
Achaintre
8 • FINESTRE SULL’ARTE
testo di Chiara Guidi
ISAO SUGIYAMA
SANTUARIO No.430 | 2018 | Marble | 45 x 20 x 11cm
TOKYO | 7F, 8-10-5 Ginza, Chuo-ku, Tokyo, 104-0061 Japan BEIJING | 789 Art Zone E02, 4Jiu Xian, Qiao Rd., Chao Yang District, Beijing 100015, China
156 96
96 Gonçalo
CONTEMPORARY LOUNGE
Mabunda
di Francesca Della Ventura
104 Andrea
RENDEZ-VOUS
Art Gallery.
Doria
166
di Gabriele Langosco
118
OPERE E ARTISTI
Immagini del mare tra Otto e Novecento di Federico Giannini
134 Capolavori
WUNDERKAMMER
142
118 10 • FINESTRE SULL’ARTE
GRAND TOUR
Il Trionfo della Divina Provvidenza di Claudia Farini
156
di corallo
ATTUALITÀ
Il trittico Ringli torna nella sua chiesa di Ilaria Baratta
AGENDA. Svizzera
ARTE E ARTI
PITTURA, GRAFICA E FOTOGRAFIA NELL’OTTOCENTO 20 OTTOBRE 2019 | 2 FEBBRAIO 2020 RANCATE WWW4.TI.CH/ZUEST PINACOTECA ZÜST La mostra intende analizzare come l’avvento della fotografia a metà Ottocento abbia sconvolto la pittura e la scultura: sono stati molti gli artisti che ne hanno fatto un uso originale. Al fine di far comprendere la vera rivoluzione che scaturì dall’uso della fotografia, la rassegna propone un confronto significativo tra fotografie, dipinti, incisioni, disegni, libri.
RUDOLF STINGEL 26 MAGGIO 2019 | 6 OTTOBRE 2019 BASILEA WWW.FONDATIONBEYELER.CH FONDAZIONE BEYELER Prima grande rassegna dedicata a Rudolf Stingel in Europa, nonché la prima in Svizzera dopo quella tenutasi alla Kunsthalle di
SUBLIME
LUCE E PAESAGGIO INTORNO A GIOVANNI SEGANTINI 25 AGOSTO 2019 | 10 NOVEMBRE 2019 LUGANO WWW.MASILUGANO.CH MASI - MUSEO D’ARTE DELLA SVIZZERA ITALIANA Partendo da ciò che si può definire artisticamente “sublime”, è stato ideato un percorso espositivo che ha come filo conduttore la pittura di paesaggio, intesa come espressione del Sentimento di montagna in Svizzera e all’estero dal XVIII al XXI secolo. Fulcro della rassegna è il dialogo tra il Trittico della Natura di Giovanni Segantini e l’installazione video Die Magische Bergwelt in den Filmen von Daniel Schmid dello svizzero This Brunner.
12 • FINESTRE SULL’ARTE
Zurigo nel 1995. Sono esposte le serie più significative dell’artista, ripercorrendo gli ultimi tre decennî della sua produzione.
Lombardia
GUGGENHEIM
LA COLLEZIONE THANNHAUSER 17 OTTOBRE 2019 | 9 FEBBRAIO 2020 MILANO WWW.MOSTRAGUGGENHEIMMILANO.IT PALAZZO REALE Cinquanta capolavori di artisti impressionisti, post-impressionisti e delle avanguardie del primo Novecento arrivano dal Guggenheim di New York e fanno parte della collezione raccolta da Justin K. Thannhauser e poi donata, nel 1963, alla Solomon R. Guggenheim Foundation. Quella di Milano è la terza tappa di un tour che ha portato alcuni tra i più importanti capolavori della collezione Thannhauser per la prima volta in Europa.
“CON NUOVA E STRAVAGANTE MANIERA”
GIULIO ROMANO A MANTOVA 6 OTTOBRE 2019 | 6 GENNAIO 2020 MANTOVA WWW.MANTOVADUCALE. BENICULTURALI.IT PALAZZO DUCALE Una mostra che ripercorre, in maniera completa, tutta la carriera di Giulio Ro-
ORAZIO GENTILESCHI LA FUGA IN EGITTO E ALTRE STORIE
19 OTTOBRE 2019 | 2 FEBBRAIO 2020 CREMONA MUSEI.COMUNE.CREMONA.IT PINACOTECA CIVICA “ALA PONZONE”
mano, dagli esordî a Roma nel segno di Raffaello fino all’apoteosi mantovana: 72 disegni dal Louvre, dipinti, stampe, maioliche e ulteriori disegni provenienti da diversi musei italiani e internazionali. E ancora, gli ambienti e gli oggetti di Giulio Romano saranno ricostruiti attraverso tecnologie tridimensionali.
La mostra mette per la prima volta a confronto due versioni del Riposo durante la fuga in Egitto di Orazio Gentileschi, una in arrivo dal Kunsthistorisches Museum di Vienna e l’altra da collezione privata, assieme a una selezione di dipinti, sculture, avorî e incisioni sul tema della fuga in Egitto.
FINESTRE SULL’ARTE • 13
AGENDA. Lombardia
LIBERA
TRA WARHOL, VEDOVA E CHRISTO
PRERAFFAELLITI
AMORE E DESIDERIO 19 GIUGNO 2019 | 6 OTTOBRE 2019 MILANO WWW.MOSTRAPRERAFFAELLITI.COM
30 MAGGIO 2019 | 6 GENNAIO 2020 BERGAMO WWW.GAMEC.IT GAMEC La rassegna si propone come omaggio alla libertà creativa e all’emancipazione dai vincoli della tradizione, in quattro sezioni tematiche.
PALAZZO REALE In mostra circa ottanta opere realizzate da diciotto artisti preraffaelliti: tra queste, anche opere iconiche che difficilmente escono dal Regno Unito, come l’Ofelia di John Everett Millais, Amore d’aprile di Arthur Hughes, la Lady of Shalott di John William Waterhou-
MARIO RADICE IL PITTORE DEGLI ARCHITETTI
del movimento preraffaellita attraverso se-
13 GIUGNO 2019 | 24 NOVEMBRE 2019 COMO WWW.COMUNE.COMO.IT
zioni tematiche.
PINACOTECA CIVICA
se. Questi capolavori provenienti dalla Tate Britain racconteranno ai visitatori la poetica
La rassegna intende approfondire la conoscenza di un grande artista, Mario Radice, attraverso lo studio delle relazioni sinergiche con gli architetti di maggior rilievo dell’epoca, anche grazie a documenti inediti conservati presso gli Archivi della Pinacoteca di Como.
14 • FINESTRE SULL’ARTE
Piemonte
WO-MAN RAY
LE SEDUZIONI DELLA FOTOGRAFIA 17 OTTOBRE 2019 | 6 GENNAIO 2020 TORINO WWW.CAMERA.TO
I MONDI DI RICCARDO GUALINO
CAMERA - CENTRO ITALIANO PER LA FOTOGRAFIA
COLLEZIONISTA E IMPRENDITORE 7 GIUGNO 2019 | 3 NOVEMBRE 2019 TORINO WWW.MUSEIREALI.BENICULTURALI.IT
La mostra espone circa duecento fotografie realiz-
MUSEI REALI - SALE CHIABLESE
un unico soggetto, ovvero la donna, fonte d’ispirazio-
zate da Man Ray a partire dagli anni Venti fino alla scomparsa del maestro nel 1976, che raffigurano tutte ne per tutta la carriera del fotografo.
La mostra riunisce la collezione appartenuta all’imprenditore Riccardo Gualino, presentando un importante nucleo di opere conservate alla Galleria Sabauda di Torino e alla Banca d’Italia di Roma, insieme a dipinti, sculture, arredi e fotografie provenienti da musei e istituzioni torinesi e nazionali, raccolte private e archivi, primo fra i quali l’Archivio Centrale dello Stato.
FINESTRE SULL’ARTE • 15
AGENDA. Veneto
I FORTUNY
STORIA DI UNA FAMIGLIA 11 MAGGIO 2019 | 24 NOVEMBRE 2019 VENEZIA FORTUNY.VISITMUVE.IT PALAZZO FORTUNY La rassegna intende indagare due temi che Mariano Fortuny y Marsal e Mariano Fortuny y Madrazo, artisti rispettivamente padre e figlio, hanno in comune: la pratica della pittura, fortemente inserita nella tradizione europea degli antichi maestri, e la passione collezionistica intesa come occasione di studio e rielaborazione artistica.
PEGGY GUGGENHEIM L’ULTIMA DOGARESSA
21 SETTEMBRE 2019 | 27 GENNAIO 2020 VENEZIA WWW.GUGGENHEIM-VENICE.IT COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM La mostra celebra la vita veneziana di Peggy Guggenheim, rivelando come abbia continuato ad accrescere con importanti opere d’arte la propria collezione dopo la partenza da New York, la chiusura della galleria-museo “Art of This Century” (1942-47) e il trasferimento a Venezia nel 1948. La mostra presenterà dipinti, sculture e opere su carta selezionate tra quelle acquisite tra la fine degli anni quaranta e il 1979, anno della scomparsa della collezionista.
EMILIO ISGRÒ 14 SETTEMBRE 2019 | 24 NOVEMBRE 2019 VENEZIA WWW.CINI.IT ISOLA DI SAN GIORGIO MAGGIORE Un’importante antologica che si propone di compiere un’ampia ricognizione nel percorso creativo e estetico di Emilio Isgrò dagli anni Sessanta a oggi. Un’esposizione che si dipana dalle prime cancellature di libri, datate 1964, e continua con le poesie visuali su tele emulsionate e le Storie rosse, per arrivare agli imponenti e articolati testi cancellati nei volumi storici dell’Enciclopedia Treccani, 1970, fino a quelli etnici dei Codici ottomani, 2010.
16 • FINESTRE SULL’ARTE
Veneto
FRANCESCO MOROSINI
ULTIMO EROE DELLA SERENISSIMA TRA STORIA E MITO 28 GIUGNO 2019 | 6 GENNAIO 2020 VENEZIA CORRERE.VISITMUVE.IT MUSEO CORRER
In occasione dei quattrocento anni dalla nascita, la mostra celebra il doge e capitano generale da mar Francesco Morosini, che fu eroe e protagonista indiscusso delle vicende militari della Serenissima al suo tramonto, personaggio controverso e affascinante e grande collezionista.
GIAPPONISMO
VENTI D’ORIENTE NELL’ARTE EUROPEA 1860 - 1915 28 SETTEMBRE 2019 | 26 GENNAIO 2020 ROVIGO WWW.PALAZZOROVERELLA.COM PALAZZO ROVERELLA Il tema della mostra è la scoperta delle arti decorative giapponesi che, sul finire del XIX secolo, diede una notevole
VAN GOGH, MONET, DEGAS
THE MELLON COLLECTION OF THE FRENCH ART FROM THE VIRGINIA MUSEUM OF FINE ARTS 26 OTTOBRE 2019 | 1 MARZO 2020 PADOVA WWW.PALAZZOZABARELLA.IT
scossa all’intera arte europea. Si trattò di un potente vento di rinnovamento che dall’Oriente investiva modelli e consuetudini stratificate nei secoli, conducendo l’arte del Vecchio Continente verso nuove e più essenziali norme compositive fatte di sintesi e colori luminosi.
PALAZZO ZABARELLA La mostra porta a Padova le opere radunate da Paul Mellon e Rachel “Bunny” Lambert, tra i più raffinati mecenati del XX secolo. Vengono presentate settanta opere di artisti come Edgar Degas, Eugène Delacroix, Claude Monet, Pablo Picasso e Vincent van Gogh e altri.
FINESTRE SULL’ARTE • 17
AGENDA. Emilia Romagna / Liguria
DIPINGERE GLI AFFETTI
LA PITTURA SACRA A FERRARA TRA CINQUE E SETTECENTO 26 GENNAIO 2019 | 26 DICEMBRE 2019 FERRARA WWW.CASTELLOESTENSE.IT CASTELLO ESTENSE Le sale riccamente affrescate dell’ala sud e dei Camerini del Castello ospitano la quadreria di proprietà dell’ASP, Centro Servizi alla Persona di Ferrara, Masi Torello e Voghiera, depositata presso i Musei di Arte Antica. Si tratta di un vero e proprio capitale artistico, pressoché sconosciuto eppure di grande rilevanza storica, che l’esposizione al Castello mira a restituire al grande pubblico.
PICASSO
LA SFIDA DELLA CERAMICA 1 NOVEMBRE 2019 | 12 APRILE 2020 FAENZA WWW.MICFAENZA.ORG MIC - MUSEO INTERNAZIONALE DELLA CERAMICA
BERNARDO STROZZI
LA CONQUISTA DEL COLORE
La mostra analizza le fonti d’ispirazio-
11 OTTOBRE 2019 | 12 GENNAIO 2020 GENOVA WWW.PALAZZOLOMELLINO.ORG
presenti nelle collezioni del museo: la
PALAZZO NICOLOSIO LOMELLINO La rassegna intende mostrare al pubblico il meglio della produzione artistica di Strozzi e gli aspetti più affascinanti del suo singolare contributo alla storia della pittura genovese del Seicento, attraverso i dipinti per la devozione domestica, le pale d’altare, i ritratti e le nature morte. Le opere sono poste a confronto con il ciclo di affreschi di Strozzi riportato recentemente alla luce e unico esposto al pubblico in un contesto museale.
18 • FINESTRE SULL’ARTE
ne di Picasso, partendo dai manufatti ceramica classica con le figure nere e rosse, i buccheri etruschi, la ceramica popolare spagnola e italiana, il graffito italiano quattrocentesco, l’iconografia dell’area mediterranea (pesci, animali fantastici, gufi e uccelli) e le terrecotte delle culture preispaniche che saranno esposte in un inedito dialogo con le ceramiche di Picasso.
Toscana NATALIA GONCHAROVA UNA DONNA E LE AVANGUARDIE, TRA GAUGUIN, MATISSE E PICASSO
28 SETTEMBRE 2019 | 12 GENNAIO 2020 FIRENZE WWW.PALAZZOSTROZZI.ORG
La mostra ripercorre la vita controcorrente di Natalia Goncharova e la sua ricca e poliedrica produzione a confronto con capolavori di celebri artisti come Paul Gauguin, Henri Matisse, Pablo Picasso e Umberto Boccioni provenienti dalle collezioni dei più prestigiosi musei internazionali.
PALAZZO STROZZI
LA FIRENZE DI GIOVANNI E TELEMACO SIGNORINI 19 SETTEMBRE 2019 | 10 NOVEMBRE 2019 FIRENZE PALAZZO ANTINORI Palazzo Antinori, edificio storico nel cuore del capoluogo toscano, apre le sue porte al pubblico per permettere di ammirare per la
MUMMIE
VIAGGIO VERSO L’IMMORTALITÀ 16 LUGLIO 2019 | 2 FEBBRAIO 2020 FIRENZE WWW.POLOMUSEALETOSCANA. BENICULTURALI.IT
prima volta i saloni storici del piano nobile e le opere in mostra in questi ambienti. L’esposizione è stata ideata a seguito della scoperta del carteggio inedito tra Telemaco Signorini, il padre Giovanni e il fratello minore Paolo.
MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE Oltre cento oggetti esposti, appartenenti tutti alle collezioni della sezione “Museo Egizio” di Firenze, tornano oggi nella loro sede, dove il pubblico potrà ammirare i reperti che erano in gran parte conservati nei magazzini del museo. Le opere in mostra, selezionate e organizzate per illustrare sotto vari aspetti il rapporto degli antichi Egizi con l’aldilà, annoverano dei pezzi di grande importanza.
FUTURISMO 11 OTTOBRE 2019 | 9 FEBBRAIO 2020 PISA WWW.FUTURISMOPISA.IT PALAZZO BLU La rassegna presenta oltre cento opere realizzate da maestri del Futurismo, evidenziando per la prima come i più grandi fra questi artisti seppero rimanere fedeli alle riflessioni teoriche enunciate nei manifesti, traducendole in immagini dirompenti e innovative. Opere provenienti da sedi museali o da importanti collezioni private, che comprendono disegni, progetti e oggetti d’arte. FINESTRE SULL’ARTE • 19
AGENDA. Marche
RAFFAELLO
E GLI AMICI DI URBINO 3 OTTOBRE 2019 | 19 GENNAIO 2020 URBINO WWW. GALLERIANAZIONALEMARCHE.IT GALLERIA NAZIONALE DELLE MARCHE La rassegna indagherà e racconterà per la prima volta in modo compiuto il mondo delle relazioni di Raffaello con un gruppo di artisti operanti a Urbino che accompagnarono, sebbene in dialogo ma da posizioni diverse, la sua transizione verso la maniera moderna e i suoi sviluppi stilistici durante la stagione romana.
LA LUCE E I SILENZI
ORAZIO GENTILESCHI E LA PITTURA CARAVAGGESCA NELLE MARCHE DEL SEICENTO 2 AGOSTO 2019 | 8 DICEMBRE 2019 FABRIANO WWW.PINACOTECAFABRIANO.IT PINACOTECA CIVICA “BRUNO MOLAJOLI” La mostra riunisce i dipinti che Orazio Gentileschi realizzò nelle Marche. Le opere di Gentileschi sono poste a confronto con un gruppo di opere di grandi artisti del Seicento, tra cui un caravaggesco marchigiano,
DA RAFFAELLO
Giovanni Francesco Guerrieri, e altri grandi protagonisti del tempo come Guido Ca-
RAFFAELLINO DEL COLLE
gnacci, Simon Vouet, Valentin de Boulogne,
17 MAGGIO 2019 | 13 OTTOBRE 2019 URBINO WWW.MOSTRELEONARDORAFFAELLO.IT
Alessandro Turchi, Giovanni Baglione.
PALAZZO DUCALE - SALE DEL CASTELLARE Una mostra monografica dedicata a Raffaellino del Colle, uno dei più fedeli e intelligenti seguaci di Raffaello. La rassegna intende ripercorrere l’attività del maestro biturgense discepolo del “divin pittore” che, pur essendo stato largamente attivo nelle Marche, necessita ad oggi di una rivalutazione storica e di una maggiore divulgazione.
20 • FINESTRE SULL’ARTE
AGENDA. Umbria/Lazio
LA MADONNA COL BAMBINO ATTRIBUITA AL PINTURICCHIO
10 AGOSTO 2019 | 26 GENNAIO 2020 PERUGIA WWW.GALLERIANAZIONALEDELLUMBRIA.IT GALLERIA NAZIONALE DELL’UMBRIA In Galleria è esposta la Madonna col Bambino attribuita al Pinturicchio, opera su tavola che venne trafugata negli anni Novanta e che adesso ha fatto ritorno a Perugia. Il dipinto venne rubato a un collezionista perugino nel 1990 e dopo trent’anni è stato recuperato dal Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri.
MARIA LAI
TENENDO PER MANO IL SOLE 19 GIUGNO 2019 | 12 GENNAIO 2020 ROMA WWW.MAXXI.ART MAXXI La rassegna vuole essere un tributo a Maria Lai nel centenario della nascita: una grande artista che ha saputo creare, in anticipo sulle ultime ricerche di arte relazionale, un linguaggio capace di coniugare sensibilità, tradizioni locali e codici globali.
ETRUSCHI MAESTRI ARTIGIANI
NUOVE PROSPETTIVE DA TARQUINIA E CERVETERI 25 LUGLIO 2019 | 31 OTTOBRE 2019 TARQUINIA E CERVETERI WWW.ART-CITY.IT MUSEO NAZIONALE ARCHEOLOGICO DI TARQUINIA E MUSEO NAZIONALE CERITE Obiettivo della mostra è porre l’attenzione sull’eccezionale rilevanza dell’artigianato etrusco e sulla straordinaria perizia raggiunta dagli artigiani nel corso del primo millennio a.C. nelle due città di Cerveteri e Tarquinia.
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Lazio
BACON, FREUD, LA SCUOLA DI LONDRA OPERE DELLA TATE
26 SETTEMBRE 2019 | 23 FEBBRAIO 2020 ROMA WWW. CHIOSTRODELBRAMANTE.IT CHIOSTRO DEL BRAMANTE Per la prima volta in Italia viene dedicata una mostra a due grandi maestri della pittura: Francis Bacon e Lucian Freud. La rassegna presenterà attraverso questi artisti l’arte britannica dal 1945 al 2004. Oltre alle opere di Bacon e di Freud, saranno esposti dipinti di Michael Andrews, Frank Auerbach, Leon Kossoff e Paula Rego, provenienti dalla Tate di Londra.
LUIGI BOILLE
LUOGHI DI LUCE, SCRITTURA DEL SILENZIO 21 GIUGNO 2019 | 3 NOVEMBRE 2019 ROMA WWW.MUSEIVILLATORLONIA.IT
LUCA SIGNORELLI E ROMA
MUSEI DI VILLA TORLONIA
18 LUGLIO 2019 | 3 NOVEMBRE 2019 ROMA WWW.MUSEICAPITOLINI.ORG
La mostra, prima dedicata a Luigi Boil-
MUSEI CAPITOLINI
opere il percorso artistico del pittore
OBLIO E RISCOPERTE
le dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2015, racconta attraverso oltre ottanta dal 1958 al 2015.
Attraverso una selezione di circa sessanta opere di grande prestigio provenienti da collezioni italiane e straniere, molte delle quali per la prima volta esposte a Roma, l’esposizione intende mettere in risalto il contesto storico artistico in cui avvenne il primo soggiorno romano di Luca Signorelli e offrire nuove letture sul legame diretto e indiretto che si instaurò fra l’artista e Roma.
FINESTRE SULL’ARTE • 23
AGENDA. Campania
JOAN MIRÓ
IL LINGUAGGIO DEI SEGNI 25 SETTEMBRE 2019 | 23 FEBBRAIO 2020 NAPOLI WWW.COMUNE.NAPOLI.IT PAN - PALAZZO DELLE ARTI DI NAPOLI La mostra presenta al pubblico ottanta opere di Joan Miró, tra dipinti, disegni, sculture, collage e arazzi, provenienti dalla collezione di proprietà dello Stato portoghese in deposito alla Fondazione Serralves di Porto.
CANOVA
UN RESTAURO IN MOSTRA 6 MAGGIO 2019 | 30 SETTEMBRE 2019 NAPOLI WWW.MUSEOCAPODIMONTE. BENICULTURALI.IT MUSEO E REAL BOSCO DI CAPODIMONTE
NAPOLI NAPOLI DI LAVA, PORCELLANA E MUSICA 21 SETTEMBRE 2019 | 21 GENNAIO 2020 NAPOLI WWW.MUSEOCAPODIMONTE. BENICULTURALI.IT MUSEO E REAL BOSCO DI CAPODIMONTE Una mostra sulla musica che narra la storia di Napoli capitale del Regno nel corso del Settecento e oltre, ovvero dagli anni di Carlo di Borbone a quelli di Ferdinando II, con il susseguirsi di scene della vita quotidiana.
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L’intervento di analisi diagnostica e di restauro sul Ritratto di Letizia Ramolino Bonaparte, realizzato da Antonio Canova, è l’occasione di conoscenza della genesi del calco e delle sue caratteristiche, anche in relazione alle repliche realizzate. Nel corso dell’intervento ci saranno continue opportunità di confronto con le due repliche originali raffiguranti Letizia Ramolino eseguite sotto il diretto controllo di Canova, conservate presso l’Accademia di Carrara e il Museo Canova di Possagno.
ANDREA MARTINELLI
STORIE DI UOMINI E OM B R E OPERE
1999
|
2019
a cura di Massimo Bertozzi e Antonio Natali
PALAZZO CUCCHIARI
Carrara | 6 sett - 24 nov 2019
W W W. M A R T I N E L L I C A R R A R A . I T
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PALAZZO CUCCHIARI Via Cucchiari, 1 - Carrara (MS) T. + 39 0585 72 355 | info@palazzocucchiari.it | fb: palazzocucchiari
26 • FINESTRE SULL’ARTE
| GRAND TOUR
| GENOVA
La Cappella del Doge testo di Giacomo Montanari
Ambiente più prezioso del Palazzo Ducale di Genova, la Cappella del Doge (o Cappella Dogale) accoglie i magnifici affreschi realizzati entro il 1655 da Giovanni Battista Carlone (Genova, 1603 - Parodi Ligure, 1684): il centro ideologico del potere cittadino veniva così arricchito di coinvolgenti dipinti che narravano alcuni dei più significativi episodî della storia della città.
Cappella del Doge La Cappella del Doge di Palazzo Ducale (Genova) con gli affreschi di Giovanni Battista Carlone (1655). Veduta verso la parete di fondo. FINESTRE SULL’ARTE • 27
I
ncastonata negli spazî monumentali del Palazzo Ducale di Genova, rinnovati negli anni Settanta del Settecento in chiave ormai neoclassica, si trova una delle cappelle secentesche più significative e meglio conservate di tutta l’antica Repubblica. O meglio, forse si dovrebbe dire che (proprio a causa dell’iconografia e delle scelte politiche qui esplicitate per immagini) più che alla cappella del Doge della Repubblica, ci si trova dinanzi alla Cappella della Regina di Genova. Così, infatti, la indicano i documenti d’archivio che raccontano la ricchissima decorazione “per la fabbrica et ornamento della Cappella Reale” da collocarsi (nella sua fase ancora oggi visibile integralmente) tra gli anni 1653 e 1657. In realtà, nel palazzo del Doge (o semplicemente Päxo, in lingua genovese) uno spazio adibito a cappella sive
Guglielmo Embriaco porta a Genova le ceneri del Battista FOTO SOTTO :
La parete di sinistra con la scena
raffigurante Guglielmo Embriaco che porta a Genova le ceneri del Battista
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ecclesia palacii è documentato sin dal 1367, con significative riprogettazioni culminanti in una ristrutturazione architettonica (circa 1580) e, infine, nel trionfo decorativo degli anni Cinquanta del Seicento. La decorazione seicentesca, però, assomma al suo interno non solo una valenza artistica, ma anche (soprattutto) una forte programmatica politica e culturale. Data al 1637, infatti, l’originale soluzione adottata dalla Repubblica di Genova di trasformare il proprio ordinamento politico in una monarchia, salvo poi intestare a Maria Vergine la corona e, dunque, non dover rendere conto del proprio operato a nessun monarca mortale, che non fosse il solito Doge biennale il cui potere era in realtà ben meno significativo nei fatti di quanto non apparisse in potenza. Concretamente però, l’escamotage doveva permettere alla piccola Repubblica (che aveva tenuto e in parte ancora teneva tra le mani gran parte della finanza Europea e non solo) di passare da pari alle altre teste coronate nel cerimoniale internazionale, senza subire quelle marginalizzazioni che, a partire dalle prime quiebras del 1607 e del 1627, si facevano sempre più frequenti soprattutto da parte dei Reali di
Madonna Regina di Genova FOTO A SINISTRA:
Francesco Maria Schiaffino, Madonna Regina di Genova (1729; marmo; Genova, Palazzo Ducale, Cappella del Doge)
Spagna, stizziti per i monumentali guadagni dei genovesi costituiti dagli enormi interessi lucrati sui prestiti concessi alla Corona. Data a pochi anni da questa decisione clamorosa, infatti, un’importante missione diplomatica alla corte spagnola condotta da Anton Giulio Brignole Sale, con lo scopo dichiarato di convincere Felipe IV a riconoscere ufficialmente Genova come una monarchia: l’aristocratico genovese, però, non solo non ebbe il successo sperato dal Senato della Repubblica (un successo su cui lui stesso,
che potesse indicare il nuovo ruolo ricoperto da Maria nei confronti di tutti i genovesi. La Madonna Regina di Genova, che regge lo scettro e il Bimbo con in mano il cartiglio Et rege eos a indicarne il mandato di governo nei confronti della città, divenne immediatamente un’iconografia di propaganda da trasmettere urbi et orbi: Domenico Fiasella ne creò il prototipo e dipinti che ne raffiguravano l’effige sovrastante la città stessa cinta dalle poderose Mura Nuove terminate proprio nel 1635 vennero inviate alle comunità
La Cappella del Doge di Palazzo Ducale è una delle più importanti cappelle secentesche di tutta l’antica Repubblica di Genova. a quanto dicono le carte autografe, nutriva sin dall’inizio serî dubbî), ma in tre anni di permanenza a corte (1640-1643) riuscì a vedere solo due volte Sua Maestà. E in entrambe non gli fu concesso d’entrare in argomento. Tuttavia, la grande “macchina” politica era stata messa in moto e per comunicare una tale epocale decisione era assolutamente necessario costituire de facto un’immagine nuova
genovesi in tutta Italia, da Napoli, a Palermo, a Messina, a Roma, mentre tutte le rinnovate porte cittadine vennero dotate di immagini scultoree della Regina della Città. Addirittura, l’altar maggiore della Cattedrale di San Lorenzo ricevette una strepitosa fusione in bronzo (attribuita a Giovan Battista Bianco, ma molto probabilmente eseguita dal fiorentino Francesco Fanelli) della Madonna Regina, ai cui piedi si stende FINESTRE SULL’ARTE • 29
Il soffitto Il soffitto della Cappella del Doge. FINESTRE SULL’ARTE • 31
La decorazione della cappella assume anche un ruolo politico e culturale, che celebra la Madonna “Regina di Genova”, formalmente sovrana della città dopo che la Repubblica aveva pensato di intestarle la corona di un’originale monarchia in modo da non essere marginalizzata nelle relazioni internazionali. una minuziosa raffigurazione della Superba, in cui spicca, come detto, la ciclopica cinta muraria (all’interno della quale, ancora ai nostri giorni, la città è contenuta pressoché integralmente). Poteva, dunque, il centro ideologico del potere cittadino rimanere senza una precisa connotazione relativa a questo significativa nuova relazione tra la grandiosa storia della Città e la Madonna? Certamente no, per cui a mettere
mano a questa nuova istanza decorativa venne chiamato quello che, alla metà del secolo, era il titolare della principale ditta artistica della città: Giovanni Battista Carlone. Lui e il fratello Giovanni avevano infatti decorato le intere navate della basilica dell’Annunziata del Vastato, il palazzo di Giacomo Lomellini (il Doge che respinse, contro ogni pronostico, l’assalto del duca di Savoia Carlo Emanuele I alla Repubblica tra il 1625 e il 1627) e la chiesa di Sant’Antonio Abate a Milano, dove Giovanni era morto, anzitempo, nel 1631. Giovanni Battista aveva poi proseguito con mirabolanti imprese ad affresco in decine di altri siti urbani ed extraurbani, sviluppando di fatto i prodromi della stagione del trionfale barocco ligustico, per arrivare ai clamorosi episodî della Galleria di Enea nel palazzo Ayrolo Negrone in piazza Fontane Marose (circa 1650) e della chiesa di San Siro (circa 1651-1656). Tra queste due ultime, ciclopiche, imprese ad affresco si colloca la decorazione della Cappella del Doge, in via di conclusione già entro il 1655, dal momento che il letterato e politico Luca Assarino così ne tratta nella dedica indirizzata a Gio-
La consegna delle ceneri del Battista FOTO A SINISTRA:
Guglielmo Embriaco consegna le ceneri del Battista al vescovo di Genova
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La Presa di Gerusalemme FOTO SOPRA :
dettaglio della parete di destra,
raffigurante La Presa di Gerusalemme
vanni Battista Carlone del quarto libro dei suoi Giuochi di Fortuna, pubblicati a Venezia proprio in quell’anno: «Ma più d’ogne cosa fa oggigiorno testimonianza delle prerogative della vostra mano la real cappella di questo Serenissimo Senato, che attualmente state ora dipingendo, le figure della quale (senza iperbole) non so che di vita e moto, fanno restare immobili per lo stupore le pupille che arrivano ad affissarvisi». E davvero l’impresa pittorica del Carlone è ancora oggi clamorosamente coinvolgente: entrati da una delle due ridotte porte situate sulla parete di fondo si viene accolti da uno spazio avvolto da una decorazione totalizzante. Di fronte si staglia il grande altare progettato e realizzato da Giulio De Ferrari secondo il contratto rogato nel 1653, che ospita la più tarda Madonna Regina di Genova, scolpita da Francesco Maria Schiaffino nel 1729, mentre gli elementi decorativi, le cartouche, le sculture e le erme realizzate in marmo e stucco nella struttura d’altare sono puntualmente evocate anche nella pittura, denuncian-
do una evidente relazione progettuale tra le due imprese coeve e, con grande probabilità, la leadership del Carlone in questa operazione, vista anche la notevole esperienza ch’egli doveva aver ereditato in campo scultoreo e architettonico dal padre Taddeo, uno dei principali interpreti della tarda maniera in ambiente ligustico e vero “capostipite” della linea familiare che, da Rovio in val d’Intelvi, si era definitivamente stabilita a Genova. Di grande impatto sono le monumentali e opulente colonne in marmo rosso di Francia, sapientemente reiterate nella finzione dei trompe l’oeil del Carlone anche sui lati della cappella, a inquadrare le scene raffigurate al di là di illusorie logge che dilatano lo spazio della rappresentazione. Sempre tenendo di fronte l’altare, sulla destra, attraversato l’illusorio loggiato che prolunga la ricca decorazione pavimentale di marmi policromi ad intarsio, lo spettatore è catapultato, in prima linea, nell’assedio di Gerusalemme vittoriosamente condotto per Goffredo di Buglione dal genovese Guglielmo Embriaco nel 1099, che risolse la difficile situazione dell’esercito occidentale durante la prima crociata facendo smontare le navi della flotta per costruire le torri semoventi che permisero di prendere le mura della Città Santa. FINESTRE SULL’ARTE • 33
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La Madonna Regina di Genova FOTO A SINISTRA:
Dettaglio della Madonna Regina di Genova nel soffitto della Cappella.
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Cartouche SOPRA, IN SENSO ORARIO:
Papa Innocenzo II concede
la dignità arcivescovile alla città di Genova (1133); Consacrazione della Cattedrale di San Lorenzo (1118); Donazione del Volto Santo di Edessa da parte di Giovanni V Paleologo al doge Leonardo Montalto (1362); Donazione alla città di Genova di un frammento della Vera Croce da parte della famiglia De Fornari (1202)
L’azzardo d’Embriaco valse ai genovesi privilegi e riconoscimenti, sia in Terra Santa, sia in patria, e Guglielmo diventò una sorta di allegoria del valore della città stessa, egualmente capace di grande audacia guerriera, così come di calcolata considerazione dei rischi. Sulla parete di fronte, al di là di uno spazio illusorio in tutto e per tutto analogo, il loggiato s’apre invece su un pontile, a cui due nerboruti schiavi stanno facendo accostare una ricca scialuppa che porta un sempre riconoscibile Guglielmo Embriaco 36 • FINESTRE SULL’ARTE
dinanzi all’arcivescovo di Genova. Il condottiero tende all’alto prelato una cassetta che contiene null’altro che le ceneri di San Giovanni Battista, che secondo alcune fonti proverrebbero dalla spedizione a Myra (in Licia) del 1097-1098, ma che sono qui assommate, probabilmente a causa di una sovrapposizione letteraria successiva, alla presa di Cesarea del 1101 in cui l’Embriaco stesso s’impadronì anche del Sacro Catino. Sulla terza parete, quella dalla quale le porte immettono nella cappella, si trova invece un grande “quadro riportato”, circondato da una illusoria e spessa cornice dorata: al centro, un Cristoforo Colombo vestito alla moderna, gli occhi rivolti significativamente al cielo, pianta una grande croce sul suolo appena raggiunto dell’isola di San Salvador, nelle Indie Occidentali. Gli elementi fondanti della relazione dell’ardire dei genovesi con la sfera del divino sono sostanzialmente tutti evocati, ma s’aggiungono, ai lati dell’altare stesso, sotto la reale loggetta creata dalle colonne corinzie, a destra il massacro dei Giustiniani di Chio per mano dei Turchi Otto-
Sono tuttora visibili, sulle pareti, le incisioni lasciate sull’intonaco per delinare i contorni delle figure nelle fasi realizzative: peculiarità tipica della bottega di Giovanni Battista Carlone, che verrà praticata anche da suo figlio.
mani (1566) e a sinistra la creazione dell’Ordine tridentino dei Chierici Regolari Minori da parte del padre genovese Giovanni Agostino Adorno (1588). Ai lati delle scene descritte si trovano grandi finte sculture in bronzo dei primi evangelizzatori della Liguria, come Nazario e Celso o lo stesso san Barnaba, al di sopra dei quali, in quattro cartouche, sono effigiati altrettanti episodi fondanti per la chiesa genovese, come la Consacrazione della Cattedrale di San Lorenzo (1118), il momento in cui Papa Innocenzo II concede la dignità arcivescovile alla città di Genova (1133), la Donazione da parte della famiglia De Fornari (1202) e la Donaalla città di Genova di un frammento della Vera Croce zione del Volto Santo di Edessa da parte di Giovanni V Paleologo al Doge Leonardo Montalto, avvenuta nel 1362. L’architettura illusoria riconnette, poi, i Cristoforo Colombo finti loggiati a una complessa teoria di cariatidi FOTO SOTTO: La parete con la scena raffigurante che ospitano, assisi su tronetti, vescovi e illustri Cristoforo Colombo che pianta la croce sulla personalità del clero ligustico, a cui sovrintendono, con la sola esclusione del lato occupato spiaggia di San Salvador.
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I probabili ritratti dei Carlone FOTO IN ALTO:
Dettaglio della scena dell’arrivo delle ceneri
del Battista a Genova con i probabili ritratti di Giovanni Battista e Giovanni Carlone.
Giovanni Carlone FOTO IN BASSO A SINISTRA:
Probabile ritratto di
Giovanni Carlone.
Giovanni Battista Carlone FOTO IN BASSO A DESTRA:
Battista Carlone 38 • FINESTRE SULL’ARTE
Probabile ritratto di Giovanni
dall’altare, tre illustri monache genovesi: santa Caterina Fieschi Adorno, la venerabile Battista Vernazza e la beata Maria Vittoria De Fornari Strata. Sono poi alcuni meravigliosi gruppi di cantori e musici angelici, affacciati e seduti in aeree loggette decorate da illusorie volte affrescate con storie dell’Antico Testamento legate a Mosè e ad Abramo, a condurre al grande spazio centrale della volta, dove siede Maria su un trono di nubi, attorniata dai quattro santi protettori della città di Genova: san Giorgio, san Lorenzo, san Bernardo di Chiaravalle e san Giovanni Battista. Il Carlone rinuncia nella volta a qualsi-
asi tipo di illusionismo prospettico e presenta la scena come un grande quadro riportato, con le figure fedelmente devote allo spazio loro dedicato dall’artista all’interno dell’architettura ficta. Senza dubbio l’esigenza di una forte chiarezza espositiva nella gestione dello spazio narrativo della cappella, che ha l’arduo compito comunicativo di legare insieme episodî legati alla gloria civica ed elementi relativi all’ambito devozionale, spinse l’artista (sotto la guida di una committenza con le idee ben chiare in testa) a corredare ogni scena e ogni figura di una apposita didascalia per permetterne agevolmente l’identificazione, così come gran parte delle scelte iconografiche per la raffigurazione dei santi presenti sono tratte con evidente chiarezza da testi di una certa fama pubblicati all’epoca in area genovese. Questo bisogno di chiarezza risalta anche nell’ortodossia iconografica delle raffigurazioni, che arrivano a irrigidirsi in una paratassi piuttosto ingessata in particolare pro-
di continuità anche dal figlio di Giovanni Battista, Giovanni Andrea, che sarà attivo in cantieri di sensazionale importanza come la Chiesa del Gesù di Roma e la Sala Verde di Palazzo Altieri, a fianco di personalità come Carlo Maratta e Giovanni Battista Gaulli. Per la verità, le incisioni appaiono assai più insistite e frequenti, tanto da far pensare a una esecuzione affidata ai lavoranti (seppure senza dubbio strettamente controllata dal Carlone in persona) nei riquadri della Presa di Gerusalemme e in quello di Colombo pianta la croce sulla spiaggia di San Salvador, men-
Incisioni FOTO SOTTO:
dettaglio delle incisioni.
Nel riquadro al centro della volta, Carlone rinuncia all’illusionismo prospettico e presenta la scena come un grande quadro riportato. prio nella volta, mentre la freschezza narrativa e cromatica tipica del Carlone trionfa negli episodi laterali e, in particolare, nei cori angelici, che poi altro non sono che una squisita allegoria di un coro reale, che doveva prendere posto, alla stessa altezza di quelli dipinti, nella tribuna della parete di fondo. Una funzione di recente recuperata all’uso, grazie alla direttrice di Palazzo Ducale Serena Bertolucci, che ha voluto tributare alla Cappella il giusto interesse e le doverose attenzioni, compreso il prezioso restauro che ha interessato l’altare e la scultura della Madonna Regina di Francesco Maria Schiaffino. Evidenti sono comunque le tracce esecutive lasciate dalla ditta del Carlone, ben leggibili nei frequentissimi riporti da cartone con incisioni sull’intonaco a delineare i contorni delle figure: una peculiarità che sarà praticata senza soluzione FINESTRE SULL’ARTE • 39
tre sono più radi nella parete di sinistra, raffigurante Guglielmo Embriaco porta a Genova le ceneri del Battista. Di più, in quest’ultima scena (laddove le figure sembrano tracciate senza l’ausilio della traccia del cartone) le pennellate, pur trattandosi d’una esecuzione ad affresco, si fanno vibranti e cariche di materia pittorica, tanto da risultare ancora oggi rilevate e materiche, quasi che si trattasse di un dipinto ad olio. Ed è qui
che mi pare di poter scorgere (ancora non intesi da alcuno) due meravigliosi ed eloquenti ritratti dei fratelli Carlone, che ben corrispondono con le incisioni lasciateci a loro memoria nei volumi realizzati da Raffaele Soprani e poi aggiornati da Carlo Giuseppe Ratti: Giovanni, morto ormai quasi venticinque anni prima, guarda malinconico lo spettatore con il volto magro ornato di baffi e pizzetto, vestito da chierico e reggen-
Giovanni Battista Carlone
Giovanni Carlone
FOTO SOPRA:
FOTO SOPRA:
Il ritratto inciso di Giovanni Battista Carlone
nelle Vite di Soprani e Ratti.
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Il ritratto inciso di Giovanni Carlone nelle Vite
di Soprani e Ratti.
do in mano un cero, quasi a segnalarne la già avvenuta scomparsa; Giovanni Battista invece, all’apice della sua fortunata carriera che non si concluderà se non nel 1684, dal volto florido e dai capelli fluenti, è vestito quasi in abito da lavoro e distoglie lo sguardo, come è proprio del vivente, ancora incapace di “guardare dal quadro” verso il presente. Sebbene si debba sempre procedere con molta cautela nell’individuazione di eventuali autoritratti d’artista, vista l’enorme valenza politico-religiosa dell’opera e il prestigio che essa dovette conferire al pittore, sembra più che logico che Giovanni Battista abbia voluto lasciare una firma, a nome suo e dello scomparso fratello, nel luogo e nell’opera che egli considerava come vertice del proprio percorso artistico e professionale. I due, peraltro, “abitano” una porzione d’affresco che si trova separata dalla scena principale da una delle colonne a trompe l’oeil, mantenendo, dunque, una loro collocazione a metà tra lo spazio della raffigurazione e quello reale. Quasi a dimostrare, se ve ne fosse stato ancora bisogno, che la barriera di una già immaginata virtualità dello spazio poteva facilmente essere infranta dall’arte pittorica. A dir la verità, una traccia ulteriore in tal senso il Carlo-
ne l’ha lasciata nella Cappella del Doge: a ben guardare, almeno quattro puttini a monocromo, dipinti a fingere altrettante sculture omologhe a quelle realizzate in marmo sugli acroteri dell’altare, hanno reali gambe modellate in stucco, che fuoriescono decisamente dalla parete andando a dare corpo all’illusione pittorica. Ad oggi, se si vuole escludere l’episodico tentativo di Lazzaro Tavarone con l’arco dell’Indio nell’affresco colombiano di palazzo Belimbau (1610), questo è sicuramente il primo tentativo riscontrabile a Genova di mettere insieme la plasticazione e la rappresentazione illusoria: una première che giunge a dieci anni dall’exploit romano della Cappella Cornaro, dove la regia di Gianlorenzo Bernini coordina le ricerche innovative di Guidobaldo Abbatini nella volta che sovrasta il gruppo scultoreo dell’Estasi di santa Teresa. Una conferma della ricezione per nulla tardiva degli stilemi romani anche in un centro che, come Genova, stava tornando a svolgere ruoli più periferici, ma che non per questo era divenuto incapace di raccogliere le cifre innovative suggerite dai più aggiornati linguaggi che il mondo delle arti proponeva nelle “piazze” di maggior grido. ◊
Bibliografia Maurizio Romanengo (a cura di), La terra dei Carlone. Arte barocca tra Genova e l’Oltregiogo (catalogo della mostra, Parodi Ligure, Abbazia di San Remigio, dal 29 giugno al 1° settembre 2019), Genova, Sagep, 2019. Piero Boccardo, ‘The Wealthiest and most learned gentleman of Republic’: the embassy of Anton Giulio Brignole-Sale in Madrid (1644-46), in Jorge Fernández-Santos OrtizIribas, José Luis Colomer (a cura di), Ambassadors in Golden Age, Madrid, 2019 (in corso di stampa). Valentina Borniotto, L’identità di Genova. Immagini di glorificazione civica in età moderna, Genova, Genova University Press, 2016.
Anna Dagnino, “Per la fabbrica et ornamento della Cappella Reale”: storie di architettura e di arredo tra medioevo ed età moderna, in Piero Boccardo, Clario Di Fabio (a cura di), El siglo de los Genoveses (catalogo della mostra, Genova, Palazzo Ducale, dal 4 dicembre 1999 al 4 luglio 2000), Milano, Electa, 1999, pp. 270-277. Clario Di Fabio, La regina della Repubblica e la “Madonna della Città”, in Piero Boccardo, Clario Di Fabio (a cura di), El siglo de los Genoveses (catalogo della mostra, Genova, Palazzo Ducale, dal 4 dicembre 1999 al 4 luglio 2000), Milano, Electa, 1999, pp. 258-261.
www.palazzoducale.genova.it
FINESTRE SULL’ARTE • 41
| ATTUALITÀ
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Arte degli anni 2010
È
un’impresa ardua valutare con il dovuto distacco l’arte degli anni che si stanno vivendo, cercando di capire quali siano le opere che rimarranno e con le quali si scriverà la storia dell’arte. Non solo: si pensi anche a quanto è difficile fissare un termine per far cominciare quella che noi individuiamo come “arte contemporanea”, dal momento che, giusto per fare un esempio, sono ancora in piena attività artisti ormai storicizzati e già presenti sui manuali di storia dell’arte. Enrico Crispolti, nell’introduzione alla sua raccolta di lezioni Come studiare l’arte contemporanea, ha scritto che la principale differenza tra lo studio dell’arte antica e lo studio dell’arte contemporanea consiste soprattutto nel «necessario riconoscimento che una considerazione dell’arte del nostro tempo non può certamente prescindere dall’attenzione anche al suo divenire attuale. E dunque da un esercizio propriamente critico, che risulta infatti sostanzialmente complementare a quello storiografico». L’esercizio critico è fondamentale per lo studio dell’arte contemporanea, secondo Crispolti, in quanto basilare, in primo luogo, per rispondere alla natura complessa delle interrelazioni tra i fatti del presente, e delle relazioni di quest’ultimo con le vicende del passato, e in secondo luogo per partecipare in maniera critica a ciò che accade oggi. E
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l’esercizio storiografico è naturalmente importante al fine di misurare lo spessore del contemporaneo (pur con tutte le differenze che si applicano nella valutazione dell’arte contemporanea rispetto a quella del passato), individuando la «capacità di modificazione dell’esistente» che misura la portata della forza di un artista. Una posizione che s’inserisce nell’annoso dibattito attorno alla questione “storia e critica”, e che in certa misura riecheggia le parole di Giulio Carlo Argan, quando questi sottolineava che «non si fa storia senza critica, e il giudizio critico non accerta la qualità artistica di un’opera se non in quanto riconosce ch’essa si situa, mediante un insieme di relazioni, in una determinata situazione storica e, in definitiva, nel contesto della storia dell’arte in generale». Stabilire quali possano essere le opere e le esperienze che saranno ricordate in futuro è un’attività che richiede di valutare i lavori degli artisti in ottica comparativa e in prospettiva storica. Diversi critici concordano sul fatto che la novità è un fattore che determina in maniera sostanziale il passaggio di un artista contemporaneo alla storia dell’arte, ma in questo processo intervengono anche altre concause: il ruolo del mercato, dei collezionisti, delle accademie, delle gallerie, dei musei, delle istituzioni, e la capacità, da parte di un artista, di mantenersi longevo, di lasciare il segno, di far progredire un
tema di discussione. Ma si tratta di un discorso molto complesso, anche perché la storia dell’arte non è stata scritta soltanto dai grandi artisti capaci di spostare più avanti la discussione, ma anche da coloro che, per esempio, hanno diffuso il loro linguaggio. Alla fine del 2019, si sta per concludere un decennio in cui si sono affermate certe tendenze, sono emersi certi artisti, sono proseguite alcune ricerche, e durante il quale l’arte ha inevitabilmente conosciuto cambiamenti: e poiché siamo ormai abituati a suddividere per decadi l’arte dal Novecento in poi, ab-
LORENZO BALBI DIRETTORE ARTISTICO, MAMBO BOLOGNA; RESPONSABILE AREA ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA; BOLOGNA MUSEI
Gli anni 2010 si sono aperti con gli strascichi della crisi economica più grave della storia recente resi pubblici dal movimento Occupy Wall Street. Politicamente il decennio è caratterizzato da due fasi: la prima liberal e aperta sull’onda della rielezione di Obama (2012-2017) e della primavera araba, la seconda populista e nazionalista scatenata da Erdogan in Turchia e continuata con la crisi venezuelana, la Brexit, l’elezione di Trump e l’Italia gialloverde di Cinque Stelle e Lega Nord. L’evoluzione planetaria dei social network ha portato a una ridefinizione della percezione dello spazio privato e dello stesso corpo umano dotato ora di appendici tecnologiche fisse (il 27 gennaio 2010 l’iPad è il gadget tecnologico più venduto nella storia). Wiki-
biamo voluto domandarci quali saranno i temi per cui ricorderemo gli anni 2010 nella storia dell’arte, quali sono state le esperienze più caratterizzanti di questo decennio, quali sono le figure che gli anni 2010 hanno consegnato alla storia. Consapevoli che il compito è tutt’altro che semplice, abbiamo comunque voluto provarci: per questo abbiamo chiesto un bilancio di questi anni a critici, curatori e direttori di musei di lunga esperienza e di caratura internazionale..
leaks (2010), prima crisi internazionale online, apre il decennio e il fenomeno MeToo (2017) dimostra come la diffusione dei nuovi network sia efficace in un settore dove nascono nuove professionalità come youtubers (il 15 giugno 2012 il video della canzone Gangnam Style del cantante sudcoreano PSY è il primo video con più di un miliardo di visualizzazioni su YouTube) e i fuoriusciti dai talent show. La lingua globale si sposta dall’inglese al cinese e la nuova era dell’Antropocene apre alla peggiore crisi ecologica della storia dell’umanità con il decennio che si conclude con i ghiacci dei poli in scioglimento e l’Amazzonia in fiamme. Gli artisti già attivi prima del 2010 si muovono in questa nuova realtà con un approccio archeologico, puntando la loro attenzione su archivî e memoria del passato mentre la nuova generazione sviluppa questa tendenza con l’uso delle nuove tecnologie a disposizione; i nativi digitali si confrontano con le nuove superfici video-luminose e le nuove modalità di fruizione dei contenuti (il decennio si apre con Avatar, 31 gennaio 2010, di James Cameron, primo film distribuito in 3d nei cinema e si sviluppa con Netflix, 2015, e la proliferazione delle serie tv). La globalizzazione ha portato all’offerta più estesa della storia e la rete all’avvicinamento di mondi che per la loro distanza erano prima irraggiungibili, ma questo ha portato anche ad una progressiva omologazione che colpisce anche il mondo dell’arte con effetti evidenti nei grandi eventi espositivi. Gli artisti si muovono in una situazione paradossale in cui sono gli unici possibili artefici della sovversione del sistema in cui FINESTRE SULL’ARTE • 43
si candidano ad essere accolti. La curatela è ora parte integrante del processo produttivo e la definizione del rapporto artista-curatore (o la loro omologazione) si candida ad essere la vera sfida per il futuro. Gli spazî indipendenti si impongono come para-istituzioni elevandosi a luoghi privilegiati di ricerca, creazione ed espressione artistica. Provando a fare dei nomi, tre artisti, Ed Atkins, Hito Steyerl e Ian Cheng, e tre mostre: dOCUMENTA 13 (a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, 2012), Il Palazzo Enciclopedico (a cura di Massimiliano Gioni, Biennale di Venezia 2013) e Pierre Huyghe (Centre Pompidou, 2013).
oggi giovani gallerie tra i loro artisti elencano spesso figure storiche che pur avendo alle spalle mostre istituzionali e un forte impatto sulle generazioni artistiche più recenti, non hanno ancora raggiunto il successo di mercato e un collezionismo significativo. L’idea di riscoprire talenti la cui produzione sia rilevante alle poetiche contemporanee sottolinea come l’arte si articoli e si sviluppi attraverso una serie di continui cicli.
NICOLAS BOURRIAUD DIRETTORE, MONTPELLIER CONTEMPORAIN; DIRETTORE, XVI BIENNALE DI ISTANBUL
ILARIA BONACOSSA DIRETTRICE, ARTISSIMA
Il fenomeno più significativo di questo ultimo decennio riguarda a mio avviso la riscoperta di pionieri della contemporaneità che non hanno ancora ricevuto il giusto riconoscimento per il loro lavoro. Si tratta di artisti, spesso donne o membri di minoranze estranei al sistema e alle dinamiche di mercato, che hanno la capacità di trasformare retrospettivamente la storia dell’arte rendendola più ricca, affascinante e al contempo meno lineare. Questo fenomeno di riscoperta, anticipato nel 2010 dalla sezione di Artissima Back to the Future, non ha solo ispirato musei ma anche case d’asta e gallerie internazionali. Penso ad artisti come Vincenzo Agnetti, Lutz Bacher, Nanni Balestrini, Renate Bertlmann, Tomaso Binga, Giorgio Griffa, Maria Lai, Marta Minujín, che abbiamo ospitato nella sezione negli anni. Tendenza improbabile lo scorso decennio,
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C’è un concetto che potrebbe riassumere il decennio: la rottura definitiva dell’ideologia sulla quale sono state costruite le società occidentali, ovvero la convinzione che ci sia una divisione tra natura e cultura. È evidente nella maggior parte dei testi monoteisti, è evidente per Cartesio, è evidente per la scienza: la natura doveva essere presentata come un luogo dove l’essere umano si sarebbe potuto evolvere. Si pensi alla pittura: una figura su di uno sfondo. Tutte le forme di segregazione derivano da questa originaria divisione tra natura e cultura: pensiamo soprattutto all’oppressione della donna (dal momento che la donna è stata ritenuta dalla parte della natura), alla colonizzazione (il “progresso” che veniva imposto ai “selvaggi”) e al razzismo. Gli artisti, negli anni 2010, sono diventati dei traduttori tra diversi regimi di alterità, e hanno realizzato che non sono soltanto oggetti, ma sono soggetti. Inoltre, hanno rappresentato la realtà nei suoi livelli molecolari, e non soltanto come un mucchio di prodot-
ti. Stiamo entrando in un’era post-culturale, con il dibattito sull’“appropriazione culturale” che sta diventando la coda di un problema più grande: il dominio dell’essere umano sull’esistente.
CHARLES ESCHE DIRETTORE, VAN ABBEMUSEUM, EINDHOVEN
MARIO CRISTIANI FONDATORE, GALLERIA CONTINUA
In questi anni la globalizzazione del mondo dell’arte è diventata più riflessiva, soprattutto per la situazione ambientale, ma comunque era una tendenza che c’era anche prima. Per quello che vedo io, il rapporto tra l’arte e l’architettura è stato abbastanza forte; poi penso che in questi anni si svilupperà sempre di più il mondo digitale. Gli artisti di questa generazione tra i quaranta e i cinquant’anni che penso siano più bravi, se devo dire tre nomi, sono Kader Attia, Hans Op de Beeck e Carlos Garaicoa. Sono artisti che sviluppano queste tematiche in modo piuttosto originale e senza avere timore di affrontare modalità riflessive. Devo dire però che non ci sono correnti, non ci sono gruppi che presentano l’idea dell’individualità; sicuramente sentono la responsabilità dell’arte come stato sociale, come qualcosa che non può rimanere confinato dentro il mondo dell’arte. Andando in giro a Cuba, nel Sudamerica, in Oriente, ci siamo resi conto che, da parte dei privati, vige la tendenza a intervenire direttamente laddove il pubblico non arriva. E lo fanno in un modo sociale molto forte. Credo che gli artisti affermati si affermeranno sempre di più: tutti i grandi nomi diventeranno artisti di riferimento con l’aumentare dell’insicurezza generale. E per fortuna l’arte è un desiderio forte, che non muore mai.
Gli anni 2010 sono stati ampiamente oscurati dagli eventi dei decennî precedenti. Al di là di ciò, già non ci hanno fornito molti strumenti per fare i conti con la nostra condizione contemporanea, figuriamoci per trarne dei vantaggi per tutti. È vero che le sfide che hanno affrontato non sono state facili, ma sia nel rispondere alla stagnazione economica e alle repressioni politiche che hanno seguito la crisi finanziaria del 2007, sia nel gestire sul lungo termine l’egemonia globale dell’occidente e la sua modernità imposta, gli anni 2010 non hanno inciso più di tanto. Ho il sospetto che, in Europa, i primi anni del XXI secolo verranno visti in retrospettiva un po’ come gli anni di Brežnev nell’Unione Sovietica o, detto in altri termini, come un periodo storico durante il quale la storia non si è dimostrata all’altezza della situazione. Le importanti analisi condotte dai sostenitori della decolonializzazione e, in maniera più limitata, la politica dell’identità, sono processi generativi che hanno acquisito autorità negli ultimi dieci anni. Questi ultimi potrebbero costituire la base per un pieno smascheramento e una radicale riforma della santa trinità moderna, composta da capitalismo, colonialismo e patriarcato, ma questo sarà soprattutto un obiettivo per gli anni 2020. Gli anni che verranno dovranno rispondere al problema, estremamente urgente, di come riuscire ad avere un controllo più democratico sugli interessi privati. Il principale contributo degli anni 2010 è stato comunque di tipo negativo: ovvero, questo decennio ci ha mostrato che un libero mercato FINESTRE SULL’ARTE • 45
incontrollato non lavora per la maggior parte delle persone e distrugge il mondo e i suoi abitanti. Sfortunatamente, si tratta di una lezione che Marx ci aveva già dato centocinquant’anni fa, ma che, evidentemente, si è dimostrata scarsamente rivelatrice. Il mondo dell’arte ha assistito all’ascesa degli istituti privati nel momento in cui le disuguaglianze sono finite fuori controllo, e i paradossi politici che le disuguaglianze producono sono ormai diventati così evidenti da non essere più conciliabili con le buone intenzioni degli artisti e di chi lavora nel mondo dell’arte. Un impulso ben determinato, che porti a esaminare i modi in cui l’arte viene finanziata, potrebbe costringere molti mecenati a ritirare il loro supporto economico, e di conseguenza ad allontanarsi dal mondo dell’arte. Inoltre c’è stata una sincera e incoraggiante apertura sui temi dei pregiudizî geografici e di genere nell’arte moderna e contemporanea, un’apertura che preannuncia importanti e profondi cambiamenti. E che potrebbe determinare la fine della storia dell’arte moderna così com’è attualmente costruita. Ma nonostante molti dei significativi contributi degli anni 2010, il colpo di grazia deve ancora arrivare. Parlando personalmente, ci sono alcuni nomi e alcuni luoghi che mi piacerebbe veder prosperare negli anni 2020 e che hanno definito alcuni dei parametri dell’arte degli anni 2010, anche se le loro pratiche sono cominciate molto prima. In questa lista includerei i collettivi Chto Delat, ruangrupa e Mapa Theatro, il gruppo Otolith, Hito Steyerl, Bonaventure Ndikung, Patrick Flores, Maria Lind, Walter Mignolo, il SALT di Istanbul, il Museo Reina Sofía di Madrid, la Moderna Galerija di Lubiana: tutti soggetti che hanno reso possibili cose che prima non lo erano.
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YUKO HASEGAWA DIRETTRICE, MUSEO D’ARTE CONTEMPORANEA DI TOKYO
L’arte degli anni 2010 può essere simboleggiata da due elementi: l’informazione e l’empatia. La nostra attenzione, ancora una volta, si è rivolta a riesaminare la storia della civiltà umana nella nostra epoca, l’Antropocene, attraverso le esplorazioni geologiche, meteorologiche e archeologiche, spinte dai cambiamenti nelle relazioni tra l’essere umano e l’ambiente, oltre ai problemi relativi alle migrazioni, e altro ancora. Le modalità in cui diverse culture si ibridano o diverse specie entrano in simbiosi tra loro variano a seconda dei sistemi ecologici (sia sociali, sia mentali) di ogni luogo o regione. Molti artisti della generazione post-Internet hanno creato opere d’arte biomorfe (che ci ricordano le reti neurali), mettendo insieme materiali fisici come pietra, resina, metallo. Queste sculture “fluide” o “semplificate” possono essere considerate come una combinazione tra il recupero di una materialità reale e il riflesso di un’esperienza virtuale dell’immagine. Dall’altro lato, le opere di videoarte emerse in questi anni si sono distinte per aver creato nuove narrative basate sulle ricerche e sui documentarî, o per aver creato nuovi livelli di finzione includendo strumenti interattivi, come i giochi di simulazione. Il primo aspetto che tutti questi lavori condividono è l’informazione verbalizzata estratta dalle osservazioni e dalle analisi del mondo, il secondo è il sentimento e l’empatia, comprese le più recondite emozioni che possono essere risvegliate. Negli anni 2020, questi elementi, molto probabilmente, evolveranno verso una direzione che ci porterà a un’informazione combinata, in maniera più sofisticata, con la formazione di un sentimento di empatia.
GIANFRANCO MARANIELLO DIRETTORE, MART - MUSEO D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA DI TRENTO E ROVERETO
L’ultimo decennio ha osservato l’estrema affermazione di un’arte alla ricerca della comfort zone del mercato secondo le logiche più efficaci della finanza. Necessitata alla legittimazione di gesti e azioni non riconducibili a valore condiviso nella vita pratica e nell’urgenza di scenarî planetari che escludono la possibilità di una specifica espressione culturale, l’arte ha trovato nuovamente nella galleria il proprio garante. Questa, però, si è evoluta, è divenuta multinazionale, intercetta e costruisce il nuovo Art World, lo informa pubblicando proprie riviste, libri raffinati, corteggiando e standardizzando il lifestyle di clienti a ogni latitudine, con strategie di crescita reputazionale che adotta anche la critica, le fiere, le biennali e i musei nel novero degli indicatori per l’affidabilità nel sostenere ciò che deve basarsi su un credibile piano di sostenibilità laddove l’arte non esiste al di fuori del proprio sistema. In questo scenario non è necessario continuare a puntare sui “giovani” e sperimentare nuovi prodotti per un mercato a rischio di inflazione, ma addirittura il metodo archeologico ripete quanto già efficacemente dimostrato nei necessari filtri per orientarci nella sterminata offerta del web. L’oggetto del nuovo desiderio non è il nuovo, ma la riscoperta, ciò che ha solidità, che attesta una durata ammantata ora dalla retorica che illustra il perché in aree remote e non egemoniche o in epoche non favorevoli la coerenza di una ricerca silente troverebbe ora la migliore rivalutazione ordinata in archivî e lasciti meravigliosamente risanati dal professionismo dei nuovi consulenti del mercato dell’arte. Tale metodo non può che inventare nuovi modi e intrecci professionali nel consentire di declinare la competenza nell’insider trading che nell’arte, a differenza della finanza, è virtù anziché reato.
HANS-ULRICH OBRIST DIRETTORE, SERPENTINE GALLERIES, LONDRA
Marshall McLuhan ha sottolineato che l’arte ha la capacità di “prevedere il futuro”. Nell’introduzione al suo libro Understainding Media definisce l’arte come un «sistema di allarme» che ci indirizza verso ciò che andrà sviluppandosi in futuro, e che ci consente di «prepararci ad affrontarlo». McLuhan afferma: «l’arte come sistema di radar assume la funzione di un indispensabile allenamento percettivo». Nel 1964, quando il suo libro fu pubblicato, l’artista Nam June Paik aveva appena costruito il suo robot “K-456” per condurre esperimenti sulle tecnologie che avrebbero cominciato a influenzare la società. In precedenza aveva lavorato con la televisione, sfidando i modi in cui abitualmente la si consuma, e più tardi avrebbe creato arte con le trasmissioni via satellite in diretta al fine di usare i nuovi media non tanto come forma d’intrattenimento, bensì per indicarci le loro capacità poetiche e interculturali (che sono ancora per lo più inutilizzate oggigiorno). I “Paik” del nostro tempo, ovviamente, adesso lavorano con internet, con le immagini digitali, e con l’Intelligenza Artificiale. I loro lavori e le loro ricerche sono di nuovo un “sistema di allarme” per gli sviluppi che il futuro ci riserva. Poiché ero interessato a sapere cosa gli artisti hanno da dire sull’Intelligenza Artificiale, ho organizzato diverse conferenze tra artisti e ingegneri lo scorso anno. Il motivo per guardare con attenzione all’Intelligenza Artificiale sta nel fatto che uno dei problemi più importanti di oggi è quanto l’Intelligenza Artificiale diventerà abile e quali rischi potrebbero derivarne. C’è molta ricerca di base al momento su questi aspetti. Diversi artisti contemporanei, al momento, ne stanno seguendo molto da vicino gli sviluppi. Con il loro lavoro stanno articolando diversi dubbî sulle FINESTRE SULL’ARTE • 47
promesse dell’Intelligenza Artificiale e ci ricordano di non associare soltanto il termine “Intelligenza Artificiale” ad aspetti positivi. Gli artisti contribuiscono alla discussione sull’Intelligenza Artificiale con la loro peculiare prospettiva e segnatamente con le loro riflessioni sulla creazione delle immagini, sulla creatività e sulla programmazione come mezzo d’espressione artistica. Ma cosa hanno da dire gli artisti contemporanei sull’Intelligenza Artificiale? Hito Steyerl, artista che lavora con i documentarî e i film esperienziali, considera due aspetti che dovremmo tenere a mente sulle implicazioni dell’Intelligenza Artificiale per la società: primo, l’Intelligenza Artificiale è spesso sopravvalutata e il sostantivo “intelligenza” è fuorviante (per contrastare questo aspetto, lei usa il termine “stupidità artificiale”). Secondo, ci fa notare che i programmatori realizzano algoritmi invisibili e che però sono visibili attraverso le immagini, e per comprendere e interpretare meglio queste immagini dovremmo ricorrere all’esperienza degli artisti. Rachel Rose, una videoartista che ragiona sulle questioni poste dall’Intelligenza Artificiale, impiega la computer technology nella creazione dei suoi lavori: i suoi film creano, per lo spettatore, un’esperienza di materialità attraverso l’immagine in movimento. Questa artista utilizza collage e sovrapposizioni di materiale per manipolare suono e immagini, e il processo di editing è forse il più importante aspetto del suo lavoro. Anche lei crede che ci siano false aspettative sull’Intelligenza Artificiale. Nella maggior parte dei casi, il lavoro degli artisti contemporanei ha dato vita a riflessioni sull’impatto dell’Intelligenza Artificiale sulle questioni esistenziali del sé e sulle nostre future interazioni con entità non umane. Pochi però hanno utilizzato le tecnologie e le innovazioni dell’Intelligenza Artificiale come materiale per il loro lavoro. Un’eccezione è l’artista Ian Cheng, che si è spinto molto lontano nel costruire interi mondi di esseri artificiali toccando diversi livelli di sensibilità e intelligenza. Cheng considera il lavoro dei programmatori che operano con l’Intelligenza Artificiale come uno strumento nuovo e sofisticato per fare esperimenti con i parametri delle pratiche sociali del nostro quotidiano. Così, il coinvolgimento degli artisti sull’Intelligenza Artificiale porterà a nuovi tipi di ricerche aperte nell’arte. Nondimeno, queste possibilità sono ancora da scoprire, esattamente come le possibilità dell’Intelligenza Ar-
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tificiale. E dal momento che l’Intelligenza Artificiale occuperà sempre di più le nostre vite, la creazione di uno spazio che sia non deterministico e non utilitario nella sua pluralità di prospettive e nella sua diversità d’intese ricoprirà senza dubbio un ruolo essenziale.
GITTE ØRSKOU DIRETTRICE, MODERNA MUSEET, STOCCOLMA
Dovendo parlare degli anni 2010, vedo innanzitutto tre tendenze interconnesse, che si stanno evolvendo. Primo: l’arte ha giocato un ruolo importante nell’ambito della crisi climatica globale. L’urgenza della crisi climatica ha dato vita a nuove pratiche artistiche, che sono legate a cambiamenti concreti piuttosto che a problemi di tipo estetico. Secondo: la performance art si è innalzata a un livello tale da trasgredire le categorie artistiche e ha trovato nuovi mezzi espressivi che hanno infranto le barriere tra l’opera e l’osservatore. Terzo: c’è stato un profondo interesse per i materiali fisici nella pratica artistica, un interesse direttamente collegato al movimento dell’Arte Povera degli anni Sessanta. Ci si potrebbe domandare in che modo queste tre tendenze siano emerse dalla stessa necessità di superare lo sviluppo tecnologico per tornare alla pura materialità della presenza (il corpo, le sensazioni, la fisicità). Quando i cambiamenti climatici minacciano la nostra esistenza, dobbiamo ripensare alle pratiche artistiche, e l’arte riflette la svolta ecologica e interumana che ha caratterizzato gli anni 2010, in un’epoca di migrazioni e cambiamenti climatici globali, e in un mondo in rapida evoluzione tecnologica.
Schneeman. Infine, abbiamo sperimentato un allargamento delle geografie dell’arte contemporanea, con un critico come Okwui Enwezor a fare da figura trainante.
MAGNUS AF PETERSENS CURATORE INDIPENDENTE
La polarizzazione politica dell’ultimo paio d’anni ha toccato sicuramente anche l’arte e il mondo dell’arte. La censura adesso arriva anche da sinistra, ed è collegata alla politica dell’identità. Internet non è più soprattutto una piattaforma per la libera espressione, ma è anche una base per le fake news, la manipolazione e la sorveglianza. Mentre il mercato dell’arte continua a espandere la sua influenza, con alcune delle più potenti gallerie che espongono anche nei musei, alcuni artisti hanno sviluppato un certo interesse per l’autogestione e l’attivismo. Alcuni, come il collettivo ruangrupa, Kader Attia, Theaster Gates e Mark Bradford, hanno fondato organizzazioni coinvolte nel sociale e simili a istituzioni, che lavorano nello spirito della “scultura sociale” di Beuys. Attivismo e performance sono legati a questi aspetti in qualità di forme espressive che hanno guadagnato una sempre maggiore importanza. Abbiamo inoltre conosciuto una trasformazione delle modalità di comprensione del mondo che hanno dominato i decennî precedenti e che erano più orientate verso il linguaggio. I Nuovi Materialismi e l’ontologia orientata agli oggetti rendono più labili i confini tra oggetto e soggetto. Abbiamo assistito a un rinnovato apprezzamento per i materiali tradizionali, come i tessuti e il legno. Queste trasformazioni si sono manifestate in mostre come dOCUMENTA 13 di Carolyn Christov-Bakargiev o come Animism di Anselm Frankes alla Haus der Kulturen der Welt, entrambe tenutesi nel 2012. Ancora, stiamo assistendo a un’ampia ma tardiva ricognizione di molte donne artiste, come Sheila Hicks, Geta Bratescu, Etel Adnan, e pioniere della performance art come Marina Abramović e Carolee
KATHLEEN REINHARDT CURATRICE DEL DIPARTIMENTO DI ARTE CONTEMPORANEA, ALBERTINUM, KUNSTSAMMLUNGEN, DRESDA
Ci troviamo in un momento nel quale il campo dell’arte, esattamente come tutti gli altri settori, sta attraversando dei profondi cambiamenti. Abbiamo visto come alcuni ambiti di nicchia (come la outsider art, l’arte tessile o la ceramica, per esempio) siano arrivati fin sul palcoscenico principale e, ancora, abbiamo assistito a un assorbimento, senza precedenti, del cinema, della performance, del suono e della danza nel mondo dell’arte, sia per quel che riguarda il mercato, sempre in crescita seppur con dinamiche trasformate e con l’incremento della speculazione, sia per quanto riguarda il mondo istituzionale, con i musei e le biennali che si sono dimostrati particolarmente coinvolti nei processi di decolonializzazione. Gli scambi tra questi sistemi sono spesso fluidi, sia per effetto del sostegno economico degli istituti pubblici che è andato restringendosi, sia per l’ascesa di musei privati e iniziative private. Gli istituti si sono distinti per un tardivo aumento nella diversificazione (di chi li guida e di chi vi espone), ma è ancora presto per valutare come questo processo inciderà in maniera durevole sui programmi e sulle collezioni. Nei migliori dei casi, il museo come sistema di convinzioni radicate sta ripensando il suo coinvolgimento nella formazione di sistemi di rappresentazione e partecipazione, e non sta semplicemente “ripulendo” ed FINESTRE SULL’ARTE • 49
espandendo le sue storie (dell’arte), ma sta cogliendo l’opportunità di mediare e contestualizzare le dinamiche di potere in gioco. Allo stesso modo, maggiore importanza hanno assunto i modi attraverso i quali l’informazione viene ricevuta e condivisa, e anche i modi con i quali il consenso si forma, diventa visibile e cresce rapidamente. I movimenti di agitazione civile degli ultimi anni, come Black Lives Matter, Occupy o il Movimento degli Ombrelli, ma anche le tendenze nazionalistiche che si sono diffuse in tutto il mondo, forniscono il concreto background politico per le rinnovate e aumentate aspirazioni politiche del mondo dell’arte. Dunque è importante non soltanto cercare di tracciare una mappa dei problemi del mondo facendo del moralismo o accumulando voci particolari (che corrono il costante rischio di essere ridotte a una funzione di rappresentazione attraverso l’identità), ma contestualizzare il tutto in un’ottica più ampia e andare alla ricerca, in profondità, delle diverse e dirompenti logiche che stanno alla base dell’estetica.
ADAM SZYMCZYK DIRETTORE ARTISTICO, DOCUMENTA 14; LECTURER, ACCADEMIA DI BELLE ARTI, VIENNA
Negli anni 2010 siamo stati finalmente costretti a riconoscere l’esistenza di una crisi umanitaria e ambientale globale che minaccia il pianeta e la nostra specie in una dimensione senza precedenti. Tutto ciò è accompagnato da una crisi politica della democrazia, che attraverso processi apparentemente democratici ha portato alla nascita di forme di governo reazionarie, autoritarie e de facto dittatoriali, che si pongono lo 50 • FINESTRE SULL’ARTE
scopo di assicurare la propria autoperpetuazione. Nell’ambito della cultura, abbiamo assistito a un allargamento del solco che divide, da una parte, i fenomeni che nascono sul mercato e che hanno perso sempre più contatto con la realtà, e dall’altra l’arte come forma di riflessione critica e presa di posizione attiva, ormai prodotta soprattutto fuori dai contesti dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, e prodotta anche, specificatamente, come sfida a questi contesti stantii (parliamo di forme d’espressione che mettono in discussione l’idea dell’arte come feticcio, o come passatempo per ricchi, o semplicemente come un modo tra i tanti per investire denaro, e più nello specifico come componente ben accetta di un portafoglio diversificato). Quelle forme d’arte che, spinte dal mercato, si autovalutano e si autoalimentano, non potranno produrre (e non produrranno) alcun contenuto trasgressivo, ma solo autocontemplazione. Gli anni 2010 hanno inoltre rappresentato l’epoca in cui chiedersi, citando una canzone di Pete Seeger, “which side are you on” (“tu da che parte stai”)? Prendere posizione, nell’arte, ha a che fare con la necessità, così urgente oggigiorno, di prendere posizione in altri campi e con altri mezzi: per esempio, prendere una posizione politica nelle questioni che riguardano le classi sociali, il razzismo, le politiche di genere, l’ambiente, e così via. È una questione di etica, e l’arte è una formulazione poetica delle risposte iniziali. Contro il declino della professione del curatore (verificatosi nonostante il crescente numero di curatori professionisti), gli anni 2010 sono stati segnati dalla svettante presenza di Okwui Enwezor, curatore nato in Nigeria che ha riposizionato dialetticamente il posto e il significato dell’ex centro contro l’ex periferia nel mondo che ha conosciuto la globalizzazione. In tal senso, nel 2015, Enwezor è andato oltre grazie alla sua ambiziosa ed epica Biennale di Venezia, intitolata All the World’s Futures. È scomparso nel 2019: è stata una grande perdita, con la quale si sono chiusi gli anni 2010. Enwezor ha riscritto la storia dell’arte attraverso mostre intellettualmente rigorose, realizzate in diversi contesti istituzionali, dalla Biennale di Johannesburg del 1997 ai
suoi ultimi progetti alla Haus der Kunst a Monaco di Baviera, che ha gestito fino alla sua ingiusta rimozione dalla posizione di direttore di quell’istituto, avvenuta dopo la mostra Post-War, che ha curato mentre stava lottando contro il cancro e mentre stava lavorando sulle successive due mostre (Post-Communism e Post-Colonialism), appartenenti a una trilogia che non avrà mai luogo per via della mediocrità di chi a Monaco di Baviera prende le decisioni.
un’istituzione artistica e spostare la sua attenzione verso la realtà sociale di oggigiorno, dal momento che è il lavoro delle istituzioni che deve mettere alla prova la loro programmazione su parti della storia che sono ancora poco visibili o escluse. Non posso che pensare a queste trasformazioni, se devo fare un paragone con le strategie critiche del decennio precedente (ovvero sofisticate strategie di critica e sovvertimento di formati culturali): negli ultimi dieci anni queste ultime sono state sostanzialmente ripetute.
AXEL WIEDER DIRETTORE, BERGEN KUNSTHALL
L’aspetto che ritengo più significante degli ultimi dieci anni, e che spero possa avere un impatto durevole sul dibattito in futuro, è il forte senso della responsabilità della rappresentazione nell’arte contemporanea. Una sensibilità nei confronti del fatto che l’arte e le immagini, considerandole in un’ottica più ampia, non hanno mai soltanto raffigurato, ma hanno anche creato (affermato o sfidato) relazioni di potere, e questo riguarda anche il modo in cui le mostre dànno spazio e si relazionano alle diversità della società contemporanea. È stato sorprendente assistere a discussioni controverse e a un attivismo che ha affrontato il tema della proprietà nel corso delle ultime due edizioni della Whitney Biennial, per esempio, o a casi come quelli della famigerata mostra Space is the Place alla Künstlerhaus Bethanien di Berlino, o alla questione della restituzione delle opere d’arte dei musei etnologici. Da un altro punto di vista, la X Biennale di Berlino, curata da un team radunato attorno a Gabi Ngcobo, è stata un buon esempio di come prendere FINESTRE SULL’ARTE • 51
| DENTRO LA MOSTRA
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Jean Dubuffet VENEZIA
a Venezia testo di Ilaria Baratta
Il grande artista francese Jean Dubuffet (Le Havre, 1901 – Parigi, 1985) ha sempre avuto un rapporto complicato con Venezia e soprattutto con l’ufficialità del mondo della Biennale. Attraverso una selezione di opere che l’artista, negli anni, ha esposto nel capoluogo lagunare, la mostra Jean Dubuffet e Venezia ricostruisce questa tormentata relazione.
I
l rapporto di Jean Dubuffet con la città di Venezia potrebbe essere definito, in un gergo consono ai social media, come una “relazione complicata”; una sorta di odio-amore che ha avuto inizio con un pesante rifiuto, proseguito con un idillio e oggi ripresentato in un ritorno di fiamma in un’ambientazione neogotica. A distanza di settant’anni, infatti, da quel primo rifiuto finito sulle pagine di una serie di scambi epistolari, l’artista fondatore dell’Art Brut è protagonista di una rassegna deliziosamente allestita a Palazzo Franchetti, antico edificio dalle cui polifore, mentre si percorrono gli scaloni monumentali al suo interno, si gode di una straordinaria vista sul Canal Grande. In una lettera datata 11 novembre 1949, indirizzata all’editore veneziano Bruno Alfieri, Dubuffet, a seguito dell’invito di quest’ultimo a organizzare una mostra a Venezia, afferma dopo averlo ringraziato: «Sarebbe preferibile scegliere per un’esposizione dei miei lavori a Venezia un momento in cui non ci si-
Prune et lilas FOTO PAGINA A FIANCO:
Jean Dubuffet, Texturologie XXXV
(prune et lilas) (maggio 1958; olio su tela, 89 x 116 cm; Ginevra, Collection De Jonckheere)
Jean Dubuffet a Venezia FOTO SOPRA:
Jean Dubuffet a Venezia nel 1964
ano in città né la Biennale né retrospettive di scuole culturali, né critici d’arte, né personalità del Museo di Arte Moderna». Nei confronti della Biennale di Venezia ha una posizione molto critica, evidenziata dal fatto che «un club di regate è già più vivo e più attraente di una galleria di quadri», e che «una circostanza che carichi di significato un’esposizione di pittura sarebbe tutt’altra cosa che la Biennale». Tutta l’arte di cui si occupano i critici d’arte, i musei e i loro guardasala, i mercanti di quadri e i loro clienti abituali è considerata da Dubuffet falsa arte, la falsa moneta dell’arte. Attraverso una decisa ribellione, l’artista dichiara come tenga poco a frequentare gli stessi luoghi che frequentano i protagonisti della falsa arte e a esporre insieme ad essi, poiché avverte di essere artisticamente molto lontano da loro. E continuando coi suoi pronostici ribelli, ma ancora attuali, afferma: «accadrà che Venezia, intossicata più d’ogni altra città da certe mobilitazioni d’arte falsa, raggiungerà un giorno un tale grado FINESTRE SULL’ARTE • 53
di saturazione che la spingerà a prendere con rabbia la strada opposta e a volgere la schiena a tutto questo falsume», e aggiunge: «gli elementi sani di questa città allora incendieranno il Palazzo Ducale e il Ponte dei Sospiri e tutte quelle odiose anticaglie pseudo-artistiche, e getteranno fuori dalla città tutti quei turisti imbecilli che organizzano congressi e impiccheranno i membri dei Pen Club ai ferri delle gondole e allora sarà giunto il tempo per me di fare un’esposizione, in questa città finalmente ritornata a preoccupazioni gravi e degne delle mie pitture». Con “mobilitazioni d’arte falsa”, l’artista allude alle mostre di Picasso e di altri francesi alla XXIV Biennale, quella del 1948. La sua posizione è ben evidenziata in un articolo intitolato Vuole in-
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cendiare il Palazzo Ducale, apparso su un settimanale indipendente, in cui si legge che «Jean Dubuffet ha dichiarato guerra da alcuni anni a tutti i pittori “ufficiali”, cioè a Picasso, Braque, Matisse ecc, su tutti i fronti dell’arte. Egli afferma solennemente di odiarli anzitutto per la loro prosopopea e per la montatura pubblicitaria che li accompagna in ogni loro gesto, e in secondo luogo per aver inquinato l’arte moderna con una serie di teorie estetiche e di atteggiamenti addirittura ignobili. Da un punto di vista estetico non valgono nulla, assolutamente nulla. Tutta la loro pittura è sbagliata perché è fondata su concetti tipo “forma”, “contenuto”, “armonia”, ecc, che sono antiquati e completamente falsi. I pittori “ufficiali” giungono al punto di deformare un quadro
in questi disegni, in queste tempere. La composisolo per obbedire ad esigenze formali o per il puro zione è almeno libera da ogni impaccio di ritmo, gusto di accentuare espressionisticamente i dettagli. coerenza ed equilibrio». Ma sotto lo strato di colore non c’è proprio nulla, soltanto la menzogna e la falsità». L’articolo proseNuancements au sol gue poi chiarendo in che modo l’artista risolverebbe il problema formale che agita gli animi nella sua FOTO PAGINA A FIANCO: Jean Dubuffet, Nuancements au contemporaneità, ovvero creando «un movimento sol (Texturologie XLIII) (27 maggio 1958; olio su tela, 81 di riscossa contro i canoni estetici formalistici che ci x 100 cm; Collezione privata) soffocano, torniamo una buona volta all’arte “grezza”, all’“art brut”, demoliamo completamente ogni nostra sovrastruttura culturale, borghese e rancida. Terre rouge Il risultato delle “teorie” di Dubuffet è una pittura FOTO SOPRA: Jean Dubuffet, Terre rouge che ricorda vagamente i graffiti preistorici, l’arte (15-26 ottobre 1957; olio su tela, 81 x 100 cm; Parigi, negra, i disegni infantili fatti col gessetto sul muro di casa vostra […]. Ma un’aria fresca e genuina circola Fondation Dubuffet) FINESTRE SULL’ARTE • 55
«Le temps est venu d’un art sérieux» dichiara lo stesso artista in una lettera datata marzo 1950, indirizzata ancora a Bruno Alfieri: «presto l’arte così futile dei nostri padri non interesserà più nessuno e si esigerà dall’arte molto più di ciò che essi esigevano da questa». Tutto questo materiale documentario presente e leggibile in mostra dà un’idea ben precisa del carattere ribelle e rivoluzionario di Dubuffet: di certo non era così usuale incontrare allora un artista che contrastasse la cerchia della Biennale, né tanto meno un artista che dichiarasse pubblicamente la
Site urbain FOTO SOTTO:
Jean Dubuffet, Site urbain (27 agosto 1962;
gouache su carta con elementi incollati, 150 x 195 cm; Collezione privata)
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sua volontà di veder bruciare simboli della città di Venezia, sfociata nell’immagine incendiaria di Palazzo Ducale e del Ponte dei Sospiri in fiamme, per vedere trionfare finalmente l’arte seria, quella vera, contrapposta a quella falsa. Scommessa dei due curatori della rassegna, Sophie Webel e Frédéric Jaeger, è di riportare l’arte ribelle di Dubuffet nella città della laguna, a distanza di settant’anni da quel primo categorico no, poiché in fondo la situazione non è tanto cambiata: Venezia continua a ospitare la manifestazione artistica più mondana e più internazionale d’Italia, mentre le opere esposte a Palazzo Franchetti raccontano una carriera artistica all’insegna dell’indifferenza alla gloria e del pressoché totale rifiuto a tutto ciò che poteva essere definito mondano e conformista. La sua storia lavorativa è sempre stata considerata provocatoria, nonostante le varie evoluzioni della sua produzione. Autore della definizione di “Art Brut”, che intende-
va designare le opere di coloro che non appartenevano a istituzioni culturali e a gruppi o movimenti artistici, Jean Dubuffet era convinto che, per essere inventiva, l’opera d’arte dovesse essere spontanea, lontana dagli stereotipi culturali ed estranea a ogni professionismo. Questo termine è apparso per la prima volta nel 1945, all’epoca in cui l’artista aveva intrapreso i primi viaggi in Svizzera e in Francia alla ricerca di opere d’arte marginali, con cui viene a contatto soprattutto negli ospedali psichiatrici; due anni dopo fonda e organizza la Compagnie de l’Art Brut, tra i cui membri figurano André Breton, Jean Paulhan, Charles Ratton, Henri-Pierre Roché, Michel Tapié ed Edmond Bomsel. Sarà nel 1949 che, in occasione della mostra collettiva di Art Brut presso la Galerie René Drouin, pubblicherà il testo L’Art Brut préféré aux arts culturels nel catalogo dell’esposizione, in cui definirà il concetto di Art Brut:
«le opere eseguite da persone libere da culture artistiche, dove l’imitazione, a differenza di ciò che accade tra intellettuali, ha solo una piccola parte o è nulla, cosicché i loro autori disegnano tutto (soggetti, scelta dei materiali, strumenti di trasposizione, ritmi, modi di scrivere, ecc) ciò che proviene dal loro cuore e non cliché di arte classica o di arte alla moda. Assistiamo a un’operazione artistica pura, grezza, reinventata in ogni sua fase dal suo autore, fondata esclusivamente sui proprî impulsi. Arte la cui sola funzione inventiva è manifesta».
Époux en visite FOTO SOPRA:
Jean Dubuffet, Époux en visite (12
dicembre 1964; vinile su tela, 150 x 200 cm; Ginevra, Fondation Gandur pour l’Art)
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Escalier VII FOTO SOPRA A SINISTRA:
Jean Dubuffet, Escalier VII (27
aprile 1967; vinile su tela, 130 x 97 cm; Venezia, Solomon R. Guggenheim Foundation, Hannelore B. & Rudolph B. Schulhof collection)
Tasse de thé VII FOTO SOPRA A DESTRA:
Jean Dubuffet, Tasse de thé VII
(20 maggio 1967; vinile su tela, 146 x 114 cm; Parigi, Fondation Dubuffet)
Come accennato, l’arte di Dubuffet ha subito diverse trasformazioni nel corso della sua produzione, e la mostra odierna di Palazzo Franchetti intende restituire ai visitatori, oltre al rapporto dell’artista con Venezia, il ricordo delle sue più significative serie, ognuna delle quali è fortemente differente dalle altre: attraverso il percorso espositivo, ben delineato dai due curatori, il pubblico ripercorre le fondamentali tappe della sua evoluzione artistica. E la visita diviene altresì piacevole grazie al contrasto 58 • FINESTRE SULL’ARTE
che si crea tra le opere e le pareti delle sale alle quali sono appese, in un effetto dalla spiccata tridimensionalità. La rassegna prende le mosse da opere della serie Sols et terrains compiuta tra il 1956 e il 1960, alla quale sono assimilabili le Matériologies e le Texturologies: sono lavori dai toni terrosi e tragici che intendono riflettere sugli infiniti effetti della materia. Rimandano agli elementi topografici del mondo, quali la terra, l’acqua, il cielo, le stelle, grazie al particolare effetto che sembra riprodurli artificialmente. Attraverso i loro neri, grigi e argenti metallici, pare di vedere protagonisti delle sue opere pezzi di suolo terrestre o di astri e superfici acquatiche osservate alla lente; la natura viene quindi raffigurata mediante illusione o artificio. La riproduzione della natura, in particolare nelle Texturologies, viene creata mediante la visualizzazione di texture, sia materiali che immateriali, con l’utilizzo di impressioni litografiche. Queste ampie serie di litografie sono state denominate Phénomènes, poiché rendono manifesto l’aspetto materico di realtà fenomeniche. Ne sono esempi in mostra la Texturologie XXXV (prune et lilas) o Nuancements au sol (Texturologie XLIII), entrambe del 1958 o ancora l’elaborato Théâtre du sol del 1959. Il termine Phénomènes è stato scelto anche come titolo per la mostra Les Phénomènes di Jean Dubuffet alle-
stita a Venezia, a Palazzo Grassi, dal 5 luglio al 1° settembre 1964. Si trattava di una delle due esposizioni realizzate quasi in contemporanea nella sede museale veneziana, nello stesso periodo in cui era in corso anche la Biennale: l’artista non mancò di precisare che la sua doppia mostra era in contrappunto a quest’ultima. Altra rassegna a costituire la trionfale coppia era L’Hourloupe di Jean Dubuffet, presso il Teatro di Palazzo Grassi dal 15 giugno al 13 settembre 1964. L’iniziale rifiuto della fine degli anni Quaranta si era trasformato in un consenso, nonostante la sua costante posizione nei confronti della Biennale: quella del 1964 è stata infatti una tappa fondamentale nel rapporto Dubuffet-Venezia, poiché per la prima volta le sue opere venivano presentate nella città della laguna con una monumentale doppia
personale. «Mi diverte presentare i miei lavori inediti per una volta a Venezia invece che a Parigi» aveva dichiarato l’artista, ma erano tanti anche i dubbî. In una lettera datata dicembre 1963 e indirizzata ai collezionisti Mr. e Mrs. Ralph Colin, afferma di aver lavorato molto assiduamente per due mesi a dipinti di grandi dimensioni: «si tratta di pitture provenienti da quello stile nuovo e inedito che mi occupa da un anno e mezzo (dall’esposizione “Pa-
Le village fantasque FOTO SOTTO:
Jean Dubuffet, Le village fantasque
(18 luglio 1964; olio su tela, 97 x 130 cm; Parigi, Collection Hepama)
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ris-Circus” alla Galerie Cordier di giugno ’62). Tutti quei nuovi lavori compiuti da un anno e mezzo sono finora rimasti tra le mie mani; molte poche persone li hanno visti e niente è uscito dal mio studio. Saranno oggetto di una grande esposizione a Venezia l’estate prossima, a Palazzo Grassi (che è gestito da Paolo Marinotti). Mi diverte presentare per una volta i miei lavori inediti a Venezia invece che a Parigi. Tuttavia, non è certo che questi nuovi dipinti siano capiti dal pubblico; temo piuttosto che non lo saranno. Queste nuove opere portano le cose su un piano al quale il pubblico non è, credo, ancora del tutto pronto, e che rischia fortemente di fuggire da queste o di respingerle. Comunque queste opere mi danno grandi soddisfazioni». Rivolgendosi a Sidney Janis, collezionista e gallerista, e invitandolo alla sua esposizione di Palazzo Grassi per la data di apertura del 15 giugno 1964, ha scritto nell’aprile dello stesso anno: «da due anni lavoro a dipinti con uno stile e uno spirito imprevisti e inediti e ai quali mi appassiono molto […]. Sono
pio di magistrale illusionismo, recita il titolo di un ampio “servizio particolare” apparso su La Stampa il giorno successivo all’inaugurazione. Ed è subito dichiarato il nuovo interesse per l’opera di Dubuffet, «artista francese cui oggi si guarda con tanto interesse», testimoniato dalla grande mostra che “in modo esemplare documenta l’ultima fase dell’arte di Jean Dubuffet”. Gli elogi proseguono nell’articolo , affermando ch’egli è «una delle personalità più stimolanti ed affascinanti che in questo dopoguerra si siano affacciate alla ribalta dell’arte contemporanea», ponendo in evidenza come sia «la prima volta che una mostra propone un così largo e immediato contatto tra produzione artistica e pubblico, usualmente limitato a qualche opera isolata». Particolare attenzione era stata suscitata dalla nuova serie L’Hourloupe, di cui in mostra erano esposte oltre cento opere, tra dipinti ad olio e vinilici, tempere e disegni: nell’attuale rassegna a Palazzo Franchetti ne sono esposte circa una quindicina. Dubuffet l’ha definito un ciclo “unitario”, a cui ha dato la denomina-
Nel 1964, Dubuffet espose le sue opere in una personale a Palazzo Grassi: volle precisare che la sua mostra era in contrapposizione alla Biennale. di grandi dimensioni. Mi domando come saranno accolti dal pubblico. Portano l’arte su un piano molto azzardato e difficile che ha buone possibilità di rimanere incompresa. Sarà quello che accadrà. Sarà una presentazione inedita poiché nessuno di questi dipinti in questo stile è uscito dai miei studi. Avevo bisogno di averli tutti sotto gli occhi e volevo anche mostrarli tutti insieme e non sparpagliati. È questa decisione (e anche quella di voler vendere ormai molto meno dei miei quadri e di conservarne di più) che ha motivato la mia discussione con Cordier, di cui avrà probabilmente sentito parlare. La formula di distributore esclusivo, che avevo adottato con lui e che ha funzionato per qualche anno, ha causato grandi inconvenienti. Adesso intendo seguire un regime di piena libertà a mio piacimento, riservandomi di conservare i miei quadri anche per lungo tempo». Nonostante le sue preoccupazioni, la doppia mostra veneziana del 1964 si è rivelata un grande successo, sia di pubblico che di critica. Cento quadri di Dubuffet, esem60 • FINESTRE SULL’ARTE
zione di Hourloupe, che è un termine di sua invenzione privo di un preciso significato: l’assonanza con il termine tourlouper, ovvero “turlupinare”, sottolinea la volontà da parte dell’artista di una sottile turlupinatura, una sorta d’inganno di cui gli spettatori di queste opere sono vittime. E sono parte di quest’inganno anche gli stessi titoli delle opere che rimandano all’equivoco, all’errore, all’illusione, al sottile gioco tra essere e apparire. «Un gioco finissimo col quale queste figurazioni s’accampano nello spazio, aggredendolo, gremendolo come trama che s’insinua nell’ordito d’un grande arazzo, è dunque come se fosse condotto da una
Tour aux récits FOTO PAGINA A FIANCO:
Jean Dubuffet, Tour aux récits
(ampliamento realizzato nel 2007 dal modello del 1973; resina epodissica dipinta, 400 x 194 x 178 cm; Courtesy Waddington Custot and Pace Gallery)
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Mire G 137 (Kowloon) FOTO SOPRA:
Jean Dubuffet, Mire G 137 (Kowloon)
(28 settembre 1983; acrilico su carta, 134 x 200 cm; Grenoble, Musée de Grenoble)
lievitante fantasia che ogni errore materiale riscatta, facendo anzi d’ogni forma equivoca, una misteriosa, possibile verità», commenta l’articolo citato. Dubuffet stesso affermava come spesso sia difficile dire «dove la verità finisce e dove incominci l’errore. L’importante è non barare». Intento di Dubuffet era anche permettere allo spettatore di trarre una vera lettura di quella narrazione attraverso le immagini e gli elementi grafici all’interno di esse: obiettivo sottolineato dal sottotitolo del ciclo de L’Hourloupe, “maieutica del segno”. Renato Barilli, nel catalogo della mostra del 1964, intende far comprendere come da una sorta di stilizzazione che Dubuffet compie su una folla di «figurette gesticolanti», riesca a «incastonarle entro contorni preziosi, a trasporle in motivi ornamentali». «È uno spettacolo del più alto interesse», prosegue Barilli, «seguire l’artista mentre con una “biro” o con una 62 • FINESTRE SULL’ARTE
penna “Condor” viene tracciando su un foglio il suo elegante lastricato cellulare». Nelle opere del ciclo, nessun angolo è lasciato vuoto: è attraverso l’utilizzo dei tratteggi a più colori che l’artista è in grado di «fingere uno spazio a più dimensioni, giocando su ogni più ambigua resa del segno come del colore». Da queste righe orizzontali, verticali e trasversali si vanno a creare piani, sottopiani e intersezioni, da cui scaturiscono personaggi, oggetti, dettagli di paesaggio che evidenziano la grande capacità inventiva e fantasiosa di Dubuffet. È incredibile come da semplici segni grafici e da colori primarî, come il rosso mattone, l’azzurro e il giallo, si realizzino opere ammalianti, che catturano lo sguardo. Ne sono chiari esempî Site urbain, Époux en visite, Veglione d’ustensiles, Escalier VII, Le bateau II, Tasse de the VII, Cafetière VI, Site aux paysannes, Le village fantasque, dove sono messi in scena oggetti di uso quotidiano, personaggi, mezzi
Mire G 189 (Boléro) FOTO PAGINA A FIANCO:
Jean Dubuffet, Mire G 189
(Boléro) (21 gennaio 1984; acrilico su carta intelata, 100 x 67 cm; Parigi, Fondation Dubuffet)
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di trasporto e scenarî di città che assumono un carattere giocoso e fantasioso. Appartiene allo stesso ciclo anche la monumentale scultura posta nel cortile di Palazzo Franchetti, Tour aux récits. L’attuale esposizione si conclude presentando il terzo e ultimo ciclo di opere realizzate da Jean Dubuffet: si tratta di Mires, dipinti totalmente differenti sia da Texturologies e Matériologies che da L’Hourloupe. Questo ciclo testimonia ancora una volta la grande capacità dell’artista di seguire un pensiero e uno stile completamente nuovo. Ed è sorprendente se si pensa che Mires è stato ideato e realizzato quando l’artista aveva già superato la soglia degli ottant’anni. La serie infatti è stata protagonista della mostra ufficiale tenuta dal 10 giugno al 15 settembre 1984 all’interno del Padiglione della Francia alla Biennale di Venezia: era la
no da vedute allo stesso modo negazioniste». In queste opere, «l’occhio si perde in una giungla di linee e di tratti istintivi», come si legge in un articolo pubblicato su CNAC Magazine. Quelle su fondo giallo sono denominate Kowloon, mentre quelle su fondo bianco Boleros. Diffondono grande libertà, giovinezza e freschezza, grazie ai loro colori vivaci, che però non rappresentano alcunché di conosciuto. «Con il termine Mire si intende focalizzare lo sguardo su un punto qualunque in una struttura continua, dove l’intelletto non è ancora intervenuto», ma «questi dipinti sono l’opposto dell’astrazione: raffigurano spettacoli continui che esprimono uno sguardo nuovo, portato nel mondo una volta dimenticato il repertorio delle cose definibili», aveva dichiarato lo stesso Dubuffet. Le tre serie più significative della produzione dell’ar-
Nel 1984 anche Dubuffet alla fine espose alla Biennale, al Padiglione della Francia, unico artista in rappresentanza del suo paese: oggi è possibile leggere questa partecipazione come un’ulteriore testimonianza della sua libertà. prima volta che il Padiglione francese dedicava una mostra a un solo artista. Aspramente criticata all’epoca del suo celebre rifiuto, ora l’artista rappresentava ufficialmente la Francia alla Biennale del 1984. La circostanza è stata criticata da alcuni e celebrata da altri, ma in realtà la decisione di partecipare alla Biennale veneziana evidenzia ulteriormente la libertà dell’artista. Come liberi sono i trentaquattro dipinti inediti presentati in quell’anno: Palazzo Franchetti ne espone ora oltre venti. Mire G 137 (Kowloon), Mire G 48 (Kowloon), Mire G 198 (Boléro), Mire G 189 (Boléro) e tutti gli altri dipinti appartenenti al ciclo Mires esprimono la sua nuova visione del mondo, ch’egli rende esplicita in una lettera indirizzata a Monsieur Gaiano: «molte poche persone potranno approvare (e concepire) questo momento in cui cessano d’esistere non soltanto l’oggetto o la figura definibili ma anche l’intero concetto e l’intera sovrastruttura umanistica. Tutto ciò che crediamo di percepire e che consideriamo realtà mi sembrava illusorio, tutte le parole (e i concetti che esse definiscono) m’apparivano inutili. Mi sarà domandato cosa vengano a fare alla Biennale di Venezia – santuario di celebrazioni umanistiche – delle pitture che nasco64 • FINESTRE SULL’ARTE
tista sono accompagnate e commentate in mostra da articoli di giornali e riviste relativi alle inaugurazioni delle tre mostre veneziane del maestro, da fotografie che illustrano gli allestimenti di queste ultime e soprattutto dalle lettere che l’artista si era scambiato con l’editore Alfieri e con varî collezionisti. I due curatori hanno realizzato dunque sapientemente una mostra che racconta mostre: hanno ripercorso l’evoluzione artistica di Dubuffet e il suo rapporto con la laguna partendo da documenti e scambi epistolari. Un esercizio molto producente per i visitatori, che hanno così avuto l’opportunità di comprendere concretamente le intenzioni, le preoccupazioni e in generale aspetti profondi della personalità dell’artista. A tutto ciò si aggiunge la scelta di un contesto espositivo che rafforza in modo ulteriore la volontà di narrare il legame con questa città, poiché situato in posizione strategica per percepire fortemente la “venezianità” del luogo. E adesso la domanda sorge spontanea: sarà questo il definitivo epilogo di questo tormentato rapporto? ◊
www.palazzofranchetti.it
The scale of Justice, 2016
Kawita Vatanajyankur LOOPING PARADOXES 22.09.2019 - 05.01.2020
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Chiesa del Redentore Canaletto, Chiesa del Redentore (1746 circa; olio su tela, 47,4 x 77,3 cm; Londra, Moretti Fine Art)
| OPERE E ARTISTI
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Canaletto e Guardi forever testo di Fabrizio Magani
Il vedutismo settecentesco conobbe due grandi protagonisti: il Canaletto (Giovanni Antonio Canal; Venezia, 1697 - 1768) e Francesco Guardi (Venezia, 1712 - 1793). Canaletto, pur non avendo gloria ufficiale, ebbe una fortuna continua, mentre Guardi fu riscoperto solo agli inizĂŽ del Novecento. Due pittori cosĂŹ vicini, ma che intesero la veduta in maniera profondamente diversa.
C
he colpo per il vecchio Luca Carlevarijs questa storia. Era a Venezia da diverso tempo dedito al paesaggismo pittoresco e perciò era anche il principale specialista nella veduta topografica, genere che coltivò col merito dello studio tecnico-scientifico riconosciutogli da più parti. Sembra essere, nella parte finale del Seicento, il più dotato dal punto di vista della preparazione, tanto da far pensare che fosse motivato sui problemi della meccanica della composizione richiesta dalla ricognizione topografica dei luoghi. Difatti, il ritratto dell’artista maturo fattogli da Bartolomeo Nazzari (Oxford, Ashmolean Museum) mostra la strumentazione di cui si circondava abitualmente, mappamondo, compasso, misuratori, testi scientifici e, solo più defilata, la tavolozza. Tanto il maestro appare meccanico nella costruzione, quanto emerge l’ariosità della visione che invece sarebbe stata la quintessenza dello sguardo del Canaletto applicato agli orizzonti lagunari. Stefano Conti, il nobile lucchese erede delle fortu-
Ponte di Rialto FOTO SOPRA:
Canaletto, Ponte di Rialto (1725; 90,5 x 134,6
cm; Montreal, collezione Elwood B. Hosmer) 68 • FINESTRE SULL’ARTE
ne di famiglia nel mercato delle stoffe, era vedovo e non viaggiava più; oramai erano passati parecchi anni da quando aveva visitato Venezia e perciò aveva voglia di avere ancora delle vedute di Luca Carlevarijs, che conosceva e a cui voleva affidarsi di nuovo per ricordare le ore felici trascorse in quella città spettacolare. Si rivolse ad Alessandro Marchesini, un pittore veronese che l’aveva già guidato negli acquisti, ma inaspettatamente si vide contraddetto in una lettera inviatagli da Venezia il 14 luglio 1725: «V.S.Ill.ma desidera per li due accennati quadri da accompagnare gli altri che tiene dipinti dal Sig. Luca Carlevari. Ma adesso veramente vive il soggetto, se non fosse superato di maggior stima dal Sig. Ant. Canale, che fa in questo paese stordire universalmente ognuno che vede le sue opere, che consiste sul ordine del Carlevari ma vi si vede lucer entro il sole… ». Nel giro di circa un anno il Canaletto si dedicò a quattro nuove vedute per Stefano Conti, finite nella collezione Elwood B. Hosmer a Montreal: il Ponte di Rialto e il Canal Grande dal Ponte, due scorci che sviluppano la direzione dello sguardo proprio dall’appartamento preferito del cliente lucchese, e quindi anche l’infinita nostalgia (e forse il rimpianto) del luogo e dei giorni felici, e poi il Canal Grande con Santa Maria della Carità e il Campo Santi Giovanni e Paolo.
Canal Grande dal Ponte di Rialto FOTO SOPRA:
Canaletto, Canal Grande dal Ponte di Rialto
(1725; olio su tela, 89,5 x 131,4 cm; Montreal, collezione Elwood B. Hosmer)
Forse il passo più bello, tra le centinaia e centinaia di lettere settecentesche, per un artista veneziano avviato a larghissima fama è quel “stordire” riferito da Alessandro Marchesini (étonner se volessimo pensarlo nella lingua più internazionale del momento) e cioè qualcosa che ci lascia scossi, immobili e muti per la meraviglia, momentaneamente meno coscienti, tanto da avere bisogno di un ventaglio per rianimarci, giusto per coltivare le abitudini dell’epoca. Questo capitò agli sguardi curiosi che videro l’opera del Canaletto esposta in occasione della festa annuale di San Rocco il 16 agosto 1725. Tali convinzioni di ordine squisitamente formale vestono d’interesse il particolare rapporto del Canaletto col vedutismo di Luca Carlevarijs. Dunque appaiono più cospicui, perché interni al dispositivo della nascita della veduta veneziana moderna, i riferimenti di Alessandro Marchesini all’esperienza della luce, che per certi versi, sebbene muta e immota, ci appare visibilmente superiore a quella di cui abbiamo esperienza. Un rapimento dei sensi e
innesco del persuasivo inganno degli occhi, come se lo spettatore fosse risucchiato nei cieli spalancati di Venezia. Canaletto sembrava godere di una nuova vitalità andando a caccia di quella seduzione direttamente sui luoghi in cui si manifestava che, attraverso gli occhi, divenivano il laboratorio mentale dell’artista, il varco offerto dall’elaborazione degli schizzi. Come la vivacità del disegno dell’Ashmolean Museum di Oxford, Veduta del ponte di Rialto infaza l’erberia, realizzato in preparazione del primo dipinto commissionato dal nobile lucchese al Canaletto: il frammento veneziano è nato all’impronta, senza mediazioni tecniche, sul luogo e sul momento, come sta a dimostrare l’appunto “sole” in basso, a destra del foglio, che corrisponde puntualmente al magnifico colpo di luce sull’acqua nella versione definitiva. È un occhio che partecipa dall’interno alla vita della città, che ne sa ora cogliere il brillare delle cose, animate e inanimate, la certezza del tempo che si identifica interamente con l’opera, se consideriamo ad esempio i dettagli dei ponteggi che descrivono quanto stava capitando nell’edilizia cittadina, con le sue trasformazioni che permettono di datare i quadri anche se non possediamo dichiarazioni scritte. Canaletto fabbricava a sua volta, con fascino e con originalità (e senza copiare), la città dei desiderî; FINESTRE SULL’ARTE • 69
“Veduta del ponte di Rialto infaza l’erberia” FOTO SOPRA:
Canaletto, “Veduta del ponte di Rialto
infaza l’erberia” (1725; penna a inchiostro bruno su traccia di gessetto rosse e nero, 140 x 202 mm; Oxford, Ashmolean Museum)
non si compravano ancora vetri, borse, scarpe e altri ricordini, come oggi capita, ma la visione di quel mondo, maturata con la relativa lentezza dello stile del viaggio, seguiva a casa in nuove visite, quando i cieli invernali si facevano grigi e (bastava un’occhiata) tornava l’estate di Venezia. La scoperta della realtà che si rivela agli occhi nei suoi più completi propositi è conquista libera del Settecento, ma non bisogna trascurare quanto fos70 • FINESTRE SULL’ARTE
sero diffusi l’attenzione e lo studio della meccanica compositiva propria degli impianti scenografici. Anzi, per essere il visibile un gran teatro con le sue varianti di luce e cose, era raccomandabile a uno specialista addentrarsi nei segreti di quella tecnica. La matrice comune alle regole di composizione scenografica, con l’abilità di organizzare nella verosimiglianza le diversissime parti del panorama, qualifica una delle peculiarità del XVIII secolo. Il tema del capriccio in particolare, che in sé rappresenta una declinazione tutta speciale del genere vedutistico, è la quintessenza del concetto di varietà e sorpresa, capace di stringere in sé ragione e piacere. Lo stesso Canaletto non esitava a dedicarsi con successo a questo genere, pur avendo già trovato una precisa identità vedutistica dopo le prime esperienze con l’incarico di scenografo. Affiancati in una sala di villa Giovanelli a Noventa Padovana stavano due tele giganti con rovine classi-
che, architetture e figure; erano state acquistate probabilmente con la mediazione di Domenico Coronato, uno dei più conosciuti “bottegheri da quadri” della piazza veneziana, proprietario di quei negozi particolari paragonabili a certi odierni discount. Ma il Canaletto, firmando e datando 1723 uno degli esemplari (come raramente gli capitò) volle avvertire che le sue capacità erano grandi e si mostravano nello spazio tridimensionale del capriccio. Vi si apprezza l’idea registica, si allestiscono paesaggi mostrando insieme spazio e macchina scenica: per scoprirne meglio il segreto, si dovrebbe immaginare una sorta di esame del teatro dietro le quinte. E così si acquisterebbe familiarità con le varianti
de architetto, divenuto prova generale per il capriccio più palladiano della storia, di cui scrisse il colto Francesco Algarotti nella lettera del 28 settembre 1759, con Rialto ancora, palazzo Chiericati e la Basilica di Vicenza: «un nuovo genere, quasi direi, di pittura, il quale consiste a pigliare un sito dal vero, e ornarlo di poi con belli edifizi o tolti di qua e di là, ovveramente ideali. In tal modo si viene a riunire la natura e l’arte, e si può fare un raro innesto di quanto ha l’una di più studiato su quello che l’altra presenta di più semplice». La conversazione del Canaletto con le architetture di Palladio continuò a Londra, dove si trasferì dal 1746 per una decina d’anni. Nuovi dipinti erano ri-
Canaletto donò alla veduta una nuova vitalità, recandosi a cogliere la seduzione di Venezia direttamente nei luoghi in cui si manifestava. compositive, con sempre nuovi scenarî che lusingano gli amatori dell’epoca ad accogliere nei salotti di casa quello scherzo della natura, capace di piegare all’arrangiamento pittoresco scorci e testimonianze dell’antica grandezza delle città visitate. Potremmo parlare di capricci anche per la famiglia settecentesca della conoscenza palladiana, col suo passato e il gravame dei miti e dei riti (i viaggi tra Venezia e Vicenza, per dire, a visitare le sue opere) che interessavano la buona educazione dell’upper class europea, soprattutto inglese. Fu così che la collaborazione di Antonio Visentini e Francesco Zuccarelli prese a modello le chiese di San Giorgio Maggiore e del Redentore, o di palazzo Chiericati, posti in un contorno di campagna tanto irrealistica quanto invitante. Il gesto d’amore verso Andrea Palladio si compie nel percorso che aveva trovato materia fertile nella rievocazione dipinta compiuta dal Canaletto per desiderio di Joseph Smith, il console britannico a Venezia, famoso per proteggere gli artisti, per gli inviti nella magnifica casa sul Canal Grande ai Santi Apostoli, dove ai bei tempi si faceva anche mercato di quadri e altro. Gli aveva commissionato tredici sopraporte con monumenti dell’architettura veneziana, tra cui le miglior cose del Palladio, San Giorgio Maggiore, San Francesco della Vigna e quel Ponte di Rialto sul progetto mai realizzato dal gran-
chiesti per diffondere l’eredità del vicentino, come la Chiesa del Redentore, riemerso in Inghilterra a metà Ottocento per essere riacquistato con intatta passione. Questa veduta ci permette di chiarire come l’equilibrio tra verosimiglianza spaziale e sensibilità atmosferica, pur ammettendo tutti i tecnicismi della camera ottica, vera e propria strumentazione fotografica ante litteram per impostare lo scorcio, stia nel respiro della rappresentazione finale, in cui si concentra la complessità e tutta l’energia dell’invenzione, dunque ben al di là di una semplice meccanica compositiva. Venezia nel Settecento era divenuta una delle più popolari città d’Europa, luogo delle apparenze e del piacere per il popolo dei viaggiatori, specularmente riflessi nell’opera dei vedutisti e in quella particolare del Canaletto, che poteva sembrare uno squisito fiore tutto sentimentale col suo plein air a cui aveva saputo dare sempre nuove variazioni su alcuni temi prediletti. Quel suo repertorio sembra rinascere ancora a Londra. Nella grande capitale pare rivitalizzarsi la sensibilità per la veduta con l’arrivo nelle raccolte di Giorgio III dei Canaletto di Joseph Smith (1762), quando l’artista era da tempo rientrato a Venezia. FINESTRE SULL’ARTE • 71
Tanti doni avrebbero scaldato i cuori dei molti innamorati di Venezia anche durante l’Ottocento e fu così che i quadri elaborati per la collezione di Stefano Conti, tra i molti che vi erano già
Francesco Guardi, al momento della sua riscoperta, fu apprezzato soprattutto per la rapidità e l’esuberanza delle sue vedute. presenti, nel 1832 entrarono nella casa di Robert Townley Parker a Londra, città dove il Canaletto aveva a lungo lavorato. Già: l’Ottocento e la fortuna del vedutismo veneziano. Canaletto, che pure non ebbe buoni rapporti con l’Accademia di casa, dove entrò a fatica solamente a fine carriera, continuò ad essere copiato nei banchi di scuola tramite le sue celebri incisioni. Non ebbe gloria ufficiale, ma ad esempio troviamo l’eccentrico Niccolò Tommaseo con un’interpretazione teorica da Romanticismo cristiano della figura del vedutista (1838), che consegna a un commento ideale basato su alcune opere viste a Montpellier, in realtà di Francesco Guardi. Un artista, questi, ritrovato e scoperto agli inizi del Novecento da Simonson e Damerini in chiave preimpressionista per la rapidità e l’esuberanza del suo dipingere vedute, quelle forme evocate tra cieli e acque che però apparivano frutto di un’immaginazione priva di regole ai cultori del classicismo di fine Settecento. Eppure egli non mancò d’interessare una ristretta cerchia di amatori, come ci ha raccontato Francis Haskell indagando anche sulle uscite di certe sue opere nel corso del diciannovesimo secolo, apprezzatissime in Inghilterra. C’è da chiedersi quanto non fossero piuttosto attratti dalla tradizionale fortuna del tema vedutistico rassegnandosi all’assenza nel mercato collezionistico di esemplari del rinomato Canaletto, quasi niente del nipote Bellotto, poco del Marieschi, forse qualche capriccio di Visentini, Joli e Battaglioli. «Restano le cose del Guardi», raccontava Pietro Edwards allo scultore Antonio Canova, che da Roma, nel 1804, s’interessava all’argomento, «scorrette quanto mai, ma spiritosissime, e di 72 • FINESTRE SULL’ARTE
queste vi è adesso molta ricerca, forse perché non si trova di meglio. Ella sa però che questo Pittore lavorava per la pagnotta giornaliera; comprava telacce da scarto con imprimiture scelleratissime… ». Un’immagine che in una specie di transfert visivo ha lasciato tracce evidenti nella storia grama dell’artista, se ancora il milanese Giuseppe Bertini lo ritraeva, in un dipinto presentato a Brera nel 1894, un poco imbronciato a vendere i suoi quadretti ai clienti perdigiorno dei caffè di piazza San Marco. Oggi però lo ricordiamo (e per certi versi fa impressione) con una delle sue vedute più riuscite, il
Ponte di Rialto col palazzo dei Camerlenghi, acquistata nel 1768 dal politico Chaloner Arcedeckne (ancora un inglese in viaggio a Venezia), che da Christie’s a Londra nel 2017 è stato proposto a venticinque milioni di sterline. Come per certi versi capitò alla pittura di Giambattista Tiepolo, il giudizio di modernità di Francesco Guardi non contrasta più con le qualità dell’immaginazione, cose che ora assumono la valenza positiva grazie al passaggio degli umpressionisti. Come la luce, nelle sue tracce evidenti che hanno rappresentato il vedutismo del Canaletto e dello stesso Guardi; anzi meglio il secondo del primo, con la freschezza
Ponte di Rialto col Palazzo dei Camerlenghi FOTO SOPRA:
Francesco Guardi, Ponte di Rialto col
Palazzo dei Camerlenghi (metà anni Sessanta del XVIII secolo; olio su tela, 119,7 x 204,3 cm; Collezione privata)
dello sguardo vivo del ricordo, irrorato dai colori dell’improvvisazione che rivela un’esperienza istantanea, piuttosto dell’altro e dei suoi saggi di una Venezia oggettiva, spaziata a memoria pur nella preparazione tecnica dell’inquadratura prospettica. FINESTRE SULL’ARTE • 73
Capriccio con architetture classiche FOTO SOPRA:
Canaletto, Capriccio con architetture
classiche (già a Noventa Padovana, Villa Giovanelli; 1723; olio su tela, 178 x 322 cm; Collezione privata)
Viva Guardi, avrebbe detto da Parigi Paul Leroi nell’Ottocento e, noi aggiungiamo, la sua innocenza che ci accompagna per sempre dentro all’illusione di Venezia. E pensare che tutto era cominciato nella bottega del fratello Giannantonio Guardi. Tra anni Trenta e Quaranta erano costretti all’attività di copisti da opere di maestri più quotati; prodotti da destinare prevalentemente alle collezioni dei Giovanelli e di Johann Matthias von Schulenburg, che gli aveva inclusi tra i poveri nel libro paga. La riflessione sull’effettivo inizio del vedutismo di Francesco Guardi non è marginale, dato che la critica ancora si divide. La pratica prese avvio alla morte del fratello maggiore, Giannantonio (1760)? E in tal caso, come giustificare una direzione stilistica del vedutismo di Francesco tutta opposta alla luce solare, che all’epoca aveva posato il genere pittorico sulle attenzioni e sulla comprensione dell’occhio canalettiano? Come pensare che la radice del vedutismo contemporaneo, la sua grandezza e la novità della luce che si irradia fino all’infinito, qualità che meravigliavano i collezionisti dell’intera Europa, trovassero 74 • FINESTRE SULL’ARTE
una risposta a Venezia così fuori sincrono negli anni Sessanta, cioè nei primi ipotetici tentativi di Francesco Guardi; tagli dalle atmosfere profonde, quasi il maestro volesse proporre un viaggio verso gli inizî della maniera dello stesso Canaletto? Ma bisognerà entrare meglio nelle suggestioni più profonde della formazione guardesca, prima delle immagini più celebri di Venezia, trapunte di luce guizzante e passate d’aria. Una testimonianza risalente al primo Ottocento, ci parla di una collaborazione di Francesco Guardi col Canaletto nell’esecuzione di alcune vedute. Si tratta di una supposizione, ma non si può escludere che un adolescente alle prime armi nella pittura, come si sa appartenente a una famiglia di poveracci, potesse aiutare un vedutista già rinomato qual era il Canaletto; scoprirne le idee e il trapasso da un vedutismo contrastato nelle atmosfere, direi pittoresche come sembravano essere state le sue vedute dei primi anni Venti del secolo. Però se fosse vero, chissà come avrà sgranato gli occhi davanti ai due capricci per i Giovanelli della villa di Noventa vicino a Padova. Un debito alla lontana nei confronti del Canaletto, del tutto normale per chi viveva praticando il lavoro di copista ancora durante il quinto decennio. E poi la funzione della macchia con la quale accende di vita il panorama veneziano delle architetture immobili, ad esempio nelle figure, che vediamo tracciate in uno
sviluppo che le avrebbe più tardi rese inconfondibili. sofisticato monocromo. Un’esperienza di stile che il maestro si costruisce in Chissà, volendo correre con la fantasia, potremmo un ambito di consumo del genere vedutistico di cui si anche immaginare che Francesco Guardi volesse
Quelli del Canaletto sono saggi di una Venezia oggettiva, quelle di Guardi sono vedute catturate con la freschezza del ricordo e con i colori dell’improvvisazione che rivela un’esperienza istantanea. poteva essere anche vittime nel mercato locale. Ecco formarsi la caratteristica di un maestro che sarebbe stato tra i principali interpreti della seconda metà del secolo e che sembra raccomandarsi al destino della domanda sulla piazza veneziana. Ed è così che la poetica settecentesca da cui dipende la libera combinazione di architetture e figure nella chiara coscienza del trionfo dell’invenzione, sembra piegarsi a quella visione di meraviglia. Vi si riconosce la sicurezza dell’occhio portato ad espandere lo spazio, e la qualità della tessitura compositiva ed atmosferica, tutta virata, parrebbe, nella trasparenza di un
pensare la sua città a occhi chiusi, intatta, vivendo giorni umili, ma onesti e sereni, che vediamo per l’ultima volta nei suoi quadri. Come se non volesse staccarsi mai da quel piacere. ◊
Capriccio con architetture FOTO SOTTO:
Canaletto, Capriccio con architetture (già
a Noventa Padovana, Villa Giovanelli; 1723; olio su tela, 178 x 322 cm; Collezione privata)
FINESTRE SULL’ARTE • 75
| LA CRITICA
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Documentarî d’arte testo di Alessandro Romanini
Anche l’occhio vuole la sua... arte: fin dagli albori della cinematografia, sono stati molti i registi che si sono cimentati con il genere del documentario d’arte, coinvolgendo critici e storici dell’arte, spesso inventando veri generi. Un breve excursus storico sul documentario d’arte tra cinema e tecnologia.
I
l diffondersi capillare del turismo culturale e dell’attrazione esercitata dalle mostre d’arte e quello parallelo della tecnologia digitale, che ha modificato la fruizione, ha donato nuova linfa al documentario d’arte. Il digitale ha anche aperto la strada all’utilizzo di tecnologie di ripresa e proiezione che hanno raggiunto un livello di “immersività” dello spettatore inedito e un coefficiente esperienziale impensabile fino a pochi anni fa. Nel 1915, sull’onda delle prime avanguardie artistiche, Sacha Guitry gira un mediometraggio dal titolo Ceux de chez nous, riunendo le personalità dell’arte e della cultura più importanti del periodo e filmandole al lavoro: tra questi Degas, Monet, Hans Memling Renoir e Rodin. In Germania negli anni Venti, sull’onda del movimento FOTO SOPRA: Fotogramma del filmato monografico espressionista e delle sperimentazioni cinematografiche Hans Memling di André Cauvin (1939). di artisti come Ruttmann, Eggeling e Richter, prende vita la serie di documentarî Le mani creatrici diretta da Hans Cürlis, che illustrava in piano sequenza e in primo piano il lavoro di artisti come Georg Grosz nel Gli anni Trenta portano a maturazione il format, in cor1923-1924, Otto Dix nel 1926 e Vasilij Kandinskij nel rispondenza alla diffusione del sonoro sincronizzato nel 1927 (la serie di documentarî di Cürlis continuerà nel cinema, ma anche all’uscita di una serie di saggi fonda-
I primi documentarî d’arte risalgono al periodo delle avanguardie storiche: tra i pionieri fu Sacha Guitry, che filmò alcuni dei grandi impressionisti al lavoro. secondo dopoguerra con un ritorno sull’opera di Oskar mentali sull’argomento: Rudolf Arnheim, Film als Kunst Kokoschka nel 1957, George Grosz nel 1958 e André (1932), Carlo Ludovico Ragghianti, Cinematografo RigoroMasson nel 1964). so (1933), Erwin Panofsky Medium and Style in Motion Picture (1934), senza dimenticare alcune riflessioni illuminanti e pionieristiche di Ricciotto Canudo nel suo testo Riflessioni sulla Settima Arte (1923) e saggi come quello di Michelangelo infinito Paul Heilbronner sul cinema documentario e le belle FOTO PAGINA A FIANCO: Enrico Lo Verso interpreta arti. Il belga André Cauvin gira L’agnello Mistico (1939) e Michelangelo in Michelangelo infinito di nello stesso anno il filmato monografico Hans Memling, a cui farà seguito Il Ritorno dell’Adorazione dell’Agnello Mistico Emanuele Imbucci (2018). FINESTRE SULL’ARTE • 77
(1945). Nel 1938 il suo connazionale Charles Dekeukeleire gira Thèmes d’ispiration trionfando al Festival di Venezia. Dalla scuola belga arriva anche Henri Storck che filma un’originale drammatizzazione della Discesa dalla croce di Rubens, nel cortometraggio Sur les routes de l’étè del 1936 e inaugura un uso del travelling e della sinergia, nel montaggio, fra inquadrature di dettagli e musica, come si riscontra nel successivo Regards sur la Belgique del 1937. Luciano Emmer, in collaborazione con Enrico Gras, apre il nuovo decennio con Il paradiso terrestre (1940) dedicato all’opera omonima di Bosch, dopo aver girato (ancora ventenne) nel 1938 Racconto di un affresco dedicato alla giottesca Cappella degli Scrovegni a partire dalle foto degli Archivi Alinari. Lo scopo divulgativo, arricchito da un’istanza drammaturgica, animerà anche i suoi filmati seguenti come L’invenzione della Croce (1949) e Leonardo da Vinci (1952), per citarne solo alcuni. Tra gli storici dell’arte che si cimentarono con il documentario d’arte con la collaborazione di un regista
la collaborazione fra lo storico dell’arte Paul Haesaerts (formatosi con Wölfflin) e Henri Storck, che inaugura un filone definito pedagogico e critico. Tra i loro documentarî ricordiamo Paul Delvaux (1946), La finestra aperta (1952) sulla pittura di paesaggio e l’ultimo Permeke (1985), in cui il regista belga ricorre a split screen, montaggio alternato, sovrimpressioni, distorsioni e animazioni, accelerazioni, rallenti. Paul Haesaerts girerà Visita a Picasso (1949) utilizzando un vetro trasparente per far dipingere l’artista e facilitarne le riprese in diretta, procedimento che verrà utilizzato in seguito anche nel famoso documentario di Henri-Georges Clouzot Il mistero Picasso (1956) e in parte da Hans Namuth in Pollock 51 (1951). Nel 1947 il regista Alain Resnais volge lo sguardo sugli artisti contemporanei e gira Visita a Hans Hartung e, nel 1948, Van Gogh, considerato una pietra miliare nel genere a cui faranno seguito, nel 1949, l’acclamato Guernica, nel 1950 Gauguin e l’anno successivo Goya. Una menzione specifica merita Carlo Ludovico Rag-
I documentarî d’arte continuano anche oggi a uscire sul grande schermo, spesso realizzati con tecnologie 3D: il genere è dunque vivo e gli si prospetta un futuro roseo. possiamo citare Matteo Marangoni, Valerio Mariani, Rodolfo Pallucchini a cui si aggiunse anche l’artista Alberto Savinio (i documentarî prodotti dalla INCOM nel 1943 erano Botticelli del 1943, commento di Matteo Marangoni e regia di Alberto Pozzetti; Sinfonie Piranesiane e Michelangelo da Caravaggio, commento di Valerio Mariani, regia rispettivamente di Edmondo Cancellieri ed Edoardo Saitto; Tintoretto, commento di Rodolfo Pallucchini, regia di Edmondo Cancellieri; Andrea Mantegna, commento di Alberto Savinio, regia di Carlo Malatesta). Spicca su questo versante la collaborazione fra lo storico e teorico dell’arte Roberto Longhi e Umberto Barbaro. Nella primavera del 1947 i due iniziano a collaborare dando vita ai filmati Carpaccio e Caravaggio del 1948. Sintomatico dell’acquisita importanza del cinema come strumento divulgativo dell’arte, a Parigi nel 1949 viene creata la Federazione Internazionale del Film sull’Arte (FIFA) che vede come presidenti onorari Fernand Léger e Lionello Venturi. Nel 1948 vede la luce il documentario Rubens, nato dal78 • FINESTRE SULL’ARTE
ghianti, figura caleidoscopica che ha dato vita a un’esperienza singolare nell’ambito della documentazione e della divulgazione artistica, del cinema e della cultura del Novecento. I critofilm, come li definisce l’autore, rappresentano un nuovo modo di filmare l’oggetto e il processo artistico, un prodotto audiovisivo concepito e realizzato da uno storico e un teorico dell’arte e del cinema, con uno scopo che è contemporaneamente critico e comunicativo. In questo specifico format, iniziato con la realizzazione in prima persona de La Deposizione di Raffaello nel 1948 e concluso con Michelangiolo nel 1964, Ragghianti affronta i problemi della critica d’arte conferendo priorità all’analisi visiva attraverso le potenzialità del linguaggio cinematografico. Ragghianti, il cui punto di vista era influenzato sia dalla teoria purovisibilista di Konrad Fiedler che dall’idealismo crociano, ribadisce la sua fiducia nelle capacità del cinema di riprodurre fedelmente l’opera e nella possibilità che ha di restituire la tridimensionalità dell’opera stessa attraverso la simulazione dei movimenti dell’occhio umano e la ricostruzione del
Immagine per un critofilm FOTO SOPRA
Immagine per un critofilm su Botticelli di
Carlo Ludovico Ragghianti.
sulla scorta dell’esperienza della consorella britannica Sky Arts. Cinema e tv collaborano, come dimostra la sinergia fra Sky e Magnitudo Film, che ha dato vita a una serie di documentarî in cui convivono la dimensione documentaria e quella fiction, costituiti da un armonico mix fra accurate ricerche storico-artistiche, impiego di tecnologie innovative e uno stile cinematografico: fra le coproduzioni ricordiamo Raffaello il Principe delle Arti, Musei Vaticani, Caravaggio. L’anima e il sangue (2017, distribuito in 353 cinema con 130mila spettatori) e Michelangelo Infinito. Nexo Digital, creata a Milano nel 2009, è una società di produzione e distribuzione di contenuti culturali e artistici alternativi, che ha scelto la formula dell’uscita unica sul grande schermo per tre giorni per poi proseguire la distribuzione su varie piattaforme e supporti. Con questa formula ha saputo imporre un nuovo paradigma di possibilità fruitive all’arte e alla cultura. Il documentario d’arte è dunque vivo e vegeto e gli si prospetta un futuro roseo, a giudicare dalla situazione attuale. ◊
processo creativo dell’artista con la macchina da presa. Per un decennio, dal 1954 al 1963, grazie al sostegno economico-produttivo di Adriano Olivetti e della sua iniziativa editoriale seleArte, con il comune intento di diffondere l’arte presso un pubblico più vasto, realizza diciotto critofilm su tematiche diverse, dalla pittura alla scultura, dall’architettura all’urbanistica. A partire dai primi anni Sessanta, la diffusione capillare della televisione e della tecnologia video modifica rapidamente le dinamiche fruitive della cultura e dello spettacolo del pubblico, relegando il documentario ad un oblio lungo oltre trent’anni. Ancora memori degli esperimenti televisivi di Ragghianti e quelli successivi degli anni Settanta di Emmer, Zanoli e Simongini, molti autori si sono nuovamente dedicati al piccolo schermo negli ultimi anni. Tocca al canale franco-tedesco Arte il ruolo di pioniere nel 1989, divenendo il primo canale tematico continentale dedicato ad arte e cultura. Nel 1999, fino al 2003, Rai Sat Art percorrerà la stessa strada, provando a diffondere l’arte presso il grande pubblico. Nel 2009 appare Rai 5, che imposta un palinsesto interamente dedicato all’arte, in cui spiccano programmi come quello condotto da Maurizio Ferraris, Lo stato dell’arte. Tra le Carlo Ludovico Ragghianti esperienze positive della nostra tv di stato, ricordiamo quelle condotte da Achille Bonito Oliva come Autoritratto FOTO SOPRA: Carlo Ludovico Ragghianti durante le riprese dell’Arte Contemporanea (1996), A.B.O. collaudi d’arte (2000) di un critofilm e Fuori Quadro nel 2015. Sky arte HD inizia le trasmissioni l’1 novembre 2012,
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| CONTEMPORARY LOUNGE
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Miquel Barcelรณ intervista di Federico Giannini
Nelle opere di Miquel Barceló (Felanitx, 1957) s’incontrano un passato che ci rimanda fino alla preistoria, e un presente attento a ciò che accade nel mondo, in un’arte che fa della commistione dei linguaggi (in particolare tra pittura e ceramica) una delle proprie cifre principali. Fino al 6 ottobre, Barceló è protagonista di una monografica al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza che ripercorre la sua produzione in ceramica.
P
er la Sua più recente mostra, l’antolo- ceramica viene utilizzata per i pannelli solari, e addigica di Faenza dedicata alla Sua produ- rittura alcuni elementi delle navi spaziali sono fatti di zione ceramica, è stato scelto un titolo ceramica. tratto da La nuova confutazione del tempo di Jorge Luis Borges, “Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume”. In che modo queHa citato la grotta di Chauvet, a cui fa spesso riferista frase di Borges si relaziona con la Sua opera? mento. Perché è così affascinato da questo luogo? Mi ritrovo spesso nelle frasi di Borges: in questo caso Amo molto le grotte dove troviamo disegni preistorici, mi ritrovo nella frase scelta dalle curatrici della mostra, non solo Chauvet, anche Altamira, Lascaux e altre. NeIrene Biolchini e Cécile Pocheau Lesteven, perché congli ultimi vent’anni ho visitato tutte quelle che si possono sidero il tempo il materiale del mio lavoro. Trovo che il visitare, ma Chauvet ha un fascino particolare perché tempo sia un po’ come l’argilla. è quella con le pitture più antiche (con la datazione al carbonio 14 si è scoperto che risalgono a trentaseimila anni fa), molto più rispetto ad Altamira o Lascaux che La ceramica, del resto, fa da sempre parte del Suo invece risalgono a circa quattordicimila anni fa: Chaulinguaggio: una delle Sue opere più celebri, le decora- vet, insomma, ha il doppio degli anni. Credo che le pitzioni della Cappella del Santissimo nella Cattedrale di ture di Chauvet siano un capolavoro assoluto: volendo, Palma di Maiorca, Sua città di origine, fa largo uso del- potremmo ritenere tutta la storia dell’arte da Chauvet la ceramica. Che cosa, secondo Lei, distingue questa in poi come una lunga decadenza, se considerassimo forma d’arte dalle altre? l’evoluzione della storia dell’arte secondo un’ottica proSoprattutto il suo essere un materiale primigenio: l’ar- fessorale, come alternanza di periodi e movimenti. Se gilla è un materiale che viene prima di tutti gli altri. invece riflettiamo sul fatto che tutta l’arte è ed è stata E poi, l’argilla è un materiale dalla forte ambiguità. arte contemporanea, allora troveremmo che noi oggi Un’ambiguità che mi piace molto: l’argilla può esse- siamo gli stessi uomini che crearono le pitture di Chaure modellata, contiene riferimenti biblici ma anche vet: in fondo, facciamo arte per le stesse ragioni. sessuali, è antichissima. Penso alla grotta di Chauvet, dove troviamo disegni di animali tracciati con le dita sull’argilla morbida che ricopriva le pareti della grotta. Mi piace l’idea, se vogliamo anche un po’ ironica, di lavorare su di un materiale così antico, preistorico, ma che è anche così moderno, dato l’impiego che trova in molte delle grandi tecnologie odierne: per esempio, la
Miquel Barceló FOTO PAGINA A FIANCO:
Ritratto di Miquel Barceló (2016)
Tornando alla ceramica, possiamo sottolineare che questo materiale ha fatto la comparsa nella Sua arte in un momento successivo: il mezzo con cui Lei ha cominciato è quello della pittura, e la pittura è sempre stata presente nella Sua arte, dall’inizio fino alle opere più recenti. Quali sono secondo Lei gli elementi distintivi della pittura, almeno per quanto riguarda la Sua esperienza?
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A volte, quando dipingevo, il tema dei dipinti era la stessa ceramica. E trovavo che comunque la pittura fosse un po’ gelosa della ceramica, per il fatto che quest’ultima ha la possibilità di cambiare forma, di essere distrutta e ricreata, di poter essere sempre modificata... possibilità che sono precluse alla pittura: la ceramica può essere infinitamente riciclata, cosa che invece non si può dire per la pittura. Ad ogni modo mi piacciono molto i rimandi tra l’una e l’altra forma d’arte. L’argilla, con l’acqua, è quasi una forma di... acquerello. E al contrario, certi dipinti, soprattutto quelli che ho creato in Africa, giocavano molto con le terre, erano coperti da polvere, spesso così tanto da assumere quasi l’aspetto di terrecotte, a volte era quasi difficile distinguere tra dipinto e terracotta. Mi piace l’ironia che c’è in questo discorso. E mi piace molto, ripeto, la relazione che c’è tra ceramica
e pittura: quando dipingo, imparo molte cose per quando creo ceramiche, e viceversa. A volte penso anche che le ceramiche siano come caricature dei dipinti, siano come scherzi nei confronti della pittura. E trovo anche che la ceramica rappresenti una sorta di avanguardia rispetto alla pittura.
Mi viene in mente Asger Jorn, anche nella sua produzione spesso troviamo ceramiche che sono molto più ironiche (e molto più avanti) rispetto ai dipinti... Vero, e anche per molti altri artisti era così. Penso per esempio a Lucio Fontana, mi interessa molto la relazione tra dipinti e ceramiche nella sua arte. Quello che trovo interessante è che spesso in queste produzioni le
Cap de peix FOTO A SINISTRA:
Miquel
Barceló, Cap de peix (1996; terracotta e ingobbo, 21 x 37 cm; Archivio Barceló)
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Temor i tremolor FOTO A SINISTRA:
Miquel Barceló, Temor i tremolor (2018; tecnica mista su tela, 243 x 244 x 12 cm; Collezione privata)
ceramiche sono molto più vicine alla pittura che alla scultura. Un po’ come la pittura che è più vicina alla poesia che al cinema. Forse non è evidente, ma io credo che sia così.
Abbiamo fatto un cenno ai Suoi viaggi, abbiamo menzionato le Sue visite alle grotte di Chauvet, i Suoi dipinti africani, ma c’è anche da dire che la Sua terra d’origine, l’isola di Maiorca, è sempre stata presente nella Sua arte. In che modo il Suo essere maiorchino ha inciso sulla Sua formazione artistica? Oggi essere di Maiorca è un po’ come essere... di Disneyland. C’è un po’ di amarezza nel constatare che ormai è diventata soprattutto un luogo turistico, e trovo che questa sia quasi come una malattia, che però è diffusa in tutta Europa: le nostre città stanno diventando come dei grandi musei (e trovo che questo sia negativo), e spesso anche chi non vuole che questo accada si trova, suo malgrado, a collaborare con questo sistema. È successo anche a me, le ceramiche che ho realizzato per la Cattedrale di Palma di Maiorca
sono diventate un’attrazione turistica. Io poi sono maiorchino ma mi sento anche profondamente europeo, in positivo e in negativo. In negativo perché Maiorca è un’immagine dell’Europa e delle sue contraddizioni: il nostro è un periodo storico molto movimentato e agitatissimo, e le nostre città a volte sembrano musealizzate fino quasi alla paralisi. Tuttavia esiste ancora una Maiorca rurale: io sono nato in campagna e cerco ancora di vivere secondo i ritmi della campagna. E poi c’è anche un’altra Maiorca che ancora si conserva: la Maiorca subacquea.
E a proposito di vita sotto il mare, in una delle Sue mostre più recenti, Lei ha paragonato l’attività del pittore alla vita di un polpo, tanto che la mostra s’intitolava Vida de pulpo. In una poesia che Lei ha scritto sul Suo quaderno e che ha pubblicato in occasione della mostra stessa, leggiamo che Lei vorrebbe avere proprio la vita di un polpo. Che cos’è che l’attrae di questo straordinario animale e in che modo le Sue opere rivelano questo fascino? FINESTRE SULL’ARTE • 83
Pinocchio mort terracotta, 13,5 x 24,5 x 13,5 cm; Collezione privata)
La mostra indagava anche il Suo rapporto con il mare, con la natura e la fauna del mare, un tema su cui peraltro Lei è spesso tornato, per esempio con El Arca de Noé a Salamanca, o con il progetto Vivarium che Lei ha realizzato assieme a Sua madre, Francisca Artigues. Qual è il Suo rapporto con il mare?
Il polpo è l’unico animale marino che costruisce la propria tana, la sua abitazione. E poi fa collezioni di oggetti. Ho un rapporto speciale con i polpi, anche perché amo fare immersioni subacquee, è una delle mie attività quotidiane, che faccio tutti i giorni e tutto l’anno. Il polpo è un animale che passa molto tempo senza fare niente, e poi, nello spazio di pochi secondi, e con movimenti molto frenetici, fa tutto quello che deve fare. E secondo me è una metafora che calza molto bene se pensiamo a come lavora un pittore. Poi il polpo è un animale molto intelligente, dotato di memoria, in grado d’imparare, capace di riconoscere. E ha una peculiare abilità, quella di mimetizzarsi cambiando colore. Il polpo compie una specie di metamorfosi, si trasforma. Come succede anche all’arte.
Il rapporto con il mare è presente nella mia arte anche nel modo in cui lavoro. Di solito appoggio il supporto per terra, e io mi metto sopra il dipinto, poi mi calo letteralmente dentro all’opera, ci cammino sopra, mi sposto sulla tela e poi esco, come il subacqueo che scende nel fondo del mare, fa quello che deve fare, e poi risale in superficie. Ma prima di risalire era rimasto in apnea... anche la pittura è un qualcosa di simile a una forma di controllo della respirazione. Il mare poi è l’unica cosa che vedo tutti i giorni con piacere, anche quando le condizioni non sono migliori, anche quando c’è brutto tempo. Il mare da millenni affascina l’uomo. Artisti, poeti, scrittori, e via fino ai musicisti che scrivono le canzoni per l’estate. Il mare è un tema eterno. Poche cose esercitano lo stesso fascino del mare.
FOTO SOPRA :
Miquel Barceló, Pinocchio mort (1994;
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Anche in uno dei momenti più alti della Sua carriera, ovvero la Sua partecipazione alla Biennale di Venezia nel 2009, dove Lei ha rappresentato la Spagna con una retrospettiva che indagava la Sua produzione dal 2000 fino a quel momento, il mare era ben presente. Uno degli aspetti più interessanti di quell’esposizione era dato dal fatto che le Sue opere, in certo modo, rappresentavano una summa dei Suoi viaggi e dei Suoi soggiorni nei luoghi a Lei più cari, a partire da quelli in Africa. In che modo le suggestioni raccolte nei viaggi si fondono nella Sua arte?
mia arte che devo ai viaggi che ho compiuto: soprattutto con le mie prime ceramiche ho cercato di creare oggetti che sembrassero opere realizzate in periodi antichi. In Africa probabilmente ho imparato quasi tutto quello che dovevo imparare. E il fatto che adesso non ci si possa più recare in certe zone, come invece accadeva un tempo, per ragioni di sicurezza e a causa delle terribili condizioni di vita che si sono create, è per me un aspetto molto duro e triste. L’Africa mi manca moltissimo. E la tragedia dell’Africa è una tragedia molto umana. Non mi ritengo un artista che fa opere di attualità giornalistica, ma so cosa capita lì.
“Credo che l’arte possa incidere cambiando la sensibilità delle persone. Tante volte magari lo fa in maniera indiretta, ma se l’arte non guardasse alla realtà, tutto andrebbe peggio”. Ricordo bene quella Biennale perché ero uno dei pochi pittori presenti, se non forse addirittura l’unico. E ho trovato questo aspetto davvero molto inquietante, anche perché all’epoca avevo già oltrepassato i cinquant’anni d’età e mi sembrava molto strano che in così pochi fossero interessati alla pittura in quel momento. Quanto invece alle esperienze di viaggio, posso dire che durante i miei soggiorni ho sempre cercato di evitare di guardare ai luoghi che visitavo come a luoghi esotici, o come posti da visitare per ragioni, per esempio, di folklore. Per me si trattava di viaggi che servivano per imparare, anche a lavorare. In Africa, per esempio, ho imparato a lavorare come si lavorava nel neolitico, ho imparato a fare la ceramica con le tecniche che si adoperavano tremila anni fa. Questo, per esempio, è un aspetto della
Lei però di recente ha dichiarato che «dipingere è un atto politico» e che «la pittura è un atto di resistenza». La stessa Vida de pulpo si prestava a diversi livelli di lettura, uno dei quali, per esempio, legato alle attuali tragedie del Mediterraneo. Secondo Lei in che modo l’arte può incidere su chi la osserva? Per Vida de pulpo avevo realizzato alcuni dipinti con immagini d’imbarcazioni di migranti. Che non arrivavano da nessuna parte. Ecco, io credo che l’arte possa incidere cambiando la sensibilità delle persone. Tante volte magari lo fa in maniera indiretta, ma se l’arte non guardasse alla realtà, tutto andrebbe peggio. L’arte è una delle poche speranze che abbiamo, perdere l’arte significherebbe perdere qualcosa di molto importante. Un po’ come perdere... i giornalisti! Non credo molto
7 Peixos, pans i cap de Boc FOTO A DESTRA:
Miquel Barceló, 7 Peixos,
pans i cap de Boc (2003; 128 x 212 x 15 cm; Collezione privata)
FINESTRE SULL’ARTE • 85
nell’arte politica, nell’arte che fa propaganda o apologia, però credo che l’arte debba essere consapevole di ciò che accade nella realtà. Io per esempio credo che un dipinto di van Gogh racconti la società della fine del XIX secolo molto meglio di quanto non facciano tutti i dipinti politici dell’epoca. Certo, a volte può essere interessante far entrare la realtà nell’arte, come io ho fatto con le barche dei migranti, ma, almeno per quanto mi riguarda, non si tratta di un’abitudine. Anche se mi sento profondamente impegnato sui temi dell’attualità, dalle battaglie per l’ecologia alla lotta contro il razzismo. Ma ogni forma d’arte, anche se non fotografa o non racconta direttamente la realtà, è comunque un atto politico. Come nel caso di van Gogh, la realtà si può sentire attraverso l’arte.
Tiempo de vida FOTO SOPRA:
Miquel Barceló, Tiempo de vida (2018; tecnica
mista su tela, 130 x 161 cm; Collezione privata)
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Per rimanere sul piano della politica, mi viene in mente che Lei all’inizio degli anni Duemila ha realizzato un’edizione illustrata della Divina Commedia, che com’è noto è un’opera profondamente politica. Da dove nasce l’impulso a illustrare il grande poema di Dante Alighieri? Perché è uno dei grandi capolavori di sempre, perché mi piace molto la lingua di Dante, e perché è un’opera incredibilmente attuale: basta cambiare i nomi dei personaggi per trovare molte fotografie dell’attualità. È impressionante come un poema così antico riesca a mantenere intatta la sua attualità, e mi sembrava molto interessante trattare la Divina Commedia non come un’opera di letteratura, ma come una sorta di descrizione della realtà. Per questa ragione mi sono confrontato con altri capolavori della letteratura, per esempio con il Faust di Goethe o con la Metamorfosi di Kafka, oppure con i testi degli antichi filosofi greci. Lei è molto vicino all’Italia: la critica ha messo in relazione la Sua ricerca, oltre che ovviamente con i neoespressionisti tedeschi, anche col gruppo della
Transavanguardia, ma occorre comunque specificare che i Suoi studî guardano in diverse direzioni, anche in quella dell’arte antica, Lei stesso in un’intervista ha dichiarato che l’unico luogo in cui avverte affinità con le persone è il Museo del Prado. Se però dovesse citare gli artisti che ha incontrato in Italia e le esperienze che ha avuto nel nostro paese, quali elencherebbe? In realtà mi sento vicino a molti artisti che non hanno nome, come tanti artisti africani a cui ho guardato, ma facendo riferimento all’Italia non posso non parlare soprattutto delle mie letture (Pasolini, Sciascia, la poesia italiana del XX secolo), e di certe importanti esperienze, come quando fui a Napoli nel 1982: all’epoca lavorai per Lucio Amelio che stava per realizzare la mostra Terrae Motus dopo il terremoto del 1980. Lì incontrai molti artisti importanti, come Francesco
El arca de Noé FOTO SOTTO:
Miquel Barceló, El arca de Noé (2014;
tecnica mista su tela; Collezione privata)
Clemente, Cy Twombly, Joseph Beuys, Tony Cragg... Napoli in quel momento era una città davvero molto attiva. Nel 1997 invece ho speso quasi un anno a Palermo, quando lavorai al Cristo della Vucciria, intervento che realizzai per la chiesa di Santa Eulalia dei Catalani. In Italia sono nate anche le ceramiche della Cattedrale di Palma di Maiorca: per realizzarle ho lavorato per due o tre anni a Vietri sul Mare. Sì, posso dire che il mio legame con l’Italia è un legame culturale molto forte. Nei suoi Cuadernos de Africa, Lei ha scritto che «dipingiamo perché la vita non ci basta». Questa Sua frase, per rimanere in tema con l’Italia, mi ha fatto venire in mente il Primo Manifesto dello Spazialismo dove si dice che «l’arte è eterna ma non può essere immortale», perché «rimarrà eterna come gesto ma morirà come materia». Gli spazialisti volevano, per loro stessa ammissione esplicita, «svincolare l’arte dalla materia», mentre al contrario la Sua arte è fortemente materica, ma forse si premura anche di evidenziare come la materia stessa sia destinata a svanire, per esempio in alcuni dei Suoi primi lavori
FINESTRE SULL’ARTE • 87
non di rado abbiamo visto materia in decomposizione. Pertanto Le chiedo quali trasformazioni nel corso degli anni hanno avuto le Sue ricerche nell’ambito del rapporto tra gesto e materia... Alcuni mesi fa, per una mostra al Centre Pompidou di Parigi, ho realizzato alcuni interventi su vetro. A breve invece realizzerò una performance utilizzando l’acqua come materiale. Il rapporto tra materialità e non materialità è centrale nel mio lavoro. Negli anni Cinquanta si parlava dell’arte materica, c’era l’idea della consistenza fisica dell’arte, quasi che l’arte fosse pesante, un’idea che in qualche modo richiamava Gauguin quando diceva che un chilo di blu è molto più blu di un grammo di blu. Oggi credo che, più che la quantità di materia, conti la coscienza della materia. Se in un acquerello c’è un solo grammo di lapislazzuli, nel mio lavoro questo grammo diventa essenziale. La fisicità delle cose non riveste una grande importanza.
In conclusione vorrei ricollegarmi all’arte come mezzo per percepire la realtà, e all’arte come atto politico. In definitiva, l’arte può essere una risposta all’intolleranza? E se sì in che modo? L’arte deve essere una risposta all’intolleranza. Un’arte che non sia una risposta alle situazioni negative e insopportabili che viviamo non è arte. Anche se sei una persona che non vive il mondo dell’arte, tu hai comunque la tua forma d’arte, e l’arte dovrebbe essere per chiunque un legame con ciò che accade. Non è possibile vivere senza sapere cosa accade nel mondo. Forse quello che non è molto evidente è come l’arte riesca a cambiare la sensibilità, il modo di guardare le cose. Ma in qualche modo ci riesce, senz’altro. Del resto, si dice che l’arte è lunga, e la vita è breve...◊
Piedra blanca sobre piedra negra FOTO SOPRA:
www.miquelbarcelo.org
Miquel Barceló, Piedra blanca sobre
piedra negra (1989; tecnica mista su tela, 231 x 286 cm; Palma di Maiorca, Es Baluard - Museu d’Art Modern i Contemporani de Palma)
88 • FINESTRE SULL’ARTE
| CONTEMPORARY LOUNGE
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Caroline Achaintre testo di Chiara Guidi
Con i suoi richiami primitivisti ed espressionisti, l’artista francese Caroline Achaintre (Tolosa, 1969) unisce antico e moderno, tradizione e innovazione, vita e mitologia, in una ricerca sempre inedita che mescola echi tribali e ribellione punk, cultura psichedelica e stile decò, ma non solo.
«M
arc... come in pittura, alla fin fine... dove hai opportunamente eliminato forma e colore. Due scorie». Così recita un illuminante dialogo sullo stato dell’arte contemporanea fra i tre amici (Marc, Serge, Yvan) protagonisti della commedia Art di Yasmina Reza, théâtre de boulevard che, dei tre personaggi, ci racconta le maschere e le nevrosi che affiorano lentamente dopo la discussione nata a causa dell’acquisto, incomprensi-
Duo Infernal FOTO PAGINA A FIANCO:
Caroline Achaintre, Duo Infernal
(2018; acquerello e inchiostro su carta, 28,8 x 22 cm)
bile per gli amici, di un quadro quotato. È un quadro minimalista monocromo, comprato da Marc, che viene così descritto: «è una tela di circa un metro e sessanta per un metro e venti, dipinta di bianco. Il fondo è bianco, e strizzando gli occhi si possono intravedere delle sottili filettature diagonali, bianche». Questa riflessione, vissuta con l’entusiasmo di un’anima ancora achrome, da generazione dei primi anni Sessanta, è priva però di ogni residuo del processo contaminante dell’opera d’arte contemporanea, e svela come i minimalismi e le astrazioni che appartengono alla sola pratica formale di una pura maniera codificata possano essere validi solo per soluzioni di arredo anonimo, e allineato solo a un’idea di simulata emancipazione: un arredo FINESTRE SULL’ARTE • 91
utile solo per esibizioni a consensi moderni fatti di un senso della “modernità” acquisita dalle pagine dei magazine per la casa. Pagine patinate e illustrate che conducono, come miraggi, verso piccoli olimpi domestici da imitare. Questo prologo minimo ci serve per introdurre Caroline Achaintre (Tolosa, 1969) e il suo lavoro. Un lavoro che con la sua intensa, articolata e mai interrotta ricerca, sempre inedita, nega e rinnega ogni luogo comune, sconfigge ogni immagine confezionata sugli stilemi della contemporaneità, quella divenuta oramai ovvia e recitata anche nel théâtre de boulevard. I suoi grandi e affollati disegni preparatorî, con repertorî antropologici recuperati dalle grandi tradizioni dei carnevali europei, dalle maschere tribali (Envers, 2017), ora spesso obsoleti e resi esotici, trascurati dalle iconografie contemporanee, ci portano verso creature ultraterrene: le forme viventi hanno infatti un potere quasi narrativo, e assumono un tratteggio nuovamente mitologico.
ger, Anni Albers, le figure femminili rivoluzionarie che hanno animato e fatto vivere la scuola del tessile e della ceramica nella Bauhaus dei laboratorî tecnici, dove la specifica attitudine craft ha sviluppato poi la grande via del design. Una formazione che in ogni sua mostra, in ogni sua installazione (Duo Infernal, Fantômas be-part ad esempio), in ogni sua opera emerge non solo per le sue distese capacità tecniche (acquerelli, mobilia, terracotta, arazzi, tutti da lei interamente realizzati), ma anche per l’affermazione di un’apertura a repertorî costruiti nella conoscenza delle varie epoche storiche moderne: dall’epoca del postmoderno al gusto animalier dello stile decò, dalla scultura del dopoguerra inglese all’espressionismo tedesco, dalla cultura psichedelica a ribellioni musicali punk, gothic e metal assieme a un gusto visionario di una fantascienza intuita e praticata. Birdsssss (2013), iconograficamente, nasce da un libro di design russo degli anni Ottanta e Novanta: una rara pelliccia esotica con piume di aquila sfilava su una
La sua complessa formazione emerge in ogni mostra e in ogni installazione, non solo per le sue capacità tecniche, ma anche per la sua vasta conoscenza della storia dell’arte. Una storia mitologica di come l’animale si sia incarnato nell’uomo e, viceversa, di come le mimesi del regno animale abbiano poteri evocativi, ammonitori e salvifici. Un assurdo ibrido, un assurdo possibile, un ibrido evocativo. L’involucro è la pelle, e la pelle è la pelle della scultura fittile. L’argilla, materia creatrice dalle infinite proprietà tattili, percettive, formative ed anche curative, è la materia che Caroline Achaintre lavora per plasmare e donare alle sue sculture e alle sue installazioni non solo una forma, ma anche una pelle di contemporaneità. Sono poi creature rese astrazioni per mezzo di una melodrammaticità che sta fra l’illusione e una ingerente presenza, come in Temp Mint del 2013. La formazione di Caroline Achaintre è complessa (dalla Francia alla Kunsthochschule di Halle, poi alla Goldsmith di Londra, città dove ora vive), ed è da autentica Female Bauhuas: lei come le storiche pioniere Gertrud Arndt, Lilly Reich, Gunta Stölzl, Otti Ber92 • FINESTRE SULL’ARTE
passerella, e lei trasfigura il fashion in una trapuntata immagine dall’apertura alare che genera immagini e intense drammaticità. Arazzi sciamanici, l’abile tufting intrecciato nelle trame, immagini che, tramite fessure come sguardi, vigilano su di noi, animate da un reale spirito, da un concreto senso di volatilità e di imposizione dall’alto. Le opere in ceramica, come Beedeebee (2017), dalle maculature uniformi che hanno occhi regolari e definiti da circonferenze nere nelle singole macchie, dai mantelli di color citrino con striature fauve, con zone a strisce, superfici tigrate, armature squamose, si presentano con questa eccentrica epidermide che, nelle forme spezzate, insinua un nuovo primi-
Fantômas, be-part FOTO PAGINA A FIANCO:
Caroline Achaintre, Fantômas,
be-part, exhibition view, Waregem Platform for Contemporary Art and De la Warr Pavilion, 2018
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tivismo. Un primitivismo rivisitato attraverso libri e volumi che conservano immagini di epoche e periodi dove l’esotico rappresenta ancora un senso di un’appartenenza a una natura da mirabilia, collezionata secoli fa, nelle storiche Wunderkammer. Opere che evocano musei antropologici, che si riconoscono in alcuni passaggi panici e pagani della Sagra della Primavera di Igor Stravinskij, dove il dominio della natura produce una sacra paganità degli spiriti. Una natura che inizia a risvegliarsi e, generata fra note e ballet con passi propiziatorî, porta a una innovativa profondità che Claude Debussy aveva così espresso: «Igor, mi ossessiona come un magnifico incubo, e cerco invano di rievocare quell’impressione terrificante». Una reale “impressione terrificante” che è presente in Caroline Achaintre: eppure, per carolineachaintre.com
94 • FINESTRE SULL’ARTE
Envers FOTO SOPRA A SINISTRA:
Caroline Achaintre, Envers (2017;
ceramica, 20 x 24,5 cm)
Beedeebee FOTO SOPRA A DESTRA:
Caroline Achaintre, Beedeebee
(2017; ceramica, 24 x 29 x 33 cm)
quanto ci riguarda, non ci fa smarrire. Al contrario, ci fa ritrovare le nostre cellule più ancestrali e spirituali, che la società mediatica e culturale ha congelato in letarghi e zone dormienti. Aree e condizioni che fanno uniformare estetiche, stili e sensi. ◊
Birdsssss Caroline Achaintre, Birdsssss (2013; lana taftata a mano, 500 x 390 cm)
| CONTEMPORARY LOUNGE
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Gonçalo Mabunda testo di Francesca Della Ventura
Tra i più riconosciuti artisti africani contemporanei a livello mondiale, Gonçalo Mabunda (Maputo, 1975) ha vissuto in prima persona il dramma della guerra civile del Mozambico, il suo paese. E con le sue opere rievoca questa sanguinosa storia, per esorcizzarla invitandoci a costruire una società più gentile.
L
’Africa non la conosciamo affatto. Cosa sappiamo di questo enorme continente che, specialmente negli ultimi anni, è presente quasi tutti i giorni sulle prime pagine dei quotidiani di mezza Europa? Di fatto si conoscono solo orientativamente i numeri dei morti e dei vivi che arrivano sulle coste italiane, gente in fuga da quel continente a noi sconosciuto. Ma l’Africa non è solo una “fucina di immigrati” che affrontano il mare per rubare il de-
naro dei ricchi europei o per invadere i loro territorî, come alcune moderne dicerie vogliono farci credere. Il mondo non finisce una volta giunti allo stretto di Gibilterra. Oltre il Mediter-
Padiglione del Mozambico FOTO A SINISTRA:
Opere di Gonçalo Mabunda
al Padiglione del Mozambico nell’ambito della LVIII Biennale di Venezia.
FINESTRE SULL’ARTE • 97
raneo, oltre quel mare citato dai poeti e fonte d’ispirazione per artisti, esiste una terra meravigliosa e difficile, di cui non sappiamo nulla. Molte nazioni dell’Africa hanno una storia dolorosa: senza dimenticarlo, gli artefici di tanta carneficina e devastazione sono stati proprio gli europei che, fino a qualche decennio fa, hanno impoverito il continente, sfruttandone le terre, le risorse e i suoi abitanti. L’Africa è fatta anche di storie e di persone, molte delle quali muoiono giovani per malattie, malnutrizione o perché muoiono nei nostri mari, convinti che oltre quel leggendario Mediterraneo possano vivere una vita più dignitosamente umana, lontana dalla guerra e dalle carestie. Da una città delle coste africane, precisamente da Maputo, Mozambico, arriva l’artista Gonçalo Mabunda, le cui opere sono visibili attualmente presso il Padiglione della Repubblica del Mozambico alla LVIII Mostra d’Arte Internazionale della Biennale di Venezia. Il Padiglione ha un titolo più che mai appropriato, ovvero The Past, the Present and the In Between, incentrato sulla violenza, la corruzione e l’ingiustizia sociale che per decennî sono state le protagoniste indiscusse della storia del Mozambico. Nato un anno prima dello scoppio della guerra civile che ha interessato e devastato il paese dal 1976 al 1992, Mabunda è oggi uno fra gli artisti mozambicani, e in generale africani, più riconosciuti al mondo. Le sue sculture-installazioni che prevedono l’utilizzo di armi dismesse sono frutto della sua decennale esperienza nella lavorazione dei metalli e nella conoscenza delle tecniche di saldatura. Fondamentale per la sua carriera artistica è stata l’adesione, al termine della guerra civile, al progetto Arm into Art, promosso dal Consiglio Cristiano del Mozambico e supportato dal governo nazionale, dove Mabunda apprende che le armi dismesse possono essere utilizzate nuovamente per farne opere d’arte antropomorfe e 98 • FINESTRE SULL’ARTE
zoomorfe, mutandone così la loro natura bellica in quella estetica e creativa. Conversando con noi, Mabunda ha ricordato che quel progetto ha contribuito a dar vita ad una forma d’arte capace di far riflettere gli spettatori non solo sulla storia del proprio paese, ma anche sulla situazione universale dell’esistenza umana e del suo destino. Le tematiche su cui ci s’interrogava vent’anni fa sono ancora quelle attuali: la visione di un’identità comune, il saper vivere insieme valorizzando le differenze senza aver paura di queste, oltre che la vacuità del potere e l’inutilità della guerra e dei conflitti. Come afferma il critico d’arte e curatore Alessandro Romanini, le opere di Gonçalo Mabunda hanno un “potere taumaturgico”, nel senso che elevano quelli che sono stati degli strumenti di morte e devastazione (kalashnikov, pistole, razzi, bossoli) a opere d’arte che per la loro estetica possono essere esposte in gallerie, musei e mostre internazionali, compiendo un vero e proprio “miracolo” nel passaggio dalla morte alla vita. Un’operazione che è stata significativa e catartica per l’artista stesso, che nella guerra civile ha perso parte della sua famiglia. Le maschere e i troni dalle forme antropomorfe e zoomorfe assumono così una funzione didascalica e della rimembranza, rievocando o istruendo i suoi connazionali (e, a questo punto, l’umanità intera) su quella che è stata la storia contemporanea sanguinosa del Mozambico che ha provocato oltre un milione di morti e quattro milioni di profughi. Come è possibile osservare dalle ultime opere realizzate fra il 2018 e il 2019, dal punto di vista estetico e formale le maschere plasmate da Mabunda sono da ricondurre alla tradizione dell’Africa sub-sahariana, dove esse assumevano importanti significati spirituali, simbolici e religiosi, lontane da una riproduzione fisiognomica reale; i troni, invece, hanno una valenza quasi ironico-critica per
Padiglione del Mozambico FOTO SOPRA:
Opere di
Gonçalo Mabunda al Padiglione del Mozambico nell’ambito della LVIII Biennale di Venezia.
l’artista, che ricorda come il potere umano possa basarsi anche sull’uso di armi e sullo scorrere di sangue innocente. Ciò che effettua Mabunda è un’operazione di pace: ogni proiettile, ogni pistola o fucile che utilizza per le sue opere (e che a lui sono state donate dai suoi connazionali) equivale a una vita salva. L’unicità di queste sculture testimonia così il grande valore che l’opera d’arte può avere ai nostri giorni: quello relativo al cambiamento e al rendere più gentile la società in cui si vive. Mabunda ci ha detto di credere fortemente che l’arte
abbia un potere naturale intrinseco, in grado di lenire le ferite dell’anima e di guarirle. In questa particolare congiuntura storica, afferma Mabunda, l’artista deve assumere un ruolo preciso e determinato, che è quello di far sì che l’arte abbia il potere di anticipare il futuro, sottolineandone le principali problematiche mediante il potere delle forme estetiche. L’arte richiama memorie collettive che sono valide globalmente e per ogni essere umano. L’assemblaggio di materiale vario allo scopo di dare a FINESTRE SULL’ARTE • 99
Untitled (Mask) Gonçalo Mabunda, Untitled (Mask) (2018-2019; tecnica mista, 45 cm)
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Untitled (Mask) Gonçalo Mabunda, Untitled (Mask) (2018-2019; tecnica mista, 64 x 36 cm)
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questo un significato nuovo riconduce ovviamente ai collage cubisti di Braque e Picasso, che in più occasioni hanno guardato all’arte africana. Ovviamente nel caso di Mabunda l’interesse esotico, presente nei collage modernisti, viene sostituito da quello documentaristico e taumaturgico che è alla base di tutta la carriera artistica dello scultore africano. Negli ultimi anni, il grande successo ottenuto da Gonçalo Mabunda è frutto di un’attenzione sempre più crescente nei confronti delle manifestazioni artistiche, e culturali in generale, provenienti dall’Africa, specialmente come conseguenza dei numerosi studî dedicati ai processi di decolonizzazione. L’arte africana contemporanea è un fenomeno di incontestabile affermazione e sempre più in continua espansione. L’Inghilterra e
Untitled FOTO SOPRA:
Gonçalo Mabunda,
la Francia hanno ricoperto un ruolo fondamentale in questo processo, ospitando diverse mostre dedicate al continente, fra cui la più importante è stata Africa Remix, rassegna itinerante del 2004, a cui ha partecipato anche Mabunda con le sue maschere e i suoi troni. Per Gonçalo Mabunda, l’Africa, che da sempre è stata considerata la culla dell’umanità, necessita di essere osservata con occhi diversi, ovvero come un continente propagatore di nuova energia creativa. Desiderio dell’artista africano è quello di costruire una nuova identità che raccolga insieme le radici identitarie e le capacità di costruire un’attitudine universale per poter vivere giorni migliori. May you live in interesting times, appunto. ◊
Untitled (Throne)
Untitled (Throne)
FOTO SOPRA:
FOTO SOPRA:
Gonçalo Mabunda,
Gonçalo Mabunda,
Untitled (2018-2019; tecnica mista,
Untitled (Throne) (2018-2019;
Untitled (Throne) (2018-2019;
150 x 100 cm)
tecnica mista, 90 x 130 x 60 cm)
tecnica mista, 112 x 102 x 70 cm)
www.goncalo-mabunda.com
102 • FINESTRE SULL’ARTE
| RENDEZ-VOUS
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Andrea Doria testo di Gabriele Langosco
Personaggio chiave della storia genovese, tanto da ricevere addirittura l’appellativo di Pater Patriae, l’ammiraglio Andrea Doria fu anche un attento mecenate: i cantieri da lui avviati furono importanti modelli per gli artisti che nacquero a Genova o passarono dalla città, e cambiarono le sorti dell’arte genovese.
N
el 1540 lo scultore Leone Leoni (Arezzo, 1509 – Milano, 1590) lavorava come incisore presso la Zecca pontificia. L’artista aveva intrapreso precocemente una brillante carriera, giocata in diversi centri italiani e preludio al successo internazionale che lo avrebbe portato, entro il termine del decennio, a entrare al servizio dell’imperatore Carlo V. Il soggiorno a Roma, città nella quale era approdato
Ritratto di Andrea Doria come Nettuno FOTO PAGINA A FIANCO:
Bronzino, Ritratto di Andrea Doria
come Nettuno (1545-1546 circa; olio su tela, 149 x 199,5 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
nel 1538, non sarebbe durato più di due anni. Le offese ricevute da parte di Pellegrino di Leuti, gioielliere papale che vantava di aver insidiato Diamante, moglie dello scultore, spinsero Leoni a difendere con la violenza l’onore della famiglia. L’artista, responsabile di aver sfregiato il volto del gioielliere, fu condannato all’amputazione della mano destra. L’intercessione di alcune figure di spicco determinò, per fortuna della storia dell’arte europea, che la pena fosse ridotta a un periodo di lavoro forzato sulle galere. Il servizio di remo sarebbe stato presto interrotto, poiché passata da Genova l’imbarcazione sulla quale si trovava, lo scultore fu liberato da Andrea Doria (Oneglia, 1466 – Genova, 1560) nel marzo 1541. A ricompensa del gesto benevolo, Leone Leoni avrebbe effigiato il Doria, divenuto suo mecenate (oltre che FINESTRE SULL’ARTE • 105
Andrea Doria, discendente di una famiglia patrizia ma legato a un ramo cadetto della dinastia, intraprese fin da giovane la carriera militare.
Studio per la medaglia di Andrea Doria
salvatore ), in diverse medaglie e placchette bronzee. Il profilo del genovese si conserva nei numerosi esemplari superstiti, e testimonia l’immagine di un uomo anziano, paludato nelle vesti di condottiero e riconoscibile, per la presenza del tridente, quale signore del mare. Andrea Doria era nato a Oneglia, centro del ponente ligure, nel 1466. Appartenente a una schiatta patrizia responsabile della scrittura di diverse pagine della storia di Genova, ma legato a un ramo cadetto della dinastia, il nobile intraprese in giovane età, rimasto orfano, la carriera militare. Al servizio di diverse potenze, la prima delle quali fu il papato, Andrea trascorse alcuni anni lontano dalle dinamiche estremamente complesse della politica genovese del tardo Quattrocento. Ritornato in patria all’alba del nuovo secolo, in una realtà ormai soggetta alle ingerenze del re di Francia, il nobile iniziò a orientare, sullo sfondo delle guerre d’Italia, la sua attività di imprenditore della guerra sul frangente marit-
Studio per la medaglia di Andrea Doria
FOTO PAGINA A FIANCO, IN ALTO:
Leone Leoni, Quattro teste
di profilo, Studio per la medaglia di Andrea Doria, recto (1538-1541 circa; penna e inchiostro su carta, 151 x 198 mm; New York, The Morgan Library & Museum)
FOTO PAGINA A FIANCO, IN BASSO:
Leone Leoni, Testa di
profilo, un centauro e lo stemma dei Medici, Studio per la medaglia di Andrea Doria, verso (1538-1541 circa; penna e inchiostro su carta, 151 x 198 mm; New York, The Morgan Library & Museum)
timo. La sua squadra di galee, in continua espansione, sarebbe divenuta, nel corso terzo decennio del secolo, il fondamentale strumento per il controllo delle rotte del Mediterraneo occidentale. Fu in tale contesto che, nel 1521, Andrea Doria portò a termine i primi acquisti di terreni e di edifici nel borgo di Fassolo, situato al di fuori delle mura occidentali della città, con l’intenzione di erigervi la sua residenza. Tale operazione, compiuta in una fase avanzata della sua
Medaglia di Andrea Doria FOTO A SINISTRA:
Robert Ready,
Medaglia di Andrea Doria, replica dell’originale cinquecentesco su disegno del 1541 di Leone Leoni (1881; bronzo, diametro 44 mm; Victoria, Museums Victoria)
106 • FINESTRE SULL’ARTE
FINESTRE SULL’ARTE • 107
vita, è considerata quale avvio di un progetto di committenza artistica che si sarebbe concretato, a partire dal 1528, con l’arrivo a Genova di Pietro Bonaccorsi detto Perin del Vaga (Firenze, 1501 – Roma, 1547). L’anno 1528 rappresentò una data cardine nella storia di Genova, tale da costituire un punto di non ritorno sul frangente politico, sociale, economico e artistico della città. In tale processo, il ruolo di protagonista giocato da Andrea Doria fu immediatamente riconosciuto: prima che il nobile potesse procedere a celebrare i suoi successi con la costruzione della sua residenza, fu la stessa Repubblica a decretare l’erezione di una statua in suo onore. L’incarico fu affidato allo scultore fiorentino Baccio Bandinelli (Firenze, 1488 – 1560): tuttavia, l’artista non portò a termine il lavoro. Il blocco marmoreo, lasciato allo stato di abbozzo e testimoniante forme lontane da “quella eccellenza” che la committenza si sarebbe aspettata, fu collocato a Carrara, nella piazza del Duomo, luogo dove ancora si conserva. Nei primi mesi del 1528, Genova si trovava sotto il dominio militare di Francesco I di Francia (Cognac, 1494 – Rambouillet, 1547), al servizio del quale An-
struttiva e decorativa promossa da Andrea, poiché la forma in cui oggi si presenta rispecchia solo in parte l’assetto originario. Il complesso edilizio, decorato esternamente e internamente, era inserito in un sistema di giardini che ne determinavano il raccordo tanto con la zona collinare, quanto con il mare. Nelle Vite di Giorgio Vasari (Arezzo, 1511 – Firenze, 1574), testo che ricorda numerosi dettagli sul mecenatismo di Andrea Doria, sono chiarite le circostanze dell’approdo di Perin del Vaga nel capoluogo ligure. Il pittore fiorentino, nato a Firenze e trasferitosi a Roma nella sua giovinezza, vantava un alunnato, motivo di indubbio prestigio, presso l’atelier di Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 – Roma, 1520). Fattore decisivo per l’abbandono della città pontificia da parte dell’artista furono le devastazioni compiute dai lanzichenecchi nel 1527, da lui vissute in prima persona. «Mentre che le rovine del Sacco avevano distrutta Roma e fatto partir di quella gli abitatori et il Papa stesso», racconta Vasari, il ricamatore Nicolò Veneziano, che si trovava in Liguria al servizio di Andrea Doria, «convinse Perino a partirsi da quella miseria et inviarsi a Genova». L’arrivo del pittore nel cantiere doriano avrebbe per-
I suoi successi furono tanti e tali che ben presto Andrea Doria cominciò a influenzare l’andamento della politica genovese, fino a diventare il personaggio più importante della città, benché senza ricoprire, formalmente, incarichi di punta. drea Doria operava dal 1522. Venuto meno il contratto tra il condottiero e il monarca francese, compiendo un “voltafaccia”, Doria siglò un’alleanza con l’imperatore Carlo V (Gand, 1500 – Cuacos de Yuste, 1558). Il genovese procedette nel liberare la città dalla dominazione straniera e nel proclamare la libertà della Repubblica, fatto peraltro garantito dagli accordi firmati con la casa asburgica. Forte del suo appoggio, varò una riforma istituzionale capace di placare l’endemica faziosità del sistema oligarchico cittadino e di sopravvivere, con pochi aggiustamenti, fino alla caduta della Repubblica, avvenuta al termine del Settecento. Il ruolo assunto da Andrea Doria nel nuovo equilibrio politico, chiarito dalla scelta di non ricoprire incarichi di punta, fu rispecchiato dalla collocazione della sua residenza, posta ai margini della città. Non è chiaro l’aspetto che la villa assunse al termine della fase co108 • FINESTRE SULL’ARTE
messo al condottiero di potersi servire di un artista completo, cui forse spettò un ruolo nella definizione della veste architettonica del palazzo. A questo si accedeva tramite un vasto atrio il cui ingresso era incorniciato, sulla facciata settentrionale, da un maestoso portale in marmo di Carrara, disegnato da Perino e realizzato, stando alle informazioni fornite da Vasari, da Giovanni da Fiesole e da Silvio Cosini (Poggibonsi?, 1495 – Pietrasanta?, dopo il 1549).
Monumento ad Andrea Doria FOTO PAGINA A FIANCO:
Baccio Bandinelli,
Monumento ad Andrea Doria (1534-1548; marmo; Carrara, Piazza del Duomo)
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Ritratto di Andrea Doria FOTO SOPRA: William Henry Furse, Ritratto di Andrea Doria,
copia dell’originale di Sebastiano del Piombo del 1520 circa (metà del XIX secolo; olio su tela, 111,7 x 86,4 cm; Londra, National Maritime Museum)
Quest’ultimo artista, già collaboratore di Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 – Roma, 1564) nel cantiere delle Cappelle Medicee, sovrintese all’esecuzione di molti degli stucchi che andarono a incorniciare, a partire dalle volte dell’atrio, dello scalone e della loggia, i soffitti delle stanze affrescate da Perino. La conoscenza delle numerose corti rinascimentali che Andrea Doria frequentò negli anni della sua giovinezza dovette essere fattore determinante nelle scelte impiegate per la realizzazione e decorazione della sua residenza. D’altra parte il condottiero, all’epoca sessantenne, era sicuramente entrato a contatto con diversi artisti: basti pensare alla circostanza per la quale, alla vigilia del Sacco di Roma, fu ritratto da Sebastiano del Piombo (Venezia, 1485 – Roma, 1547) in uno straordinario dipinto, commissionato da papa Clemente VII (Firenze, 1478 – Roma, 1534) e pervenuto 110 • FINESTRE SULL’ARTE
solo successivamente alla residenza di Fassolo. Il papa, d’altra parte, non fu l’unica figura a desiderare un’effige del Doria per la propria collezione: Paolo Giovio (Como, 1483 – Firenze, 1552), che stava costituendo in quegli anni una raccolta di immagini di uomini illustri, fece ritrarre il genovese da Agnolo Bronzino (Firenze, 1503 – 1572). La tela, pervenuta nel tardo Ottocento alla Pinacoteca di Brera, costituisce una delle immagine più iconiche dell’ammiraglio, raffigurato dal pittore fiorentino in una nudità vigorosa che lo identifica come Nettuno, dio del mare. La temperie artistica maturata nei cantieri raffaelleschi fece così il suo ingresso in casa Doria, e dunque a Genova. Il ciclo di affreschi e stucchi coordinato da Perin del Vaga, integrato da numerosi arazzi (tessuti in fiandra) cui lui stesso fornì i cartoni, costituì uno dei più vasti complessi decorativi del primo Cinquecento europeo. La residenza di Andrea Doria divenne presto luogo degno per ospitare figure illustri, tra cui lo stesso imperatore, che soggiornò per la prima volta a Fassolo nel 1529. Negli anni successivi, Carlo V tributò l’ammiraglio di numerose onorificenze: nel 1531 gli fu assegnato il feudo di Melfi, che gli valse il titolo di Principe, da cui derivò la denominazione, per la sua residenza, di Villa del Principe. Nello stesso anno, il conferimento del prestigioso Toson d’Oro, determinò la scelta dei soggetti con la quale venne affrescata la facciata meridionale, che vide impegnati, oltre a Perino, i pittori Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone (Pordenone, 1483 – Ferrara, 1539) e Domenico Beccafumi (Montaperti, 1486 – Siena, 1551). Di tale ciclo, dedicato alla figura di Giasone, non resta alcuna traccia. Il soggiorno genovese di Perin del Vaga si interruppe, conclusa la campagna decorativa del palazzo, nel 1536. Negli anni successivi, le attenzioni di Andrea andarono a concentrarsi sulla chiesa di San Matteo, edificio posseduto dalla famiglia Doria, tempio delle memorie dei grandi esponenti del casato e luogo di sepoltura eletto dal principe di Melfi. La chiesa, che conserva tuttora l’antica facciata medievale, fu sottoposta, a partire dagli anni quaranta del secolo, a un restauro integrale nei suoi ambienti interni. L’opportunità di ridefinire gli spazi dell’antico edificio fu offerta al Doria dal passaggio a Genova, nel 1539, di Giovanni Angelo Montorsoli (Firenze, 1507 – 1563). Lo scultore fiorentino, formatosi nella cerchia michelangiolesca, era approdato in città per realizza-
Sono numerosi gli artisti che lavorarono per Andrea Doria: da Sebastiano del Piombo a Giovanni Angelo Montorsoli, dal Bronzino a Perin del Vaga. re quella statua onoraria del Doria che la Repubblica aveva commissionato invano, nel decennio precedente, a Baccio Bandinelli. Il nobile non perse occasione di servirsi a sua volta degli scalpelli di Montorsoli, cui fu affidata la conduzione del cantiere di San Matteo. L’officina di Montorsoli, che si avvalse della collaborazione di Silvio Cosini, mise in opera la struttura decorativa del presbiterio, della crociera e della cripta, all’interno della quale fu posto il sepolcro di Andrea. Tali ambienti furono rivestiti di marmi policromi e decorati da sculture a tuttotondo, bassorilievi, stucchi che costituirono, nel loro insieme, un modello senza precedenti per il panorama artistico locale. Quella di provvedere alla propria sepoltura costituiva una giusta preoccupazione per un uomo che aveva superato, a quella data, i settantacinque anni. Morto nonagenario, il Doria promosse, nell’ultima fase della sua vita, un nuovo intervento decorativo nella chiesa di San Matteo. Nei tardi anni Cinquanta del XVI secolo, i pittori Giovanni Battista Castello detto il Bergamasco (Gandino, 1509 – Madrid, 1569) e Luca Cambiaso (Moneglia, 1527 – San Lorenzo de El Escorial, 1585) si trovarono a operare nelle navate che, ridefinite in tale occasione dal punto di vista architettonico, furono rivestite di stucchi e arricchite da affreschi. I due artisti, principali protagonisti della pittura del secondo Cin-
quecento genovese, si trovarono impegnati sugli stessi ponteggi a condurre, nel realizzare scene diverse, una vera e propria competizione artistica, probabilmente incentivata dallo stesso principe. La figura di Andrea Doria, ammiraglio della flotta imperiale e considerato a Genova quale Pater Patriae, istituì in città un nuovo paradigma di committenza. Da un lato la natura degli interventi artistici da lui promossi, concretatisi nella costruzione della sua villa suburbana e nel restauro della chiesa di San Matteo (posta invece nel cuore della città antica), e dall’altro il calibro degli artisti coinvolti, rappresentarono una condotta inedita per la nobiltà locale. Andrea chiamò maestri da centri diversi, seppe sfruttare occasioni consentite dal suo ruolo (quale quella scaturita con la liberazione di Leone Leoni) e, vivendo molti anni, ebbe la possibilità di servirsi di generazioni diverse di pittori, architetti e scultori. Le opere da questi realizzate nei cantieri da lui promossi costituirono modelli imprescindibili per i maestri attivi in città e determinarono un cambio di rotta nelle vicende artistiche cittadine. Un chiaro esempio dell’influenza esercitata dai prodotti del condottiero è costituita dall’attività di Luca Cambiaso: formatosi sui testi pittorici della villa di Fassolo, si trovò a sua volta attivo per il Doria in San Matteo. Se la chiesa rimane tuttora intatta nel suo contesto medievale originario, gli spazi estesi della residenza di Andrea Doria, dotata di ampî giardini, furono radicalmente ridimensionati quando, nel tardo Ottocento, le nuove esigenze della mobilità urbana ne decurtarono significative porzioni. Il nome della villa è da allora richiamato a chiunque faccia il suo ingresso in città dalla stazione ferroviaria che le sorse accanto, Genova Piazza Principe. ◊
Bibliografia essenziale Marco Campigli, Silvio Cosini, Niccolò Da Corte e la scultura a Palazzo Doria in Nuovi Studi, 19 (2014), pp. 83-104 Clara Altavista, La residenza di Andrea Doria a Fassolo: il cantiere di un palazzo di villa genovese nel Rinascimento, Milano, Franco Angeli, 2013 Stefano Pierguidi, Perin del Vaga versus Pordenone, Beccafumi e Girolamo da Treviso nella decorazione delle facciate della villa di Andrea Doria a Genova in Arte Documento, 26 (2010), pp. 166-175 Arturo Pacini, Doria Andrea in William Piastra, Francesco De Nicola (a cura di), Dizionario Biografico dei Liguri, vol. 6, Genova, Consulta Ligure, 2007, pp. 409-435 Piero Boccardo, Andrea Doria e le arti: committenza e mecenatismo a Genova nel Rinascimento, Roma, Fratelli Palombi, 1989
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Wunderkammer.
BERTOLAMI FINE ART
Monete antiche
Grecia e Magna Grecia Una selezione di alcune monete, dalla Grecia e dalla Magna Grecia, battute da Bertolami Fine Art nell’asta 67 dell’11 luglio 2019, con relative provenienze, datazioni, descrizioni, stime, basi e aggiudicazioni. Puglia, Taranto, Dracma (272-240 a.C. circa) Diritto: testa di Atena con elmo attico, decorato con la figuara di Scilla che lancia sassi; Rovescio: civetta appollaiata su ramoscello di ulivo. AR (g 3,17; 15 mm; h 4) | Stima 280 GBP/ 306,42 EUR Base asta 200 GBP/ 218,87 EUR | Aggiudicazione 380 GBP/ 415,85 EUR
Campania, Napoli, Didracma (350-325 a.C. circa)
Corinzia, Corinto, Statere (375-300 a.C. circa)
Diritto: testa di ninfa con diadema; Rovescio: toro con testa umana che cammina
Diritto: Pegaso in volo; Rovescio: testa di Atena con elmo;
verso destra, con sopra Nike alata che lo incorona.
sullo sfondo Nike in volo.
AR (g 7,41; 20 mm; h 7) | Stima 420 GBP/ 460,23 EUR
AR (g 8,55; 20 mm; h 6 | Stima 560 GBP/ 612,11 EUR
Base asta 300 GBP/ 328,73 EUR | Aggiudicazione 1.900 GBP/ 2081,98 EUR
Base asta 400 GBP/ 437,22 EUR | Aggiudicazione 600 GBP/ 657,47 EUR
Puglia, Taranto, Nomos (333-330 a.C. circa) Diritto: uomo a cavallo con in mano una lancia; Rovescio: uomo con elmo che cavalca un delfino; a destra e a sinistra una stella. AR (g 7,54; 22 mm; h 6) | Stima 100 GBP/ 109,58 EUR Base asta 70,00 GBP/ 76,70 EUR | Aggiudicazione 300 GBP/ 328,73 EUR
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Lucania, Velia, Didracma (334-300 a.C. circa) Diritto: testa di Atena con elmo frigio crestato e decorato con un centauro. Rovescio: leone che sbrana la preda a sinistra. AR (g 7,79; 21 mm; h 11) | Stima 280 GBP/ 306,82 EUR Base asta 200 GBP/ 219,16 EUR | Aggiudicazione 340 GBP/ 372,56 EUR
Puglia, Taranto, Nomos (240-228 a.C. circa) Diritto: uomo a cavallo; Rovescio: uomo che cavalca un delfino (in mano tiene Nike e tridente). AR (g 6,43; 19 mm; h 6) | Stima 700 GBP/ 767,04 EUR Base asta 380 GBP/ 416,40 EUR | Aggiudicazione 400 GBP/ 438,31 EUR
Sicilia, Erice, Onkia (412-409 a.C. circa) Diritto: testa scoperta di uomo; Rovescio: cane in piedi; sotto lepre in posizione rovesciata. AE (g 2,55; 13 mm; h 9) | Stima 140 GBP/ 153,21 EUR Base asta 100 GBP/ 109,44 EUR | Aggiudicazione 900 GBP/ 984,92 EUR
Lucania, Sibari, Statere (550-510 a.C. circa) Diritto: toro stante a sinistra, che guarda all’indietro; Rovescio: incuso del diritto. AR (g 7,92; 28 mm; h 12) | Stima 2.100 GBP/ 2301,13 EUR Base asta 1.300 GBP/ 1424,51 EUR | Aggiudicazione 1.600 GBP/ 1753,24 EUR
Sicilia, Adranone, Bronzo (339-317 a.C. circa) Diritto: testa di Atena a sinistra, con elmo corinzio; Rovescio: polpo. AE (g 3,17; 14 mm; h 6) | Stima 140 GBP/ 153,41 EUR Base asta 100 GBP/ 109,58 EUR | Aggiudicazione 100 GBP/ 109,58 EUR
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Wunderkammer.
Sicilia, Agira, Hemilitron (440-420 a.C. circa) Diritto: aquila eretta; sopra, ramoscello d’olivo; Rovescio: ruota con quattro raggi. AE (g 17,42; 17,41 mm) | Stima 420 GBP/ 460,23 EUR Base asta 372 GBP/ 407,63 EUR
Sicilia, Agrigento, Tetradracma (470-450 a.C. circa) Diritto: aquila eretta; Rovescio: granchio dentro un cerchio incuso. AR (g 17,48; 24 mm; h 9) | Stima 850 GBP/ 931,41 EUR Base asta 600 GBP/ 931,41 EUR | Aggiudicazione 3.800 GBP/ 4.163,95 EUR
Monete antiche da Grecia e Magna Grecia Sicily, Akragas, Hemilitron, before 406 a.C. Diritto: aquila in volo che tiene una lepre tra gli artigli. Rovescio: granchio, con intorno sei sfere; sotto gambero e conchiglia AE (g 21,46; 31 mm; h 9) | Stima 220 GBP/ 241,07 EUR Base asta 150 GBP/ 164,37 EUR | Aggiudicazione 800 GBP/ 876,62 EUR
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Sicilia, Siracusa,Onkia (214-212 a.C.) Diritto: testa di Elena con velo; sopra una stella; Rovescio: due pilei circondati da stelle. AE (g 2,22; 12 mm; h 12) | Stima 140 GBP/ 153,21 EUR Base asta 100 GBP/ 109,44 EUR | Aggiudicazione 130 GBP/ 142,27 EUR
Sicilia, Siracusa, 60 Litra coniate sotto Agatocle (317-289 a.C. circa) Diritto: testa di Apollo con corona di alloro; Rovescio: auriga che guida la biga, tenendo in mano pungolo e briglie. AV (g 4,30; 16 mm; h 6) | Stima 5.600 GBP/ 6128,38 EUR Base asta 4.000 GBP/ 4377,41 EUR | Aggiudicazione 4.400 GBP/ 4815,16 EUR
Sicilia, Siracusa, 10 Litrai coniate sotto la Seconda Democrazia (405 a.C. circa) Diritto: testa di Atena con elmo attico crestato; Rovescio: egida con al centro testa di gorgone. AV (g 0,68; 10 mm; h 2) | Stima 1.900 GBP/ 2079,27 EUR Base asta 1.300 GBP/1422,66 EUR | Aggiudicazione 2.000 GBP/ 2188,71 4163,95 EUR
Sicilia, Siracusa, Litra coniata sotto Timoleonte e la Terza Democrazia (344-317 a.C. circa) Diritto: testa di Zeus con barba e corona di alloro; Rovescio: triscele. AE (g 6,33; 20 mm; h 12) | Stima 280 GBP/ 306,42 EUR Base asta 200 GBP/ 218,87 EUR | Aggiudicazione 340 GBP/ 372,08 EUR
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Wunderkammer.
Lucania, Metaponto, Tetrobolo (290-280 a.C. circa) Diritto: uomo con barba che indossa un elmo corinzio crestato decorato con la figura di Scilla che lancia sassi; Rovescio: due spighe di orzo. AV (g 2,84; 12,5 mm; h 12) Stima 2.600,00 GBP / 2855,86 EUR Base asta: 1.800,00 GBP / 1977,13 EUR | Aggiudicazione : 2.200,00 GBP/ 2416,49 EUR
Sicilia, Mozia, Tetradracma (405-397 a.C.) Diritto: testa di Aretusa; attorno quattro delfini; Rovescio: granchio AR (g 17,40; 24 mm; h 3) | Stima: 11.500,00 GBP/ 12631,67 EUR | Base asta: 8.000,00 GBP/ 8787,25 EUR | Aggiudicazione: 11.000,00 GBP/ 12082,47 EUR
Sicilia, Siracusa, Tetradracma coniato durante la Tirannia dei Dinomenidi (475-470 a.C.) Diritto: auriga che guida una quadriga mentre tiene in mano pungolo e briglie; sopra, Nike in volo mentre incorona i cavalli; Rovescio: testa di Aretusa circondata da quattro delfini Sicilia, Centuripe, Dekonkion (III – II sec. a.C.) Diritto: testa di Zeus con alloro; Rovescio: saetta alata. AE (g 13,97; 23 mm; h 3) Stima: 280,00 GBP/ 307,55 EUR Base asta: 200,00 GBP/ 219,68 EUR Aggiudicazione: 2.800,00 GB/ 3075,54 EUR
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AR (g 17,02; 5 mm; h 3) Stima: 850,00 GBP/ 878,72 EUR Base asta: 600,00 GBP/ 659,04 EUR Aggiudicazione: 900,00 GBP/ 988,57 EUR
Sicilia, Siracusa, Tetradracma, coniato sotto Dioniso e sottoscritto da K... (405-367 a.C circa) Diritto: auriga che guida una biga tenendo in mano pungolo e briglie; sopra, Nike in volo mentre lo incorona; sotto, redini e ruota rotta; Rovescio: testa di Aretusa; attorno quattro delfini. AR (g 17,13; 25 mm; h 6) | Stima: 1.400,00 GBP/ 1537,77 EUR Base asta: 1.000,00 GBP/ 1098,41 EUR | Aggiudicazione: 3.800,00 GBP/ 4173,94 EUR
Sicilia, Siracusa, Onkia (IV sec. a.C.) Diritto: testa di Aretusa; Rovescio: tridente. AE (g 1,77; 12 mm; h 7) | Stima:120,00 GBP/ 131,81 EUR | Base asta:80,00 GBP/ 87,87 EUR | Aggiudicazione: 140,00 GBP/ 153,78 EUR
Attica, Atena, Tetradracma (dopo 449 a.C.) Diritto: testa di Atena con elmo attico crestato, decorato con tre foglie di olivo e palmetta a spirale; Rovescio: civetta con ali chiuse; sulla sinistra ramoscello di ulivo con due foglie e una bacca. AR (g 17,17; 24 mm; h 3) Stima: 700,00 GBP/ 768,88 EUR Base asta: 500,00 GBP/ 549,20 EUR Aggiudicazione: 600,00 GBP/ 659,04EUR
Cilicia, Nagidos, Statere, (400-384 a.C. circa) Diritto: Afrodite seduta che tiene in mano una coppa sopra l’altare, decorata con una corona; a destra Eros che tiene la corona; Rovescio: Dioniso che tiene in mano un grappolo di uva e il sacro tirso AR (g 10,80; 24 mm; h 3) Stima: 700,00 GBP/ 768,88 EUR Base asta: 500,00 GBP/ 549,20 EUR Aggiudicazione: 600,00 GBP/ 659,04 EUR
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| OPERE E ARTISTI
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Immagini del mare tra Otto e Novecento testo di Federico Giannini
Il genere della marina fu un importante campo di sperimentazione per gli artisti italiani che lavorarono a cavallo tra il XIX e il XX secolo. E alcune immagini del mare prodotte in quegli anni hanno inciso profondamente sulla storia dell’arte italiana. Dall’ultimo Fattori al primo Chini passando per artisti come Nomellini, Kienerk e Merello, ecco come cambiò in quegli anni la pittura di paesaggio.
S
an Martino d’Albaro è oggi un quartiere di Genova affollato e fittamente urbanizzato, ormai completamente inglobato nella città, e la cui fisionomia antica è divenuta pressoché irriconoscibile. Sul finire dell’Ottocento era però un borgo di campagna a pochi passi dal mare. Era stato da poco annesso al Comune di Genova, ma la sua vita continuava a rimanere separata da quella del capoluogo, e fu qui che, nel 1890, prese casa un giovanissimo Plinio Nomellini (Livorno, 1866 – Firenze, 1943), che aveva da poco lasciato la Firenze nella quale aveva frequentato l’Accademia e stretto solide amicizie coi grandi macchiaioli, su tutti Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze, 1908) e Telemaco Signorini (Firenze, 1835 – 1901). E mentre la primavera del 1891 volgeva al termine, Nomellini fu raggiunto da due colleghi che, esattamente come lui, erano spinti da un impulso fortemente innovatore: Giorgio Kienerk (Firenze, 1869 – Fauglia, 1948) e
Alberi sul mare FOTO PAGINA A FIANCO:
Giorgio Kienerk, Alberi sul mare
(1891; olio su tela, 45 x 47 cm; Fauglia, Museo Civico “Giorgio Kienerk”)
I Bagni Pancaldi a Livorno FOTO SOPRA:
Alfredo Müller, I Bagni Pancaldi a Livorno
(1890; olio su tela, 73 x 53,5 cm; Collezione privata)
Angelo Torchi (Massa Lombarda, 1856 – 1915). I tre erano mossi (ne siamo a conoscenza dai carteggi che sono sopravvissuti) dall’intento di condurre ricerche su quello che Kienerk, in una sua lettera, chiamava il “nuovo sistema” di dipingere: i prodromi di quella maniera che sarebbe passata alla storia dell’arte sotto l’etichetta di “divisionismo”. Nella cartolina postale indirizzata a Signorini e spedita da Genova in data 5 giugno 1891, Kienerk dichiarava che «Genova mi piace molto, ma più di Genova mi piace il mare», e descriveva all’esperto pittore la sua giornata tipo in Liguria: «io sto in Via Minerva n. 6 interno 13, poco distante dalla casa di Nomellini. In pochi passi siamo a S. Francesco dove passiamo tutte le mattine FINESTRE SULL’ARTE • 119
Vegetazione ligure a Riomaggiore FOTO A SINISTRA:
Telemaco
Signorini, Vegetazione a Riomaggiore (1894; olio su tela, 90 x 58 cm; Genova, Raccolte Frugone)
per andare in una stradina stretta stretta rinchiusa fra due muri che ci conduce al mare, e lì dalle 7 alle 11 (antimeridiane) all’ombra degli scogli si dipinge. Dalle 11 alle 12 si torna a casa e si mangia qualcosa e dopo fino alle 6 si lavora ai ritratti a carboncino. Alle 6 si desina e alle 7 si torna al mare a dipingere sino a che ci vediamo. Ecco come passo le giornate qui a Genova». Torchi, dal canto suo, in una missiva inviata anch’essa a Signorini il 21 luglio di quell’anno, scriveva: «il nostro campo d’azione è ristretto a pochi passi dalla torre dove si sta e spesso non esce dalle finestre e dalla terrazza dello studio. Di quassù si gode il mare benissimo e si può studiarlo nelle sue varie manifestazioni dal punto di vista delle nostre ricerche moderne». Alberi sul mare, brano di costa ligure che Kienerk scompone sotto la luce del meriggio che inonda di raggi dorati il fogliame della vegetazione, è uno dei più alti prodotti di quel soggiorno genovese e introduce, anche con certa precocità mossa dalla spinta a sperimentare che animava i tre giovani pittori, una scomposizione che si poneva l’obiettivo di superare l’ascendente impressionista an-
La libecciata FOTO A DESTRA:
Giovanni Fattori, La libecciata (1880-1885
circa; olio su tavola, 28,5 x 68 cm; Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti)
120 • FINESTRE SULL’ARTE
cora presente, giusto a titolo d’esempio, in un’opera come i Bagni Pancaldi a Livorno che il labronico Alfredo Müller (Livorno, 1869 – Parigi, 1939) dipingeva nel 1890, offrendo agli osservatori uno dei quadri più vicini a Monet che si siano mai visti in Italia. Kienerk, Nomellini e Torchi avevano altri intenti: è del tutto
probabile, anche se non v’è l’assoluta certezza, che i soggiorni parigini di Torchi e di Giuseppe Pellizza da Volpedo (il grande piemontese, com’è noto, fu legato a Nomellini da un rapporto di profonda amicizia che si può far agevolmente rimontare al 1888, quando i
come tentativo specialmente di pointillé e di vibrazione di luce, e da questo lato mi sembra che abbia alquanto progredito»). Eppure, Signorini gli preferiva Kienerk: per i suoi Alberi sul mare, avrebbe speso parole d’elogio, sottolineando il senso di serenità e
Nel 1891, Nomellini, Kienerk e Torchi soggiornarono a Genova per condurre ricerche sul “nuovo sistema” di dipingere: stava nascendo l’arte divisionista. due si conobbero all’Accademia di Belle Arti di Firenze) abbiano fornito al gruppo gli spunti e gli sproni necessarî a smarcarsi dal verbo impressionista per tentare nuove e più ardite strade. Chi mostrò immediato apprezzamento per le ricerche dei tre pittori fu lo stesso Signorini, che alla mostra della Promotrice fiorentina di belle arti del 1891-1892 riconobbe in Nomellini «il più ardito ricercatore della luminosità della natura», lo sperimentatore che s’era sporto più avanti degli altri e che manifestava le istanze più aggiornate («Nomellini ha fatto diverse cose già, alcune delle quali prima che io arrivassi qui, nelle quali vi è molto del buono
di piacevolezza emanato dalla sua veduta marittima. Signorini dovette seguire con sincero interesse le vie aperte in quel fatidico 1891, tanto ch’egli stesso volle tentare d’aprirsi alle novità. O almeno, volle cercare d’impostare, sulla sua base profondamente toscana, le suggestioni che provenivano dalla Francia, come s’evince osservando, per esempio, la Vegetazione ligure a Riomaggiore, opera che l’artista dipinse nel 1894 durante il suo soggiorno alle Cinque Terre, e ch’espose alla Biennale di Venezia di tre anni dopo: il tentativo di restituire sulla tela il vibrante nitore della luce d’un mattino in Liguria si traduce qui in una pittura che, per un attimo, lascia da parte la sintesi macchiaio-
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la e cerca l’effetto d’atmosfera operando, almeno in primo piano, in via analitica, per poi lasciare che la vegetazione corra verso il mare che si fonde col cielo, quasi i due elementi fossero un’unica entità. Fu, peraltro, proprio in quel frangente che il pittore
talora costeggiati da muretti a secco, talaltra da vigne costrette a sfruttare i pochi lembi di terra utili per la coltivazione: «debbo […] la conoscenza di questo paese al desiderio grande che ebbi […] di un mare più vasto di quello del Golfo di Spezia. Non che l’a-
Il grande Giovanni Fattori non approvava gli sperimentalismi dei suoi allievi. Ma nell’ultima fase della sua attività si aprì a vedute più liriche e intime. fiorentino redasse quella che possiamo considerare una sorta d’appassionata dichiarazione d’amore nei confronti del mare che bagna la costa ligure, fatta di dirupi scoscesi che, verticali, si tuffano nella distesa azzurra, di placidi borghi abbarbicati sulle sommità dei promontorî, di crêuze e ripide mulattiere che solcano le colline inoltrandosi nel fitto della macchia,
Tramonto sul mare FOTO SOTTO:
Giovanni Fattori, Tramonto sul mare (1894-
1890 circa; olio su tavola, 19,1 x 32,2 cm; Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti)
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perto mare sia meno aperto lungo il littorale toscano, da Viareggio a Livorno, o per la Maremma, fino a Civitavecchia; ma questi paesi, situati in pianure tra spaziose campagne, davanti a sterminate spiagge di mare, non producono tanto l’effetto della sua vastità, quanto uscendo dalle strette gole dei monti, dove un paese come questo è piantato perpendicolarmente su dirupate scogliere. E questo mare ligure visto da questo scalo, ebbe tali attrattive per me, che la maggior parte del tempo ho passato nell’ammirazione e nel desiderio di poterlo riprodurre nella sua sterminata massa e nei suoi prodigiosi dettagli». Il mare si confermava terreno ove condurre esperimenti, e ciò non poteva che portare anche a vigoro-
Veduta di Colline (tramonto sul mare) FOTO SOPRA:
Eugenio Cecconi, Veduta di colline (tramonto
sul mare) (1900; olio su tela, 34 x 44,5 cm; Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti)
si scontri, come quello che Nomellini, nell’anno di svolta, ebbe col suo maestro Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze, 1908), che invano aveva cercato di mettere in guardia i suoi allievi da quello ch’egli aveva definito, in una lettera inviata a Guglielmo Micheli, «l’abisso nel quale stanno per cascare», ovvero l’avvio d’una pittura che guardasse agl’impressionisti. È una toccante missiva di Fattori, datata 12 marzo 1891, che determina l’irrevocabile frattura tra il maestro di sessantasei anni e il venticinquenne Nomellini: in questo scritto così emozionato e appassionato, Fattori si rammaricava per le scelte dell’allievo, ed era giunto a conclusione ch’era venuto il momen-
to di non potersi più considerare il suo maestro. Ciò nondimeno, si premurava d’inviare, a colui ch’era stato uno tra i suoi più promettenti studenti, un leale attestato di stima, e di rinnovargli la sua professione d’eterna amicizia: «io ho creduto mio dovere avvertirvi tu e gl’altri che seguivi una via già tracciata 10 o 12 anni fa, e che il foco giovanile molto apprezzabile vi ha fatto vedere che la Storia dell’Arte vi avrebbe registrato come martiri, e innovatori, mentre la Storia dell’Arte vi registrerà come servi umilissimi di Pisarò, Manet, ecc. e in ultimo del Signor Muller [...]. Tu solo per giustizia ti trovo originale come dissi nei lavoratori [...]. Questa è storia e qui cesso col dirmi vostro amico sempre, maestro mai più! Perché io sono coi vecchi, e non saprei più cosa insegnarvi - lo dirai a buoni amici livornesi quando avrai occasione di scriverli - Ti stringo la mano e sono il tuo affezionato amico». Fattori poteva tuttavia contare su di una folta schiera
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Bilance a Bocca d’Arno FOTO SOPRA:
Francesco Gioli, Bilance a Bocca d’Arno
(1889; olio su cartone, 25 x 70 cm; Firenze, Fondazione Cassa di Risparmio)
d’artisti, anche giovani, che gli sarebbero rimasti artisticamente fedeli. Qualche anno prima che si consumasse l’irreparabile rottura, Fattori aveva terminato uno dei suoi capolavori più noti, la Libecciata, istantanea d’un brano di costa livornese battuto dai venti di sud-ovest: frondose tamerici con le chiome agitate dalla furia del libeccio, gli arbusti del litorale che si piegano sotto le violente folate, la sabbia che prende a sollevarsi, il mare che s’increspa e vistosamente biancheggia sotto un cielo grigiastro, preludendo a un’imminente mareggiata. La Libecciata è degl’inizî degli anni Ottanta, e Fattori all’epoca aveva preso ad ammantare i suoi paesaggi di struggenti toni lirici, inaugurando un gusto del paesaggio inedito per la sua arte, e non solo. Trasuda solitudine e malinconia, questo dipinto. Non ha niente d’idilliaco, niente di rassicurante: Fattori voleva che la sua marina fosse fortemente comunicativa, ed evidentemente riuscì nell’intento, se la commissione che il Comune di Firenze convocò con l’intento di valutare alcune opere del pittore livornese per poi acquistarle, sottolineò, in 124 • FINESTRE SULL’ARTE
una relazione del 15 settembre 1908, che la Libecciata è opera in cui l’artista «anche con semplicissimi ma precisi mezzi, senza figure […] ha dato a una breve linea di paese la stessa forza d’espressione che a un volto umano». Questa linea, che in certa misura anticipò il paesaggio-stato d’animo che di lì a poco sarebbe stato codificato dalle teorie dei filosofi Jean-Marie Guyau e Paul Soriau, magistralmente interpretate in Italia da Vittore Grubicy de Dragon, fu destinata ad avere una certa fortuna. Guyau scriveva che «per apprezzare un paesaggio, è necessario che nei confronti di quel paesaggio si provi armonia. Per comprendere un raggio di sole, è necessario vibrare con lui, e lo stesso vale per un raggio di luna, occorre tremare nell’ombra della sera, è necessario scintillare con le stelle blu o dorate, per comprendere la notte occorre sentir passare sopra di noi il brivido dello spazio oscuro, dell’immensità vaga e sconosciuta. […] Per comprendere un paesaggio, dobbiamo far sì che sia in armonia con noi stessi, ovvero dobbiamo umanizzarlo. È necessario animare la natura». Tra i primi a recepire questa identificazione tra paesaggio e stato d’animo è possibile annoverare Eugenio Cecconi (Livorno, 1842 – Firenze, 1903), che nel 1903, con il suo Tramonto sul mare, dipingeva uno scorcio della costa tra Livorno e Castiglioncello, memore delle soluzioni di Fattori, e avvolto da spiccate into-
nazioni emotive: qui, la resa naturalistica e gli effetti di realismo concorrono a fornire all’occhio l’impressione di trovarsi su di una collina che digrada verso il mare, ma la visione è subordinata a un sentimento di malinconia che pervade tutta l’atmosfera, e l’occhio non è più solo strumento che, parafrasando Guyau (che peraltro, per meglio esplicitare l’assunto secondo il quale le nostre vite debbano fondersi con quelle dei luoghi, aveva addotto proprio l’esempio del
mare), misura l’altezza della collina, registra il moto delle onde, si sofferma sul movimento delle nubi nel cielo. L’occhio percepisce, l’occhio rende paesaggio e riguardante un’unica entità, l’occhio, di fatto, anima la natura facendo sì che l’osservatore colga, e magari sperimenti, ciò che il pittore ha provato di fronte al panorama: la quiete della sera, la costa verdicante aperta su di un mare argenteo, calmo e immoto, qualche solitaria tamerice a interrompere, al centro della composizione, l’orizzontalità della veduta, le nuvole che non s’addensano abbastanza da impedire agli ultimi, pallidi bagliori del sole calante d’indorare con soavità gli squarci del cielo. In Toscana il paesaggio-stato d’animo ebbe un altro dei suoi massimi interpreti in Francesco Gioli (San Frediano a Settimo, 1846 – Firenze, 1922), altro pittore tanto restio agli sperimentalismi tecnici quanto desideroso di saggiare tutte le possibilità che potevano aprirsi fondendo il paesaggio con la poesia. E anche Gioli, con tutta probabilità, considerava il genere della marina come quello che più s’attagliava alle sue esigenze in fatto di ricerca sulla luce e sull’espressione d’un sentimento derivante dalla contemplazione d’un paesaggio, che nel suo percorso artistico conosce una linea evolutiva inarrestabile, almeno dagli anni Ottanta fino alle fasi più avanzate della sua carriera. Contrariamente a quanto avviene nell’opere d’altri pittori del paesaggio-stato d’animo, in Gioli la figura umana mantiene una significativa rilevan-
Il golfo di Genova FOTO A DESTRA:
Plinio
Nomellini, Il golfo di Genova o Marina ligure (1891; olio su tela, 58,5 x 95,8 cm; Tortona, Pinacoteca “Il Divisionismo”)
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za ed è quasi sempre presente, a vario titolo, nelle sue vedute di mare. In Bilance a Bocca d’Arno del 1889, uno dei suoi più celebri quadri (anche per la coraggiosa scelta tecnica: un formato orizzontale in cui la composizione presenta un forte taglio prospettico obliquo, che rimanda a simili esperimenti che Fattori aveva tentato anni addietro, con certo successo), la presenza umana assume le sembianze d’un pescatore che s’aggira sulla foce del fiume a controllare che il lavoro delle bilance, le grandi reti da pesca tipiche di quest’area costiera della Toscana, proceda per il verso giusto. E il sentimento abbraccia tutto il controluce delle bilance, disposte in fila lungo l’Arno a stagliarsi contro la massa perlacea del fiume che s’incontra col cielo in una giornata uggiosa, e contro la
Degli artisti del suo tempo, Nomellini fu forse il più sensibile all’opera dei letterati: certe sue opere, per esempio, sembrano dar forma alle liriche di Gabriele D’Annunzio. vegetazione fluviale resa in modo sintetico, secondo i dettami della pittura realista della quale Gioli si fa ottimo interprete. Un realismo che apparirà secondario rispetto agli accenti emotivi in un dipinto tardo come la Bambina sulla spiaggia del 1919: in piena epoca d’avanguardie artistiche, Gioli, alla fine della sua carriera, era ancora capace d’affidare tutto il proprio sentimento alla figura romantica che, in posizione defilata, guarda il mare, e il pittore la coglie di spalle. Un lirismo ch’era proprio anche dell’ultimo Fattori: quello, per esempio, del Tramonto sul mare, dove l’uomo in piedi di fronte al mare, solo e solitario, è uno degli ultimi testimoni della grandezza della pittura del livornese, una grandezza che Ugo Ojetti (sebbene per certi versi condizionato dalla preferenza che accordava al ritratto, da lui tenuto in maggior conside-
Baci di sole FOTO A DESTRA:
Plinio Nomellini, Baci di sole (1908; olio su
tela, 93 x 119 cm; Novara, Galleria d’Arte Moderna “Paolo e Adele Giannoni”)
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Ditirambo FOTO A SINISTRA:
Plinio Nomellini, Ditirambo (1905
circa; olio su tela, 128 x 178 cm; Novara, Galleria d’Arte Moderna “Paolo e Adele Giannoni”)
razione rispetto alla pittura paesaggistica) risolveva nella capacità, da parte di Fattori, di dare un «ragionevole volto di un uomo» al paesaggio, ovvero di definire un brano di veduta che non fosse solo mera rappresentazione di ciò che in quella veduta era contenuto, ma che fosse anche l’espressione d’un sentimento, che fosse una sorta di fotografia del modo in cui l’animo dell’artista interpretava quel paesaggio, piuttosto che la semplice, arida descrizione del paesaggio di per sé. I primi del Novecento furono anni in cui lo stesso Plinio Nomellini intensificò la vena sperimentale della propria pittura, benché senza tornare agli estremi da pointilliste toccati nel 1891 con il Golfo di Genova, dipinto che rappresenta una sorta di unicum nel suo percorso artistico e per il quale Nadia Marchioni, la studiosa che nel 2017 curò una delle più importanti retrospettive dedicate al grande pittore toscano, non lesinò aggettivi e definizioni, reputandolo dipinto «incredibile» e riconoscendovi l’esito «più avventuroso nella sperimentazione divisionista», tale da renderlo un «impressionante “tradimento” dell’insegnamento grafico del maestro». Il maestro, come detto, era Fattori, e il Golfo di Genova si poneva in linea di fragorosa rottura con quanto Nomellini aveva appreso seguendolo a Firenze: abbandonato il disegno, la ricerca d’una più nitida luminosità veniva risolta con un’inusitata costruzione della composizione, che faceva utilizzo d’una trama di minuti colpetti dati alla tela con la punta del pennello. L’impressione d’insieme potrebbe non apparire così aderente al dato reale (tutt’altro!), ma la luce che Nomellini era stato capace d’infondere alla sua marina ligure era un fatto inedito per la pittura italiana e dovette suscitare una forte impressione anzitutto sui due colleghi che l’avevano seguito nel suo soggiorno
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Mareggiata FOTO SOPRA: Rubaldo Merello, Mareggiata (1915; olio su tela,
29 x 28,5 cm; Genova, Galleria d’Arte Moderna)
genovese, quindi sugli altri più attenti esponenti del divisionismo italiano, e poi ancora sugli artisti della generazione precedente ch’ebbero modo d’ammirare l’opera alla mostra della Promotrice fiorentina del 1891-1892, la stessa in cui Kienerk propose i suoi Alberi sul mare. Ma i risultati colti da Nomellini non dovettero essere così soddisfacenti se il suo Golfo di Genova fu criticato anche da un pittore di larghe vedute come Telemaco Signorini, che non riuscì ad apprezzare il lavoro del giovane livornese: «quel che francamente non amo», scrisse in una recensione, «è di vedere Nomellini, più coraggioso ricercatore della realtà del carattere in ogni forma, una mandolinata sul mare da riportar l’arte coi fantasiosi romanticismi del Michetti e del Fortuny». In sostanza, più che gli aspetti formali, Signorini non aveva apprezzato, con tutta evidenza, il tono della composizione che, con quella gamma cromatica così chiara, così tersa, così abbacinante, e con quella figura femminile intenta a suonare la chitarra, rimandava quasi all’esperienze dei pittori dell’Italia meridionale: interpretato dalla critica come una nota di spensieratezza tesa a evocare il clima nel quale Nomellini, Kienerk e Torchi lavoravano in quel breve lasso di tempo, l’inserimento della ragazza che suona lo strumento è comunque 130 • FINESTRE SULL’ARTE
anch’esso un caso isolato nella produzione di Plinio Nomellini, che non avrebbe più tentato di ripetere gli esiti del Golfo di Genova né sul piano formale, né su quello dei contenuti. La pittura di Nomellini attraversò diverse stagioni e, come s’è giustamente premurato di sottolineare lo studioso Silvio Balloni in un suo recente saggio, pochi altri artisti come lui seppero farsi mirabili interpreti della temperie culturale del tempo, quasi offrendo una trasposizione pittorica d’immagini e immaginazioni letterarie: è nei dipinti eseguiti nei primi del Novecento, densi, luminosi, talvolta solari e pieni di vita, talaltra eroici ed inquieti, sempre pervasi da una sensibilità poetica e da un lirismo panico che non conobbero eguali, che prende vita, in tutto il suo magnifico splendore, in tutta la sua immortale fusione tra uomo e natura, la «cerula e fulva estate» che Gabriele D’Annunzio eternò nei versi eccelsi dell’Alcyone. Nelle terre di Versilia, così care tanto al poeta quanto al pittore, Nomellini si stabilì a partire del 1907, e qui produsse alcuni dei più mirabili capolavori che paion quasi dar corpo all’immaginifico poema dannunziano: si tratta di ben più che d’una suggestione, poiché è risaputo che Nomellini fosse solito frequentare poeti e letterati, e che lui e D’Annunzio si conoscessero. E in un dipinto realizzato attorno al 1905, il riferimento alle liriche dannunziane appare esplicito: Ditirambo, oggi conservato alla Galleria d’Arte Moderna “Paolo e Adele Giannoni” di Novara, s’ammira per la luce del crepuscolo che dona accenti rossastri al paesaggio, per l’irrealistica veduta del litorale apuano che raduna, da un lato, la terra ricolma di frutti, e dall’altro i monti carichi di marmi candidi che «regnano il regno amaro», reso in uno sprazzo di blu sotto le «minaccevoli punte» dell’alpe di Luni, per la personificazione dell’estate «selvaggia, libidinosa, vertiginosa». Tanto che il dipinto par quasi voler restituire in immagini l’incipit del terzo ditirambo dell’Alcyone («O grande estate, delizia grande tra l’alpe e il mare, / tra così candidi marmi ed acque così soavi, / nuda le aeree membra che riga il tuo sangue d’oro / odorate di aliga di resina e di alloro, / laudata sii, / o voluttà grande nel cielo nella terra e nel mare / e nei fianchi del fauno, o Estate, e nel mio cantare, / laudata sii / tu che colmasti de’ tuoi più ricchi doni il nostro giorno / e prolunghi su gli oleandri la luce del tramonto / a miracol mostrare!»). Dipinti come Ditirambo, o come Baci di sole, di
poco più tardo (rimonta al 1908 la sua esecuzione), inaugurano peraltro una nuova stagione nell’arte di Nomellini, coincidente con la sua permanenza in Versilia: una stagione nella quale lo slancio vitalistico diviene quasi principio generatore delle sue composizioni, e dove l’unione feconda tra uomo e natura è elemento fondante. Baci di sole, intimo ritratto di moglie e figlio dell’artista, è una straordinaria e gaudiosa poesia della luce, un vortice brulicante di chiarori che baluginano tra le ombre degli alberi: le pennellate vibranti di Nomellini, in certi punti pastose, in altri filamentose e in altri ancora rapide e date per piccoli tocchi, ci restituiscono un momento di gioco all’ombra degli olmi frondosi, che catturano i raggi di sole senza però impedire che l’astro raggiunga le membra dei due protagonisti baciandoli qua e là coi suoi furtivi sfolgorii. L’eredità di Nomellini sarebbe stata raccolta, nella Liguria da cui tutto partì, da un pittore nato sulle montagne ma cresciuto sul mare, Rubaldo Merello (Isolato Valtellina, 1872 – Santa Margherita Ligure, 1922), che fu tra i più singolari simbolisti italiani e che interpretò il divisionismo del livornese «nel modo più completo e con fede quasi mistica» (così Gianfranco Bruno). Di Merello s’è detto che rifuggisse sia il divisionismo scientificamente controllato ch’ebbe diffusione nell’Italia del nord, sia una visione eccessivamente idealista o spirituale, preferendo accostarsi alla pittura divisa così come aveva fatto
Nomellini: con spontaneità e lirismo. Il suo aggiornamento sulla pittura simbolista lo aveva tuttavia portato a provare, nei confronti delle vedute che dipingeva, un’intima e profonda partecipazione emotiva. A certi paesaggi da cartolina (abbondano, nella sua produzione, le immagini di pini che si stagliano contro il mare, o quelle dell’amata abbazia di San Fruttuoso) s’affiancano vedute dove i colori, com’ebbe a far notare Cesare Brandi, sfuggono al controllo dell’artista, intrecciandosi in maniera autonoma sul dipinto e creando immagini dotate d’una forza straordinaria, dove i colori non si fondono, ma mantengono la loro indipendenza, quasi come accade nelle opere di van Gogh. Certo: con tutta probabilità, sottolineava Brandi, Merello non ebbe mai occasione di conoscere l’arte di van Gogh, e magari neppure ne ebbe la necessità, avendo trovato in Italia i suoi punti di riferimento. Ma se si può avanzare un riscontro con un grande del tempo, allora è «con certi paesaggi di Munch, e per via del colore davvero immaginario e dissidente che spesso riesce a realizzare». E allora, quei dipinti dove la «follia cromatica» di Merello prende il sopravvento, dove «un giallo non chiama più il suo azzurro, ma s’incontra in un rosa corallo, e le ombre e i riflessi del mare incitano dei colori strani a posarsi, come uccelli di passo», si mettano pure «accanto al miglior Munch e a dei Bonnard»: Brandi assicurava che reggeranno il confronto. Nello stesso torno d’anni c’era anche chi, in altre aree
Luglio FOTO A DESTRA:
Ettore Tito,
Luglio (1894; olio su tela, 97 x 155 cm; Trissino, Fondazione Progetto Marzotto)
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Marina, veduta di Palermo FOTO A SINISTRA:
Francesco Lojacono, Marina, veduta di Palermo (1890; olio su tela, 60 x 100 cm; Milano, Collezione della Fondazione Cariplo, inv. AH02042AFC)
d’Italia, insensibile alle novità che andavano delineandosi tra la Liguria e la Toscana, seguitava a ripercorrere il solco della tradizione, seppur rinnovandola con spunti di sicuro interesse e aggiornati secondo l’imperante gusto internazionale. Nella laguna di Venezia, proprio negli anni in cui la Toscana tutta dibatteva attorno ai lavori di Nomellini, di Kienerk, di Torchi, un loro coetaneo partenopeo, trasferitosi però a Venezia fin da bambino, ovvero Ettore Tito (Castellammare di Stabia, 1859 – Venezia, 1941) rivisitava la grande pittura veneta secondo chiavi inedite. Luglio, opera raffigurante «il Lido di Venezia con una nidiata di bambini bellissimi condotti dalle loro custodi a pigliare il bagno marino» (così la descrisse il critico e giornalista Raffaello Barbiera vedendola esposta alla Triennale di Brera del 1894, anno in cui il dipinto fu eseguito), propone al riguardante la scena d’un festoso bagno al mare in una mattina d’estate. Le pennellate distese, i riflessi della luce del sole filtrata dalla cappa di nubi, le tonalità calde contribuiscono a creare uno straordinario effetto di luce diffusa che quasi offre all’osservatore la sensazione dell’afa che impregna l’aria. Il soggetto e il modo in cui è affrontato, un’istantanea di quotidianità balneare, rimandano alle contemporanee esperienze di Joaquín Sorolla, di Peder Severin Krøyer e dei pittori di Skagen, di Anders Zorn. Tito però aveva dalla sua una certa leggerezza tiepolesca, un colorismo che affondava le radici nella tradizione veneta dal Cinquecento in poi, una naturale inclinazione a costruire le sue composizioni con inquadrature tipicamente fotografiche, tanto che Roberto Longhi parlò di lui come d’un «Paolo Veronese con la Kodak». 132 • FINESTRE SULL’ARTE
Tito non fu certo l’unico artista affascinato dalle moderne tecniche fotografiche: prova ne sono certi dipinti di Francesco Lojacono (Palermo, 1838 – 1915), tra i maggiori paesaggisti del meridione, nella cui arte il mare riveste spesso un ruolo di primaria importanza. In molte delle sue vedute di Palermo realizzate sul finire del secolo, i tagli fotografici e la tendenza a dare rilievo agli elementi in primo piano lasciando che la città e le montagne sullo sfondo assumessero contorni poco definiti, sono caratteristiche dalle quali trapela il frequente ricorso alla fotografia da parte di Lojacono: un utilizzo che l’artista palermitano aveva fatto proprio per diverse ragioni, che includevano la ricerca sulla luce (Lojacono, in particolare, era attratto dai rapporti luminosi che gli oggetti presenti nella composizione intessevano col resto della scena), la volontà di bloccare momenti di vita quotidiana nei luoghi da lui frequentati, il tentativo d’impostare, con l’aiuto del mezzo fotografico, le linee della composizione prima di passare alla realizzazione del dipinto. Lojacono, fin dal 1895, fu quasi sempre presente alla Biennale di Venezia: delle prime quattro edizioni ne saltò solamente una. Le sue partecipazioni si collocavano in un contesto nel quale vivo era il dibattito sul superamento della veduta verista, ed è opportuno in tal senso sottolineare come, nel 1901, la grande esposizione internazionale di Venezia vide prender parte, per la prima volta, un giovane Galileo Chini (Firenze, 1873 – 1956), che con la sua opera La Quiete, uno scorcio delle colline toscane colto in un momento di calma autunnale, si faceva interprete d’un divisionismo memore della fusione tra uomo e natura dell’amico No-
mellini (che aveva esordito a Venezia due anni prima, ed era comunque presente anche all’edizione del 1901) ma allo stesso tempo attratto dal simbolismo mitteleuropeo. Questa tendenza sarebbe emersa in maniera ancor più marcata in uno dei capolavori giovanili di Chini, il Maestrale sul Tirreno del 1904, opera che reinterpretava la connessione tra paesaggio ed emozione declinando con efficacia «il linguaggio simbolista della luce abbagliante» e rafforzando «i sottesi enigmatici nella firma a monogramma dell’artista» (così Mauri-
zia Bonatti Bacchini). Gli artisti della nuova generazione avevano decretato il definitivo smarcamento dalla veduta verista, e di lì a poco altri avrebbero reciso i legami anche con la poetica divisionista. E per il genere della marina s’apriva una nuova stagione, che avrebbe avuto i suoi protagonisti in pittori come Giorgio Belloni, Ludovico Cavaleri, Llewelyn Lloyd, Moses Levy, Renato Natali. Negli anni in cui andava accendendosi il fuoco delle avanguardie. ◊
Maestrale sul Tirreno FOTO A SINISTRA:
Galileo Chini, Maestrale sul Tirreno (1902; olio su tela, 100 x 150 cm; Collezione privata)
Bibliografia essenziale Maurizia Bonatti Bacchini, Filippo Bacci di Capaci, Orizzonti d’acqua tra Pittura e Arti decorative. Galileo Chini e altri protagonisti del primo Novecento, catalogo della mostra (Pontedera, Palazzo Pretorio, dall’8 dicembre 2018 al 28 aprile 2019), Pontedera, Bandecchi & Vivaldi, 2018 Nadia Marchioni (a cura di), Plinio Nomellini. Dal Divisionismo al Simbolismo verso la libertà del colore, catalogo della mostra (Seravezza, Palazzo Mediceo, dal 14 luglio al 3 novembre 2017), Firenze, Maschietto Editore, 2017 Anna Gallo Martucci, Giuliana Videtta, I luoghi di Giovanni Fattori nell’Accademia di Belle Arti di Firenze. Passato e presente, catalogo della mostra (Firenze, Accademia
di Belle Arti, dal 19 settembre al 23 novembre 2008), Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2008 Francesca Cagianelli, Francesco Gioli. Il sentimento del vero, Pisa, Nistri Lischi, 2001 Francesca Cagianelli, Elena Lazzarini (a cura di), Il Tirreno “naturale museo” degli artisti toscani tra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Crespina, Villa “Il Poggio”, dal 13 settembre all’11 ottobre 1998), Pontdera, Bandecchi & Vivaldi, 1998 Gianfranco Bruno, La pittura in Liguria dal 1850 al divisionismo, Genova, Stringa Editore, 1982
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| WUNDERKAMMER
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Capolavori di corallo La lavorazione del corallo ha origini antichissime: già fenici, etruschi, greci e romani lo pescavano e realizzavano oggetti con questo materiale. In Italia la tradizione si sviluppò a Trapani e a Torre del Greco, da dove per secoli sono partiti deliziosi e raffinati capolavori. E la tradizione ancora continua.
N
el quarto libro delle sue Metamorfosi, Ovidio racconta che Perseo, l’eroe della mitologia greca, figlio di Zeus e Danae, dopo aver ucciso la terribile Medusa e averla decapitata, per lavarsi le mani avrebbe appoggiato per terra la testa della Gorgone: il sangue di quest’ultima, a contatto con alcuni ramoscelli che si trovavano sulla riva del mare, avrebbe trasferito
Albero di Lucignano FOTO PAGINA A FIANCO:
Gabriello d’Antonio e altri,
Reliquiario noto come Albero di Lucignano (1350-1471; oro, smalti, gemme, corallo, altezza 260 cm; Lucignano, Museo Comunale)
loro forza, colore, rigidità. Le nereidi, le ninfe del mare, resesi conto dell’avvenimento prodigioso, avrebbero nuovamente provato a sfiorare gli stecchi con il sangue, constatando che l’evento si ripeteva. Con questo episodio, ripreso poi varie volte nella storia dell’arte (una delle interpretazioni più celebri è quella che ne diede Giorgio Vasari, nella sua Liberazione di Andromeda oggi conservata a Palazzo Vecchio), il grande poeta latino raccontava quelle che, secondo il mito, erano le origini del corallo. E in effetti è antichissimo il fascino che ha sempre esercitato questo animale che popola i mari (e che fu considerato un vegetale fino al 1723, anno in cui il naturalista marsigliese Jean-André Peyssonel scoprì la sua reale natura): non sappiamo con certezza dove abbia preso avvio la sua lavorazione, ma dai rinvenimenti archeologici sappiamo che, di sicuro, già fenici, etruschi, FINESTRE SULL’ARTE • 135
Wunderkammer Olbricht FOTO SOPRA:
Una vetrina della Wunderkammer
Olbricht a Berlino
greci, galli e romani realizzavano oggetti in corallo e li scambiavano con altre popolazioni (si sa, per esempio, che il corallo rivestì una certa importanza nella cultura di Golasecca, che si sviluppò tra il nono e il quinto secolo avanti Cristo in una vasta area della Lombardia). E ovviamente del corallo si fecero gli usi più svariati: come gemma per realizzare gioielli, come inserto nella decorazioni di armi e oggetti varî, come farmaco (veniva macina-
quiarî: tra i più splendidi esempî figura il cosiddetto Albero di Lucignano, uno straordinario reliquiario a foggia d’albero realizzato tra Tre e Quattrocento, dove il corallo che adorna i rametti d’oro si fa simbolo del sangue versato da Cristo sulla croce). Di lì in avanti, la fortuna del corallo aumentò inarrestabile: divenne un materiale sempre più ricercato (si pensi alle Wunderkammer del Seicento, le raccolte di meraviglie dal mondo che i collezionisti, secondo il gusto del tempo, amavano allestire nelle loro abitazioni: i rametti di corallo montati su altri oggetti erano diventati delle vere star), e del piccolo animale marino si fece largo uso soprattutto nell’ambito dell’oreficeria. Esattamente come al giorno d’oggi: benché non più diffuso come un tempo, il corallo rimane sempre uno dei materiali più raf-
In antico il corallo ebbe diversi utilizzi: come gemma, come decorazione, come amuleto, come farmaco. to e sciolto nell’acqua e somministrato per curare diverse malattie), o ancora, sotto forma di rametto, veniva usato come amuleto (si riteneva che il suo valore apotropaico proteggesse soprattutto gli infanti: le tante raffigurazioni del Gesù Bambino nei dipinti medievali e rinascimentali ce lo testimonia). Il corallo conobbe una fase di crisi tra l’epoca tardoantica e l’alto Medioevo, per poi tornare in auge subito dopo, diventando anche materiale per realizzare preziosi oggetti religiosi di uso liturgico (come reli136 • FINESTRE SULL’ARTE
finati della gioielleria. L’odierna tradizione italiana del corallo cominciò a prender forma nel quindicesimo secolo, e il primato spetta a Trapani, dove la lavorazione del corallo si radicò in tempi antichi. Ci sono fonti del XII secolo che attestano che nei mari antistanti la città siciliana, ricchi di corallo, si praticasse già la pesca di questo materiale: il geografo e viaggiatore arabo Muhammad al-Idrisi, che passò gli ultimi vent’anni della sua vita a Palermo, alla corte di Ruggero
II, sottolineò quanto fosse abbondante la pesca e quanto fosse pregiata la qualità del corallo di Trapani. Non abbiamo però notizie dettagliate sui metodi della lavorazione, dal momento che i testi del periodo si concentrano per lo più sull’importanza economica di quest’attività. La fioritura della lavorazione trapanese è attestata nella prima metà del Quattrocento e coincide con la scoperta di nuovi, significativi banchi di corallo nel mare che bagna la città: i più abili artigiani del corallo erano di origine ebraica, e il provvedimento che, nel 1492, decretò la cacciata degli ebrei dalla Sicilia, comportò un breve periodo di crisi, che si risolse soprattutto grazie agli ebrei che, pur di non lasciare l’isola, accettarono di convertirsi al cristianesimo e portarono avanti le loro attività. Un ulteriore sviluppo si ebbe nel primo quarto del Cinquecento, quando un trapanese, Antonio Ciminello, introdusse la lavorazione a bulino sul corallo: i rami venivano intagliati e scolpiti con l’apposito strumento (il “bulino”, appunto), e questa innovazione fornì un considerevole impulso alla produzione di opere d’arte in corallo. Il Seicento non fu soltanto l’epoca in cui i corallari di Trapani si riunirono in una corporazione (era il 1628 quando veniva fondata l’Arte dei corallari e degli scultori del corallo), ma fu anche il secolo dei grandi maestri del corallo, il periodo in cui la produzione artistica toccò l’apice. Al Museo Regionale “Agostino Pepoli” di Trapani si conservano diversi capolavori, tra i quali spiccano quelli firmati da
uno dei principali artisti del corallo, fra’ Matteo Bavera, o a lui attribuiti: tra questi, la celebre lampada pensile in rame dorato e traforato, coralli e smalti del 1633 (è una delle rare opere firmate e qui il corallo è impiegato soprattutto come materiale per la realizzazione degli inserti decorativi), o l’eccezionale crocifisso realizzato con un unico ramo di corallo e montato su una croce in ebano, tartaruga e madreperla. Nel tardo Seicento e nel secolo successivo le opere raggiunsero un grado di complessità e di elaborazione, in accordo col gusto del tempo (che, nell’ambito delle arti decorative, accordava preferenza agli oggetti ricercati, se non addirittura bizzarri), tale da farle somigliare a piccole architetture: il Trionfo di Apollo della Fondazione Whitaker di Palermo, per le sue forme, per la fattura dei suoi partiti decorativi e per la disposizione delle sue figure, è stato accostato ai carri trionfali realizzati per la festività di santa Rosalia (in particolare, lo studioso Vincenzo Abbate ha notato palesi affinità con il carro che Paolo Amato disegnò per il festino del 1693), e il Presepe oggi alla Galleria Estense di Modena ricrea, con sorprendenti effetti scenografici, un paesaggio di rovine nel quale ha luogo la scena della natività. Le maestranze trapanesi, nel corso dei secoli, ebbero modo di diffondere le loro conoscenze in diverse parti d’Italia (soprattutto a seguito della cacciata degli ebrei dalla Sicilia: molti esuli aprirono botteghe a Genova, a Livorno, a Napoli, ad Amalfi), ma la città siciliana man-
Epée aux coraux FOTO A SINISTRA:
Martin-Guillaume
Biennais, Epée aux coraux (“Spada dei coralli”), dettaglio (primo quarto del XIX secolo; oro e coralli; Fontainebleau, Castello di Fontainebleau)
FINESTRE SULL’ARTE • 137
tenne a lungo un ruolo egemone nell’ambito della lavorazione dei coralli, diffondendo le proprie creazioni in tutta Europa. Fu solo nell’Ottocento che si sviluppò l’altro grande centro di produzione e lavorazione del corallo, Torre del Greco: fino ad allora, i marinai torresi si erano per lo più limitati a pescare il corallo nelle acque del golfo di Napoli e a inviarlo alle botteghe dei corallari di altre zone d’Italia. Nel XVIII secolo Torre del Greco era un grande centro di raccolta, e solo alla fine del Settecento i Borbone si posero il problema di trasformare la città anche in un centro di lavorazione. Così le autorità ditazione del lavorato, e simili): si trattò di provvedimenti sposero alcune misure per disincentivare l’esportazione che nascevano, peraltro, in un momento favorevole per del corallo grezzo e, al contrario, incoraggiare la produTorre del Greco, dal momento che contemporaneazione interna (sgravî fiscali, abolizione di dazî sull’espormente i laboratorî di altri porti del Mediterraneo, come Genova e Marsiglia, conoscevano momenti di crisi. La nascita della manifattura torrese ha una data precisa: il 1805, quando in città venne aperta la prima fabbrica, Lampada pensile la “Real Fabbrica di Coralli della Torre del Greco”, imFOTO SOPRA A SINISTRA: Matteo Bavera, Lampada pensile piantata dal marsigliese Paul Barthélémy Martin. Ben (1633; rame dorato, smalto e corallo, altezza 150 cm; presto i torresi si specializzarono nella realizzazione di Trapani, Museo Regionale “Agostino Pepoli”) piccole sculture, ritratti, gioielli e cammei, interamente
Largamente utilizzato in antico, il corallo tornò in auge nel Basso Medioevo, e da lì in avanti la sua fortuna aumentò esponenzialmente.
138 • FINESTRE SULL’ARTE
eseguiti in corallo e particolarmente conformi al gusto neoclassico. La lavorazione si intensificò al punto che Torre del Greco, verso la fine dell’Ottocento, smise di essere centro di pesca e raccolta preferendo importare la materia prima, e conobbe anche un periodo di crisi dovuta all’eccesso di produzione. L’industria del corallo tuttavia non si arrestò, anzi: nel 1878 fu aperta un’apposita scuola per formare i futuri artigiani e incisori, e nel ventesimo secolo i coralli torresi conobbero un vasto successo internazionale (sono soprattutto i monili in corallo a riscuotere le preferenze del mercato), che continua ancora oggi. Attualmente, se a Trapani sono poche le botteghe dei corallari rimaste ancora in attività, Torre del Greco può al contrario vantare una
Crocifisso FOTO PAGINA A FIANCO, A DESTRA :
Matteo Bavera
(attribuito), Crocifisso (prima metà del XVII secolo; corallo, ebano, tartaruga, madreperla, argento; Trapani, Museo Regionale “Agostino Pepoli”)
leadership su scala mondiale con trecento imprese che occupano circa duemila addetti, secondo dati rilasciati nel 2016 da Assocoral, l’associazione che riunisce i produttori torresi. La lavorazione del corallo continua, pertanto, a rappresentare un importante elemento della tradizione artigianale e artistica di queste terre: e oggi,
Albero di corallo FOTO A SINISTRA:
Artista tedesco meridionale, Albero di corallo (1600 circa; corallo, base in legno policromo; Berlino, Olbricht Collection)
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Bibliografia di riferimento
Presepe
Cristina Del Mare, L’eredità trapanese e gli esordi della lavorazione del corallo nel napoletano, in OADI - Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative in Italia, 7 (2013) Maria Concetta Di Natale (a cura di), Splendori di Sicilia: arti decorative dal Rinascimento al Barocco, catalogo della mostra (Palermo, Albergo dei Poveri, dal 10 dicembre 2000 al 30 aprile 2001), Milano, Charta, 2001 Caterina Ascione, La Real Fabbrica de’ Coralli della Torre del Greco, Napoli, Enzo Albano Editore, 2000 Fabio Cicogna, Riccardo Cattaneo (a cura di), Il corallo rosso in Mediterraneo: arte, storia e scienza, Roma, Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali, 1994 Gina Carla Ascione, Storia del corallo a Napoli dal XVI al XIX secolo, Napoli, Electa Napoli, 1991
FOTO SOTTO:
140 • FINESTRE SULL’ARTE
Bottega
trapanese, Presepe (XVIII secolo; corallo, argento, legno, lamina metallica dorata, 79,5 x 90 x 46,5 cm; Modena, Galleria Estense)
An Immersive Exhibition 9 November 2019 –12 January 2020
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Il Trionfo della Divina Provvidenza ROMA
testo di Claudia Farini
Capolavoro di Pietro da Cortona (Cortona, 1597 – Roma, 1669), il Trionfo della Divina Provvidenza, che adorna l’omonimo salone in Palazzo Barberini a Roma, non è soltanto un’efficace celebrazione del potere di papa Urbano VIII, ma è anche un testo fondamentale per tutta l’arte del Seicento e oltre.
Q
uando, nell’agosto del 1623, Maffeo Barberini (Firenze, 1568 – Roma, 1644) ascese al soglio pontificio con il nome di Urbano VIII, in molti, tra intellettuali, scienziati e artisti, riposero le loro speranze in quest’uomo dotto e raffinato, auspicando un rinnovamento culturale di Roma e l’affermarsi di una Chiesa illuminata finalmente in grado di affrontare serenamente le sfide che il suo tempo le poneva davanti. Tuttavia le scelte del pontefice non tardarono troppo a
smentire, almeno in parte, tali aspettative. Sotto il suo governo, infatti, riprese con vigore l’attività dell’Inquisizione Romana, la cui più illustre vittima fu Galileo Galilei (Pisa, 1564 – Arcetri, 1642), processato nel 1633 e costretto all’abiura da quello stesso sovrano che, fino ad allora, lo aveva difeso e incoraggiato, mentre le pratiche nepotistiche, da sempre ampiamente diffuse, giunsero con i Barberini a una esasperazione generatrice di pesanti insofferenze. Inoltre nel 1641 ebbe inizio la prima guerra di Castro tra lo Stato Pontificio e la famiglia Farnese, per il controllo del ducato sito tra Lazio e
Toscana, conflitto che, tra le altre cose, condusse a un inasprimento della pressione fiscale sulla popolazione romana e contribuì a creare quel disavanzo di circa 30 milioni di scudi lasciato da Urbano, alla sua morte, nelle casse pontificie. Ma, al netto di questi fatti, rimane indubbio che il Barberini fu uno dei più grandi e accorti mecenati del secolo. Incise profondamente sull’aspetto di Roma, ormai capitale di uno stato relegato ai margini del seicentesco scenario politico europeo, e tuttavia sede di una Chiesa di cui egli, ricorrendo alla promozione delle arti come principale strumento di propaganda, insistette con forza ad alimentare un’immagine trionfante, legandola a doppio filo con quella altrettanto grandiosa del suo stesso casato. Va anche ricordato che già da cardinale Maffeo si era distinto per la sua solida preparazione culturale e il suo vivace e genuino amore per l’arte. Fu, ad esempio, tra i primi a intuire e incoraggiare il talento del ventenne Gian Lorenzo Bernini (Napoli, 1598 – Roma 1680) che rimarrà negli anni il suo artista prediletto. Per due dei più celebri gruppi scultorei di Gian Lorenzo, Apollo e Dafne e il Ratto di Proserpina, eseguiti su commissione di Scipione Borghese, Barberini aveva anche ideato alcuni versi moraleggianti, incisi e ancora oggi leggibili sulle basi marmoree. Una volta papa si spese molto per quello che senza dubbio fu, durante il suo regno ma non solo, il principale cantiere di Roma, vale a dire la nuova Basilica Vaticana, la cui edificazione era stata avviata da Giulio II nella prima metà del XVI secolo. Urbano VIII monitorava, infatti, costantemente lo svolgersi dei lavori e spinse per accelerarli, stabilendo che la Congregazione della Reverenda Fabbrica di San Pietro (la commissione di prelati incaricata di gestire la ricostruzione e i vari interventi decorativi) si riunisse non più tre o quattro volte all’anno, bensì ogni quindici giorni. La basilica costituì per tutto il Seicento uno straordinario laboratorio, luogo di confronto tra i principali artisti e stili, nonché efficacissimo palco per l’espressione del mecenatismo barberiniano. Al già citato Bernini spetta una delle più celebri ed eloquenti creazioni artistiche del pontificato di Urbano, e del Barocco romano: il baldacchino bronzeo eseguito per la crociera della chiesa. L’enorme struttura venne inaugurata nel giugno del 1633 e collocata a coronamento dell’altare papale e della confessione, che racchiude il luogo di sepoltura di san Pietro. In dialogo
con la cupola michelangiolesca, sotto cui è posto, il baldacchino aveva allo stesso tempo la funzione di ribadire con potenza il primato petrino da cui discende l’autorità pontificia, e di celebrare la persona di Urbano (al quale rimandano le numerose api dello stemma Barberini inserite nei basamenti, sulle colonne tortili e sui drappi della parte superiore) in veste di successore dell’Apostolo. Ovviamente, accanto a Bernini, molti altri artisti furono coinvolti con varî incarichi nell’impresa vaticana; tra questi anche il toscano Pietro Berrettini (Cortona, 1597 – Roma, 1669) meglio noto come Pietro da Cortona, pittore e architetto, giunto a Roma adolescente nel 1612. Nel 1628 la Congregazione commissionò al Berrettini una pala d’altare avente per soggetto la Santissima Trinità, destinata alla cappella del Sacramento (una delle più grandi e importanti dell’edificio) e consegnata probabilmente all’inizio del decennio successivo. Questa fu la prima opera eseguita dall’artista per la basilica di San Pietro, e gli venne affidata grazie soprattutto all’interessamento del cardinale Francesco Barberini (Firenze, 1597 – Roma, 1679). Per la realizzazione del dipinto, infatti, era stato scelto inizialmente Guido Reni (Bologna, 1575 – 1642) con il quale però i prelati non erano riusciti a raggiungere un accordo definitivo, trovandosi così nella necessità di ripiegare su un altro autore. Fu in questo contesto che il cardinale, il quale evidentemente godeva di grande autorità in quanto nipote del papa, propose e riuscì a far accettare Pietro, da tempo uno dei suoi protetti. I Barberini erano entrati in contatto con questo giovane pittore subito dopo l’elezione di Urbano, tramite il tesoriere segreto della Camera Apostolica, Marcello Sacchetti, per cui Pietro aveva già lavorato, e ancora lavorerà, e al quale, in particolare, stava per realizzare l’intenso ritratto oggi alla Galleria Borghese. Avevano poi ottenuto ulteriore prova del suo talento in occasione del rifacimento della chiesa paleocristiana di Santa Bibiana all’Esquilino, voluto dal pontefice per il Giubileo del 1625. Qui al cortonese era stato richiesto di affrescare la parete sinistra della navata centrale con la raffigurazione di episodî relativi alla vita e al martirio della santa, in collaborazione con il più affermato Agostino Ciampelli (Firenze, 1565 – Roma, 1630) a cui era stata assegnata la zona destra. La felice riuscita dell’impresa, con cui Berrettini aveva dato prova sia di aver assimilato il patrimonio delle antiFINESTRE SULL’ARTE • 143
Il Trionfo della Divina Provvidenza FOTO PAGINA PRECEDENTE:
Pietro da Cortona, Il Trionfo
della Divina Provvidenza e il compiersi dei suoi fini sotto il pontificato di Urbano VIII (1632-1639; affresco; Roma, Gallerie Nazionali Barberini Corsini, Palazzo Barberini, Salone di Pietro da Cortona)
chità romane, lungamente studiate, sia di saper attualizzare la storia, attraverso espressioni e gesti efficaci e appassionati, aveva segnato la sua definitiva affermazione nel panorama artistico di Roma e l’inizio del prestigioso legame professionale con il casato regnante. Come sottolineò negli anni Sessanta dello scorso secolo Giuliano Briganti, all’interno della sua monografia dedicata al pittore, però, è a partire da un’altra opera, la tela raffigurante il Ratto delle Sabine, eseguita attorno al 1629 e oggi conservata presso i Musei Capitolini, che si osserva «la prima spettacolare dichiarazione dei metodi del Barocco romano in pittura». A ormai pochi anni di distanza dal ciclopico affresco con cui Pietro decorerà la volta del salone in Palazzo Barberini, nella tela dei Capitolini la composizione, che pure ovviamente rimane chiusa nei limiti della cornice, appare ricercatamente asimmetrica, sovraffollata di fi-
loggia finestrata). I lavori di muratura per la volta dell’ambiente vennero terminati nel Settembre del 1630 e l’anno successivo si iniziò a montare le impalcature necessarie alla realizzazione dell’affresco. Il biografo Giovan Battista Passeri (Roma, 1610 – 1679) nelle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architetti che hanno lavorato in Roma, all’interno della biografia del pittore Andrea Camassei (Bevagna, 1602 – Roma, 1649), scrive che in un primo momento l’opera decorativa era stata affidata proprio a questo artista, il quale è anche indicato nei registri del 1635 dell’Accademia di San Luca come «pittore dell’ecc.mo Principe Prefetto» ossia di Taddeo Barberini (Roma, 1603 – Parigi, 1647), nipote del papa, nominato prefetto di Roma nel 1631. Taddeo era a capo del ramo secolare della famiglia, e almeno fino alla metà del quarto decennio, utilizzò il Palazzo al Quirinale con la moglie Anna Colonna e insieme ai fratelli, i cardinali Francesco e Antonio Barberini. Già prima che si cominciasse a dipingere il salone, Camassei aveva affrescato altri ambienti dell’edificio, ma così anche Andrea Sacchi (Nettuno 1599 – Roma 1661), protetto del cardinale Antonio, e lo stesso Berrettini che era intervenuto anche come architetto e aveva lavorato, da pittore, in una galleria del palazzo e nella cappella, e che come abbiamo visto, godeva del favore
Il Trionfo della Divina provvidenza rientra nell’attività di promozione delle arti (oltre che di celebrazione del proprio potere) di papa Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini. gure disposte su più piani in profondità, pervasa da un moto centrifugo e drammatico. Nel 1625 il cardinale Francesco Barberini acquistava dagli Sforza il Palazzo sulle pendici orientali del Quirinale, che oggi ospita la sede di una della due Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma, ma che allora doveva fungere da residenza ufficiale della famiglia del pontefice. Della trasformazione dell’edificio fu inizialmente incaricato Carlo Maderno; tuttavia l’architetto morì un solo anno dopo l’inizio dei lavori, affidati quindi al Bernini, con interventi di Francesco Borromini e dello stesso Pietro da Cortona. Fu Bernini ad ampliare, rispetto al progetto iniziale, le dimensioni del salone di rappresentanza al piano nobile, che inglobò lo spazio riservato al loggiato originariamente previsto per la facciata (poi sostituito con la finta 146 • FINESTRE SULL’ARTE
di Francesco. È interessante notare, tra l’altro, che tutti e tre gli artisti erano stati coinvolti pochi anni prima nella decorazione ad affresco presso la Villa Sacchetti a Ostia. Alla fine, a quanto pare, fu Francesco, il maggiore dei tre nonché cardinal nepote, a prevalere, e la volta venne affidata al cortonese, affiancato dagli allievi Pietro Paolo Baldini, Giovanni Maria Bottalla e Giovanni Francesco Romanelli. Tuttavia secondo il Passeri il papa stesso intervenne nella disputa familiare, e fu lui a decidere in modo definitivo; molti studiosi oggi tendono a ritenere attendibile questa informazione, in considerazione del peso che un tale intervento pittorico avrebbe avuto. Prova di quanto il pontefice avesse investito nel progetto (anche) in termini di aspettative, sono le sue visite quotidiane al
salone durante i lavori, di cui scrive il pittore e storico dell’arte tedesco Joachim Von Sandrart (Francoforte sul Meno, 1606 – Norimberga, 1688) nel suo testo Teutsche Akademie del 1675. Ad ogni modo la lavorazione si protrasse a lungo: Pietro iniziò a dipingere il soffitto alla fine del 1632 e lo terminò nello stesso periodo dell’anno 1639. Sebbene la superficie da coprire misurasse ben 24 metri di lunghezza per 14,5 di larghezza, e fosse quindi molto estesa, sicuramente incisero sui tempi anche i numerosi impegni che il pittore doveva gestire. Quando il cardinale Giulio Sacchetti partì per Bologna, nel giugno del 1637, Berrettini lo seguì e si fermò diversi mesi a Firenze per realizzare i primi due affreschi della Sala della Stufa in Palazzo Pitti, su richiesta del granduca Ferdinando II (Firenze, 1610 – 1670); poi ripartì verso Venezia e tornò al suo lavoro nel salone Barberini solo a dicembre. E molte altre furono le commissioni da lui ricevute nell’arco di quei sette anni. Si aggiunga, poi, che al momento del rientro nel Palazzo romano, probabilmente, l’artista eseguì rifacimenti considerevoli di quanto concluso prima del viaggio, non sappiamo con certezza se a causa di suoi ripensamenti o per via di problemi tecnici legati alla scarsa coesione della malta. Il dubbio permane anche per via del fatto che ci sono giunti pochi disegni preparatorî, peraltro dispersi tra varie collezioni nazionali ed estere, e che quindi definire precisamente le varie fasi di ideazione è piuttosto arduo. La storica dell’arte Lorenza Mochi Onori nel suo saggio Pietro da Cortona per i Barberini riporta che, durante il suo periodo da direttrice della Galleria, in occasione di alcuni interventi di restauro, poté appurare la presenza di poche incisioni da riporto dai cartoni e l’assenza di spolvero. L’affresco, quindi, fu realizzato per buona parte traducendo a mano libera le immagini direttamente dai disegni preparatorî. Questo modus operandi (menzionato anche dalle fonti dell’epoca) oltre a a testimoniare la grande abilità dell’artista (soprattutto nel gestire le proporzioni dei singoli brani pittorici rispetto al resto della composizione) potrebbe spiegare la scarsità di fogli con disegni oggi in nostro possesso: una delle ipotesi plausibili è che essi non furono raccolti, perché essendo stati impiegati direttamente sul cantiere potrebbero aver subito danneggiamenti rendendo inutile, agli occhi dei contemporanei, la loro conservazione. Inoltre le giornate di lavoro riscontrate dall’osservazione dell’intonaco sono moltissime, di cui alcune molto limitate e finalizzate solo alla correzione di dettagli che,
evidentemente, a un’osservazione dal basso, non risultavano eseguiti alla perfezione. Gli interventi a secco, al contrario, sono decisamente esigui. In ogni caso, nonostante la lunga attesa, il risultato finale lasciò i committenti più che soddisfatti. L’affresco, raffigurante Il trionfo della Divina Provvidenza e il compiersi dei suoi fini sotto il pontificato di Urbano VIII Barberini, è un’efficacissima «glorificazione temporale del potere papale» come nota, ancora, Mochi Onori. Il programma iconografico venne sviluppato dal poeta di corte della famiglia regnante, Francesco Bracciolini, a partire da un poema che egli stesso aveva scritto, pochi anni prima dell’inizio degli interventi pittorici, dedicato al pontefice e intitolato L’elettione di Urbano Papa VIII. Il letterato, al quale venne anche concesso il privilegio di affiancare al proprio cognome la dicitura “Dell’Api” in riferimento alle api araldiche Barberini, dettò a Pie-
Pietro da Cortona FOTO SOPRA:
Pietro da Cortona, Autoritratto (1637;
olio su tela, 77 x 55 cm; Ajaccio, Musée Fesch, inv. MFA 852.1.738)
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Le api Le api con Fede, Speranza e Carità 148 • FINESTRE SULL’ARTE
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Dettagli FOTO PAGINE PRECEDENTI, IN SENSO ORARIO:
Crono e le Parche; La Giustizia e l’Abbondanza volano sulla folla mentre Ercole scaccia le arpie; Minerva sbaraglia i giganti; La Sapienza, l’Aiuto Divino e la Religione
tro da Cortona i soggetti principali che, poi, il pittore adattò e, in alcuni casi, modificò. Bracciolini racconta nel poema una lunga battaglia, ambientata nei giorni trascorsi tra la morte di Gregorio XV e la nomina del suo successore, che si conclude felicemente con la vittoria delle virtù sui vizî e, appunto, l’ascesa del Urbano VIII. Il testo è caratterizzato dalla fusione di narrazione mitologica, epico-allegorica, favola pastorale, exempla biblici e storici, cronaca di eventi contemporanei, biografia romanzata, e tutto questo patrimonio storico e letterario è attualizzato, trasferito nel presente, e inserito nella realizzazione del disegno della Provvidenza ai tempi di Urbano. Nel poema Dio stesso promette e, in conclusione, concede l’elezione del Barberini, che viene celebrato non da solo, ma insieme ai suoi famigliari: il potere discende dalla volontà divina e si incarna in una precisa dinastia mondana. Così, guardando all’affresco, le tre gigantesche api dello stemma del casato compaiono nel centro dello specchio piano del voltone, chiuse in una grande ghirlanda d’alloro, a sua volta sorretta dalle personificazioni di Speranza, Carità e Fede, e sulla quale Roma e la Religione stanno posando, rispettivamente, la tiara papale e le chiavi petrine. Da un angolo, un putto si sporge offrendo una più piccola ghirlanda, in riferimento, probabilmente, alla passione e al talento di Urbano per la poesia. Più giù, un’altra figura femminile, la Divina Provvidenza, adagiata su soffici nuvole e circondata da una caldo bagliore che ne rimarca il ruolo primario, con lo scettro nella mano sinistra, comanda all’Immortalità di ornare con una corona di stelle il blasone composto dai tre monumentali insetti. Sotto di loro, alludono allo scorrere inesorabile del tempo Crono, che divora uno dei suoi figli, e le tre Parche, intente a tessere e poi tagliare il filo del destino umano. Come si intuisce già da questa prima descrizione, accanto a figure tratte dalla mitologia, ne compaiono molte allegoriche, nei panni di placide e floride fanciulle, e alcune di esse, quelle di nuova invenzione che non po152 • FINESTRE SULL’ARTE
tevano contare su un’identità iconografica ben definita, risultavano probabilmente abbastanza oscure a molti dei visitatori. Il salone era aperto a chiunque si presentasse decentemente abbigliato e in determinati orari, il che prova quanto i Barberini ritenessero efficaci quelle immagini e importante la loro divulgazione; proprio al fine di far comprendere e far circolare i preziosi significati, il casato provvide a fornire la sala di una sorta di guida, la Dichiarazione delle pitture della sala de’ signori Barberini, alla quale ne seguirono altre. I personaggi di cui si è detto volteggiano nel cielo, sul quale è illusionisticamente aperta, come sfondata, la superficie muraria reale. Tale spazio centrale è inquadrato da un architrave dipinto a monocromo, a imitazione del marmo, sorretto da quattro pilastri che individuano, negli intradossi del voltone, altrettante zone laterali. Queste ultime ospitano scene in cui si allude alle azioni e alle virtù del pontefice, le quali azioni e virtù, quindi, vengono poste idealmente, ma anche fisicamente, alla base dell’apoteosi del suo casato che è voluta e ordinata dalla Provvidenza. In uno dei lati brevi della sala, quello verso la facciata, la Giustizia con il littorio, e l’Abbondanza che regge una cornucopia carica di frutti, volano su una folla di anziani, donne e bambini che si protendono verso di loro; accanto Ercole scaccia un’arpia dopo averne già uccisa un’altra, riversa ai suoi piedi. La figurazione pittorica dell’altro lato corto mostra, con Minerva che sbaraglia i giganti facendoli precipitare (notevoli sono gli scorci dei tre personaggi sulla destra, che sembrano letteralmente franare sullo spettatore), la vittoria dell’intelligenza sulla forza bruta. Frontalmente all’ingresso (provenendo dalla scala progettata da Bernini), su una delle due pareti lunghe, è celebrato l’amore del pontefice per la conoscenza, che egli dunque avrebbe sempre perseguita, seppure entro i limiti sacri dell’ortodossia religiosa che qui sembra vengano chiaramente ribaditi. Vediamo una figura femminile, la Sapienza, avvolta da una veste oro bagnata di luce e assisa sulle nuvole, con il fuoco in una mano e un libro aperto nell’altra, mentre, accompagnata dall’Aiuto Divino, ascende verso il centro della volta superando il limite della cornice architettonica, perché è solo in alto, in cielo, che la vera conoscenza risiede. A rafforzare questo concetto, alla sua sinistra compare la Religione che custodisce il sacro tripode e ha il capo velato, così come la Purezza che si libra in volo dall’altra parte, reggendo un giglio
La Divina Provvidenza FOTO SOPRA:
La Divina Provvidenza comanda
all’Immortalità di ornare con una corona di stelle il blasone dei Barberini
bianco. Rimangono in basso, invece, sotto di loro, i vizî: Sileno, sguaiato, grasso ed ebbro, circondato da ninfe e baccanti, e Venere che discinta, mollemente distesa su un drappo rosso, assiste con sconforto alla battaglia di puttini, simboleggiante la lotta tra Amor Sacro e Amor Profano. Nel lato lungo dalla parte opposta, si esalta la politica di pace di Urbano, che, stando ai fatti storici, però, egli riuscì molto bene a propagandare, un po’ meno ad attuare. Al centro scorgiamo la Pace, con un mantello azzurro, anch’essa seduta su un trono di nuvole e anch’essa sovrapposta all’architrave, che regge il caduceo e una chiave. Le sono affianco la Prudenza, ammantata di rosso, che tiene uno specchio, e un’altra non meglio identificata figura femminile, con in mano un cartiglio probabilmente contenente un messaggio, ritratta di spalle e in atto di dirigersi verso il tempio alla sua destra. Qui la Fama suona le trombe e una fan-
ciulla in volo con un ramoscello d’ulivo sta chiudendo la porta del tempio di Giano avvolto dalle fiamme (le sue porte nella Roma antica venivano chiuse durante i periodi di pace) forse obbedendo all’ordine contenuto nel messaggio a cui si è accennato. Al di sotto il Furore, nudo, giace a terra incatenato dalla sorridente Mansuetudine e dall’altra parte Vulcano, circondato da un denso fumo nero che sembra propagarsi e sconfinare, fino quasi a lambire le api nel riquadro sovrastante, forgia non più armi, ma un badile. Passiamo, infine, alla cornice architettonica dipinta, che scandisce lo spazio pittorico, e si presenta riccamente decorata con finte sculture raffiguranti festoni floreali, bucrani, delfini, ignudi, tritoni, putti. Agli angoli dell’architrave, sopra a ciascun pilastro, vediamo quattro clipei con rilievi in finto bronzo dorato, che svolgono episodî di storia romana, allusivi a virtù che qui vengono attribuite a Urbano VIII; esse sono illustrate anche dagli animali dipinti più in basso, alle basi dei pilastri. Così riconosciamo la scena con La prudenza di Fabio Massimo a cui è connessa l’orsa, entrambe simbolo di sagacia, La continenza di Scipione con il liocorno, che rappresentano la purezza, sopra al leone, simbolo di forza, abbiamo L’eroismo di Muzio scevola, e infine La giustizia del console Manlio
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Dettagli FOTO PAGINA A FIANCO, DALL’ALTO IN BASSO:
i vizî: Venere assiste
alla battaglia tra i putti; i vizî: Sileno ebbro con ninfe e baccanti; la Pace, la Prudenza e la Fama
con l’ippogrifo, a figurare la perspicacia. Più di cento personaggi popolano l’affresco, ognuno di essi intento al compimento di un’azione, in un turbinio ininterrotto, che annulla lo spazio reale e travolge anche la finta architettura. Questo moto che pervade interamente l’opera è assecondato e accentuato dal ricorso al puntinato: sulla superficie dipinta sono aggiunti, tono su tono, sempre a fresco, piccoli puntini di colore che, combinati a un composto granuloso ottenuto impiegando nell’intonaco più sabbia che malta, rende vibrante la materia pittorica, quasi cangiante. All’interno della prospettiva centrale si aprono, poi, quelle relative a ogni scena, eppure l’affresco nella sua interezza è concepito per essere inizialmente «abbracciato da un solo sguardo e a quello esprimere immediatamente il senso compiuto e unitario della sua invenzione e del suo significato», come sottolinea Briganti. E se in un primo momento prevale il puro stupore per l’immensa spazialità illusionisticamente generata, per la quantità di figure che la animano e, in definitiva, per l’abilità tecnica che tutto questo presuppone, successivamente, come si è visto, ci si accorge della complessità dei significati veicolati dall’affresco, ai quali la meraviglia suscitata nello spettatore conferisce ulteriori forza ed efficacia. Proprio questo desiderio di stupire e di coinvolgere emotivamente chi guarda è una delle caratteristiche più evidenti e più innovative della corrente stilistica che investì l’arte romana a partire dagli anni Trenta del Seicento. L’affresco in Palazzo Barberini costituisce, infatti, uno dei momenti iniziali e una delle più felici espressioni, in pittura, di quel linguaggio artistico che iniziò a definirsi proprio sotto il pontificato Barberini, a cui solo a partire dal tardo Settecento, e con intento dispregiativo, i teorici neoclassicisti assegnarono il nome “Barocco”. Con questo termine essi intendevano definire uno stile che, a loro parere, dal quarto decennio del Seicento aveva distorto tutte le arti, dominato dal bizzarro, dall’eccesso, teso a stravolgere ogni principio di simmetria e rispondenza, 154 • FINESTRE SULL’ARTE
stile che il critico d’arte Francesco Milizia, nel suo testo Dell’arte di vedere nelle belle arti del 1781, arrivò a definire «peste del gusto». Nondimeno furono proprio tali critici settecenteschi a individuare per primi, con chiarezza, sebbene al fine di condannarli, le caratteristiche, gli elementi di novità, nonché i principali esponenti della corrente stilistica barocca. Come da loro osservato, infatti, Bernini e Berrettini, insieme a Borromini, furono i maggiori interpreti di questa nuova sensibilità; scrive Anna Lo Bianco nel suo Pietro da Cortona e la grande decorazione barocca che Pietro e Gian Lorenzo ebbero «una stessa concezione dell’arte, vitale ed eroica insieme, che giunge a rendere pulsante il bagaglio delle conoscenze classiche attraverso l’uso di una tecnica spericolata che forza le linee, esaspera le espressioni, confonde volumi e colori». Urbano VIII non mancò di intuire e di sostenere il talento di questi due artisti e la forza persuasiva delle loro personali declinazioni del linguaggio barocco facendone uno strumento, come abbiamo visto, nel contesto del suo progetto politico, che aveva nella Basilica Vaticana e nel palazzo di famiglia i propri pilastri, e attraverso il quale egli puntò, con successo, a riaffermare il primato culturale di Roma, facendo di esso uno strumento di egemonia per sé e per il suo casato. ◊
Bibliografia essenziale Maddalena Spagnolo, I luoghi della cultura nella Roma di Urbano VIII, in Gabriele Pedullà, Sergio Luzzatto (a cura di), Atlante della letteratura, vol. II, Torino, Einaudi, 2011 Luana Salvarani, (a cura di), Francesco Bracciolini. L’elettione di Urbano Papa VIII, Torino, La Finestra, 2006 Anna Lo Bianco, Pietro da Cortona e la grande decorazione barocca, Firenze, Giunti Editore, 1998 Tullia Carratù, Michela Ulivi (a cura di), Pietro da Cortona. Itinerari romani, Milano, Electa, 1998 Anna Lo Bianco (a cura di), Pietro da Cortona, Milano, Electa, 1997 Giuliano Briganti, Pietro da Cortona o della pittura barocca, Firenze, Sansoni Editore, 1960
www.barberinicorsini.org
| ATTUALITÀ
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Il trittico Ringli CARRARA
torna nella sua chiesa testo di Ilaria Baratta
Una storia che ha quasi del miracoloso: un trittico del 1438, attribuito al Maestro di Sant’Ivo, torna dopo secoli nella chiesa per la quale fu realizzato, quella di San Pietro Apostolo ad Avenza. Grazie all’impegno di un gallerista, alla caparbietà di un sacerdote e al contributo di importanti studiosi.
L
’arte e i suoi capolavori hanno sempre una storia da raccontare: storie di committenze, di acquisizioni, di restauri, ma quella che ha per protagonista il Trittico Ringli ha quasi del miracoloso, come affermato da don Marino Navalesi, parroco della chiesa di San Pietro Apostolo ad Avenza (nel Comune di Carrara), e confermato da Matteo Salamon della galleria d’arte Salamon di Milano, ultimo proprietario del trittico. L’opera è stata commissionata nel 1438 proprio per la chiesa avenzina, luogo quindi d’origine del dipinto che, a seguito di successivi trasferimenti e acquisizioni avvenuti nel corso dei secoli, è giunto nelle disponibilità della galleria
San Pietro FOTO PAGINA A FIANCO:
Dettaglio del volto di san Pietro
milanese: fino a questo punto la storia di questo trittico non sembrerebbe così tanto insolita, se non fosse per il fatto che don Marino, venuto a conoscenza, a seguito di una serie di concomitanze, delle origini e dell’attuale collocazione dell’opera, abbia deciso di riportarla nella chiesa per la quale era stata realizzata, ricomprandola. Il nome del committente, Peter von Johanns Ringli, da cui deriva la denominazione del trittico, si legge a chiare lettere nella frase in volgare scritta alla base del pannello centrale, raffigurante san Pietro in trono: QVESTA TAVOLA FECE FARE PIERO DI GIOVAN(N)I RIN/GLI 1438. Tuttavia, è stato possibile leggere per intero la citata frase solo recentemente, ovvero da quando Matteo Salamon, acquistata nel 2018 l’opera che si presentava divisa in tre pannelli distinti, ha deciso di riunire questi ultimi, e proprio a partire da questa dedica è stata scoperta FINESTRE SULL’ARTE • 157
con straordinaria esattezza la provenienza dell’intero dipinto, grazie a studî compiuti da esperti. Ringli, mercenario svizzero proveniente da Zurigo, era stato inviato come capitano di ventura da parte di Francesco Sforza ad Avenza a presidiare la via Francigena, in difesa della fortezza e del borgo; Francesco Sforza era, tra il 1437 e il 1441, il comandante delle milizie della Repubblica Fiorentina negli anni delle guerre tra Milano e Firenze per il controllo della Toscana occidentale, proprio nell’epoca in cui i territorî di Carrara, di cui fa parte Avenza, erano soggetti a varî cambi di proprietà. Per comprendere l’importanza che ebbe nel corso dei secoli la chiesa di San Pietro Apostolo è necessario fornire qualche informazione ulteriore: la sua prima attestazione risale al 1187, quando era unita alla pieve urbana dell’antica Luni; solo dopo i primi del Duecento l’antica area di Avenza (che prendeva il nome dal fiume Aventia) venne unita a Carrara. Inoltre, da Avenza passa la via Francigena, percorsa da pellegrini, ma anche da avventurieri: proprio in questo punto s’incrociavano le vie che scendevano verso il mare dalla Lunigiana interna attraverso Carrara. In una frase della bolla di papa Gregorio VIII del 14 dicembre 1187 si legge «Burgum de Aventia cum ecclesia Sanct Petri eiusdem loci»: la chiesa di San Pietro di Avenza era chiesa sedale suburbana che sostituiva una chiesa omonima situata fuori dalle mura della città di Luni. Andata in rovina quest’ultima, alla chiesa del borgo di Avenza venne dato lo stesso nome. Di fatto, fino al 1201, la chiesa di San Pietro in Avenza era la chiesa cattedrale lunense. È da considerare inoltre che Carrara aveva avviato un’espansione legata all’economia marmifera e Avenza avrebbe contribuito al passaggio per terra e per mare di questi commerci per lungo tempo. Il borgo di Avenza ebbe dunque un ruolo di rilievo dal punto di vista storico e commerciale e si comprende perciò il motivo per cui il dipinto sia una testimonianza importante della storia della cittadina.
Trittico Ringli FOTO A SINISTRA:
Maestro di Sant’Ivo, San Pietro in trono
tra sant’Antonio abate e Maria Maddalena detto anche Trittico Ringli (1438; tempera su tavola a fondo oro di metà, 133,8 x 149,2 cm) FINESTRE SULL’ARTE • 159
Per dare lustro al suo mandato, Ringli commissionò il trittico in questione a un maestro fiorentino anonimo, oggi noto come il Maestro di Sant’Ivo, denominazione che prende origine dal suo dipinto più importante, che raffigura sant’Ivo di Bretagna, patrono di giureconsulti, vedove e pupilli, opera oggi conservata alla Galleria dell’Accademia di Firenze. Un artista che rientra, secondo alcuni storici dell’arte, nella cerchia di Mariotto di Nardo di Cione (Firenze, notizie dal 1394 al 1424). L’attribuzione al Maestro di Sant’Ivo si deve a Federico Zeri e risale al 1994, anno in cui il dipinto era stato segnalato in una collezione privata in Germania; precedentemente il trittico si faceva appartenere alla scuola senese o veniva ascritto a maestri anonimi. Oltre alla dedica che rivela la committenza, altri elementi legano la preziosa opera ad Avenza e alla sua
dei vescovi di Luni che è presente anche sulla facciata della chiesa di San Pietro Apostolo. I colori sono però invertiti rispetto all’usuale aspetto: la mezzaluna è blu in campo oro anziché il contrario. Potrebbe essere secondo esperti l’unione dello stemma di Zurigo, trinciato di argento e di blu, con il simbolo di Luni nel campo, diventato oro modificando il metallo: le origini svizzere di Ringli e il territorio in cui era stato trasferito per servizio. Dell’opera si persero le tracce, ma probabilmente giunse a Genova durante il periodo di dominio genovese in terra apuana nella metà del Quattrocento, perché alla fine dell’Ottocento risulta che fosse nelle proprietà della Banca Popolare e Cassa di Risparmio di Genova. Quest’ultima, nel 1895, la vendette all’asta mediante la Galleria Sangiorgi di Roma. Agli inizi del Novecento il trittico, presumibilmente per
Probabilmente il dipinto uscì dalla chiesa già a metà Quattrocento: dopo aver girato per tutto il mondo, è stato acquistato nel 2018 dal gallerista Matteo Salamon. chiesa dal punto di vista compositivo: il trittico presenta al centro san Pietro in trono, in abito papale con paramenti e tiara e con l’attributo delle chiavi, nel pannello a sinistra è rappresentato sant’Antonio abate con la cappa da abate, il bastone taumato (ovvero a forma di tau) e il suo immancabile maialino ai piedi, mentre nel pannello a destra è raffigurata santa Maria Maddalena con i lunghi capelli biondi e con in mano il contenitore dell’unguento. Sotto a ciascuna di queste figure è scritto nella predella il rispettivo nome, in latino e con caratteri gotici maiuscoli: SANTVS ANTONIVS ABAS. SANTVS PETRVS APPOSTOLVS. SANTA MARIA MA^DALENA. San Pietro è il santo a cui è dedicata la chiesa di Avenza, sant’Antonio abate era il santo dell’ospedale annesso alla chiesa e santa Maria Maddalena era la santa dell’altro ospedaletto al ponte di Ricortola, distante poche miglia da Avenza. I tre santi rappresenterebbero quindi i tre luoghi collocati sul tratto di via Francigena controllato militarmente nel raggio di due miglia dalla fortezza. Un altro particolare significativo da tenere in considerazione è lo stemma, in scudo a mandorla, posto al centro della predella: una mezzaluna sottile crescente montante, cioè con i corni rivolti verso l’alto, simbolo 160 • FINESTRE SULL’ARTE
facilitarne il commercio, venne diviso in tre pannelli separati, che vennero acquistati tutti insieme dal collezionista tedesco americano Hanns Theichert di Chicago, originario di Dresda ma trasferitosi negli anni Venti del Novecento negli Stati Uniti, per poi tornare nel 1956 in Germania, precisamente a Rothenburg in Baviera. A seguito della scomparsa del collezionista e della trascuratezza da parte della vedova, l’opera è attestata ancora con i tre pannelli divisi nella collezione privata della famiglia Sayn-Wittgenstein e successivamente in vendita a Londra da Christie’s. Qui è stata acquistata nel luglio 2018 dalla Galleria Salamon di Milano, che ha riportato il prezioso capolavoro in Italia e lo ha restaurato, riunendo tra loro i tre pannelli, come previsto dal suo aspetto originale. E così è iniziata la storia del suo ritorno nella cittadina di Avenza. Lo stesso Matteo Salamon ci ha raccontato ciò che si può definire quasi miracoloso, ovvero risalire con esattezza alla provenienza di un’opera pressoché sconosciuta e riportarla di nuovo nel suo luogo d’origine.
Chiavi FOTO PAGINA A FIANCO:
Le chiavi di san Pietro
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Santa Maria Maddalena FOTO PAGINA A FIANCO:
Dettaglio del volto di santa
Maria Maddalena
«Quando ho comprato il quadro», ci ha spiegato, «era diviso in tre grandi pannelli che presentavano tre diverse figure, e mi è sembrato un polittico molto bello, in ottimo stato di conservazione. L’ho portato quindi dalla mia restauratrice a Firenze, Loredana Gallo: la prima cosa che mi ha consigliato di fare è stata quella di togliere le cornici da ciascun pannello per poter vedere bene il quadro. Tolte le cornici, ci siamo resi conto che una parte della scritta del quadro che stava alla base del pannello centrale del Trittico Ringli era stata coperta da una di queste cornici e la cosa ci ha immediatamente insospettiti. Nel frattempo, avevo fatto vedere le fotografie del quadro ad Angelo Tartuferi, responsabile del Dipartimento della Scultura Michelangiolesca e della Pittura dal Duecento al Quattrocento della Galleria dell’Accademia di Firenze, il più grande esperto di pittura fiorentina di primo Quattrocento, che ha riconosciuto con sicurezza che si trattava di un’opera del Maestro
Stemma FOTO SOPRA:
Lo stemma con
la mezzaluna
di Sant’Ivo, ma se fosse stato veramente così ci saremmo trovati davanti a un problema: il dipinto era datato 1438, mentre il pittore risultava morto alla fine degli anni Venti. Per risolvere la questione della data, che sembrava assolutamente autografa, io e la restauratrice abbiamo deciso di far analizzare il quadro, facendo compiere studi stratigrafici all’Istituto di Fisica Applicata “Nello Carrara” del Consiglio Regionale della Ricerca, appena fuori Firenze, e le analisi hanno confermato l’originalità della data». Gli strati originali hanno evidenziato la punzonatura utilizzata sulle aureole dorate dei santi, particolare che conferma l’attribuzione al Maestro di Sant’Ivo, e inoltre sono state scoperte forme di corrosione chimica causata dall’esposizione alla brezza marina, che confermano l’originaria provenienza. «Chiamo di nuovo Tartuferi», prosegue Salamon, «ed ecco la prima grande scoperta sul trittico: la questione della data dava l’opportunità di riscrivere la storia del Maestro di Sant’Ivo e di una piccola porzione della scuola fiorentina all’alba del Quattrocento, poiché un pittore che gli storici dell’arte avevano sempre pensato scomparso nel 1420 circa, oggi sappiamo per certo essere nel 1438 ancora attivo. Una volta
Maialino
Vaso
FOTO SOPRA:
FOTO SOPRA: Il vaso con l’unguento
Il maialino di
sant’Antonio abate
di santa Maria Maddalena FINESTRE SULL’ARTE • 163
Chiesa di San Pietro Apostolo FOTO A SINISTRA:
Avenza
(Carrara), chiesa di San Pietro Apostolo, interno
smontati i tre quadri dalle cornici, ci siamo inoltre resi conto che i tre pannelli erano nati attaccati (complessivamente il quadro misura 1,68 metri), perciò, ragionando da antiquario, mi sembrava giusto ridare la corretta collocazione all’opera d’arte: siccome il dipinto era nato come un unico pannello, ho pensato di restituirgli la sua antica dignità. Così ho deciso di far riunire i tre pannelli. È stata una scelta ponderata. Come antiquario ho pensato di fare qualcosa, di dare un messaggio: gli oggetti che vendo e compro devono essere belli, preziosi, ma devono raccontare qualcosa e devono restituire qualcosa. Per fortuna, i pannelli non erano stati segati, ma separati, quindi non si era perso neanche un millimetro di superficie dipinta; li abbiamo semplicemente riavvicinati e collegati con traverse, restituendo la loro unicità». Per farsi aiutare per quanto riguardava la provenienza del quadro, Tartuferi interpellò la storica dell’arte Annamaria Bernacchioni, dell’Università di Firenze, e grazie a lei si arrivò a scoprire che il dipinto, come già affermato, fu commissionato da Piero di Giovanni Ringli nel 1438 per la chiesa di San Pietro Apostolo di Avenza. È più che raro, quasi impossibile, secondo il gallerista, riuscire a riscoprire la provenienza di un dipinto in maniera così puntuale e precisa: ecco perché questa storia ha dell’incredibile. E ribadisce che una storia così complessa pensa non sia mai accaduta. Continuando nel suo racconto, Salamon ricorda di essere stato così tanto incuriosito da questa vicenda da decidere di partire per vedere dal vivo il borgo di Avenza e la chiesa per cui era stata realizzata l’opera: «una domenica mattina di fine novembre, mentre giravo sotto la fortezza con la mia 164 • FINESTRE SULL’ARTE
macchina fotografica, mi avvicina un signore che, chiedendomi se cercassi qualcuno o qualcosa, mi dice di essere uno storico locale, Pietro Di Pierro, e che poteva raccontarmi la storia del luogo. Sbigottito dalla casualità dell’incontro, perché se io fossi arrivato o un attimo prima o un attimo dopo non ci saremmo mai incontrati, ho chiesto informazioni sulla cittadina e sulla chiesa: siamo stati insieme mezza giornata e ovviamente gli ho raccontato la storia del dipinto che avevo acquistato. L’ho invitato anche a scrivere un capitolo sul borgo di Avenza sulla pubblicazione dedicata al trittico che stavo realizzando (The Ringli triptych: a new discovery by the Master of Sant’Ivo, edito all’inizio del 2019): tra le varie sezioni, c’era anche una scheda scientifica di Jacopo Osticioli del CNR sulle fasi di restauro del quadro e il ripristino della sua integrità». Nel corso degli studî è stata compiuta un’altra grande scoperta: il quadro non era eseguito a fondo oro, ma a “fondo oro di metà”, ovvero una lega metà oro e metà argento rarissima in antichità, perché non ritenuta preziosa come l’oro. La tecnica dell’oro di metà (o “di mezzo”) non era mai stata studiata ed analizzata fino ad oggi in maniera così puntuale, perché sono rarissimi i dipinti aventi questo fondo e perciò non c’era mai stata occasione di poter studiare questa tecnica in modo così approfondito come hanno potuto fare con il trittico grazie all’aiuto del CNR. «All’improvviso», continua Salamon, «un giorno mi ha telefonato don Marino Navalesi per sapere se avessi avuto il Trittico Ringli ancora nella mia galleria. Mi ha chiesto d’incontrarci a Milano per poter vedere il quadro dal vivo e, alla fine di quella giornata
nella mia città, mi ha comunicato la sua volontà di riportare l’opera nella sua Avenza». E alla presenza dello stesso Salamon, una domenica mattina di maggio don Marino, nel corso di una messa, ha dato ai suoi fedeli l’annuncio che Avenza avrebbe ricomprato il dipinto, per la cifra di 160.000 euro. Al fine di raccogliere donazioni da chiunque volesse partecipare, il parroco ha lanciato una sottoscrizione pubblica, e sono già tante le donazioni perché questa è una storia che coinvolge l’intera cittadina. Dopo mesi di attesa, Avenza vedrà finalmente il ritorno dell’opera all’inizio del dicembre prossimo. «Sono arrivate tante offerte», ci ha dichiarato lo stesso don Marino Navalesi. «La gente ha risposto bene a questo grande avvenimento e arriveremo a raggiungere la cifra necessaria per acquisire questo prezioso capolavoro. La comunità ha accolto positivamente l’iniziativa, come tutte le altre. Si vede il sano orgoglio paesano. Come è avvenuto per la Madonna col Bambino del Maestro di Barga, che era già nostra: era un’ opera sconosciuta e siamo riusciti a riportarla a casa nel 2010, quando abbiamo restaurato la chiesa». La storia della Madonna del Maestro di Barga ci riporta al 1913, quando durante il ministero di don Giovanni Borsi, l’allora parroco di San Pietro, il dipinto venne depositato all’Accademia di Belle Arti di Carrara con l’obiettivo di venderlo e ottenere così una cospicua somma di denaro; l’opera non venne venduta ma neanche restituita, e rimase per oltre novant’anni fuori da Avenza. Dopo una raccolta firme e varie vicissitudini, nel 2009 il dipinto venne restituito alla Curia Vescovile e solo nel maggio 2010 fu riconsegnato materialmente alla chiesa, al termine dei restauri di quest’ultima. Ovviamente, il fatto che la parrocchia si sia impegnata in maniera così attiva nel recupero del proprio patrimonio artistico, non ha minimamente inciso sulle sue normali attività. «La parrocchia», tiene a precisare don Marino, «continua senza problemi le sue
opere di carità. Per il trittico abbiamo aperto un conto corrente separato intestato alla parrocchia. Non cambierà la fede della parrocchia e neanche la presenza degli avenzini alla messa. Sono arrivate anche offerte da fuori, di persone originarie di Avenza che ora abitano fuori e anche da lontano, con bonifico bancario. Anche le grandi aziende ci hanno sempre aiutato molto in questi anni e anche per quest’occasione risponderanno al bisogno della comunità e ci aiuteranno ad arrivare alla cifra necessaria». Il sacerdote assicura che la comunità è molto legata al suo territorio e alla sua chiesa, perciò dedicherà buona attenzione a questo avvenimento, anche se legato all’arte: «l’arte», sottolinea, «parla a una comunità di fedeli perché la lega a una storia, una storia di fede che non appartiene solo al passato. Quella di Avenza è una delle tante parrocchie che hanno mille anni, essendo anche legata a Luni; ma l’arte parla perché racconta la storia di un territorio: un aspetto importante che spesso rischia di essere dimenticato. Anche se il paese è cambiato nel corso del tempo, la chiesa rimane l’unico luogo popolare, il luogo principale del paese, anche per chi non la frequenta». L’arrivo del Trittico, previsto per il 1° dicembre, sarà accompagnato, soprattutto negli ultimi giorni da tante iniziative: serate dedicate, un convegno sulla chiesa di San Pietro Apostolo che affronterà la storia della comunità, della diocesi e della chiesa che custodisce altre piccole opere private. «Cercheremo», conclude don Marino, «di vivere il giorno dell’arrivo della preziosa opera come una grande festa paesana, come un momento bello dove la gente attenderà il dipinto. E l’attesa sarà colmata dalla straordinaria bellezza di questo trittico». ◊
Iscrizione FOTO SOTTO:
L’iscrizione con la data e il nome del
committente
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Art Gallery.
Galleria Pack
Viale Sabotino, 22 Milano 02 36554554 info@galleriapack.com www.galleriapack.com
Galleria d’arte moderna e contemporanea fondata nel 1964 da Dino Tega. Attività dalla lunga tradizione familiare, Galleria Tega ha organizzato (e continua a organizzare) mostre di grandi artisti internazionali.
Carlo Orsi
Via Bagutta, 14 Milano 02 76002214 info@galleriaorsi.com www.galleriaorsi.com
Tra le più importanti gallerie milanesi, specializzata soprattutto in arte dell’Ottocento (in particolare delle scuole lombarde). Ospita inoltre mostre di qualità. La Galleria, fondata a Saronno nel 1967 da Luigi e Romano Maspes, ha anche un Archivio e una Biblioteca..
10 a.m. Art
Corso San Gottardo, 5 Milano 02 92889164 info@10amart.it www.10amart.it
La Galleria Altomani & Sons, con sede a Milano e Pesaro, è stata fondata da Giancarlo Ciaroni e Anna Maria Altomani. La pittura, la maiolica antica e la scultura, principalmente Italiane tra il XII e il XVII, sono al centro dell’interesse della galleria.
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Galleria d’arte contemporanea che propone un viaggio all’interno delle opere di affermati artisti internazionali. È stata fondata nel 2001 con l’intento di offrire al pubblico una programmazione ambiziosa incentrata sulla produzione di artisti sia emergenti che maggiormente affermati.
Galleria Tega
Via Senato, 20 Milano 02 76006473 info@galleriatega.it www.galleriatega.it
La Galleria Carlo Orsi è una galleria d’arte specializzata in dipinti antichi, soprattutto italiani, in sculture ed oggetti d’arte. Ha la sua sede in un palazzo settecentesco nel cuore di Milano e vanta oltre cinquant’anni di esperienza.
Gallerie Maspes
Via A. Manzoni, 45 Milano 348 0418592 e.orsenigo@gmail.com www.galleriemaspes.com
Fondata nel 2014 da Biancha Maria Menichini e Christian Akrivos, promuove artisti la cui ricerca si basa sulla sollecitazione della potenzialità della percezione sia essa stimolata dalla forma, dal movimento, dalla luce, dal colore o dalla programmazione matematica.
Altomani & Sons
Via Borgospesso, 14 Milano 02 201033 simona@altomani.com www.altomani.com
Bottegantica
Via Manzoni, 45 Milano 02 62695489 info@bottegantica.com www.bottegantica.com
Nata a Bologna nel 1986 su iniziativa di Enzo Savoia, Bottegantica è una galleria specializzata nei dipinti italiani del XIX e XX secolo. Di recente si è aperta anche al settore dell’arte contemporanea, inaugurando una specifica sezione denominata “Lab/Contemporary”.
C+N Canepaneri
La galleria C+N Canepaneri è stata fondata nel 2015. Distribuita su due sedi, a Genova e Milano, l’attività della galleria affianca arte moderna e contemporanea. Promuove sia artisti italiani, sia artisti provenienti da altri paesi nel mondo.
Foro Buonaparte, 48 Milano 02 36768281 info@canepaneri.com www.canepaneri.com
Cortesi Gallery
Corso di Porta Nuova 46/B Milano 02 36756539 gala@cortesigallery.com www.cortesigallery.com
Le Gallerie Enrico sono state fondate ad Alassio (Savona) nel 1972 da Giliana e Franco Enrico e si occupano principalmente di Pittura Italiana dell’Ottocento. Oggi hanno sede a Milano e Genova.
Cortesi Gallery è stata fondata nel 2013 dalla famiglia Cortesi, Stefano con i due figli Andrea e Lorenzo, ed è specializzata in movimenti artistici europei dagli anni Sessanta fino ai giorni nostri.
Enrico Gallerie d’arte
Podbielski Contemporary
Via Senato, 45 Milano 02 87235752 enricogallerie@iol.it www.enricogallerie.com
Via Vincenzo Monti,12 Milano 338 2381720 info@podbielskicontemporary.com www.podbielskicontemporary.com
Situata nell’emergente quartiere di Lambrate, la galleria si impegna a promuovere attraverso mostre personali e collettive, il lavoro di artisti di rilievo internazionale, con un’attenzione particolare verso le nuove ricerche artistiche dell’est Europa (Russia, Romania, Bulgaria), Grecia e del Sudamerica.
Marchio milanese che promuove mostre e artisti contemporanei facendo anche ricerca e sperimentazione, con spazi per incontri, performance, convegni e altro.
Prometeo Gallery
Via Ventura, 6 Milano 02 83538236 info@prometeogallery.com www.prometeogallery.com
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Art Gallery.
Robilant + Voena
Via Fontana, 16 Milano 02 8056179 info@robilantvoena.com www.robilantvoena.com
Storica galleria che trae origine dalla Galleria Permanente d’Arte, fondata nel lontano 1926, poi diventata tra i maggiori punti di riferimento del mondo artistico bergamasco e lombardo del XX secolo.
Benappi Fine Art Via Andrea Doria, 10 Torino 011 8146176 info@benappi.com www.benappi.com
Galleria d’arte contemporanea nata nel 1998 a Torino ad opera di Guido Costa. Tutti gli artisti della galleria sono rappresentati in esclusiva per l’Italia.
Galleria Giamblanco
Via Giovanni Giolitti, 39 Torino 347 5642884 galleria@giamblanco.com www.giamblanco.com
Inaugurata nel marzo 1989, la Galleria del Ponte persegue da sempre l’obiettivo di documentare le vicende dell’arte moderna a Torino. La galleria ha ospitato mostre sull’arte torinese dagli anni Venti agli anni Novanta, passando in rassegna anche presenze e problematiche dimenticate.
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Galleria internazionale diretta da Enrico di Robilant e Marco Voena, focalizzata sull’arte antica e sull’arte del Novecento, con sedi a Milano, Londra e Sankt Moritz. Nei suoi spazî organizza anche mostre di livello.
Galleria Previtali
Via Tasso, 21 Bergamo 0352 48393 info@galleriaprevitali.com www.galleriaprevitali.com
Benappi è una storica galleria attiva da quattro generazioni e specializzata in arte (pittura e scultura) dal Medioevo all’Ottocento, ma con interessanti pezzi anche sul Novecento e sul contemporaneo.
Guido Costa Projects
Via Mazzini, 24 Torino 011 8154113 info@guidocostaprojects.com www.guidocostaprojects.com
Galleria Giamblanco è specializzata in dipinti dell’Ottocento, pittura neoclassica e scultura dell’Ottocento. È stata fondata nel 2002 da Salvatore Giamblanco e Deborah Lentini e ha sede nel centro di Torino.
Galleria Del Ponte
Corso Moncalieri, 3 Torino 011 8193233 info@galleriadelponte.it www.galleriadelponte.it
Galleria Luigi Caretto Via M. Vittoria, 10 Torino 011 537274 info@galleriacaretto.com www.galleriacaretto.com
Aperta nel 1989, la galleria promuove artisti italiani e stranieri contemporanei, sia emergenti che affermati. È particolarmente attenta alle nuove tendenze che trovano personali soluzioni narrative nell’impiego dei diversi mezzi espressivi, dalla fotografia alla pittura, dai video alle installazioni.
Alberto Peola
Via della Rocca, 29 Torino 011 8124460 info@albertopeola.com www.albertopeola.com
Caretto & Occhinegro
Via Andrea Massena, 87 Torino 338 8712326 info@carettoeocchinegro.com www.carettoeocchinegro.com
La Galleria d’arte Mazzoleni è stata fondata nel 1986 da Giovanni ed Anna Pia Mazzoleni, e nel 2014 ha inaugurato la sua seconda sede espositiva a Londra, nel distretto di Mayfair. Per oltre 30 anni Mazzoleni ha esposto oltre 150 artisti italiani ed internazionali del XX secolo.
Galleria dello Scudo
Via Scudo di Francia, 2 Verona 045 590144 info@galleriadelloscudo.com www.galleriadelloscudo.com
Galleria specializzata in arte antica con focus sulle opere d’arte applicata comprese tra il XIV ed il XVII secolo e sulla pittura fiamminga ad olio su rame e su tavola concepita tra il 1550 ed il 1650.
La Galleria Luigi Caretto è specializzata nella vendita di dipinti fiamminghi ed olandesi dei secoli XV, XVI e XVII. Leader del settore in Italia, occupa una posizione di primissimo piano anche a livello internazionale.
Caretto & Occhinegro dedica le sue attenzioni a tre settori: la pittura fiamminga, olandese e tedesca dal XV al XVII secolo, una stretta selezione di pittura figurativa contemporanea, e i cosiddetti Arcana Mundi.
Mazzoleni
Piazza Solferino, 2 Torino 011 534473 torino@mazzoleniart.com www.mazzoleniart.com
Dal 1968, anno della fondazione, la Galleria dello Scudo si occupa di arte moderna e contemporanea italiana. In collaborazione con enti pubblici ha organizzato importanti rassegne di carattere strettamente scientifico.
Il Mercante delle Venezie
Corso SS. Felice e Fortunato, 197 Vicenza 366 9916089 galleriabedin@gmail.com www.ilmercantedellevenezie.com
FINESTRE SULL’ARTE • 169
Art Gallery.
Torbandena
La galleria d’arte Torbandena di Trieste, fondata nel 1964, si occupa del Novecento Italiano e di arte contemporanea europea. La sezione delle avanguardie si concentra sul nuovo espressionismo. mitteleuropeo.
Via di Tor Bandena, 1 Trieste 040 630201 info@torbandena.com www.torbandena.com
Galleria d’Arte del Caminetto, fondata nel 1966 da Romana e Paolo Zauli, è da oltre cinquant’anni un punto di riferimento per l’arte in Italia. Ospita anche mostre ed eventi.
Galleria d’Arte del Caminetto
Galleria Falcone Borsellino, 4/D Bologna 333 3331910 giovannibanzi@gmail.com www.galleriadelcaminetto.it
De’ Foscherari
Via Castiglione, 2/B Bologna 051 221308 galleria@defoscherari.com www.defoscherari.com
Bonioni Arte a Reggio Emilia è uno spazio destinato a collezionisti e artisti che vogliono conoscere da vicino l’arte contemporanea: non solo galleria ma anche luogo d’incontro, di pensiero e di dialogo.
De’ Bonis
Viale dei Mille, 44/B Reggio Emilia 338 3731881 info@galleriadebonis.com www.galleriadebonis.com
Pinksummer Contemporary Art è una galleria situata all’interno di Palazzo Ducale, Cortile Maggiore, Genova. Attiva nel capoluogo ligure, la galleria propone anche importanti mostre di artisti contemporanei.
170 • FINESTRE SULL’ARTE
La Galleria de’ Foscherari nasce nei primi anni Sessanta, con un programma culturale al quale è rimasta fedele, svolto in due direzioni strettamente connesse: l’attenzione alla tradizione criticamente consolidata, e l’interesse per la ricerca e la sperimentazione.
Bonioni Arte
Corso Garibaldi, 43 Reggio Emilia 0522 435765 info@bonioniarte.it www.bonioniarte.it
Fondata da Stanislao de’ Bonis, la galleria di Reggio Emilia propone dipinti e grafiche dei più grandi artisti del Novecento: Guttuso, Carrà, De Pisis, Balla, Fontana, Maccari, De Chirico e altri importanti maestri. Proprio l’interesse per il Novecento costituisce il tratto distintivo della galleria.
Pinksummer
Piazza Matteotti, 28R Genova 010 2543762 info@pinksummer.com www.pinksummer.com
Guidi&Schoen
Galleria focalizzata sull’arte contemporanea, attiva a Genova da più di quindici anni. Fondata nel febbraio 2002, Guidi&Schoen punta soprattutto su pittura, fotografia, arte digitale e video. Organizza anche importanti mostre.
Piazza dei Garibaldi, 18R Genova 010 2530557 info@guidieschoen.com www.guidieschoen.com
La galleria Cardelli & Fontana, fondata nel 1980 a Sarzana da Cesare Cardelli e Francesca Fontana, si occupa di arte contemporanea e astrattismo geometrico storico.
Vôtre
Cardelli & Fontana
Via Torrione Stella Nord, 5 Sarzana (SP) 0187 626374 galleria@cardelliefontana.com www.cardelliefontana.com
Piazza Alberica,5-I°piano Carrara (Ms) 338 4417145 associazionevotre@gmail.com
La galleria ha debuttato nel 2000 con una mostra collettiva dedicata ai pittori livornesi, introducendo quello che poi è stato, ed è tutt’oggi, il tema costante della sua attività: l’attenzione per la scuola toscana, i macchiaioli, i postmacchiaioli.
Poleschi Arte
Via Idelfonso Nieri, 51 Lucca 0583 955707 info@poleschiarte.com www.poleschiarte.com
Storica galleria d’arte contemporanea con sedi a Firenze e a Pietrasanta e, da alcuni mesi, anche a Milano, nella nuova sede aperta nel 2018, per allargare la significativa offerta espositiva che punta soprattutto su artisti italiani.
Un nuovo spazio a Carrara, nelle storiche e raffinate sale settecentesche di Palazzo del Medico, nel cuore della città dei marmi, per mostre e attività culturali dedicate all’arte contemporanea, con nomi di spicco.
Galleria d’arte Goldoni
Via E. Mayer n.45 Livorno 339 7951064 info@galleriadartegoldoni.it www.galleriadartegoldoni.it
Attiva dal 1979, anno in cui fu fondata da Vittorio Poleschi, la galleria propone opere dei maestri del Novecento e dell’avanguardia internazionale. Con sedi a Lucca, Pietrasanta e Milano (quest’ultima aperta nel 2000).
Galleria Poggiali
Via Della Scala, 35/A Firenze 055 287748 info@galleriapoggiali.com www.galleriapoggiali.com
FINESTRE SULL’ARTE • 171
Art Gallery.
Frittelli arte contemporanea
Dopo l’esperienza del Centro d’arte Spaziotempo, sede di innumerevoli mostre nella centrale Piazza Peruzzi, Carlo e Simone Frittelli hanno voluto dare nell’aprile del 2006, con la nuova Galleria Frittelli, un segno di continuità e allo stesso tempo di rinnovamento, creando un nuovo spazio per l’arte contemporanea.
Via Val di Marina, 15 Firenze | 055 410153 info@frittelliarte.it www.frittelliarte.it
La galleria, attiva dal 1893, è specializzata in dipinti italiani dal XIV al XVII secolo con una particolare predilezione per le opere della scuola toscana. Un lavoro portato avanti da quattro generazioni di antiquari che l’hanno resa una delle gallerie più importanti d’Italia.
Bacarelli Antichità
Via dei Fossi, 45r Firenze 055 215 457 bacarelli@bacarelli.com www.bacarelli.com
Storica galleria aperta nel 1990 a San Gimignano da Mario Cristiani, Lorenzo Fiaschi e Maurizio Rigillo: oltre alla sede toscana oggi è presente in tutto il mondo, a Pechino, Les Moulins e L’Avana.
Via Maggio, 5 Firenze 055 294087 info@frascionearte.com www.frascionearte.com
Bacarelli si occupa di arte antica principalmente italiana dal Rinascimento al Neoclassicismo, con una particolare attenzione per la scultura e la pittura.
Galleria Continua
Via del Castello, 11 San Gimignano (SI) 0577 943134 sangimignano@galleriacontinua.com www.galleriacontinua.com
Francesca Antonacci Via Margutta, 54 Roma 06 45433036 info@al-fineart.com www.al-fineart.com
La Galleria del Cembalo, aperta per iniziativa di Paola Stacchini Cavazza e Mario Peliti, nasce dal desiderio di restituire al mondo dell’arte alcune delle splendide sale al pianterreno di Palazzo Borghese destinate a ospitare la prestigiosa collezione del Cardinale Scipione, poi trasferita a Villa Borghese.
172 • FINESTRE SULL’ARTE
Frascione Arte
La galleria fondata da Francesca Antonacci, discendente di una famiglia di antiquarî attivi a Roma dagli inizi del Novecento, è un punto di riferimento soprattutto per quanto riguarda dipinti, disegni e sculture.
Galleria del Cembalo
Largo della Fontanella di Borghese, 19 | Roma 06 83796619 info@galleriadelcembalo.it www.galleriadelcembalo.it
Studio d’Arte Campaiola Via Margutta, 96 Roma 06 85304622 info@campaiola.it www.campaiola.it
Gagosian è una storica galleria d’arte americana con sedi a New York, Los Angeles, Londra, Parigi, Roma, Atene, Ginevra e Hong Kong. Nella sua sede romana, Gagosian ospita importanti mostre di grandi artisti internazionali.
Alessandra Di Castro
Piazza di Spagna 3-4 Roma 06 69923127 info@alessandradicastro.com www.alessandradicastro.com
Marchio che opera sul mercato antiquario italiano e internazionale dal 1988, specializzato in arte italiana e straniera dal Rinascimento all’Ottocento. Propone dipinti, disegni, sculture, arredi, oggetti preziosi.
Bertolami Fine Art
Piazza Lovatelli, 1 Roma 06 32609795 info@bertolamifineart.com www.bertolamifineart.com
Fondata nel 1964 con il nome de Il Segno, la galleria ha avviato un importante percorso di collaborazione con alcuni dei maggiori artisti internazionali (tra cui Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Alberto Burri, Lucio Fontana, Alberto Giacometti e Fausto Melotti) che l’ha portata a essere protagonista del panorama italiano dei decenni successivi.
Galleria romana che dal 1964 promuove l’arte contemporanea e non solo: nella sua offerta figurano anche alcuni tra i più grandi nomi dell’arte internazionale del Novecento.
Gagosian
Via Francesco Crispi, 16 Roma 06 42086498 rome@gagosian.com www.gagosian.com
Esponente di una famiglia di antiquari romani dal 1878, Alessandra Di Castro è specializzata in arte antica, pittura e scultura. Ha sede raccolti di uno storico palazzo secentesco dove sono esposti dipinti antichi, sculture, marmi, pietre dure.
Arcuti Fine Art
Via Sant’Eligio, 3/A Roma 335 8119010 info@arcutifineart.com www.arcutifineart.com
Bertolami Fine Arts è una struttura complessa: casa d’aste, galleria d’arte, studio di progettazione di mostre e eventi culturali, con specializzazione nel settore degli old masters.
Francesca Antonini Arte Contemporanea
Via di Capo Le Case, 4 Roma 06 6791387 info@francescaantonini.it www.francescaantonini.it
FINESTRE 173 • FINESTRE SULL’ARTE SULL’ARTE • 173
Art Gallery.
Galleria Carlo Virgilio & C. Via della Lupa, 10 Roma 06 6871093 info@carlovirgilio.it www.carlovirgilio.it
Lampronti è una galleria che vanta l’esperienza di tre generazioni di mercanti d’arte. Fondata nel 1914, è specializzata nell’arte antica italiana, soprattutto del Sei e del Settecento, con particolare focus sui paesaggi e sulle nature morte.
Paolo Antonacci
Via Alibert, 16/A Roma 335 5631401 info@paoloantonacci.com www.paoloantonacci.com
Galleria Berardi è una galleria d’arte antica specializzata in pittura e scultura soprattutto dell’Ottocento e del primo Novecento. Nel suo lavoro, la galleria segue una rigorosa prassi della connoisseurship, ovvero la pratica di riconoscere la qualità, l’epoca e dunque l’autore di una determinata opera.
F&F Antichità
Corso Vannucci, 107 Perugia 0755 722893 fefantichita@gmail.com www.fefantichita.com
Lia Rumma da anni tratta i grandi nomi dell’arte contemporanea internazionale. Fondata a Napoli nel 1971, da allora, nelle sue sedi, ha ospitato e promosso grandi nomi del panorama internazionale dell’arte.
174 • FINESTRE SULL’ARTE
Galleria romana attiva nell’antico, nel moderno e nel contemporaneo. È stata fondata nel 1979 e il suo focus principale sono i disegni dal XVII al XX secolo.
Galleria Lampronti
Via di San Giacomo, 22 Roma 335 333325 info@cesarelampronti.com www.cesarelampronti.com
Gli interessi della galleria sono stati da sempre la ricerca, la valorizzazione e lo studio degli artisti e dei dipinti che ritraggono, dalla seconda metà del XVIII secolo fino agli inizi del XX secolo, Roma, la sua Campagna, il Vedutismo italiano in genere e i vari aspetti del cosiddetto “Grand Tour”.
Galleria Berardi
Corso del Rinascimento, 9 Roma 328 3151953 galleria.berardi@gamil.com www.maestrionline.it
La Galleria Antiquaria F & F Antichità é presente nel mercato dell’Antiquariato da oltre 30 anni, interessandosi agli arredi e alle sculture antichi, con particolare predilezione alle provenienze umbro-toscane.
Lia Rumma
Via Vannella Gaetani, 12 Napoli 02 29000101 info@liarumma.it www.liarumma.it
Alfonso Artiaco
Fondata a Pozzuoli nel 1986, la galleria si è poi spostata nel 2003 a Napoli e lavora con grandi artisti contemporanei. Dal 2012 ha sede in piazzetta Nilo, nel centro storico del capoluogo campano, dove prosegue la propria attività organizzando anche importanti mostre.
Piazzetta Nilo, 7 Napoli 081 4976072 info@alfonsoartiaco.com www.alfonsoartiaco.com
Studio Trisorio
Inaugurato nel 1974 con una mostra di Dan Flavin, il programma espositivo della galleria intreccia fin da subito pittura e scultura con i nuovi linguaggi dell’arte: la fotografia, il video e l’installazione. Con la galleria hanno lavorato nomi importanti dell’arte mondiale.
Riviera di Chiaia, 215 Napoli 081 414306 info@studiotrisorio.com www.studiotrisorio.com
Umberto Di Marino
Via Alabardieri, 1 Napoli 081 0609318 info@galleriaumbertodimarino.com www.galleriaumbertodimarino.com
La Galleria Paola Verrengia dal 1990 indaga le varie tendenze dell’Arte Contemporanea dei grandi maestri del dopoguerra e di artisti emergenti nel campo dell’Arte Astratta ed Informale, dell’ Arte Concettuale e della Fotografia.
Galleria Paola Verrengia Via Fiera Vecchia, 34 Salerno 089 241925 info@galleriaverrengia.it www.galleriaverrengia.it
Francesco Pantaleone arte contemporanea Via Vittorio Emanuele, 303 Palermo 091 332482 info@fpac.it www.fpac.it
La Galleria Beatrice tratta opere significative dei più importanti artisti del XIX e del XX secolo. Ha sede a Palazzo Sambuca, dimora nel cuore del centro storico di Palermo.
Galleria napoletana, fondata a Giugliano in Campania e poi spostatasi nel 2005 nel capoluogo, attiva da oltre vent’anni e specializzata nell’arte contemporanea.
FPAC - Francesco Pantaleone Arte Contemporanea è stata fondata a Palermo nel 2003 con lo scopo di valorizzare artisti siciliani e fornire una piattaforma a Palermo per artisti già radicati al livello internazionale. Con sede anche a Milano.
Galleria Beatrice
Via Alloro, 36 Palermo 347 6686388 info@galleriabeatrice.it www.galleriabeatrice.it
FINESTRE SULL’ARTE • 175
FONDERIA D’ARTE BY DANAE PROJECT.COM
MASSIMO
DEL
CHIARO
“DAVID DI MICHELANGELO (particolare della testa)” in mostra a Le Sette Meraviglie della Toscana, Firenze 2019,cm. 110Hx76x63, fusione in bronzo eseguita a cera persa. Foto di Alessandro Moggi
Via delle iare 26B 55045 Pietrasanta (Lu) Tel: +39 0584 792955 Fax: +39 0584 792940 fonderia@delchiaro.com www.delchiaro.com
REMBRANDT
e il Secolo d’oro
MILANO PALAZZO REALE 19 GIUGNO 6 OTTOBRE 2019
Una mostra di
INFO E PRENOTAZIONI 02.54914 / ticket24ore.it
Dante Gabriel Rossetti, Monna Vanna (dettaglio), 1866. Tate. Acquistato nel 1916 attraverso l’Art Fund con il sostegno di Sir Arthur Du Cross e di Sir Otto Beit © Tate, London 2019
palazzorealemilano.it mostrapreraffaelliti.it
Nel 2019 i musei olandesi celebrano Rembrandt a 350 anni dalla sua morte
per maggiori informazioni visita www.holland.com
N.3
ISSN 2612-6931
ANNO I
SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE 2 0 1 9
anno I N.3 | settembre ottobre novembre 2019
15 OTTOBRE 2019 – 19 GENNAIO 2020 // APERTO TUTTI GIORNI ASSICURATEVI IL VOSTRO BIGLIETTO A FASCIA ORARIA SU CARAVAGGIO-BERNINI.KHM.AT
Miquel Barceló | Gonçalo Mabunda | Caroline Achaintre | Canaletto e Francesco Guardi | Andrea Doria Pietro da Cortona a Palazzo Barberini | La Cappella del Doge di Genova | L’immagine del mare tra Otto e Novecento
Caravaggio & Bernini
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GRAND TOUR
LA CRITICA
OPERE E ARTISTI
Pietro da Cortona a Palazzo Barberini
Documentari d’arte
La Cappella del Doge di Genova
CONTEMPORARY LOUNGE
L’immagine del mare tra Otto e Novecento Canaletto e Francesco Guardi
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ATTUALITÀ
Il trittico Ringli
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Miquel Barceló Gonçalo Mabunda Caroline Achaintre
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RENDEZ-VOUS
Andrea Doria