Dante Alighieri - La Divina Commedia

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CANTO XVII [Canto XVII, nel quale il predetto messer Cacciaguida solve l'animo de l'auttore da una paura e confortalo a fare questa opera.]

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Qual venne a Climenè, per accertarsi di ciò ch'avëa incontro a sé udito, quei ch'ancor fa li padri ai figli scarsi;

6

tal era io, e tal era sentito e da Beatrice e da la santa lampa che pria per me avea mutato sito.

9

Per che mia donna «Manda fuor la vampa del tuo disio», mi disse, «sì ch'ella esca segnata bene de la interna stampa:

12

non perché nostra conoscenza cresca per tuo parlare, ma perché t'ausi a dir la sete, sì che l'uom ti mesca».

15

«O cara piota mia che sì t'insusi, che, come veggion le terrene menti non capere in trïangol due ottusi,

18

così vedi le cose contingenti anzi che sieno in sé, mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti;

21

mentre ch'io era a Virgilio congiunto su per lo monte che l'anime cura e discendendo nel mondo defunto,

24

dette mi fuor di mia vita futura parole gravi, avvegna ch'io mi senta ben tetragono ai colpi di ventura;

27

per che la voglia mia saria contenta d'intender qual fortuna mi s'appressa: ché saetta previsa vien più lenta».

30

Così diss' io a quella luce stessa che pria m'avea parlato; e come volle Beatrice, fu la mia voglia confessa.

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Né per ambage, in che la gente folle già s'inviscava pria che fosse anciso l'Agnel di Dio che le peccata tolle, 351


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