D.V.°° mag SPECIALE ESTATE

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La Mal’Ombra è la mitica osteria vicino al cinema Roma a Trento, ben conosciuta tra coloro che studiano a Lettere e fanno chiusura in biblioteca (quasi mezzanotte), per poi andare a bere qualcosa in questo piccolo e intimo locale. È così che anch’io ho conosciuto Andrea Massarelli, l’oste.

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’interno dell’osteria è completamente tappezzato di foto, di scritte, di opere, di articoli ritagliati, di libri. Se non hai niente da fare puoi andare lì anche da solo, senza annoiarti mai e il vino è super. Andrea sembra un po’ schivo, ma una volta gli ho chiesto di sono le fotografie alle pareti e da allora ho preso l’abitudine di andare lì da sola e fare due chiacchiere con lui. E ho scoperto che le foto sono sue. «Quando è iniziata la tua passione per la fotografia e per l’arte in generale? Tu non hai una formazione accademica, giusto?» «No assolutamente, la mia formazione è totalmente da autodidatta, da semplice curioso di quella che è l’immagine fotografica o artistica in generale: sta nel fare molta esperienza, leggere molti libri, fare molte fotografie e imparare molto dagli errori. La fotografia mi ha sempre affascinato: da ragazzino, avevo otto dieci anni, usavo le compatte e fotografavo a manetta. Ho sempre avuto il pallino della memoria e la memoria la fai soprattutto attraverso l’immagine. Via via ho iniziato a farle io le immagini, le foto, fino ad usare degli apparecchi più seri.» Andrea mi rabbocca il bicchiere con il fresco vino che stavamo bevendo, un misto di Chardonnay e Pinot Bianco. «Parlando dei grandi del passato, verso chi ti senti più debitore?» «Oh Madonna, ce ne sono tanti …» mentre parla si alza, prende i nostri bicchieri e ne svuota il contenuto nel lavandino, apre un’altra bottiglia (questa volta di un francese, La Rousse) e ritorna a sedersi vicino a me. «Sapeva di tappo» mi spiega, vedendo il mio sguardo interrogativo «per tornare alla tua domanda devo dire che sono sempre stato un animale molto curioso, famelico e verticalmente onnivoro e quindi ho cercato di vedere, capire, comprendere, imparare e studiare da quello che può essere un autore classico, come Michelangelo, a Lucio Fontana per carpire cosa la passione, l’energia possa far nascere. Da que-

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sti a Gardin, a Pistoletto, al trash … ecco il trash è una cosa che mi affascina, questa capacità di poter creare opere da un niente. Al colore ci sono arrivato molto tardi comunque: il mio primo quadro l’ho dipinto a trent’anni ed è stata una cosa magnifica perché non pensavo di poter dominare il colore. Da lì poi ho sviluppato una visione più astratta, più concettuale dell’arte e ho sempre continuato a fare foto.» «Ma quindi ti senti più pittore o più fotografo?» «Sono una persona che si esprime con diversi linguaggi. È un po’ come con la birra e il vino: c’è un momento in cui senti la voglia di emozionarti con un bel bicchiere di vino e altre volte invece che hai voglia di una buona birra, non sono due mondi così distanti.» «Cosa ti ispira, quali sono i tuoi soggetti preferiti?» «Dunque in fotografia lavoro prettamente con il teleobiettivo, quindi andando a catturare quello che solitamente l’occhio non vede. Soprattutto nel contesto urbano, perché parla dell’uomo nella maniera peggiore, o comunque in un modo che a volte sfugge, perché spesso ci guardiamo attorno senza guardare in alto e in basso. Possono essere delle grondaie, dei tombini, degli edifici in degrado, può anche non esserci la presenza umana ma in qualche modo parlano dell’uomo. Mi piace girare per le città e andare a fotografare angoli dimenticati. E tutto questo ritorna al discorso della memoria, di parlare del mio tempo e raccontare un qualcosa affinché non venga dimenticato. E soffermarmi su luoghi dimenticati è un ritornare alla memoria, che è importante per noi, è importante come testimonianza del lasciare, che può essere più o meno brutta, non sta a me giudicare cosa lascio però lascio un qualcosa del mio tempo e a volte può essere anche scomodo. Mi viene in mente la mia compagna che mi dice che sono l’unico fotografo che vede a Londra fotografare tombini invece che monumenti. Ma i tombini sono bellissimi, parlano della città in cui stai, è realtà, è un sociale anche quello. È un modo di guardare alla realtà in maniera differente per portare alla luce qualcosa che altrimenti si può dimenticare.»

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«La tua attrezzatura cosa prevede? Lavori a pellicola?» «Io lavoro a pellicola perché sono un nostalgico tradizionalista …» «Solo bianco e nero?» «Solo bianco e nero» «La città per eccellenza?» «Londra. Perché è una nobile decaduta» «Se chiudi gli occhi e pensi ad una delle tue immagini preferite, che sia un dipinto o una fotografia, cosa vedi?» «Il Cristo morto del Mantegna. È grandioso, è stupefacente, è puro genio pensando all’epoca in cui l’ha fatto, è come se fosse stato un extraterrestre sceso tra i Maya … Potrebbe benissimo essere un contemporaneo. Per la fotografia: Daido Moriyama: un macigno in bianco e nero che ti entra dentro. Quando l’ho visto ho pensato: è qui che devo arrivare, a questo. Questo è quello che voglio trasmettere.» «Credi che la tua origine umbra abbia inciso sul tuo modo di sentire?» «Appena posso torno in Umbria e cerco di ripartire verso le cinque e mezza sei, con grande rabbia di mia madre che vorrebbe che mi fermassi a cena, ma mi perderei lo spettacolo incredibile del cielo che cambia colore e delle luci che si accendono.» «Tu sei anche un maratoneta. C’è qualcosa che accomuna l’arte e la corsa?» «Certo che c’è, assolutamente: innanzitutto la disciplina, perché anche l’artista più degenerato ha una disciplina, che è il suo stile. È l’arte di concludere un lavoro, di concludere una gara, è un confronto con se stessi, un mettersi alla prova, un non lasciarsi andare per arrivare alla fine, al traguardo. È adrenalina, energia che prende, è passione: è un vivere tutto, anche le cose brutte, mai mollare. E la stessa cosa succede in gara: mai fermarsi, arrivi morto ma arrivi.» «Il tuo piatto preferito?» «Tagliatelle al ragù, con molto ragù e molto parmigiano. E naturalmente vino rosso.»


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