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salvatores formato

pagina 10 • 27 marzo 2010

tivi. Lei fa la traduttrice di guide turistiche e lui prepara costose barche da diporto e poi consegna le medesime ai proprietari in giro per il mondo. Perennemente abbrustolito («abbronzato» non rende l’idea), è un fricchettone attempato che fuma spinelli e veste camice hawaiiane e pantaloni da spiaggia in ogni occasione. Marta (una punk musona) odia la madre come tutte le teenager; il progetto matrimoniale di Filippo è una ciambella di salvataggio per lo smarrimento adolescenziale in cui si sente annegare. Non sono né ricchi né poveri. Nella calura estiva, Ezio il narratore-in-cerca-di-una-storia (o di un ubi consistam) girando in bicicletta investe Anna: lui finisce in ospedale con ferite lievi. Lei si sente in colpa perché stava attraversando col rosso, e per riparare lo invita alla cena organizzata per conoscere i futuri suoceri del figlio. Non succedono cose sconvolgenti e indelebili nel film; si sente molto l’ammirazione di Salvatores per il cinema di Wes Anderson (I Tenenbaum, The Fantastic Mr. Fox) in particolare Darjeeling Express del 2007, un on-the-road di tre fratelli americani, depressi, drogati e litigiosi, durante un viaggio in India dopo la morte improvvisa del padre, intrapreso per ritrovare la madre, diventata suora alternativa in un ashram, e l’unità perduta. Di quel film, Happy Family convoglia, a modo suo, il tocco leggero, onirico e grazioso, l’attenzione per bizzarrie e difetti dei personaggi, l’amore per la famiglia, e la difficoltà e di sopportarla e di farne a meno. È molto vicino allo spirito di Anderson la leggiadria generale e delle battute, spesso buttate via, raramente enfatizzate. Vincenzo corregge la madre svampita quando cerca di servire per la terza volta il primo: «Mamma, l’abbiamo già mangiato e pure il secondo, ora porta il dolce». E lei mormora, portando via il carrello: «Va bene, ma così la pasta si fredda».

Genovesi e Salvatores sembrano interessati sopratutto a gettare la maschera d’autore. Il protagonista del film è Ezio (il comico Fabio De Luigi), un ragazzone di trentotto anni che anche in giacca e cravatta sembra un letto disfatto; vive di rendita (il padre ha inventato quella pallina per il detersivo della lavatrice. Ogni volta che fate il bucato, lui incassa). La famiglia non c’è più, ed Ezio è solo, scaricato dalla fidanzata che lo accusa di essere un inetto, uno sfaticato che non ha mai lavorato un solo giorno, né ha combinato qualcosa in vita sua, un perdigiorno buono solo a consumare la tappezzeria e che lei si augura di non incontrare mai più. Ezio è desolato e si mette davanti all’unico strumento di lavoro che possiede - un computer - deciso a diventare uno scrittore. Prende una piega divertente quando, guardando in macchina, dunque rivolgendosi a «noi», butta lì «sarei anche a corto d’idee, ma non fa niente». Il pressbook spende molte parole per descrivere il film: «… confessione camuffata, diario smascherato, una commedia che parla della paura di essere felici, di cambiare la nostra vita per qualcosa che non conosciamo. Un esorcismo della noia di una lunga estate silenziosa in città, di desideri e paure, di essere troppo, di non essere nessuno». L’ultima è la frase che conta. Rende meglio la locuzione anglosassone to be at loose ends: essere sfilacciati, come stringhe di scarpe non annodate, o con espressione più cruda «un cane senza collare». Succede quando ci troviamo improvvisamente senza impegni, senza qualcuno che ci aspetta o che attende qualcosa da noi. Si apre un vuoto esistenziale che può mandare in crisi per la sparizione di ogni cosa che contribuisce a definire chi siamo e cosa campiamo a fare. E a mandarci in crisi, sempre ci riesce. Come dice Ezio nella sua narrazione, che non è fastidiosa né serve a nascondere lacune di sceneggiatura, ma n’è parte integrante: «Non avere niente da fare è la cosa più brutta che ci sia. L’altra è morire, ma non divaghiamo».

Forse perché Ezio non ha più ragazza né famiglia, ne inventa un paio, raccontando la storia di due famiglie, costrette a incontrarsi perché i rispettivi figli di sedici anni, Marta e Filippo (Alice Croci e Gianmaria Biancuzzi, esordienti) hanno deciso di sposarsi. È una bella trovata, insolita, che serve come gancio per entrare nel racconto e metterlo in moto. Ma come con il MacGuffin di Hitchcock, è un espediente che non ha molta importanza. Vincenzo e Anna Agosti sono i genitori di Filippo (il padre vero è un altro, ma dal giorno che se n’è andato il ragazzo non ne vuole sapere), un adolescente nato vecchio che detesta i compagni di scuola brufolosi e cialtroni, e vuole sposarsi non solo perché «ho trovato la donna della mia vita e non ha senso aspettare oltre», ma anche per differenziarsi dalla marmaglia d’impresentabili coetanei da cui si sente circondato.Vincenzo (un morbido Fabrizio Bentivoglio) ha una figlia di ventisette anni da un precedente matrimonio, Caterina (Valeria Bilello), una pianista classica di talento. È rientrata da poco in Italia da Londra, sola e depressa per la fine di un lungo rapporto; è convinta di puzzare «come tutti quelli di pelo rosso». Anna (Margherita Buy) è preoccupata perché da tre mesi non fa l’amore con Vincenzo: teme di non piacergli più. Il marito ha appena saputo di avere un tumore ma per ora tiene per sé la notizia. La mamma di Vincenzo (Corinna Augustoni) ha l’Alzheimer e ama cucinare. La famiglia Agosti è molto agiata. Marta ha Papà e Mamma (Diego Abbatantuono e Carla Signoris) senza altri appellaanno III - numero 12 - pagina II

famiglia

HAPPY FAMILY GENERE COMMEDIA DURATA 90 MINUTI PRODUZIONE ITALIA 2010 DISTRIBUZIONE 01 DISTRIBUTION

REGIA GABRIELE SALVATORES INTERPRETI FABIO DE LUIGI, DIEGO ABATANTUONO, FABRIZIO BENTIVOGLIO, MARGHERITA BUY, CARLA SIGNORIS

Durante la cena per le due famiglie ed Ezio, la nonna dimentichina è assistita da una coppia indiana in costume nazionale. Sono lì solo come omaggio al cineasta texano. In molti film del regista di I Tennenbaum è presente un personaggio indiano, spesso servitore e confidente dei protagonisti. (Darjeeling Express, poi, è girato interamente in India). Ancora più evidente è l’estrema cura del production design, merito di Rita Rabassini, bravissima; nei titoli è definita con semplicità «scenografa», con un’eleganza e un’abnegazione quasi sconosciuta nel cinema. Salvatores padroneggia bene i lati tecnico-artistici del suo mestiere. Gira con maestria; ogni inquadratura è composta come un quadro e mai in maniera leccata o leziosa.Tutto è al servizio della storia e degli attori. I colori sono quelli pastello dell’estate: Milano non è mai stata cantata in maniera tanto solare, soave, sognante. Piazze, palazzi, monumenti, impianti industriali, sono ripresi con infinito trasporto per la città e i suoi luoghi topici. In quasi tutte le scene è presente una piccola esplosione di rosso: negli abiti degli studenti a scuola, di Caterina e di altri personaggi, nei palloncini, nei semafori, nell’arredamento: il colore dell’energia vitale. Ricorda i quadri di Paul Klee, con quelle punte di rosso acceso che attirano l’occhio e mettono tutta la composizione a fuoco. La scenografia ha un ruolo decisivo nel racconto (come in Anderson); resta nella memoria più di tanti altri aspetti. Non è una debolezza ma la forza di un film delicato che sfiora l’evanescenza. Tempi e ritmi sono perfetti, si ride, e perfino la morte è trattata con garbo da questi personaggi in cerca d’armonia ed equilibrio. Finalmente si può dire «è bello», senza sentire la necessità di aggiungere «per un film italiano».


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