L’ICEBERG IDEE, DIBATTITI, APPROFONDIMENTI
Per un’economia sociale partecipata
Augusto Battaglia
uando la Fiat, Fabbrica italiana automobili Torino, trasloca la sua storica sede dalle rive del Po fino alla lontana Olanda. Quando un magnate indonesiano fino ad allora sconosciuto, tale Erick Thohir, acquista l’Inter dalla ricca famiglia Moratti. Quando la pizza al negozio sotto casa te la cuoce un nordafricano, mentre l’ennesimo barcone carico di migranti naufraga a Lampedusa, è forse giunto il momento di prendere coscienza fino in fondo dei grandi cambiamenti determinati nell’economia e nella vita quotidiana da quel fenomeno epocale che passa sotto il nome di globalizzazione. E, soprattutto, di quali ulteriori e straordinarie trasformazioni ed innovazioni sarà foriero, quali effetti sull’intera comunità potrà determinare un sistema economico e finanziario che si muove liberamente a tutto campo, non più ingessato in confini nazionali, che mal sopporta le regole di stati ed istituzioni sovranazionali, che sempre più prende le distanze dai territori, dalle forze sociali e dai governi. Mentre ristretti nuclei di potere della finanza e delle multinazionali possono condizionare pesantemente con le loro decisioni i destini di interi popoli. Riflessione più che urgente in un paese come l’Italia che, al di là di qualche timido segnale di risveglio, vede la sua economia trascinarsi in una crisi ormai giunta al sesto anno con conseguenze negative che investono pesantemente le comunità, le famiglie e, so-
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La crisi economica ha prodotto effetti drammatici sulla nostra società, ormai globalizzata a tutti i livelli, ed in particolare sulla vita quotidiana dei cittadini. Il nostro paese non cresce e la perdita del lavoro traccia un futuro pieno di incertezze. L’aumento delle situazioni di povertà e di emarginazione minano la tenuta, sempre più fragile, della coesione sociale. L’economia quindi e, in particolare, il
prattutto, le giovani generazioni. Molte nostre aziende perdono terreno e competitività sui mercati internazionali. In tante trasferiscono le produzioni all’estero. E la disoccupazione tocca a gennaio un nuovo record balzando al 12,9 per cento, in rialzo di 0,2 su dicembre e di 1,1 su base annua. E se si guarda ai giovani, nella fascia di età tra 15 e 24 anni la disoccupazione è al 42,4% ed in 690mila cercano un lavoro. Una dimensione del problema drammaticamente confermata dai dati sugli occupati che nel 2013 diminuiscono di 478mila unità, 2,1 punti in meno rispetto al 2012. Si tratta della maggiore emorragia di posti di lavoro dall’inizio della crisi, con i senza lavoro che superano quota 3 milioni, quasi la metà nel Mezzogiorno. E non siamo i soli in difficoltà in Europa, c’è la Grecia e la Spagna, soprattutto, a soffrire più di tutti con la disoccupazione al 25,8 per cento. Come reagire, da dove ripartire per la ripresa? Certo, occorre andare oltre le politiche di austerity rilanciando investimenti e consumi. Ma è anche il momento di promuovere un’economia nuova, un’economia sociale di mercato, partecipata, che nasca dai territori, ne valorizzi le risorse umane, naturali, culturali ed ambientali, gestisca i beni comuni. Che affronti con concretezza i problemi delle famiglie e delle comunità e promuova coesione sociale. Che sappia offrire nuove opportunità ai giovani ed a quelle che si definiscono fasce deboli del mercato del lavoro, persone con disa-
ruolo che potrebbe giocare l’economia sociale per il raggiungimento degli obiettivi di crescita sostenibile e di piena occupazione fissati dalla Strategia di Lisbona, è il tema su cui intendiamo soffermare la nostra attenzione. In particolare vorremmo riflettere su quanto l’idea di società basata su un tipo di economia sociale sostenibile possa aiutare il paese a crescere, associando allo sviluppo diritti sociali e
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una nuova etica della convivenza, che a partire dall’attivazione delle risorse del territorio, dall’individuazione dei bisogni sociali e dalla promozione delle fasce deboli nel mercato del lavoro rimetta al centro la produzione di valore sociale come Bene comune. L’inserto è stato curato da Rocco Luigi Mangiavillano
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bilità o disagio, in particolare, destinate altrimenti all’esclusione sociale ed a gravare inevitabilmente sul welfare e sulla spesa pubblica. Un’economia che crei innovazione e che contribuisca per le sue peculiari caratteristiche a condizionare ed a riequilibrare in qualche modo il sistema economico e finanziario globalizzato, riavvicinandolo ai territori ed alla gente, riconciliandolo con le regole e gli strumenti della democrazia. È una questione che si pone soprattutto l’Europa, che vede ormai a rischio quel modello di lavoro e di welfare che dal dopoguerra ad oggi ha saputo garantire sviluppo, civiltà, diritti e benessere all’intero vecchio continente, e non solo. «L’Europa di domani si fonda sulla crescita economica sostenibile, solidale ed inclusiva», si leggeva nella Comunicazione della Commissione Ue dell’ottobre 2011, che raccoglieva l’appello «Dalle parole ai fatti» per il sostegno all’impresa sociale, sottoscritto da 240 accademici ed economisti di ben 29 paesi. Principi, enunciati con chiarezza già nel Trattato dell’Unione, che vanno ormai prendendo corpo in concreti atti politici ed amministrativi che mettono in campo risorse e sollecitano, soprattutto, gli stati membri ad adottare misure concrete. Ultime le Direttive appalti e concessioni approvate lo scorso 15 gennaio dal Parlamento europeo, indirizzi che dovranno essere recepiti dalla legislazione nazionale, ma che già oggi sollecitano misure ed azioni concrete. L’adozione di clausole sociali negli affidamenti, nelle gare e nelle concessioni pubbliche per premiare e selezionare le offerte che meglio sappiano integrare qualità di prodotto e sensibilità sociale ed ambientale. La sussidiarietà ed il riconoscimento della specificità del non profit e dei benefici che possono derivare per la collettività dal privilegiare questo tipo di imprese, solidali e partecipate, nell’erogazione di servizi e prestazioni sociali. Più spazio agli appalti riservati con affidamenti anche oltre soglia per quelle imprese, come le cooperative sociali di tipo B, che danno lavoro a soggetti svantaggiati, disabili, ex detenuti, giovani rom ed altre categorie già indicate dal Regolamento CE 800/2008. I segnali dall’Europa sono chiari e sembra che finalmente comincino ad essere raccolti con convinzione anche dal governo italiano. Nell’ambito del cosiddetto Jobs Act, infatti, le tanto annunciate misure per il rilancio dell’occupazione, sarà messa in bilancio dal
Nell’ambito del cosiddetto Jobs Act, sarà messa in bilancio dal prossimo giugno la bella somma di 500 milioni di euro per lo sviluppo di imprese sociali. Un indubbio segnale di apprezzamento per quella rete di quasi 400mila imprese ed organizzazioni, per quei tanti cooperatori ed imprenditori sociali che in questi anni hanno saputo reggere alla crisi, mantenere i livelli occupazionali ed in molti casi creare nuovi posti di lavoro.
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prossimo giugno la bella somma di 500 milioni di euro per lo sviluppo di imprese sociali. Un indubbio segnale di apprezzamento per quella rete di quasi 400mila imprese ed organizzazioni, per quei tanti cooperatori ed imprenditori sociali che in questi anni hanno saputo reggere alla crisi, mantenere i livelli occupazionali ed in molti casi creare nuovi posti di lavoro. Un’opportunità da non sprecare per il variegato e dinamico mondo dell’economia sociale, che ha l’occasione di dimostrare di essere una grande ed indispensabile risorsa per l’intera economia e per il Paese. Che può finalmente porsi l’obiettivo di puntare ai vertici del settore in Europa, al livello di paesi come Francia, Olanda e Germania, soprattutto, dove l’economia sociale rappresenta un pezzo importante del sistema economico, conta oltre il 10 per cento del totale delle imprese e può vantare marchi del calibro di Bosch. Un’occasione da non perdere nemmeno per governo e Parlamento, dove non mancano interessanti proposte di legge. Proposte che spaziano dall’ampliamento dei settori in cui opera l’impresa sociale, a partire da commercio equo e solidale, alloggio sociale e microcredito, alle agevolazioni contributive e fiscali per i nuovi assunti, in particolare per i giovani. Agevolazioni e sostegno nei processi di riconversione parziale o totale in impresa sociale di aziende in crisi e destinazione di immobili pubblici a progetti per lo sviluppo di nuove imprese sociali. Programmi di sviluppo territoriale e, perché no, un accordo quadro Stato-Regioni che detti, in particolare agli enti locali, linee di indirizzo in materia di clausole sociali, dando seguito e sviluppo alle Linee guida già emanate dall’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici. È il momento di promuovere un concreto pacchetto di misure che dia corpo ad un Piano nazionale. Un Piano che potrebbe prendere le mosse da una Conferenza promossa dal governo, che ponga tutto il mondo dell’economia sociale nelle condizioni di mettere in campo idee, proposte, progetti che la rendano protagonista di una nuova fase di sviluppo e di crescita economica sempre più solidale, sostenibile ed inclusiva. Uno sviluppo che rilanci il nostro Paese, che offra nuove opportunità ai giovani, ma che sappia anche guardare al destino di popoli lontani che attendono benessere e diritti da un’economia sociale globalizzata.
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Rimettere il sociale al centro economia del nostro Paese, ad oggi, preL’ senta gli stessi nodi problematici già evidenziati nei recenti rapporti del Cnel relativi a sviluppo e mercato del lavoro in Italia, e i dati Istat danno conferma della drammaticità dei numeri sulla disoccupazione. Il governo sostiene che la maggiore flessibilità, l’abbassamento del cuneo fiscale, soprattutto per l’Irpef dei lavoratori dipendenti, la restituzione del debito della Pubblica amministrazione alle imprese, il Jobs Act, daranno maggiore equilibrio all’attuale «ferita» tra domanda e offerta, soprattutto nella promozione delle fasce deboli nel mercato del lavoro. I segnali di apprezzamento, dati anche dall’Europa, ci stimolano infine all’urgenza di avviare una fase di riforme tese a un cambio di marcia. La nomina a ministro del Lavoro di un esponente della cooperazione (Giuliano Poletti) viene accolto come un segnale che va in questa direzione. Su questi temi abbiamo intervistato Edoardo Patriarca, componente della commissione Affari sociali alla Camera.
Edoardo Patriarca «Contenere la “supremazia” dei mercati e delle banche e superare allo stesso tempo un modello di governance europea basata solo su politiche di austerità, è la strada per ripartire con gli investimenti e ridare centralità al lavoro e quindi al sociale». Patriarca è componente della commissione Affari sociali della Camera ed è stato portavoce del Forum del Terzo settore.
Le riforme proposte dal governo per fronteggiare il record negativo illustrato dalle statistiche, secondo lei, rappresentano una risposta concreta alla crisi del mercato del lavoro? Il trend illustrato dai dati Istat, dai rapporti sul lavoro del Cnel, da Unioncamere, purtroppo segue un ribasso che ancora non si ferma. Questo ci dice come il sistema-paese, l’Italia, sia un sistema in grande difficoltà, non da oggi ma, credo, da più di un decennio. L’analisi della situazione, a quando ero ancora consigliere del Cnel, era legata ad alcuni fattori che sono i nodi problematici ancora attuali. Un elemento importante di criticità riguarda la perdita di competitività, che non è riferibile esclusivamente al problema del costo del lavoro. L’Italia ha perso, in questi ultimi 15 anni, passo dopo passo, capacità competitiva, sulla quale hanno avuto influenza anche i costi dell’energia, i costi della giustizia, i costi del processo che ha portato ai debiti della Pubblica amministrazione, la mancanza di investimenti strategici, la difficoltà del sistema imprenditoriale ad innovare nelle nuove tecnologie. In Germania, per
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esempio, i salari sono più elevati dei nostri e allo stesso tempo i tedeschi rimangono competitivi. Contenere la «supremazia» dei mercati e delle banche e superare allo stesso tempo un modello di governance europea basata solo su politiche di austerity, è la strada per ripartire con gli investimenti e ridare centralità al lavoro e quindi al sociale. Non pensa quindi che sia urgente un Piano di sistema, con la partecipazione diretta di tutti gli attori, per ridisegnare nuove regole e rimettere al centro il lavoro? Oltre al costo del lavoro bisogna guardare a tutti gli aspetti del sistema-paese, comprese le infrastrutture e la scuola. Un elemento importante riguarda proprio l’istruzione e il rilancio della formazione professionale, nell’ottica di ripristinare quello scarto esistente tra offerta formativa e richiesta oggettiva del mercato del lavoro. Questa vicenda può risolversi concentrando maggiori investimenti nella formazione, eliminandone gli sprechi. Bisogna favorire maggiormente l’ingresso alle esperienze di lavoro in fase formativa. I nostri ragazzi incontrano il lavoro molto più tardi rispetto ai giovani tedeschi. Ad esempio in Italia il servizio civile, purtroppo molto trascurato in questi anni, ha rappresentato un’occasione importante per i giovani, perché oltre ad educare alla pace, e formare alla legalità e alla cittadinanza, è stato il veicolo di incontro tra le nuove generazioni e il lavoro sociale e culturale delle associazioni e della cooperazione. L’altro punto critico è dato dalla «negazione» del lavoro femminile. Nel nostro Paese si registra una bassa frequenza e soprattutto – questo è il dato più preoccupante – una bassa permanenza delle donne nel mercato del lavoro. Di fatto moltissime donne, in mancanza di strumenti di tutela della maternità, al secondo figlio, tante addirittura al primo, abbandonano il lavoro definitivamente. Questo potenziale, purtroppo da noi inespresso, secondo gli analisti, nelle altre esperienze in Europa rappresenta il 6% circa del Pil, perché se le donne entrano nel lavoro, crescono anche i servizi intorno ai nuovi bisogni della famiglia e quindi nuova occupabilità. Altra criticità deriva dalla difficoltà delle piccole imprese, prevalenti nel nostro Paese, a garantire processi di innovazione tecnologica di grande profondità, escludendo così a priori la possibilità di assumere giovani laureati. Il sistema ingar-
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bugliato così com’è credo sia un vero freno al nostro sviluppo. Non si tratta solo di semplificare, c’è soprattutto la necessità di avviare un processo condiviso con tutte le parti, per toccare proprio quei fattori strategici e su questi concentrare le nostre energie, allora l’Italia potrà farcela. Il nuovo disegno di legge per l’Impresa sociale può rappresentare quella rivoluzione tanto attesa per il nostro Paese, già inventore in Europa della cooperazione sociale (legge 381/91)?. Che ruolo l’economia sociale potrebbe giocare nelle politiche di sviluppo affinché alla produzione di valore economico venga coniugato il rilancio di un sistema di welfare sussidiario inclusivo e universale? La cosa migliore per le famiglie e per i giovani non è tanto o soltanto assicurare un sistema di protezione, di ammortizzatore sociale universale, cosa che comunque va fatta, quanto dare la possibilità alle persone di lavorare garantendo a tutti l’accesso al reddito attraverso il lavoro. Sicuramente l’economia sociale e il Terzo settore, elementi chiave del nostro sistema, debbono anche loro fare maggiormente rete per avere più capacità di innovazione, non solo di tipo tecnologico, ma soprattutto sociale. Il Paese, da loro, si attende un grande stimolo per un rinnovamento delle politiche di welfare, delle politiche culturali, riguardo la protezione ambientale, la gestione del patrimonio archeologico paesaggistico e lo sviluppo delle bio-agricolture, in concreto operare in tutta l’area che io definisco quella dei Beni comuni. È il Terzo settore, nella sua forma soprattutto imprenditoriale, il soggetto strategico, che accanto alle pubbliche amministrazioni e, io dico, insieme anche al privato, deve raccogliere questa sfida. Parlo delle cooperative e delle imprese sociali, soggetti che sono privati ma, come sappiamo tutti, hanno responsabilità e vocazione pubblica. Allora tutto il welfare, inteso nell’accezione più ampia, operando nell’area dei Beni comuni, finora trascurati dallo Stato, oltre ad offrire occupazione, poiché settori ad alta intensità lavorativa, può aggiungere valore rilanciandoli come strumenti chiave dello sviluppo. Il patrimonio culturale artistico, ambientale è il vero potenziale su cui costruire un modello di sviluppo sia economico che sociale, nel territorio con il territorio.
No all’austerità, sì a lavoro e welfare a troppo tempo si discute dell’anacronismo D e dell’insostenibilità dei parametri del Patto di stabilità e ora del fiscal compact, che
Giulio Marcon «È questa una politica economica che pensa non ci sia bisogno del welfare perché ci pensa la filantropia, che pensa non ci sia bisogno di politica industriale perché tanto ci pensa il mercato. E che pensa che non ci sia bisogno di una politica del lavoro perché basta la liberalizzazione del mercato del lavoro». Già portavoce della campagna «Sbilanciamoci!», Marcon è deputato di Sinistra ecologia e libertà.
intervista a cura di Roc c o L u ig i M an g i a v il l a n o
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stanno distruggendo il welfare ed i diritti sociali. Potremmo fare l’antologia di tutte le dichiarazioni di ex presidenti del Consiglio, di ex ministri dell’Economia e delle Finanze, di ex presidenti della Commissione europea e del Parlamento europeo che definiscono senza senso, arbitrari, stupidi e insostenibili questi parametri. Anche l’attuale presidente del Consiglio ha definito anacronistici questi parametri, eppure si continua come sempre in una politica suicida che alimenta la disoccupazione e la depressione economica della produzione. È questa una politica economica che pensa non ci sia bisogno del welfare perché ci pensa la filantropia, che pensa non ci sia bisogno di politica industriale perché intanto ci pensa il mercato. E che pensa che non ci sia bisogno di una politica del lavoro perché basta la liberalizzazione del mercato del lavoro. È questa una politica economica che pensa che la causa della crisi sia quella del debito pubblico, ma non si accorge che sono i mercati finanziari che nel 2007 hanno originato questa crisi. In questi anni, invece di fare il «contropelo» ai mercati finanziari, gli abbiamo «lisciato il pelo», facendogli tanti regali, esentandoli dalle regole, salvandoli con i soldi pubblici. E anche la futura Unione interbancaria rischia di essere un «pannicello caldo», se non interviene sulla separazione tra banche commerciali e banche d’affari. Le ricette sono sempre le solite, sempre quelle: riduzione del welfare e liberalizzazioni a tutto spiano, ma nell’interesse del mercato, non della società, a favore di nuovi monopoli privati e non della concorrenza. E, per parafrasare Joyce, questo è un liberismo che ha per motto «libera volpe in libero pollaio». Ma invece oggi abbiamo bisogno di più welfare, di più politica economica, di maggiori regole, di maggiore intervento pubblico. È una balla quella che noi abbiamo una spesa pubblica più alta di altri paesi europei. Invece è inferiore alla media europea per l’innovazione e la ricerca, per l’istruzione, per il lavoro, per la famiglia, per gli investimenti
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pubblici, per il welfare. Il problema è il debito, si dice, ma le politiche di austerità hanno fatto aumentare il debito in sei anni di 30 punti in Europa e di 15 punti in Italia negli ultimi tre anni. E queste stesse politiche hanno fatto salire a 27 milioni di persone il numero di disoccupati e hanno causato il crollo del Pil quasi dappertutto e in Italia del 9 per cento rispetto al 2007. L’austerità non è altro che la «continuazione del neoliberismo con altri mezzi». E quelli che il Nobel per l’economia Paul Krugman definisce gli «austerici», ovvero gli isterici dell’austerità, hanno continuato a violare le regole del buonsenso portandoci in questo tunnel senza uscita con il welfare in frantumi. È più facile ridurre le spese durante una fase di crescita che in un periodo di crisi, quando bisogna fare investimenti per rilanciare la domanda e intervenire sui consumi. In questi anni ci si è affidati al mercato e alla sua efficienza. Sì, la stessa efficienza dimostrata dai mercati finanziari nel 2007 e nel 2008. Di questa efficienza facciamo volentieri a meno. In questi anni è aumentata la spesa pubblica, ma non la spesa sociale. È aumentata perché si sono usati soldi pubblici per salvare le banche private e perché la spesa per il debito è cresciuta per la crisi economica e la diminuzione delle entrate. Si è pensato di risolvere il problema semplicemente riducendo le spese (quelle dei diritti e del welfare), mentre dovevamo aumentare le entrate puntando sul rilancio dell’economia e degli investimenti. Ci siamo affidati completamente al mercato, sbagliando. Possiamo discutere di quale economia di mercato abbiamo bisogno, ma non abbiamo certo bisogno di una società di mercato e, per dirla con Karl Polanyi, è il mercato a dover essere incorporato nella società, e non viceversa. Ecco perché va rifiutata l’impostazione, la filosofia, nonché i dispositivi concreti del fiscal compact e del Patto di stabilità. Bisogna prevedere uno scostamento del 3 per cento per gli investimenti per l’istruzione, l’innovazione, la sanità e il welfare; uno scostamento che, nel medio periodo, non produce più debito, ma maggiore crescita e, quindi, entrate. L’Italia, in sede europea, deve essere promotrice di una politica monetaria più determinata della Bce, rispetto sia al dollaro che al rilancio della spesa per gli investimenti. Serve, allora, un piano organico e finalizzato all’emissione di Eurobond per
Il lavoro deve tornare al centro, altrimenti non avremo nemmeno più la possibilità di ridurre il debito. Dobbiamo capovolgere le priorità in Europa: il lavoro e non le banche, gli investimenti pubblici e non la riduzione della spesa sociale, l’intervento pubblico e non il mercato.
foto: Progetto Riciclandia Consorzio A. Bastiani
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un «Green new deal» e per il lavoro. È il lavoro che deve tornare al centro, altrimenti non avremo nemmeno più la possibilità di ridurre il debito. Dobbiamo capovolgere le priorità in Europa: il lavoro e non le banche, gli investimenti pubblici e non la riduzione della spesa sociale, l’intervento pubblico e non il mercato. Per il prossimo semestre europeo di Presidenza italiana che comincia il primo luglio, il governo si deve fare promotore di due iniziative. La prima: una proposta di revisione radicale dei trattati e dei regolamenti che regolano il Patto di stabilità e di crescita. La seconda, una proposta, da definire nei prossimi mesi in previsione della mid-term review del bilancio europeo, che vada in due direzioni: aumento sensibile del bilancio europeo, anche con strumenti di fiscalità comunitaria, e accrescimento della parte del bilancio europeo destinato alle politiche di coesione sociale e di welfare, di sviluppo e di crescita. L’Europa ha bisogno subito di quattro medicine: la fine dell’austerità, maggiore democrazia, maggiori regole ai mercati finanziari ed un New Deal sociale, democratico, ecologico, capace di creare lavoro e dare fiato alle imprese. Le politiche di austerità e il fondamentalismo di mercato hanno distrutto il welfare, hanno alimentato e continuano ad alimentare i populismi e le destre. Dopo le emergenze economica e del lavoro dobbiamo evitare un’emergenza democratica in Europa. Ecco perché dobbiamo cambiare strada e prendere la strada della bistrattata – troppo bistrattata – Strategia Europa 2020 a favore della realizzazione di quegli obiettivi sociali e democratici oggi dimenticati: rilanciare il welfare e la coesione sociale è la premessa per rilanciare il sogno europeo, combattere la crisi e dare più diritti a tutti.
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L’economia sociale in prospettiva na riflessione non episodica sulle proU spettive dell’economia sociale è possibile a due condizioni. La prima è che si prenda atto che essa già rappresenta – con le sue quasi 400mila organizzazioni e più di 200 miliardi di giro d’affari e oltre due milioni di occupati – un pezzo importante dell’economia italiana e, grazie alla cooperazione sociale, dell’offerta di servizi sociali ed educativi. La seconda condizione è che si tenga sempre presente l’ampio spettro di attività in cui le associazioni, cooperative e fondazioni sono impegnate, e quindi la molteplicità di ruoli che esse svolgono e ancor di più quelli che potranno svolgere nei prossimi anni, e non ci si fissi solo su una particolare forma o su singole, pur interessanti esperienze. Solo così sarà possibile capire quali ruoli possono svolgere le varie organizzazioni dell’economia sociale all’interno della complessa transizione che sta interessando l’economia e la società italiana e che vede coinvolti sia il sistema produttivo, in particolare industriale, che quello del welfare. Una transizione che sta determinando, da un lato, il definitivo abbandono di gran parte delle tradizionali produzioni industriali a basso valore aggiunto e una contrazione strutturale del settore immobiliare, con la perdita definitiva di un numero elevato di posti di lavoro e, dall’altro, una progressiva riduzione dell’offerta pubblica di servizi di welfare e, anche in questo caso, della relativa occupazione. In un contesto quindi dove la via di uscita dalla crisi passa necessariamente, e per tutti i settori, per processi di innovazione materiale, immateriale, produttiva, organizzativa e sociale e per cambiamenti profondi dei modelli di lavoro, di produzione e di consumo. Alcuni di questi processi sono già visibili: nel rilancio del settore agricolo, considerato fino a prima della crisi del tutto marginale, nell’andamento anticiclico dei prodotti del made in Italy e più in generale delle produzioni industriali innovative, nella tenuta, con non pochi segnali di effervescenza, del settore dei servizi alla persona e alla comunità. Ma stanno cambiando anche i comportamenti dei consumatori: l’attività di consumo è diventata
Carlo Borzaga «Stanno cambiando anche i comportamenti dei consumatori: l’attività di consumo è diventata più riflessiva, sono in aumento le forme di cooperazione sia nelle attività di consumo che di coproduzione di beni e servizi ed emerge una crescente disponibilità delle persone a farsi carico della produzione di beni comuni». L’autore è professore di Politica economica presso la Facoltà di Economia dell’università di Trento.
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più riflessiva, sono in aumento le forme di cooperazione sia nelle attività di consumo che di co-produzione di beni e servizi ed emerge una crescente disponibilità delle persone a farsi carico della produzione di beni comuni. È in queste tendenze evolutive che le diverse forme dell’economia sociale trovano nuovi spazi e non solo possono, ma devono riuscire a dare il proprio contributo affinché non si perdano importanti occasioni di crescita, di benessere e di innovazione. Tre sono le principali direzioni in cui l’economia sociale può dare il proprio specifico contributo. La prima direzione è quella dell’impegno a far emergere nuovi modi di soddisfare vecchi e nuovi bisogni che oggi non trovano risposte organizzate perché non è chiaro quale sia la domanda, quanta di essa sia pagante e che tipo di prodotti siano veramente in grado di soddisfarla, ed è quindi necessario innanzitutto individuare nuove forme di collaborazione tra consumatori e tra questi e i potenziali produttori che, in molti casi, possono essere gli stessi utenti. È questa l’area di intervento privilegiata dell’associazionismo e del volontariato di cui, nella trasformazione in corso, va rivalutata la capacità di essere promotore di innovazione. Per passare poi, in caso di successo, ad assumere connotazioni di tipo imprenditoriale, per garantire continuità e professionalità nell’erogazione dei nuovi servizi, anche avvalendosi della normativa sull’impresa sociale, che consente di fare impresa mantenendo la finalità sociale e la forma dell’associazione. La seconda direzione è quella del rafforzamento delle tradizionali forme cooperative, soprattutto quelle tra produttori. Come stanno dimostrando le cooperative agricole, attraverso queste forme organizzative è possibile rendere compatibile la piccola dimensione, con i suoi vantaggi in termini di flessibilità e di attenzione alla qualità, con le potenzialità offerte dalle economie di scala sia tecnologiche che organizzative. La sfida per il futuro è quella di riuscire a replicare questo modello di cooperazione tra gli imprenditori del settore manifatturiero. La terza direzione è quella della produzione di beni comuni e di interesse collettivo che ad oggi sono forniti, con la sola eccezione di una parte dei servizi di welfare dove gioca un ruolo importante la cooperazione sociale, da imprese pubbliche locali spesso
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inefficienti, oppure, come molti servizi culturali o di gestione del patrimonio storicoartistico, non sono prodotti affatto. A questi si aggiunge la domanda, privata più che pubblica, di ulteriori servizi di welfare, alla persona e alla famiglia. Questo è l’ambito in cui non solo la cooperazione sociale è destinata a rafforzarsi, ma in cui potranno svilupparsi sia le cooperative tra utenti e di comunità, sia le imprese sociali costituite in forma di società di capitali. Cioè forme imprenditoriali attraverso cui non più gli enti locali, ma gli stessi utenti gestiscono i servizi di interesse di tutti. Socializzando la produzione invece che privatizzandola e risolvendo così anche il problema della tutela dei consumatori e della natura comune dei beni che tanto ha assillato i promotori del referendum sull’acqua. Sono prospettive molto chiare dal punto di vista teorico, ma perché si realizzino e perché le organizzazioni dell’economia sociale possano esprimere tutte le loro potenzialità c’è bisogno di adeguare sia il quadro normativo che, soprattutto, quel diffuso atteggiamento di sospetto e di supponenza verso queste forme di impresa che ancora caratterizza la gran parte degli intellettuali e dei media italiani. E occorre che gli stessi attori dell’economia sociale si convincano dell’importanza del loro ruolo e siano capaci di adattare la loro azione e i loro modelli organizzativi alle nuove esigenze indotte dalla trasformazione in corso.
Economia e impresa sociale Denita Cepiku Filippo Giordano Come spiegato dai due esperti, è molto importante riuscire a coniugare il criterio della sostenibilità – sociale e ambientale – con la produzione di valore sociale. Cepiku è ricercatrice e docente presso la Facoltà di Economia dell’Università di Tor Vergata (Roma), Giordano è docente assegnista di ricerca al Dipartimento di Management e Tecnologia presso l’Università Bocconi di Milano. foto: cooperativa Capodarco
Alla ricerca della sostenibilità I processi di globalizzazione, la digitalizzazione e finanziarizzazione dell’economia stanno generando un sistema economico in cui spesso la creazione di valore e di ricchezza non si traduce in creazione di posti di lavoro e in benessere diffuso. Di conseguenza in tutti i paesi sviluppati, Italia compresa, si assiste a una progressiva concentrazione della ricchezza associata a crescenti situazioni di disagio e povertà che alimentano tensioni e fenomeni di esclusione sociale. Ad aggravare il quadro si aggiungono le problematiche ambientali provocate dall’impatto dei nostri modelli di produzione e consumo. I dati ci dicono che, con gli attuali livelli di produzione e consumo, nel 2050 avremo bisogno di risorse naturali pari all’equivalente di 2,3 pianeti per garantire il mantenimento della popolazione mondiale che supererà i 9 miliardi. È necessario dunque rendere il nostro modello di sviluppo più sostenibile sia dal punto di vista sociale che ambientale. In questo contesto, le istituzioni pubbliche nazionali ed internazionali non sembrano in grado di dare risposte all’altezza della complessità dei problemi. Le risorse pubbliche sono sempre più ridotte e gli interventi, prevalentemente di natura assistenziale, non sono in grado di generare impatto sociale nel lungo periodo. Inoltre, se c’è consapevolezza del fatto che non sia possibile rinunciare all’impresa privata per creare valore e ricchezza, è indubbio che il modello di impresa tradizionale non è in grado di soddisfare i bisogni delle persone con equità. Queste considerazioni sono alla base del dibattito che dalla fine degli anni Novanta si è sviluppato nell’accademia intorno al fenomeno dell’impresa sociale e che negli ultimi anni ha registrato un acceso interesse da parte di policy makers, operatori del Terzo settore, imprese e intermediari finanziari.
L’impresa sociale: come creare valore sociale in modo sostenibile Nei primi anni il dibattito si è focalizzato sugli aspetti definitori dell’impresa sociale come formula organizzativa. Un primo approc-
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di valore sociale e creazione di valore economico. In questo contesto, è stato elaborato il concetto di «social entrepreneurship».
Imprenditorialità sociale: l’innovazione per il cambiamento sociale
cio di stampo americano inquadrava il tema come risposta da parte delle organizzazioni del Terzo settore alle sfide poste da risorse sempre più scarse, maggiori costi e aumentata pressione competitiva. In Europa invece il dibattito si è incentrato sull’individuazione degli aspetti peculiari di queste tipologie di aziende. In particolare, nel 2001 il gruppo di ricerca internazionale Emes (The Emergence of Social Enterprise) ha definito l’impresa sociale come un’organizzazione caratterizzata da quattro criteri di natura economica (attività continua di produzione o vendita di servizi, autonomia, rischio economico, presenza di un numero minimo di lavoratori retribuiti) e cinque di natura sociale (esplicitazione dei benefici che si intendono realizzare per la comunità/gruppo specifico, slancio imprenditoriale collettivo, logica decisionale basata sulla membership, sistema di governance allargato, limiti alla quota di utili distribuibili ai soci). L’attuale legge italiana sull’impresa sociale si inserisce in questo filone culturale che tenta di dare una definizione esclusiva del fenomeno che nella realtà si configura molto più ampio e variegato. Negli studi più recenti il focus si è spostato maggiormente sull’attività di queste organizzazioni capaci di perseguire obiettivi di natura sociale in modo economicamente sostenibile, ponendo l’attenzione sui loro business model in grado di combinare creazione
foto: Archivio Coop. 29 Giugno
Compito del legislatore è favorire le condizioni per una maggiore flessibilità del contesto affinché le iniziative imprenditoriali in ambito sociale siano maggiormente facilitate e sostenute.
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La social entrepreneurship presenta due elementi costitutivi: la focalizzazione sulla missione sociale (dimensione sociale) e l’approccio innovativo nel suo perseguimento (dimensione imprenditoriale). La dimensione sociale può essere riferita al settore di intervento dell’organizzazione (per esempio servizi sociali), all’utilizzo di particolari modalità di gestione (per esempio l’uso di personale svantaggiato nella gestione) o all’impatto sociale ultimo dell’attività (per esempio il reinserimento di homeless). La dimensione imprenditoriale, invece, si evince dall’orientamento al mercato e dal carattere innovativo utilizzato nella risposta ai bisogni sociali, elementi a garanzia della sostenibilità economica nel tempo di queste aziende. In questo contesto la forma giuridica dell’organizzazione diventa irrilevante. Anzi, un approccio di carattere prescrittivo tende a limitare fortemente il portato innovativo delle imprese sociali. Il forte e peculiare legame che si instaura all’interno di queste innovative organizzazioni tra obiettivi di tipo sociale e obiettivi di tipo economico, lascia spazio a nuovi scenari dal punto di vista delle formule imprenditoriali, delle prassi gestionali, degli assetti istituzionali e di governance difficilmente predeterminabili per legge. Per questo parlare e discutere di imprenditorialità sociale, invece che di impresa sociale, apre scenari e spazi di riflessione interessanti. È importante uscire dalla logica delle definizioni per entrare nel merito dell’applicazione di formule imprenditoriali capaci di impattare positivamente sulla riduzione dei fenomeni di esclusione sociale, sulla promozione di comportamenti e stili di vita più corretti, sulla riduzione di esternalità negative di tipo ambientale. Compito del legislatore è favorire le condizioni per una maggiore flessibilità del contesto affinché le iniziative imprenditoriali in ambito sociale siano maggiormente facilitate e sostenute. Spetta poi agli operatori, rifuggendo da pregiudizi di tipo ideologico, comprendere appieno il concetto di imprenditorialità e fornire risposte sempre più sostenibili ai bisogni sociali.
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MAGGIO 2014
PER UN’ECONOMIA SOCIALE PARTECIPATA
La Cooperativa sociale integrata Capodarco cooperativa sociale Capodarco è una Lto arealtà che affonda le sue radici in un passafatto di lotta ed impegno in difesa dei diritti delle persone con disabilità, e che guarda con impegno e fiducia ad un futuro in cui la società, anche grazie ai suoi sforzi, sia finalmente per tutti. Una storia di persone, di sogni, visioni, sacrifici, sconfitte e vittorie che in qualche modo ne fanno il precursore e l’emblema dell’impresa sociale che fa integrazione lavorativa in Italia. La Capodarco nasce come cooperativa nel 1975 e nel giro di una decina d’anni questa esperienza d’inclusione sociale e lavoro, che nel frattempo da laboratorio si è trasformata in fabbrica, già garantisce occupazione lavorativa di persone con disabilità. Il salto di qualità avviene tra la fine degli anni Ottanta ed i primi anni Novanta, quando, per diversificare le proprie attività ed affermare il modello d’impresa sociale che ha consolidato, Capodarco dà vita al Consorzio sociale Co.In. allo scopo di contribuire alla nascita e allo sviluppo di nuove cooperative sociali d’inserimento lavorativo. Poco dopo la Capodarco, attraverso un’azione di ricerca e riqualificazione del proprio personale, entra nel settore dei servizi alle Pubbliche amministrazioni riuscendo ad ottenere in affidamento le attività di sportello, di segreteria amministrativa di alcune Asl ed Aziende ospedaliere del Lazio. Alla fine degli anni Novanta diviene portatrice di un progetto per la realizzazione del Centro unico di prenotazione telefonica sanitaria per la città di Roma che ottiene i finanziamenti del Giubileo. Successivamente ne acquisisce l’appalto e ne progetta a favore dell’Amministrazione regionale l’estensione del servizio a tutto il Lazio. Si tratta del più grande centro di prenotazione sinora mai realizzato, nel quale confluiscono oltre 20mila agende delle prestazioni ambulatoriali di visite specialistiche e diagnostica strumentale fornite da 20 Asl e Ospedali pubblici, che gestisce più di 6 milioni di contatti telefonici all’anno. Attraverso questo sistema denominato Recup, composto di sportelli Cup, contact center, segreterie lavorano nella Capodarco oggi oltre duemila operatori tra tecnici, informatici, centralinisti e amministrativi. Ben 800 di questi
Irene Ranaldi Ranaldi è direttore responsabile della testata www.sociale.it, dove vengono trattati temi legati all’innovazione sociale, al welfare e al Terzo settore: campi nei quali l’esperienza della Capodarco nella gestione dei servizi al cittadino ha molto da raccontare, ma anche da ascoltare. foto: cooperativa Capodarco
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sono persone affette da disabilità grave. La Capodarco rappresenta la più grande impresa sociale d’Italia, in grado di competere sul mercato nazionale ed europeo in settori di terziario avanzato con competenze e tecnologie che coniugano efficienza, capacità e risposte a bisogni sociali. La Capodarco è inoltre proiettata, in collaborazione con il Co.In., alla creazione di una piattaforma web di servizi socio-sanitari dalla quale potrà essere gestito in modo dinamico l’accesso all’offerta di servizi per la telemedicina e la teleassistenza, la prenotazione online di prestazioni socio-sanitarie anche di tipo domiciliare. È inoltre impegnata nel campo della comunicazione sociale con la testata online www.sociale.it, dove vengono trattati temi legati all’innovazione sociale, al welfare e benessere dei cittadini, al Terzo settore: campi nei quali la quarantennale esperienza della Capodarco nella gestione dei servizi al cittadino ha molto da raccontare, ma anche da ascoltare. È per questo motivo che il portale è aperto alla pubblicazione di contributi di professionalità afferenti ai servizi socio-sanitari e delle tecnologie innovative. Per maggiori informazioni: www.capodarco.coop; www.sociale.it; www.coinsociale.it.
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PER UN’ECONOMIA SOCIALE PARTECIPATA
La banca dalle pareti di vetro nel 1999, Banca Etica nasce dalFni ’80ondata l’esperienza maturata nel corso degli andalle Mag, quelle piccolissime cooperative finanziarie che avevano scelto di finanziare soggetti diversi rispetto a quelli ritenuti «bancabili» dal sistema finanziario tradizionale. È la banca del Terzo settore, nata e cresciuta tra coloro che hanno fatto del benessere collettivo una missione di vita e che, in collaborazione con le associazioni della società civile, con efficienza e senza sussidi, concorre alla creazione di una dimensione sociale più equa e attenta agli ultimi stimolando sinergie, anche economiche, per la soddisfazione dei bisogni, in armonia con i principi di un modello di sviluppo sostenibile. Ha un capitale sociale di quasi 47 milioni di euro (dati aggiornati al 31/12/2013), conferito da quasi 37mila soci, una raccolta di risparmio pari a 890 milioni di euro e finanziamenti accordati per 773 milioni di euro a sostegno di circa 7.000 progetti nei quattro principali ambiti di intervento: cooperazione sociale, cooperazione internazionale, ambiente, cultura e società civile. Come «banca verde» ha lanciato il Progetto energia, che riassume l’approccio al tema energetico di Banca Etica nella riduzione dei consumi, la tutela dell’ambiente e il valore sociale. In questo settore la banca ha fatto una scelta precisa per facilitare la creazione di comunità energetiche autosufficienti e sostenibili. Tutto questo è possibile grazie al sostegno attivo, non solo economico, dei soci che partecipano alla vita della banca in tutte le sue articolazioni e ne rappresentano la forza sociale, per dare così maggior voce alle istanze provenienti dal territorio, per sviluppare
Banca Etica Banca popolare Etica è l’istituto di credito che finanzia l’economia solidale e sostenibile. È la prima banca italiana interamente dedicata alla finanza etica: mette in cima alle priorità la creazione di valore sociale nel rispetto della sostenibilità economica e ambientale.
foto: CFP disabili Ass. Capodarco
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un’azione più efficace a livello locale e per poter meglio costruire relazioni e sinergie nei contesti. Un luogo in cui si cerca di arrivare ad una sintesi dei bisogni e delle opportunità del territorio sotto differenti aspetti. Ai risparmiatori viene spiegato come un uso consapevole delle proprie risorse finanziarie possa diventare uno strumento per cambiare e migliorare il mondo, promuovendo uno sviluppo umano ed economico sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale. Banca Etica è una «banca dalle pareti di vetro»: la sua peculiarità consiste nella trasparenza (tutti i finanziamenti sono pubblicati nel sito www.bancaetica.it), nella partecipazione, nelle modalità di utilizzo del denaro. Delle banche tradizionali Banca Etica propone i principali servizi e prodotti destinati al singolo, alle famiglie e alle organizzazioni. Sul fronte dei finanziamenti, Banca Etica concede prevalentemente credito alle realtà che operano all’interno del Terzo settore e dell’economia solidale, in particolare nell’ambito dei servizi sociosanitari ed educativi, dell’inserimento lavorativo dei soggetti deboli, della cooperazione allo sviluppo, del volontariato internazionale, della tutela ambientale e della salvaguardia dei beni culturali. A partire dal 2003 vengono finanziate anche società attive nell’ambito dell’agricoltura biologica e della produzione di energia da fonti rinnovabili (purché orientate da precisi criteri etici), e persone fisiche (purché socie della banca) alle quali è stata destinata una serie di prodotti che vanno dal mutuo per l’acquisto della prima casa a prestiti personali mirati soprattutto a particolari esigenze: dalla copertura di spese sanitarie alle adozioni, dalla ristrutturazione di edifici per l’abbattimento delle barriere architettoniche all’installazione di impianti per l’utilizzo di energie rinnovabili. Per maggiori informazioni: Ufficio comunicazione di Banca Etica, www.bancaetica.it, comunicazione@bancaetica.com.
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PER UN’ECONOMIA SOCIALE PARTECIPATA
L’integrazione sociale attraverso il lavoro a «29 Giugno» è una cooperativa sociale Lcome di tipo b fondata a Roma nel 1985 ed ha scopo sociale l’inserimento lavorativo delle persone appartenenti alle categorie svantaggiate (detenuti, ex detenuti, disabili fisici e psichici, tossicodipendenti ed ex) e più in generale delle persone appartenenti alle fasce deboli della società (senza fissa dimora, vittime della tratta, immigrati). Le specializzazioni acquisite nel tempo e la continua ricerca di innovazioni ha permesso alla cooperativa di offrire servizi ad elevata professionalità nei settori della manutenzione delle aree verdi, dell’igiene urbana e gestione dei rifiuti, delle pulizie e dei servizi assistenziali con la gestione di centri di accoglienza e case famiglia. È iscritta all’Albo regionale cooperative sociali, all’Albo nazionale imprese che effettuano la gestione dei rifiuti e ha l’autorizzazione della Regione Lazio per impianto vivai. La storia della cooperativa comincia all’interno del carcere di Rebibbia di Roma. Più esattamente il 29 giugno del 1984, quando all’interno del carcere si tenne un convegno su «Misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna» nel corso del quale, tra le altre, venne avanzata la proposta dai detenuti organizzatori dell’evento di costituire una cooperativa di lavoro con soci detenuti, alla quale gli enti locali avrebbero potuto affidare commesse di lavoro per alti fini sociali, in modo da poter consentire l’uscita al lavoro esterno o in semilibertà di quei detenuti che, essendo a lungo separati dalla società, non avevano opportunità per reperire un’offerta di lavoro. Ovviamente le difficoltà da superare furono diverse, ma il 18 giugno del 1985 venne finalmente costituita la cooperativa «Rebibbia 29 Giugno». La prima commessa affidata alla cooperativa arrivò nel 1986 e aveva ad oggetto il taglio dell’erba sulla strada Tiberina, alle porte di Roma; nel marzo del 1986 per la prima volta in Italia otto detenuti, soci lavoratori di una cooperativa, uscivano al lavoro esterno per andare a lavorare a circa 50 km. dal carcere. Da allora la cooperativa di strada ne ha
Carlo Guaranì Il 29 giugno di trent’anni fa, alcuni detenuti del carcere romano di Rebibbia proposero di costituire una cooperativa di lavoro con soci detenuti, alla quale gli enti locali avrebbero potuto affidare commesse di lavoro per alti fini sociali, in modo da poter consentire l’uscita al lavoro esterno o in semilibertà.
www.cooperativa29giugno.it
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fatta tanta, anche grazie all’approvazione della legge 381 che disciplina le cooperative sociali. Le collaborazioni che si sono succedute nel tempo hanno contribuito notevolmente alla crescita professionale di questa impresa sociale e ha permesso di rendere la 29 Giugno un importante riferimento economico e sociale per la città di Roma e per la sua provincia. Un detenuto che si reintegra nel tessuto economico e sociale rappresenta una diminuzione dei costi per lo Stato e per la collettività. Un disabile fisico inserito al lavoro rappresenta una riduzione dei costi per la collettività in termini di sussidi. In quasi trent’anni oltre 300 persone tra detenuti ammessi alle misure alternative alla detenzione ed ex detenuti hanno lavorato con la cooperativa e i casi di recidiva non arrivano a dieci; questo forse è il successo più grande avuto ed è sicuramente stato un grande contributo per rendere più sicura la nostra società. Oggi la cooperativa 29 Giugno è diventata «gruppo 29 Giugno» e si articola in quattro cooperative (tre di tipo B e una di tipo A) e un consorzio: conta 1100 dipendenti che operano nel settore sociale, dei servizi amministrativi presso strutture pubbliche, nel settore delle pulizie e dell’igiene urbana, della manutenzione del verde pubblico in collaborazione con numerose realtà cooperative e associative di Roma e provincia. Lo sviluppo che ha caratterizzato questi ultimi dieci anni ha permesso di raggiungere importanti risultati operativi e di fatturato e, al contempo, quello di aumentare le opportunità lavorative per tutte quelle persone che, con svantaggi fisici, sociali e psichici, hanno avuto la possibilità di trovare un’occupazione. La percentuale di lavoratori appartenenti alle fasce deboli e alle categorie di soggetti svantaggiati è arrivata al 40%. Questi dati sono la testimonianza che è possibile creare ricchezza e lavoro in modo sostenibile a livello sociale, che è possibile perseguire l’integrazione sociale attraverso il lavoro senza, per questo, dover rinunciare a qualità e crescita. L’obiettivo futuro è quello di continuare, senza perdere di vista le origini, ad investire maggiormente in formazione ed innovazione per continuare nella nostra crescita e dare opportunità di lavoro a chi difficilmente potrebbe averne.
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PER UN’ECONOMIA SOCIALE PARTECIPATA
Il lavoro aiuta l’emancipazione l Consorzio di Cooperazione sociale AlIadattarsi berto Bastiani è stato capace, negli anni, di ai tempi e alle nuove esigenze coniugando solidarietà, visione politica e capacità di offrire servizi e prodotti di qualità, rispettosi dell’ambiente e dei diritti del lavoro. Ha sviluppato capacità innovative per rispondere a sfide chiave, per attenuare gli scompensi dell’attuale sistema economico e proporre alternative valide alle fragilità e criticità emerse dall’egemonia del pensiero neoliberista e dalla visione mercantilista e consumistica che trasforma ogni bene e ogni passione in prodotto da vendere e comprare. Nel corso della sua storia ha rinsaldato le tradizionali attività di servizio alla persona e di supporto ai più deboli, iniziando con i disabili, per proseguire con le famiglie povere, i minori non accompagnati, le popolazioni rom e immigrate, le persone cadute nel vortice delle dipendenze, i borderline; parallelamente, attraverso le cooperative che lo compongono e con le attività gestite direttamente, ha intrapreso nuovi percorsi realizzando esperienze di welfare locale e comunitario, di agricoltura sociale, di riciclo di materiali e prodotti di scarto, di green economy, e di esperienze di altraeconomia. Nella sua visione e nel suo agire quotidiano mette al centro il lavoro umano, dignitoso e protetto, come elemento di integrazione, emancipazione e
Gianni Tarquini Il Consorzio Alberto Bastiani nasce nel 2001 dall’esperienza della Comunità di Capodarco che, già parecchi anni prima, e tra le prime in Italia, aveva avviato l’esperienza di cooperative sociali ed integrate. Alberto Bastiani, alla cui memoria è intitolato il Consorzio, è stato uno dei primi soci della Comunità a lavorare per dare riscatto ai disabili attraverso l’inserimento socio-lavorativo. Per informazioni: www.consorzio albertobastiani.it.
foto: Progetto Tenuta Mistica Consorzio A. Bastiani
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riscatto di ogni uomo e ogni donna; privilegia la forma della cooperativa sociale come impresa con cui intraprendere il percorso organizzativo e relazionale per entrare nel mondo della produzione e della commercializzazione, nel rispetto dei valori fondanti e già collaudati, e facilitare così il protagonismo delle persone e la diffusione di pratiche democratiche. Anche la scelta delle zone geografiche in cui agire rientra nella metodologia di intervento per raggiungere la popolazione con maggiori fragilità: le periferie urbane e le aree rurali; entrambe bisognose di ricuciture culturali e di riscatto attraverso il lavoro e forme relazionali capaci di recuperare solidarietà e cooperazione. Le cooperative socie – Comunità Capodarco di Roma, Agricoltura Capodarco, Ermes, Lapemaia, Edera.net, Cine Movie – hanno diversificato il loro settore di intervento pur mantenendo obiettivi e valori comuni. Le progettualità vanno dal riciclo di abiti usati al recupero di altri beni dismessi attraverso il progetto Porta Usb - Usato solidale e bello; dalla produzione agricola biologica con l’inserimento al lavoro di disabili e altre persone in difficoltà alla ristorazione di qualità nella ormai collaudata fattoria di Grottaferrata, fino al recupero ambientale, attraverso l’agricoltura sociale, di terreni urbani in quartieri degradati come accade con la «Tenuta della Mistica» a Tor Tre Teste a Roma. Le cooperative socie si occupano inoltre della gestione di attività educative e culturali in scuole nell’hinterland romano e nei campi di accoglienza di sinti e rom; dell’integrazione linguistica per i migranti; della creazione di bioristori; della produzione di pasta all’uovo artigianale – «La Capezzaia» – fatta grazie al lavoro di ragazze e ragazzi disabili; della diffusione dei Gruppi di acquisto solidali e della promozione di reti cittadine per il riscatto di aree abbandonate; della riqualificazione e dello sviluppo di attività produttive, della creazione di reti di economia solidale e di ecologia sociale. Insomma, con i più fragili e nelle zone più difficili, non per resistere ma per creare nuove forme di convivenza, rispettose dell’uomo, della donna, dell’ambiente, per dare riscatto con i diritti e con il lavoro; senza accontentarsi di sopravvivere, ma per dare qualità nei luoghi in cui si trascorrono le giornate, nel cibo che si mangia, nel tempo che si trascorre in socialità, nelle relazioni della polis in cui viviamo.