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EDITORIALE

Benedetto e Francesco, Pasqua della Chiesa

di GIANFRANCESCO D’ANDREA

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eri lo sguardo ad Est, oggi lo sguardo ad Ovest. Papa Francesco è con noi già da qualche settimana e i suoi gesti, le sue rinunzie, il suo linguaggio semplice ma vigoroso sono il prosieguo di quella rivoluzione annunciata dalla scelta di Papa Benedetto XVI. Due figure diverse che hanno permesso alla Chiesa universale di vivere, forse, le settimane più intense della sua lunga storia. Non sapremo mai se esisteva già un disegno predeterminato nella rinunzia di Papa Raztinger e nella successiva elezione di Francesco ma, di fatto, entrambi, in poco più di un mese, hanno dato al mondo una scossa che va nella stessa direzione. Una staffetta, potremmo dire. Ratzinger che rinunzia affinché la Chiesa trovasse un successore di Pietro che avesse il necessario “vigore fisico”; Francesco che rinunzia al trono e agli ori, gelosamente custodendo la sua croce di ferro. Linguaggi che parlano dritto al cuore e che rimettono in moto tutti gli uomini di buona volontà. La rivoluzione avviata da Benedetto XVI, il “Papa stanco” è appena agli inizi, grazie a Francesco: un cammino che ha già azzerato pigrizia e sfiducia, archiviando l’enfasi o l’esasperata ostentazione di taluni rituali. Tutto ciò è accaduto in pochi giorni, nella staffetta fra due uomini che hanno capito l’importanza di un intervento immediato, prima che il mondo precipitasse. Anche per questo Papa Francesco viene “dalla fine del mondo”. Egli, adesso, apre ad una Chiesa e a un mondo ritrovati. Come non credere che ci sia realmente un disegno dello Spirito Santo in tutto ciò? Non sarà la mancanza di una mozzetta di velluto rosso bordata di ermellino o di una croce d’oro a procurarci, un giorno, la nostalgia del Papa: in compenso, abbiamo un uomo che indossa vesti nuove, che ci riporta all’idea del Crocifisso come simbolo concreto, attuale, guida dei nostri giorni. Papa Francesco porta con sé solo ciò che è dell’uomo, senza fardelli né inutili appesantimenti: quando si è in cammino, bisogna stare comodi. Ecco l’energia del nuovo cammino, ecco il ritrovato “vigore fisico”. Quello di un Gesuita dalla tempra forte, lucida, autorevole, lineare, diretta, dalla “profondità leggera” dei suoi concetti. Un uomo al quale la forza intellettuale di Benedetto XVI ha dato una straordinaria spinta in avanti. L’attesa Pasqua della Chiesa. Una risposta esplicita ad una domanda esplicita dei credenti e dei non credenti. Anche in questo caso, non sarà l’assenza di una mozzetta bordata di ermellino a fare la differenza e ad aiutare la Chiesa a parlare e a comprendere i nuovi linguaggi del mondo. Sarà il cammino, il nuovo cammino appena avviato, a conquistare nuovi cuori e nuovi spazi di evangelizzazione. La Chiesa, dunque, ancora protagonista della Storia e interlocutrice del mondo e degli uomini. Ieri nell’Est di Wojtyla, oggi nell’ Ovest di Francesco. Post Scriptum: A partire da questo numero, lascio la direzione di Clarus, dopo circa sei anni di esperienza nella bella redazione di un giornale diocesano. Ringrazio di cuore coloro che mi hanno trasmesso e insegnato molto. Ai lettori un abbraccio ideale. Nella consapevolezza che questo è un arrivederci, perché chi percorre la stessa strada, presto o tardi, nuovamente si incontrerà. n.3

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primo piano

Fratelli e sorelle buonasera!

«Fratelli e sorelle, buonasera! Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo … ma siamo qui … Vi ringrazio dell’accoglienza. La comunità diocesana di Roma ha il suo vescovo: grazie! E prima di tutto, vorrei fare una preghiera per il nostro vescovo emerito, Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca». Il Papa ha recitato il Padre Nostro, l’Ave Maria e il Gloria al Padre con i fedeli presenti in Piazza San Pietro. Poi ha proseguito: «E adesso, incominciamo questo cammino: vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa, che oggi incominciamo e nel quale mi aiuterà il mio cardinale vicario, qui presente, sia fruttuoso per l’evangelizzazione di questa città tanto bella! E adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi pregate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo che chiede la benedizione per il suo vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me». Papa Francesco ha quindi dato la sua benedizione Urbi et Orbi a tutti i fedeli presenti. Poi ha concluso: «Fratelli e sorelle, vi lascio. Grazie tante dell’accoglienza. Pregate per me e a presto! Ci vediamo presto: domani voglio andare a pregare la Madonna, perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo!». 2

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13 marzo 2013, ore 19.06 La fumata bianca dal comignolo della Cappella Sistina annuncia l’elezione del nuovo Papa. Da Piazza San Pietro, gremita dal oltre centomila persone, si alza un boato di voci: è la gioia, la certezza che la Chiesa cattolica ha il suo Pastore. Parte il suono delle campane. Abemus Papam! Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires ha scelto di chiamarsi Francesco. La folla esita. Poi inizia a comprendere. Solo quando Papa Francesco sarà alla loggia delle benedizioni quel boato di gioia tornerà più forte di prima .


Venne un uomo di nome Francesco... di EMILIO SALVATORE

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ono nella casa dei Gesuiti, a Villa San Luigi, ed attendo che si apra la Loggia delle Benedizioni, sento il nome e non riesco a riconoscerlo, neanche i gesuiti presenti, poi il cognome Bergoglio. Un papa gesuita! Un grande stupore ci pervade tutti. Ma non è finita… Poi, il nome scelto: Francesco! Il nome di San Francesco, l’uomo della fedeltà al vangelo e alla Chiesa. Il nome del grande gesuita missionario. Due segnali inequivocabili. Ma soprattutto la sua provenienza: è l’arcivescovo di Buenos Aires, il primo papa dell’America Latina. Cosa vogliono dire al mondo questi tre primati? Il gesuita fa voto di non ambire a cariche, e il Card. Bergoglio ha sempre lottato contro tutte le forme di carrierismo nella Chiesa, scegliendo sempre la vicinanza della gente, soprattutto dei poveri. Appare così chiaro anche un messaggio a quanti all’interno della comunità cristiana mancano di umiltà e di spirito di servizio. I punti di una riforma ormai urgente. Prima le esigenze della comunità cristiana, contro ogni vanità ed ambizione. Il sudamericano ha visto il vangelo arrivare dall’antica Europa, ora sente che dalle sue terre deve ripartire la nuova onda del vangelo per il resto del mondo. Il nome Francesco echeggia inconfondibilmente quelli del santo di Assisi chiamato a sorreggere il Laterano cadente e quello del grande missionario Francesco Saverio che arrivò sino alle isole dell’Estremo Oriente. La missione si fa con la testimonianza della vita e non solo con i proclami o i documenti. Lo stile familiare, assolutamente non pomposo, l’invito a camminare insieme in spirito di comunione nella Chiesa di Roma, la chiesa che presiede nella carità, e di fratellanza nei confronti degli uomini di buona volontà sembrano indicare uno spirito conciliare. Infine su tutto emerge la richiesta di reciproca benedizione. Siamo di fronte ad un assoluto inedito. Il Papa prega per il suo predecessore emerito, poi invita il popolo ad invocare la benedizione di lui e china profondamente la testa di fronte a Dio in attesa che il silenzio orante sceso sulla Piazza gremita faccia scendere dal Padre la sua benedizione. La gente acconsente quasi naturalmente a questo rituale inedito. Poi è il nuovo Pontefice che invoca la benedizione di Dio per tutto il popolo dell’Urbe e dell’Orbe. Tutti noi ci alziamo quasi naturalmente e da lontano, “dalla fine del mondo”, discende la speranza che con Papa Francesco ci incamminiamo verso un nuovo mondo! 3


Fuori dagli schemi Si è presentato così il Papa preso "quasi alla fine del mondo", salutando la gremita Piazza San Pietro, riempita da oltre centomila persone. Con semplicità e assoluta spontaneità si è mostrato uomo di preghiera. Nelle sue prime parole amore, fratellanza, misericordia, rispetto: in pochi minuti ha traccaito il cammino della Chiesa futura, ed essa ha colto immediatamente l’essenza di questo messaggio paterno e quanto mai vicino al cuore dei tanti che si attendevano una strada, una nuova rotta. La scelta del nome - Francesco - ha posto il sigillo alla profonda intesa stabilita da subito con il popolo di Dio. Il nome del Santo di Assisi: esempio di umilità e carità, di testimonianza evangelica ben oltre i confini della sua terra, il nome del patrono d’Italia, che come ha spiegato il Papa in persona, rafforza il suo legame con la Penisola, terra d’origine dei suoi antenati. Proviamo a ripercorrere la prima settimana del suo pontificato, e a scorgere in esso alcune parole chiave, la strada, il modello che il Vescovo di Roma ha fermamente e docilmente suggerito alla sua Chiesa. 14 marzo 2013 Si muove come guidato dal vento: improvvisa saluti e “fuori programma”, ma in realtà è il vento dello Spirito ad accompagnarlo. Stupisce continuamente con i sorrisi, le strette di mano, le battute improvvisate e poi di nuovo la serietà del suo tono pacato e profondo. Giovedì di buon ora (sono da poco passate le otto), raggiunge la Basilica di Santa Maria Maggiore dove sosterà lungamente in preghiera. Il suo primo passo da gigante l’ha compiuto per affidarsi alla Madonna. E’ il momento dell’incontro con i “fratelli” Cardinali: un ripetuto incoraggiamento a guidare la Chiesa in avanti, a farla


conoscere ai giovani attraverso la sapienza dei più anziani: «Cari fratelli, forza! La metà di noi siamo in età avanzata, la vecchiaia è – mi piace dirlo così – la sede della sapienza della vita. I vecchi hanno la sapienza di avere camminato nella vita, come il vecchio Simeone, la vecchia Anna al Tempio. E proprio quella sapienza ha fatto loro riconoscere Gesù (...) Doniamo questa sapienza ai giovani, (...): come il buon vino, che con gli anni diventa più buono, doniamo ai giovani la sapienza della vita. Mi viene in mente quello che un poeta tedesco diceva della vecchiaia: ‘Es ist ruhig, das Alter, und fromm’: è il tempo della tranquillità e della preghiera. E anche di dare ai giovani questa saggezza». Con cosciente serenità e lungimiranza, anche se Papa da poche ore, lancia alla Chiesa la sfida del futuro: «Non cediamo mai al pessimismo e allo scoraggiamento: abbiamo la ferma certezza che lo Spirito Santo dona alla Chiesa, con il suo soffio possente, il coraggio di perseverare e anche di cercare nuovi metodi di evangelizzazione, per portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra» 16 marzo 2012 Tocca ai giornalisti. L’incontro con gli operatori dell’informazione - circa seimila - è fissato nell’Aula Paolo VI. Stupisce ancor di più quando dopo averli ringraziati per il lavoro svolto durante l’attesa del nuovo Papa, si lascia andare ad una catechesi sulla Chiesa e sul modo di comunicarla delineando una vera e propria “ermeneutica” e dettando così la “vera agenda” a chi esercita questo mestiere. «Gli avvenimenti della storia chiedono quasi sempre una lettura complessa, che a volte può anche comprendere la dimensione della fede (...). Gli eventi ecclesiali non sono certamente più complicati di quelli politici o economici», ma hanno però «una caratteristica di fondo particolare: rispondono a una logica che non è principalmente quella delle categorie, per così dire, mondane, e proprio per questo non è facile interpretarli e comunicarli a un pubblico vasto e variegato». La Chiesa, infatti, «pur essendo certamente anche un’istituzione umana, storica, con tutto quello che comporta, non ha una natura politica, ma essenzialmente spirituale: è il popolo di Dio. Il santo popolo di Dio, che cammina verso l’incontro con Gesù Cristo. (...) Soltanto ponendosi in questa prospettiva si può

rendere pienamente ragione di quanto la Chiesa Cattolica opera. (...)» Non ha fatto mancare confidenze e attese, come l’esclamazione, quasi il possibile motto del suo impegno pastorale: «Ah, come vorrei una Chiesa povera per i poveri!». 17 marzo 2013 Papa Francesco ritrova la folla di Piazza San Pietro per la recita dell’Angelus dopo aver celebrato la messa nella parrocchia di Sant’Anna. Anche via della Conciliazione e molte strade limitrofe sono gremite di fedeli. Le parole del Papa arrivano anche lì, dove pur non vedendolo, la sua immagine e il suo sorriso sono ormai nei cuori della gente. E’ la domenica dedicata al perdono, alla misericordia di Dio Padre: «Eh, fratelli e sorelle il volto di Dio è quello di un padre missericordioso, che sempre ha pazienza! Avete pensato voi alla pazienza di Dio, la pazienza che Lui ha con ciascuno di noi? Eh, quella è la sua misericordia. Sempre ha pazienza: ci comprende, ci attende, non si stanca di perdonarci se sappiamo tornare a Lui con il cuore contrito». E’ la prima volta del suo "buona domenica e buon pranzo". Ancora una volta la folla è sorpresa, felicemente sorpresa dall’umanità del successore di Pietro. 19 marzo 2013 Nel giorno in cui la Chiesa celebra la solennità di San Giuseppe, Papa Francesco inizia il suo pontificato. Ancora una volta Piazza San Pietro spalanca le braccia accogliendo duecentomila fedeli giunti da ogni parte del mondo. Molte presenze argentine; altri, del suo paese d’origine, il Papa li ha invitati a rinunciare al viaggio e devolvere in beneficenza la somma prevista per il biglietto aereo. Si conferma l’uomo della carità: è così del resto che lo ricordono dalla sua terra natìa. Plaza de Mayo per l’occasione ha accolto migliaia di persone. Quattro maxischermi permettono ai fedeli giunti anche da fuori città di vedere e condividere la gioia di questo forte momento. L’applauso dalla piazza argentina si alza forte quando durante l’omelia, Papa Francesco chiede di essere vicini ai poveri, ai bisognosi. Non si smentisce quindi il valore che il Cardinale Bergoglio ha impresso alla sua missione di Pastore in Argentina. In San Pietro dopo aver indossato il pallio e l’anello piscatorio, il Papa e i Cardinali hanno raggiunto il sagrato della Basilica per l’inizio della messa. L’omelia il momento più atteso: venti minuti in cui Papa Francesco, ritorna spesso a San Giuseppe, custode di Maria e di Gesù: «Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza! Il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza». Nei Vangeli, san Giuseppe «appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, di amore». Con la stessa tenerezza sta rivelando alla Chiesa la straordinaria forza dell’amore essenziale, che si lancia tra le braccia della folla, del mondo, bisognosi di cure, sorrisi, parole calde, di testimonianza spontanea e non da cerimoniale. Grazie! n.3

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Jorge Mario Bergoglio Il Cardinale Jorge Mario Bergoglio, S.I., Arcivescovo di Buenos Aires (Argentina), nasce a Buenos Aires il 17 dicembre 1936. Studia e si diploma come tecnico chimico, poi sceglie il sacerdozio. L’11 marzo 1958 passa al noviziato della Compagnia di Gesù; compie gli studi umanistici in Cile e nel 1963, di ritorno a Buenos Aires, consegue la laurea in filosofia. Fra il 1964 e il 1966 è professore di letteratura e di psicologia. Dal 1967 al 1970 studia teologia presso la Facoltà di Teologia del collegio massimo «San José», di San Miguel, dove consegue la laurea. Il 13 dicembre 1969 è ordinato sacerdote. Il 22 aprile 1973 fa la sua professione perpetua. È maestro di novizi a Villa Barilari, San Miguel (1972-1973), professore presso la Facoltà di Teologia, Consultore della Provincia e Rettore del collegio massimo. Il 31 luglio 1973 viene eletto Provinciale dell’Argentina. Fra il 1980 e il 1986 è rettore del collegio massimo e delle Facoltà di Filosofia e Teologia della stessa Casa e parroco della parrocchia del Patriarca San José, nella Diocesi di San Miguel. Il 20 maggio 1992 Giovanni Paolo II lo nomina Vescovo titolare di Auca e Ausiliare di Buenos Aires. Il 27 giugno dello stesso anno riceve nella cattedrale di Buenos Aires l’ordinazione episcopale. Il 3 giugno 1997 è nominato Arcivescovo Coadiutore di Buenos Aires e il 28 febbraio 1998 Arcivescovo di Buenos Aires per successione, alla morte del Cardinale Quarracino. Autore di diversi libri. È Ordinario per i fedeli di rito orientale residenti in Argentina che non possono contare su un Ordinario del loro rito. Gran Cancelliere dell’Università Cattolica Argentina. Relatore Generale aggiunto alla 10ª Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (ottobre 2001). Dal novembre 2005 al novembre 2011 è Presidente della Conferenza Episcopale Argentina. Dal B. Giovanni Paolo II creato e pubblicato Cardinale nel Concistoro del 21 febbraio 2001. È Membro delle Congregazioni per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; per il Clero; per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica; del Pontificio Consiglio per la Famiglia; della Pontificia Commissione per l’America Latina.

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Miserando atque eligendo Papa Francesco ha deciso di confermare il motto, “Miserando atque eligendo” e, “nei tratti essenziali”, anche lo stemma che aveva come arcivescovo, caratterizzato da una lineare semplicità.

Lo stemma Lo scudo blu dello stemma papale è sormontato dai simboli della dignità pontificia (mitra collocata tra chiavi decussate d’oro e d’argento, rilegate da un cordone rosso), uguali a quelli voluti dal predecessore Benedetto XVI. In alto, campeggia l’emblema dell’ordine di provenienza del Papa, la Compagnia di Gesù: un sole raggiante e fiammeggiante caricato dalle lettere, in rosso, Ihs, monogramma di Cristo. La lettera “H” è sormontata da una croce; in punta, i tre chiodi in nero. In basso, si trovano la stella e il fiore di nardo. La stella, secondo l’antica tradizione araldica, simboleggia la Vergine Maria, madre di Cristo e della Chiesa; mentre il fiore di nardo indica san Giuseppe, patrono della Chiesa universale. Nella tradizione iconografica ispanica, infatti, san Giuseppe è raffigurato con un ramo di nardo in mano. Ponendo nel suo scudo tali immagini, il Papa ha inteso esprimere la propria particolare devozione verso la Vergine Santissima e san Giuseppe.

Il motto Il motto di Papa Francesco, “Miserando atque eligendo”, è tratto dalle omelie di San Beda il Venerabile, sacerdote (Om. 21; Ccl 122, 149-151), il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrive: “Vidit ergo lesus publicanum et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi Sequere me” (Vide Gesù un pubblicano e siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi). Questa omelia è un omaggio alla misericordia divina ed è riprodotta nella Liturgia delle Ore della festa di san Matteo. Essa riveste un significato particolare nella vita e nell’itinerario spirituale del Papa. Infatti, nella festa di san Matteo dell’anno 1953, il giovane Jorge Bergoglio sperimentò, all’età di 17 anni, in un modo del tutto particolare, la presenza amorosa di Dio nella sua vita. In seguito ad una confessione, si sentì toccare il cuore ed avvertì la discesa della misericordia di Dio, che con sguardo di tenero amore, lo chiamava alla vita religiosa, sull’esempio di Sant’Ignazio di Loyola. Una volta eletto vescovo, Bergoglio, in ricordo di tale avvenimento che segnò gli inizi della sua totale consacrazione a Dio nella Sua Chiesa, decise di scegliere, come motto e programma di vita, l’espressione di San Beda “Miserando atque eligendo”, che ha inteso riprodurre anche nel proprio stemma pontificio.


Diario di un Conclave di ANTONIO DI LORENZO Roma, 14 marzo 2013

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ono trascorse poche ore dall’annunzio del nuovo Pontefice e in me sono ancora presenti quei sentimenti di gioia e di entusiasmo che mi hanno avvolto ieri sera in piazza San Pietro alla vista della fumata bianca. Quando ad ottobre sono arrivato a Roma, non mi sarei mai aspettato di vivere un anno cosi emozionante. L’11 febbraio, quasi da incredulo, ho appreso la notizia delle dimissioni del Papa. In un momento di incertezza ho subito telefonato al mio vescovo Valentino Di Cerbo, che quasi faticava a credere a un tale gesto, che ha spiazzato il mondo intero. In me sono risuonati molti sentimenti, ma l’esempio di Benedetto XVI mi ha fatto capire come la nostra azione pastorale, qualunque essa sia, deve essere finalizzata esclusivamente al compimento - senza paure - della volontà di Dio e non dei nostri desideri. Una grande lezione per me che mi preparo a vivere l’inizio del mio ministero sacerdotale con l’ordinazione del 1 maggio. Mi è stato chiesto di comunicare ai lettori di Clarus le emozioni di questi giorni vissuti a Roma, dove mesi fa sono stato inviato a completare i miei studi: un’esperienza unica, che non ha paragoni. E’ da martedì che in piazza San Pietro sono stato avvolto da sentimenti di speranza e di fiducia, perché lo Spirito Santo, soffiando sui cardinali riuniti in conclave, potessero eleggere per la chiesa di Roma e del mondo un pastore secondo il cuore di Gesù. Dalle fumate del martedì sera e del mercoledì mattina sono tornato a casa quasi deluso, ma più motivato a pregare e a sperare nel Signore. Mercoledì, nel primo pomeriggio, mentre mi recavo ai Musei vaticani per assistere ad una lezione di Storia dell’Arte, vedevo fiumi

Da Piazza San Pietro il racconto dell’elezione del Papa. La folla, la festa e la preghiera che ha coinvolto il mondo di gente riversarsi in piazza San Pietro, quasi certi che ci sarebbe stata la fumata bianca. Anche il nostro professore era pronto a sospendere il corso in caso avessimo sentito le campane suonare a festa. Alla fine della lezione, mi sono ritrovato con degli amici presso il grande obelisco, al centro della piazza, con una folla di persone che non si sono fatte fermare nemmeno dalla pioggia che continuava a cadere. Quando, alle 18.30, ho visto che non c’era stata nessuna fumata, ho iniziato a sospettare che ormai era fatta e con il pensiero sono subito andato nella Cappella Sistina e quasi vedevo chiedere al nuovo "scelto" se accettasse l’elezione. Mentre fantasticavo, ecco il fumo bianco uscire dal più spiato comignolo del mondo. Descrivere la gioia e l’emozione di quel momento è impensabile: ero lì, presente di persona, a salutare il nuovo Papa, a vedere quella fumata che tutto il mondo ha visto grazie ai mezzi di comunicazione, a sentire il grande grido di esultanza della folla, che testimoniava una chiesa viva capace di superare ogni difficoltà… Qualche minuto più tardi, l’emozionante momento della presentazione al mondo del nuovo Pastore della Chiesa universale: Jorge Mario Bergoglio, che tutti conosceranno d’ora in poi come Papa Francesco. Padre Ugo, il mio animatore del Seminario di Posillipo, gesuita come il nuovo pontefice, me lo aveva presentato come una figura semplice e paterna, esattamente come lui si è presentato dal balcone della Basilica vaticana. Ho sentito quasi subito questo Papa vicino a me per due motivi: la mia vicinanza alla spiritualità ignaziana appresa al Seminario di Posillipo e alla Gregoriana di Roma dai padri gesuiti benemeriti curatori della mia formazione teologica e spirituale. Ma la cosa che mi ha emozionato di più è stato il nome del nuovo Pontefice, Francesco, come il poverello di Assisi, città dove è nata la mia vocazione; come il santo vescovo di Ginevra, patrono delle Suore Salesie che hanno curato la mia crescita nella scuola elementare di Alvignano e, infine, come il grande missionario della Compagnia di Gesù, che ho imparato ad apprezzare e ammirare negli anni di Posillipo. Un’esperienza fortissima che ha accomunato tutti i presenti è stata la preghiera: quando Papa Francesco ha chiesto di pregare per il “Vescovo emerito di Roma” e per invocare su di sé la benedizione del Signore, sulla piazza è calato un silenzio surreale. Si sentiva solo l’acqua delle due grandi fontane… Quella del 13 marzo 2013, è stata una serata unica, vissuta nella semplicità e nel clima festoso e intenso da una Chiesa, che nonostante cerimoniali antichi e suggestivi, continua a rinnovarsi nella forza dello Spirito Santo. n.3

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Approfondimento

La Pasqua che ci muove di VALENTINO, Vescovo

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asqua non è una ricorrenza da commemorare, ma un evento che ci riguarda e vuole coinvolgerci. Il mistero della Morte e della Resurrezione di Gesù, infatti, ci ha plasmati dal momento del Battesimo, quando nel segno dell’immersione/emersione dall’acqua, “siamo stati sepolti insieme con lui nella morte, affinché come Cristo fu risuscitato dai morti… anche noi possiamo camminare in una vita nuova”. “ (Rm. 6, 3). In virtù di quel dono gratuito, nel cristiano è entrato un dinamismo che lo spinge a morire all’egoismo e al peccato e ad aderire all’esperienza pasquale di Gesù, che porta alla vita nuova. Celebrare la Pasqua annuale significa riappropriarsi di quel dinamismo, capace di rendere uomini che, seguendo Gesù, rinunciano al fascino di false sicurezze e si affidano completamente a Dio. Se oggi infatti celebriamo risorto e vivente Gesù di Nazareth, è perché la sua vita non si è chiusa in sé stessa, ma egli ha messo al primo posto il progetto di amore del Padre sulla storia: un progetto di libertà, di dignità, di autenticità, di giustizia, di accoglienza, di fraterna comunione tra gli uomini… e, rifiutando tutte le alternative, lo ha portato avanti fino in fondo, mettendo anche a repentaglio la propria vita, anzi donandola di proposito perché quel progetto, realizzandosi, potesse ridonare alla vicenda umana la propria bellezza. La Risurrezione sconfigge le illusioni e le pretese di quanti volevano soffocare i sogni dell’uomo Gesù, appendendolo sulla croce e seppellendo la sua esperienza sotto una pietra tombale, e rappresenta la vittoria della vita, che il Padre realizza vanificando progetti legati al potere, all’egoismo, all’umiliazione dei propri simili, al rifiuto della ricchezza della diversità… La morte di Gesù non è un episodio isolato, ma il culmine e la sintesi della sua vita e la risurrezione ne rappresenta l’approvazione da parte di Dio e, quindi, la riuscita. Dalla Pasqua in poi, chi cerca sinceramente di rendere buona la propria vita, non può non confrontarsi con l’esperienza di Gesù, continuamente. Senza questo confronto si rischia di cadere nella banalità e di trasformare la vita da benedizione, in maledizione per sé e per i fratelli. Il mistero d’amore contenuto nella Pasqua ci viene ripresentato ogni volta che celebriamo l’Eucarestia, in cui è contenuto. Partecipare alla Messa significa accogliere il dono di quella vita “offerta in sacrificio”, di quel gesto d’amore infinito per i fratelli e impegnarsi a riproporlo nella storia di ogni giorno. Significa altresì rientrare, dopo l’illusione del peccato, in quel dinamismo pasquale ricevuto nel Battesimo, quando a ogni cristiano è stata donata la grazia di assomigliare a Cristo morto e risorto e di ricalcarne le orme, per costruire un mondo secondo i sogni di Dio.

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Sette più uno di EMILIO SALVATORE

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i pasqua in pasqua la Bibbia racconta il cammino, il dinamismo che Dio imprime alla storia affinché essa faccia il suo esodo, il suo percorso di maturazione verso il compimento della speranza che Egli ha predisposto per l’umanità intera: vivere la comunione con Lui e la fraternità universale, in una straordinaria primavera che coinvolge anche la terra e il cosmo. Nella Bibbia sono documentate le celebrazioni di sette grandi Pasque. La prima è quella celebrata in Egitto prima che Dio liberasse il suo popolo dalla schiavitù. La parola Pasqua, in ebraico pesach, indica “passare oltre”. Così narra il libro dell’Esodo (Es 12:25-27): «Osserverete quest’usanza anche quando sarete entrati nella terra che il Signore ha promesso di darvi. Allora i vostri figli vi chiederanno: Qual è il significato di quest’usanza?». Ancora oggi il racconto (haggadah) della pasqua che il capofamiglia ebreo ripete durante la cena pasquale (seder) spiega cosa rende “speciale” quella notte: «Noi fummo schiavi in Egitto e di là ci fece uscire il Signore Dio nostro, con mano potente e braccio teso». L’evento del passato è presente. La Pasqua è un’esperienza. La seconda pasqua è quella nel deserto del Sinai, nel secondo anno dall’Esodo (Nm 9,1-4), una pasqua ancora itinerante, celebrata in cammino verso la terra promessa. La terza è quella nella Terra Promessa, dopo quarant’anni di peregrinazione nel deserto. Il luogo di tale celebrazione è presso Gerico, prima di entrare e distruggere la città (cf Gs 5,9). La quarta pasqua è quella del popolo che nell’VIII secolo prima di Gesù, il re di Giuda, Ezechia, invita a celebrare a Gerusalemme, dopo che il culto del vero Dio, dopo tante forme idolatriche, fu da lui ripristinato (2Cr 30). La quinta è quella vissuta nel VII sec. a Gerusalemme, quando il re di Giuda, Giosia, sente il bisogno di ridare centralità al tempio di Gerusalemme, di riportare al cuore della fede di Israele la relazione con Dio, contro ogni dispersione e formalismo. La sesta pasqua è quella ancora più drammatica, quando il popolo di Israele di ritorno dalla

schiavitù di Babilonia avverte il bisogno di ritrovarsi e la vive nel VI sec. a Gerusalemme (cf Esd 6,20-22): è una Pasqua di rinascita, di ricostruzione. La settima pasqua è, infine, quella celebrata da Gesù a Gerusalemme il 14 del mese di Nissan con molta probabilità dell’anno 30. Questa pasqua vede sostituirsi alla memoria dell’esodo, un nuovo patto, quello nella persona di Gesù, il Messia di Israele, che con la sua offerta libera, si mette nelle mani dei nemici, per diventare l’Agnello senza macchia (cf Gv 19,31-34), sgozzato e in piedi come attesta il libro dell’Apocalisse (5,6-10). Per i cristiani la pasqua non è solo il compimento delle attese del popolo di Israele, ma è il futuro che si fa presente, che irrompe nella nostra storia dandole una svolta definitiva. Il patto ricordato e rinnovato ora diventa definitivo. Per noi la Pasqua è, in definitiva, una persona, il Figlio che per amore del Padre si dona all’umanità, facendosi via pasquale, strada per l’esodo definitivo. Dirà Paolo: «Cristo nostra Pasqua è stato immolato!» (1Cor 5,7). Celebrare la Pasqua significa attraversare la storia lasciandosi guidare dal Dio che è in cammino dinanzi a noi, ricordare le meraviglie da lui compiute nel passato, celebrare il compimento, nel Signore, morto e risorto per noi (come vivremo nella Veglia pasquale), ed infine vivere la vita nuova da credenti, che con il battesimo, ci ha redenti, riscatti, ci ha resi nuovi nella mente e nel cuore. Noi siamo dunque dentro quello spazio celebrativo che è Cristo, la nostra Pasqua, sino a che, caduta, l’ultima ombra, l’ultima resistenza, l’ultima esitazione, la pasqua, l’ottava, se volete, rinnoverà cieli e terra, e ci introdurrà nella città senza porte né finestre, ove la Pasqua è il per sempre (Ap 22, 1-5).

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la CHIESA e la storia

La fede del Presbitero di ANDREA DE VICO

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uando cambia il Papa non è che “se ne fa un altro”, ma cambia la Chiesa, ci sono delle svolte importanti nella Sua vita. Il volto attuale del Papa è il volto della Chiesa. Paolo VI ha mostrato il volto dialogico della Chiesa, l’ottimismo del Concilio, anche se negli ultimi tempi sembrava preoccupato, come se la Chiesa gli stesse sfuggendo di mano. Giovanni Paolo I è stato una meteora, eppure anche lui ha avuto un suo ruolo, presentando il volto lieve di una Chiesa che sorride agli uomini, disposta a spogliarsi di certe pesantezze. Giovanni Paolo II è un gigante che si è mosso in tutti gli angoli della terra, tracciando per la Chiesa la strada del III millennio. Papa Benedetto è stato mandato dal Signore per rafforzare la fede, difatti la fede è il vero problema di oggi. Abbiamo ancora il dono della fede? Il più delle volte si tratta di una fede appiccicaticcia, solo sociologica, buona per essere esibita nelle processioni. In realtà le forze, le vocazioni si sono dimezzate. Tutte le Diocesi e gli istituti religiosi del mondo avvertono il colpo. Le contestazioni al Magistero si sono amplificate, soprattutto in alcuni punti delicati dell’etica. Se guardiamo ai risultati dei referendum popolari sul divorzio e l’aborto, c’è da dire che non si pensa più secondo la fede. Oggi la gente si è persino assuefatta agli scandali pubblici, i politici si vantano delle porcherie che fanno, e i cattolici non dicono più nulla! Perché questa Chiesa è stanca? Perché il coraggio della profezia è venuto meno? Il Vaticano II, cinquanta anni fa, si annunciava come una vera Pentecoste: aria nuova, desideri nuovi, un entusiasmo mai visto prima, tutte cose affievolite nel tempo. Nel sentire comune, si dice che il mondo va male, che viviamo tempi oscuri, eppure sono proprio questi i tempi del cristiano! Se tutto andasse per il verso giusto, i cristiani che motivo avrebbero ad esserci? Più fonda è la notte, più brillano le stelle! Un cristiano pessimista è un cristiano che non crede più. Un prete scoraggiato è uno che ha perduto la fede! Non ci pensiamo più che il mondo è destinato alla salvezza? Abbiamo dimenticato che con il Battesimo siamo diventati figli della luce? Se sapessimo vigilare come ci chiede il Vangelo, lo Spirito ci mostrerebbe le novità che si aprono al futuro, nuove speranze, la certezza sempre più condivisa che i popoli hanno un destino comune. Siamo consapevoli di vivere un periodo di purificazione, o interpretiamo gli eventi in un modo pessimistico, manifestando di aver perso la fiducia? Non è la prima volta che la Chiesa va in crisi. Nel passato, la Chiesa umiliata ha conosciuto successive stagioni di slancio rinnovato, per cui possiamo pensare che non ci troviamo di

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spiegata ai sacerdoti di Alife-Caiazzo da Padre Bartolomeo Sorge. Tre giorni di approfondimento sulla storia del Concilio Vaticano II e le nuove "Strategie" per una Chiesa rinnovata

fronte a una Chiesa che finisce, ma a una Chiesa in travaglio! Non si tratta di un’agonia, ma di un parto! Non di un declino, ma di una purificazione! Cinquant’anni fa queste sfide non erano previste, eppure lo Spirito è tanto grande che ci ha dato il Concilio, con tutte le premesse per affrontare la crisi. Lo Spirito rinnova la Chiesa e la porta alla purezza delle origini, perché torni ad annunziare il Vangelo. Potremmo dire che tornano i tempi apostolici, tornano le sfide delle prime comunità, tornano i medesimi interrogativi, e il Signore risponde con nuovi Santi e nuovi doni di santità! Se ci guardiamo indietro, la lunga stagione della cristianità, quella che idealmente collochiamo tra Costantino e la Rivoluzione Francese, è finita. L’alleanza tra il trono e l’altare è una cosa sepolta per sempre. Nel frattempo la sfida della modernità ha preso sempre più consistenza. Questa modernità ha dichiarato i diritti universali dell’uomo, ha raggiunto traguardi tecnico scientifici inimmaginabili, ma si è sviluppata nel senso di una cultura neopagana soprattutto nel campo dell’etica. Con questo cammino alle spalle, arriva il Concilio Vaticano II, il ventunesimo, che ha proiettato la Chiesa avanti nella storia, in tre ripetuti balzi. In primo luogo il mutamento della visione stessa della Chiesa: dalla eccle-


Il Concilio

«inizio della nuova evangelizzazione»

siologia societaria siamo passati all’ecclesiologia di comunione. Con il Vaticano II, la Chiesa non è più un tempio chiuso, ma una comunità aperta, popolo di Dio in cammino nella storia. L’istituzione è subordinata alla comunione, l’autorità al servizio. Il Vescovo non è il prefetto del Papa, e la Curia è al servizio della comunione. Il secondo balzo: c’è stato uno spostamento di accento dalla verità astratta alla dimensione storica. L’incarnazione si compie infatti nella storia dell’umanità. L’idea di un “depositum fidei” che assomiglia a uno scrigno chiuso, sigillato, è una visione astorica, fuori del tempo. Il Concilio parla di una fedeltà dinamica, che tenga conto della evoluzione e del contesto storico delle verità rivelate. La fede non è una cultura, ma va inculturata. Il terzo balzo: la rivalutazione delle realtà terrene. Prima del Concilio i laici venivano semplicemente considerati degli “ausiliari del clero”. Da un lato c’era la Gerarchia, e dall’altro lato la “moltitudine” che aveva il privilegio di lasciarsi guidare dalla Gerarchia. Con il Concilio, i laici non sono più “delegati” o “ausiliari” del parroco, ma ricevono da Cristo il loro compito: essi partecipano del sacerdozio di Cristo. Potremmo dire che le vocazioni sono diminuite perché lo Spirito ci obbliga a fare delle scelte profetiche: valorizzare i laici nella vita apostolica. Eppure anche su questo punto siamo in ritardo. Pur avendo una bella dottrina sullo status dei laici nella Chiesa, non ci fidiamo ancora di loro, trattiamo i laici da figliocci, temiamo di affidare certi compiti alle donne. Maritain aveva proposto l’etica come campo di mediazione tra fede e politica, per ri-cristianizzare la società. In questo modo la Gerarchia avrebbe nuovamente avuto la possibilità di intervenire in politica, attraverso l’etica. Il Concilio ha detto no a questa proposta: la Gerarchia deve illuminare le coscienze, la scelta politica spetta ai laici. Il laico deve comportarsi tenendo conto del Vangelo, dei valori non negoziabili. La politica è l’arte della mediazione, e il laico cristiano lavora per mediare tra i valori e la legge. Per questo i cattolici non devono abbandonate il campo, devono avere il coraggio di parlare come cristiani e come cittadini, in nome di scelte nate dal confronto con altri laici, formulando

proposte comprensibili e accettabili anche da chi non crede. Il laico maturo sa distinguere i principi etici dall’azione politica Non tocca dunque ai preti dire che cosa i laici devono fare in politica o in economia, o per chi votare: a noi tocca illuminare le coscienze, formare a una fede adulta. La vecchia Democrazia Cristiana ha fatto un gran lavoro, ma è stata superata dalla storia. I cattolici erano più preparati degli altri, grazie ai grandi principi del personalismo, della sussidiarietà, della socialità. Sono uomini che hanno fatto la Costituzione. E’ triste vedere che i nostri laici di oggi, in un Parlamento clientelare, di fronte a leggi ad personam e comportamenti immorali, non hanno reagito. Dopo queste ultime elezioni, ci troviamo di fronte a una democrazia in stallo, una democrazia in evoluzione, ma ferma. Il vecchio non è ancora morto, il nuovo non è ancora nato. Se la Chiesa vuol ritrovare lo slancio delle origini, deve essere una Chiesa libera, povera, profetica. Il rinnovamento era iniziato, ma ora a che punto siamo? Dalla magistrale esperienza di Padre Bartolomeo Sorge emerge un’immagine di Chiesa disposta a rinunciare a tanti orpelli e pesantezze storiche, pur di annunciare il Vangelo, forte solo del suo Signore, che dice: “Andate, perché io sono con voi...” Questo appello lo dovremmo sentire nel cuore! Riprendiamo fiducia, non siamo soli, non siamo allo sbaraglio! Il Concilio vuole un laicato maturo. Tutto quello che faremo nella formazione del laicato significherà il futuro della Chiesa e della società. Il Signore ne ha “fatti” dodici, un piccolo gregge, un lievito della storia, una luce per il mondo. Non importa essere tanti, importa essere accesi! n.3

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CHIESA che vive

Il Movimento per la Vita “Santa Gianna Beretta Molla” della Diocesi di Alife-Caiazzo con volontari e studenti ad Alife per una serata di sensibilizzazione

di ARTURO BUONGIOVANNI*

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a serata trascorsa con gli amici di Alife e Piedimonte Matese è stata per me una piacevole occasione di conoscenza e di confronto con una realtà ricca di fervore volontaristico e umano, per la quale colgo l’occasione di felicitarmi ancora con sua Ecc.za il Vescovo, di cui ho avuto modo di apprezzare la profonda sensibilità per l’argomento affrontato, ovvero la tutela del bambino concepito e non ancora nato. Questo bambino, in occasione dell’incontro, lo abbiamo idealmente osservato crescere nel ventre materno, rapidamente e meravigliosamente. Questo bambino è a tutti gli effetti uno di noi. I bambini concepiti, che alla fine della terza settimana di vita hanno già un cuoricino che batte, hanno la stessa dignità dei bambini già nati, ma non vengono trattati con le stesse attenzioni e con lo stesso rispetto. Infatti quando veniamo a sapere che un bambino già nato è a rischio vita, noi ci allarmiamo, ci preoccupiamo, e se possibile ci attiviamo per cercare di evitare che muoia. Quando invece ad essere a rischio è un bimbo non ancora nato, noi reagiamo diversamente. Quando uno di questi bimbi rischia di essere abortito, noi tendiamo a restare al nostro posto, in una sostanziale indifferenza. E’ questo il dramma. Il dramma non è solo o tanto il fatto che ci sia una legge che permette di abortire liberamente, il dramma più grande è l’indifferenza sociale che accompagna gli aborti. E questa indifferenza uccide, uccide non soltanto i bambini – circa 120.000 ogni anno -, ma anche la pace delle loro madri. Noi tutti sappiamo che nessuna donna vuole davvero convintamente abortire, sappiamo che ogni donna che si avvicina all’aborto è in lotta con se stessa, tra la parte di sé che riconosce il concepito come figlio e vorrebbe accoglierlo, e la parte di sé che è schiacciata dalla solitudine, dalla paura del futuro, dalle difficoltà familiari, dal disagio economico. Se vogliamo davvero bene alle donne, con rispetto e con amore dovremmo fornire loro un’ alternativa all’aborto,

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Uno di noi

un’alternativa frutto di aiuto concreto: aiuto psicologico, affettivo, materiale, affinchè le mamme in difficoltà che incontreremo sul nostro cammino scelgano per la vita e non per la morte. Non solo. Per aiutare queste mamme e i loro bambini dovremmo impegnarci per una grande opera di sensibilizzazione culturale. C’è infatti bisogno di ricordare alla nostra società così superficiale e distratta una grande verità: il bambino


concepito è davvero uno di noi. Se riusciremo a prendere piena coscienza di questa realtà, possiamo sperare in un effetto a cascata: le singole persone saranno più sensibili, e quando si imbatteranno in una mamma in difficoltà non saranno più indifferenti; molte più persone decideranno di impegnarsi nel volontariato per aiutare le mamme in difficoltà, i nostri politici inizieranno a occuparsi seriamente di questa urgenza; il risultato sarà che migliaia di bambini ogni anno verranno salvati, e migliaia di mamme verranno preservate dal trauma dell’aborto, ferita che purtroppo non scompare. Dobbiamo quindi fare opera di verità: il bambino concepito è un essere umano come ciascuno di noi e per questo gli va riconosciuta la stessa dignità. Per questo il Movimento per la

Vita italiano ha promosso la raccolta di firme “Uno di noi”: vogliamo che le istituzioni europee discutano e affermino questo principio: il concepito è uno di noi. Invito pertanto ciascun lettore a farsi protagonista di questa importante iniziativa, i cui dettagli troverete sul sito della nostra associazione www.mpv.org. Questa iniziativa è importante non solo per le firme che verranno raccolte, ma anche perché ci dà l’opportunità per organizzare occasioni di dibattito, approfondimento, sensibilizzazione sul tema della vita nascente. L’augurio e l’appello è per un impegno di ognuno di noi, e la speranza è di incontrarci ancora, uniti sulla strada dell’amore per i bambini e per le mamme. *Vicepresidente Movimento per la Vita - Lazio

Da sinistra: Antonio Pintauro, Movimento per la Vita Campania; Arturo Buongiovanni, Movimento per la Vita Lazio; Angela Zoccolillo, Movimento per la Vita Diocesi di Alife-Caiazzo; S.E.Mons. Valentino Di Cerbo vescovo di Alife-Caiazzo; Isabella Balducci, Dirigente IPIA Alife. Nella foto a destra il camicino della vita e il camicino battesimale.

Studenti e volontari del Movimento hanno presentato il proggeto "Il camicino della Vita" Si è svolto, presso l’Istituto Professionale per l’Industria  e l’artigianato di Alife, l’iniziativa “ Il camnicino della vita”, nata nell’ambito del corso Opion leader rivolto agli studenti delle scuole  superiori del territorio curato del Movimento e Centro per la vita “Santa Gianna Beretta Molla” con sede a Piedimonte Matese, di cui è responsabile Angela Zoccolillo. Il Camicino della vita (oltre alla veste battesimale) è un grazioso capo, preparato, ricamato e cucito da alunni e docenti del "settore moda" dell’Istituto professionale e da volontarie del Movimento per la Vita. Riporta il logo del Movimento, cioè delle braccia aperte a formare un cuore. Il ricavato della vendita – attraverso il Movimento diocesano - aiuterà nelle forme opportune le tante mamme protagoniste di gravidanze difficili. All’incontro hanno preso parte il Vescovo della Diocesi Alife-Caiazzo Mons. Valentino Di Cerbo, Antonio Pintauro e l’avvocato Buongiovanni Arturo, rispettivamente rappresentati del Movimento per la Vita di Campania e Lazio. In chiusura l’esibizione dei musicisti del laboratorio artistico del Movimento: Sally Cangiano direttore artistico dell’Osservatorio giovani della Campania (Movimento per la Vita), Angelantonio Feola collaboratore Opinion leader e infine la band giovanile The emergency exit Annarita Zulla

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nelle persone e nei luoghi Casertano Prata Sannitadeg to li angoli piÙ suggestivi dell’Al

uno Storia, geografia e ricordi di

i intorno al centro I reperti archeologici rinvenut Cap 81010 insediamenti umani al abitato fanno risalire i primi Abitanti 1.605 e meglio databili sono Paleolitico. Molto più consistenti ibili al periodo che Superficie 21,12 kmq rifer ana, i ritrovamenti di epoca rom o visto la luce hann Densità demografica 76 ab/kmq che e d.C. III al va dal II sec. a.C. Altitudine centro 333 m s.l.m. one di alcune strade durante gli scavi per la costruzi Lat 41°25’55” N occasione dei lavori di nella zona Acquaro e poi in ze: oltre ai ruderi di Long 14°12’12” E Star Le metanizzazione della zona miche, fu rinvenuta cera e issim eros un frantoio e alle num di una villa rustica; a la pavimentazione in mosaico ro abitato ubicato in nuclei questa epoca risale in primo cent Il comune comprende due che le incursioni one o supp o borg contrada Sant’Agostino. Si abitativi: Prata Inferiore, tipic diarsi nell’attuale inse ad ello anti cast abit al gli Saracene portarono medievale, arroccato intorno prima dell’anno Mille. su un borgo nei pressi del Lete già di epoca normanna, poggia ento di Sant’Agostino la valle Operante già dal 1310, il Conv costone di roccia che domina punto di riferimento un o 500 fu per gli abitanti del luog dove scorre il fiume Lete. A circa riva lo sviluppo degli favo eo ro, nucl l’alt o tra essenziale poiché, metri dal borgo, sorge il nuov una fiera “reale” quando, scambi commerciali organizzando abitativo. Nato intorno al 1500 agosto). Intanto (28 o vie più proprio nel giorno dedicato al Sant per esigenze di spazio e di che durò per one Pand i i Cont ziars si affermava la signoria dei ampie, la popolazione iniziò a stan si estendeva ato abit ro te cent il inan tre dom circa 200 anni men su un pianoro in posizione . Superiore Nel periodo Fulcro fino all’area dall’attuale Prata rispetto alla pianura sottostante. ressata dal fenomeno Piazza dell’unificazione la zona fu inte di Prata Superiore è la principale la Seconda Guerra nte a dura onim del brigantaggio, mentre S. Pancrazio dove si trova l’om le truppe alleate per sia al tare rno mili into mondiale fu presidio Chiesa parrocchiale edificata che per quelle tedesche. XVI secolo. asannita.it ibile iung ragg è a Prat di Cfr.: www.gruppoarcheologicoprat Il comune a Rom attraverso l’autostrada A1: da o e da uscendo a S. Vittore del Lazi Vairano a ndo usce Napoli e Caserta ria più ovia ferr ione staz Caianello. La incia prov in fro, Vena di la quel è a vicin tti dire enti di Isernia, che offre collegam verso Roma e Napoli.

COMUNIcando

La scelta di aprire una finestra sui Comuni del territorio nasce dalla volontà di “dare voce” ai luoghi, alle abitudini, alla gente che li abita, riscoprendo di essi ricchezze umane e culturali talvolta viste ma mai osservate, conosciute ma mai approfondite. Il nuovo "progetto" che Clarus lancia intende favorire anche la collaborazione e la condivisione tra coloro che nei comuni e nelle parrocchie costituiscano una mini-redazione per la realizzazione di pagine come queste. Clarus ringrazia la redazione de “L’Anima della Speranza” gioranlino parrocchiale di Prata Sannita per la disponibilità offerta per questo primo lavoro.

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Lo storico Convento dei Servi di Maria e Padre Girolamo Russo

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opinione consolidata che il convento fu fondato nel 1460. Attiguo al fabbricato a forma quadrangolare, un appezzamento di terreno di circa 9000 mq., recintato con muro, segna la delimitazione con proprietà privata e via pubblica. Al centro del chiostro – a pianta quadrata con portici, capitelli e colonne – insiste una cisterna nella quale un tempo si convogliavano le acque piovane. Intorno sono distribuiti la chiesa, vari ambienti adibiti a deposito e cantina, il refettorio, la cucina e i dormitori al primo piano. Nel 1809, a seguito di soppressione degli ordini religiosi, lo stabile, divenuto di proprietà comunale, fu adibito a sede del municipio, scuola elementare maschile, caserma dei Regi Carabinieri. Con delibera del 1904, l’Amministrazione Comunale concesse in enfiteusi al vescovo di Alife la struttura conventuale e l’adiacente giardino. Così, dopo un lungo periodo, il sacro edificio tornò alla sua “naturale” funzione e assegnato all’Ordine dei Servi di Maria .

Ed è qui che il servitano Padre Girolamo (al secolo Gaetano) Russo (Cimitile 1885 – Saviano 1970) operò in due distinti periodi, con illimitata e silenziosa carità soprattutto a favore dei giovani, di cui sapeva intuire le inquietudini, e i poveri. Ordinato sacerdote il 10 giugno 1911, fu destinato a Prata nell’imminenza della deflagrazione del primo conflitto mondiale dove, fervente predicatore, fu maestro nello studentato dei novizi che aspiravano al sacerdozio. Soldato e infermiere nella “Grande Guerra”, tornò nella sua Prata negli anni ‘30 dove nella istituita casa di formazione per studi elementari e medi fu maestro di giovani pratesi e dei paesi viciniori. Un suo ex alunno ricorda come Padre Girolamo riuscisse a richiamare intorno a sé tanti giovani del paese, iniziandoli, oltre al corso di studi, ai giochi degli scacchi e della dama e alle recite teatrali; come nel corso di passeggiate in campagna impartisse lezioni di botanica; come costituisse, con l’aiuto del maestro Sabatino Pistocco, la schola cantorum; come provvedesse a far costruire una sia pur rudimentale piscina per l’esercizio del nuoto. Prata Sannita, grata, ancora oggi lo ricorda.

Prata da girare Chiesa di Santa Maria delle Graz ie Sulla facciata si osserva un portale di stile gotico realizzato in pietra locale sormontato da un rosone romanico. All’interno della Chiesa a nava ta unica è ammirabile uno splendido fonte battesimale in pietra scolpita.

Il Castello lo trecentesco, tiL’ attuale aspetto del castello è quel . Per accedervi, oina pico dell’architettura militare angi elle si percorre Port entrando nel Borgo attraverso via terminano su che una gradinata in pietra con tornanti a parte del buon ina una spianata dalla quale si dom lo primitivo quel ca Borgo. Lo schema planimetrico rical un cortile; ad no intor di forma rettangolare e si articola mentre il i pian tre su le stanze abitate sono distribuite servidella li loca i piano terreno ospitava anticamente preè ine cant delle tù e alcuni depositi mentre il vano base alla a post è che ceduto dalla stanza della prigione no il museo storico della. “Torre piccola”: Al suo inter , quello della cidiale della Prima e Seconda Guerra Mon eo del vasaio. mus il viltà contadina e dell’artigianato e

La Chiesa di San Pancrazio Nella piazza centrale del paese. Il portale d’accesso, in pietra lavorata, reca in alto un’edicola con ai lati due soli sfolgoranti, probabili simboli dei Cavalieri Templari. Dati gli innumerevoli interventi di restauro sono presenti diversi materiali riutilizzati, molto più antichi della Chiesa stessa, come il portale laterale raffigurante Cristo arricchito con motivi geometrici e floreali, in stile longobardo, e tre teste di leone poste nella parte superiore della facciata.

L antica cartiera tture funo visibili i locali e le stru In località “Grotta”, son un ruolo va cinquanta. Essa svolge zionanti fino agli anni to con le tut rat mia del posto, sop fondamentale per l’econo e e prodai cal na per alimentare le attività dell’indotto: leg produsi poi l’impasto dal quale durre energia e calce per tivo trasporto. ceva la carta con il rela

Il mulino Lungo il fiume Lete, nei pressi del ponte romano, in località Porta di Lete, possiamo ammirare il mulino ad acqua appena ristrutturato dove fino agli anni cinquanta si macinava il grano e gli altri cereali prodotti in loco. Presto l’edificio ospiterà un museo di archeologia industriale.

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Il castello di Prata

storia e leggenda e identità

l’intervista

Il Castello di Prata Sannita ha un’anima di origine longobarda, costruito inizialmente per la difesa dagli attacchi saraceni, venne raso al suolo nell’863 e riedificato in epoca normanna per volere dell’allora feudatario Giordano, figlio di Rainulfo Conte di Alife, e successivamente ampliato per volere di Carlo I d’Angiò. Numerosi furono le famiglie che si succedettero negli anni: i Capuano, i Sanframondo e i Pandone, poi i Rota agli inizi del 500, gli Invitti agli inizi del 600, che lo detennero fino al primo decennio del XIX sec. Da circa 150 anni appartiene alla Famiglia Scuncio. A rispondere a quest’intervista è la Signora Lucia Daga Scuncio, l’attuale curatrice che si ringrazia per la disponibilità. Una dimora di mille anni stimola l’immaginazione verso storie fantastiche. Ci sono aneddoti o particolari leggende in merito al Castello? Qualche visitatore crede di scorgere furtivi passaggi di antiche figure, uomini o donne che si manifestano silenziosamente e spariscono velocemente, questo contribuisce a rendere la loro visita più suggestiva. La nostra Famiglia preferisce ricordare presenze confermate storicamente, come ad esempio la vicenda amara fra Maruzza Capuano Pandone ed il figlio Francesco al quale fu impedito di rientrare nel castello dai figli di secondo letto della madre. Gli abitanti del Borgo imposero la presenza di Francesco, amatissimo dalla Casa regnante d’Aragona, costringendo la madre e i fratellastri a rifugiarsi per sempre nel feudo di Bojano. Lei crede che la collettività pratese ritrovi nel Castello la propria identità? Non sappiamo, per la verità, se e quanto la collettività pratese ritrovi nel Castello la propria identità, certamente noi siamo stati sempre disponibili ad un dialogo aperto, consapevoli come la proprietà privata del bene abbia favorito una maggiore attenzione e cura del bene stesso così come sappiamo che con la nostra presenza fattiva sul territorio abbiamo favorito indotti economici anche se, duole dirlo, nell’indifferenza, nel corso di tanti anni, di amministratori che benevolmente si possono definire “distratti. Ci sono progetti per il futuro che interessano la struttura? “I progetti per una simile Dimora non possono prescindere dal fatto che questo monumento suscita grande interesse culturale ed è inoltre sottoposto a vincolo dal 1984. Il cammino di cura e di restauro applicato, in pieno accordo con la Soprintendenza competente è stato condotto in contemporanea con il progetto di restituire alla comunità locale la consapevolezza di condividere un patrimonio storico, culturale ed artistico. Ecco il senso della presenza dei Musei ospitati all’interno, i quali sono citati e illustrati sul sito dedicato ai Musei dalla Regione Campania e riconosciuti con l’assegnazione del Patrocinio del Ministero per i Beni Culturali.” Attualmente come si usufruisce di questo bene? E’ conosciuto attraverso la stampa e da varie Istituzioni sul territorio nazionale ed europeo, è aperto alle visite da Aprile ad Ottobre, il secondo sabato di ogni mese. Per le Scuole, per Associazioni culturali e Gruppi di studio è necessaria una prenotazione. I gruppi ammessi alle visite non possono superare 40-45 unità. Eccezionalmente, soprattutto per le Scuole di Prata o dei paesi vicini, può essere aperto anche in inverno. Per visitare il Castello: lucia.daga@libero.it 0823/94.10.80 (Prata Sannita); 06/86.32.60.43 (Roma). Chi scrive ricorda inoltre la disponibilità dimostrata dalla Famiglia Scuncio per l’organizzazione di eventi locali, come rievocazioni storiche o il “Presepe vivente pratese”.

Hanno lavorato a Comunicando per la pagina di Prata: Antonio Bisignano, Antonio Girardi, Rosetta Riccio, Antonella Russo, Federica Solimena, Mariangela Testa, Chiara Testa.


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ATTUALITA′ e territorio

In cerca di ascolto, voce e visibilità

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tutto pronto a Pontelatone, da diversi mesi. Si attendono, ancora, gli ultimi cavilli burocratici e prima di tutto l’ok dell’Ambito Sociale. Ad essere sul trampolino in attesa del lancio è il “Progetto Sentinella”, un’idea che fa capo all’avviso pubblico regionale “Giovani attivi” dell’agosto 2011, bando che ha raccolto nel territorio dell’alto ca-

sertano cinque proposte dedicate e provenienti dal mondo giovanile, per sollecitare la partecipazione dei ragazzi allo sviluppo della propria comunità e farsi così sostenitori di iniziative giovanili legate ai temi della solidarietà e dell’impegno civile; il tutto per il tramite dell’Ambito sociale C6. Opportunità interessante, senza dubbio, per le fasce più giovani della comunità di una cittadina come Pontelatone, che il Comune, attraverso l’impulso della delegata alle Politiche giovanili Giuseppina Luongo, ha voluto cogliere elaborando in pochis18

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A Pontelatone, il caso di un progetto per giovani che decolla a fatica. Ci sono le idee e il coraggio ma la burocrazia la fa da padrona di ROCCO COSTANTINI

simo tempo un progetto assieme a un gruppo di dieci ragazzi. Fin qui, è la storia di un’amministrazione locale attenta alle occasioni proposte dall’Ente regionale, e che guarda con interesse alle nuove generazioni. A un anno dall’approvazione del progetto – febbraio 2012, beneficiario al 71 posto su 200 in graduatoria – tutto però stenta ancora a partire, e il gruppo di lavoro oggi non nasconde un calo di motivazione e stimoli che invece caratterizzavano i primi giorni di attività organizzativa. Non tutto è andato come previsto. I fondi assegnati per il progetto sentinella (25mila euro a valere sui fondi Por Fse 2007-2013, per finanziare tutte le spese e in parte il lavoro dei giovani) non sono stati ancora elargiti, e anche la macchina burocratica, più fumosa e macchinosa del solito, ha dato pochi segni di vita daPiedimonte Matese, comune capofila, mentre in altre realtà regionali gli stessi progetti sono partiti e si avvicinano alla conclusione. A Pontelatone il progetto è stato pensato ricco di eventi da promuovere, da convegni a iniziative di carattere educativo, sino alla creazione di un Osservatorio sulla sicurezza urbana, con il coinvolgimento di enti, associazioni, parrocchie e scuole, per offrire ai giovani del paese un’opportunità di esperienza formativa e lavorativa, sociale e organizzativa, e fare così qualcosa di positivo per la comunità. Uno scenario rimasto congelato troppo a lungo, e per il quale si profila pure un ridimensionamento, poiché da Piedimonte hanno imposto al Comune di Pontelatone che tutti gli eventi programmati (pensati per un arco di tempo di circa dieci mesi) dovranno essere svolti entro giugno, in barba agli entusiasmi e al lavoro profuso dal gruppo, che vede adesso sminuito il proprio impegno. L’Ambito sociale motiva i ritardi dell’attuazione dell’iter ribadendo il peso che ha il vuoto di risorse regionali, che tra le altre cose provoca da mesi problemi di ogni genere al suo personale, e sottolineando che la Regione ha inoltre modificato le procedure per l’erogazione delle somme, non più indirizzate ai giovani ma direttamente ai comuni, innescando ulteriori meccanismi burocratici. Tuttavia, nonostante viva ancora l’attesa di questi fondi, alcuni dei progetti sono stati ugualmente avviati. Insomma, a volte sia la volontà di un giovane che i buoni propositi degli amministratori vanno a sbattere contro il muro delle carenze istituzionali e di tortuose procedure che finiscono per svilire il lavoro di chi dedica tempo, idee, energie ad iniziative positive per il proprio territorio. Non resta molto da dibattere e stupirsi poi,quando ci si confronta con il divario profondo creatosi negli ultimi anni tra politica e cittadini.


rturo, classe 1992. La famiglia vive ad Alvignano, nella zona periferica ai confini con il comune di Caiazzo: è in questo secondo comune che il bambino, poi il ragazzo, frequenta la scuola primaria e i molti amici, prima di iscriversi all’Istituto Industriale di Piedimonte. E’ il percorso di ogni ragazzo di questa zona, che incontra gli amici, studia, se ne va in giro, sceglie delle passioni da seguire. Per Arturo Minutillo a undici anni, questa passione è il ballo, e come spesso accade da queste parti, il ballo latinoamericano, la social dance, quella che aggrega di più, che fa “i gruppi” e li tiene insieme per serate intere,in un intreccio di passioni sportive, ma anche di divertimento, e stili di vita. Non basta. Arturo (nella foto, il terzo da sinistra) chiede di più, e

tra le sue curiosità giovanili intravede l’hip hop, forse perchè l’immagine di un ballerino hip hop si nota meglio e più delle altre, soprattutto durante l’adolescenza, perché i colori, i cappelli, i jeans lunghi e larghi fanno pendant… Non è così, non è una moda passeggera quella del ragazzo di cui stiamo parlando. Ben presto diventa una scelta di vita culturale e professionale. Terminati gli studi superiori, qualche amico prova ad indirizzarlo verso altri luoghi: contesti dove il ballo non è solo lavoro o svago, ma soprattutto studio e crescenti competenze, stile di vita e una rinnovata passione per la vita. Destinazione Milano, seppur Arturo non sa cosa lo attende davvero. Qui inizia a studiare la cultura Hip Hop e la sua evoluzione «perchè - come lui stesso racconta - la musica cambia, e con essa cambiamo anche noi che viviamo di quest’arte. Ciò che conta di più, nel mio caso, è stato studiare l’orgine di questo genere musicale, il suo valore sociale come lotta alla discriminazione razziale». Un ballerino non solo è protagonista di una scena, ma testimonial di un messaggio forte, in questo caso, il rispetto per la diversità e l’accoglienza. Tutto questo è l’Hip hop in Arturo Minutillo. Milano diventa la sua nuova casa: lo studio presso l’Accademia Modulo Sectory; poi l’occasione di un lavoro nel momento in cui il coreografo della scuola, il ballerino Emanuele Cristofoli, propone ad Arturo il tuffo nel mondo dello spettacolo vero e proprio. Nasce un nuovo progetto dove protagonisti sono sette giovani che ormai compongono la consolidata compagnia Laccioland Company. Un misto di teatro-danza, dove a dialogare con il pubblico è l’anima dei ballerini che in perfetto stile urban, rivela di ciascuno identità ed emo-

di vita

successi

A

HIP HOP Stile

storie di piccoli

di STARGATE

zioni: «Si è trattato prima di un percorso in se stessi, una vera e propria ricerca interiore e poi della messa in scena». Un’opera dal titolo Cre-Azione pensata per il teatro, dove per cinquanta minuti, attraverso una musica più ricercata, fuori dagli stereotipi comuni dell’Hip hop, i sette ballerini della Laccioland raccontano se stessi. Per comprendere meglio chiediamo ad Arturo, il ruolo che lui riveste sul palcoscenico: «Non rivesto alcun ruolo, ma “ballo me stesso”. Siamo sette persone diverse, scelte di proposito perchè ognuno possa raccontare ciò che è nella vita quotidiana». A questo punto la domanda s’impone: chi è Arturo nella vita quotidiana? Lui non se l’aspetta, ma risponde volentieri: «Beh...io sono una persona molto chiusa in se stessa, anche se all’apparenza non dimostro tutto ciò. Evito di raccontarmi facilmente... Sbaglio se la chiamo estrema riservatezza? Non mi piace parlare della mia vita privata anche alle persone più vicine. Non preferisco quasi mai parlare di me. Solo la danza mi concede la libertà di dire tutto ciò che sono». Convinto di ballare e di andare oltre fin da subito, e con lui convinte anche le persone che gli vogliono bene. Tra le sue prime “imprese”, la coreografia per lo spot promozionale dello spettacolo di Adriano Celentano all’Arena di Verona. Lo dice quasi sussurrando: non ama far parlare di sè in termini “propagandistici”. Quindi, diversamente da come pensiamo, ritorna a parlare di chi è, cosa che fino a quattro minuti fa non avrebbe fatto. L’arte di raccontarsi scende dal palcoscenico e al telefono si fa più intensa: «La danza è la mia vita; la Laccioland è il mio presente. Quanto al futuro, si vedrà. Gli impegni assunti adesso voglio portarli avanti con serietà nel rispetto di chi lavora con me e condivide con me questa esperienza». Grande determinazione. A soli ventun’anni. n.3

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L’acropoli E la cittadella

Murazioni sannitiche d’altura, borghi castramentati e castelli normanni intorno alla pianura alifana

Antico sogno e antico segno è la nuova rubrica di Clarus che da questo mese ci porterà in giro alla scoperta dell’archeologia locale

I “ciclopi” del Cila Da tempi remoti, i monti che delimitano la nostra pianura costituirono per i Sanniti i siti abitativi preferenziali difesi naturalmente dalla severa accidentalità del territorio e dalle fortificazioni d’altura poste a controllo degli aspri sentieri delle greggi ai lati del monte Cila che risalivano verso l’altopiano del Matese, dove erano le distese dei temperati pascoli estivi. Furono i pastori-guerrieri della tribù sannitica degli Allibanos (gli Alifani) che possedettero questo territorio a realizzare, circa 600 anni prima di Cristo, le potenti murazioni. Con massi ciclopici, essi circoscrissero a diverse quote i versanti scoscesi del monte Cila, poi rinforzarono la posizione fortificando il vicino terrazzamento strapiombato dove siede oggi Castello Matese. Infine, fortificarono anche la collina di monte Castello tra Sant’Angelo d’Alife e Raviscanina. La potente fortificazione cilana garantiva la sicurezza a quella parte dei componenti la tribù alifana che viveva e praticava la sua attività di sostentamento lungo la fascia sub-montana, presidiando il passo, la sorgente e l’area sacralizzata della ocar (in osco) – l’acropoli del Cila. La murazione del Cila costituiva il maggior sito difensivo della touta (territorio) alifana e difese la popolazione sannitica di quest’area nelle guerre contro Roma. I circuiti murari recingevano anche l’area apicale isolando le aree sottostanti realizzate per la concentrazione degli armenti in casi di necessità. L’area apicale presidiata da armati era consacrata ai numi tutelari della tribù e a quelli dei sacri confini territoriali. In essa erano gli edifici di culto, dove i sacerdoti traevano i presagi scrutando il volo degli uccelli o osservando le pulsazioni del fegato dei bovini sacrificati.

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di EMILIA PARISI

La conquista romana e l’arrivo dei Normanni Con la conquista romana del territorio, questi siti fortificati d’altura furono abbandonati dai Sanniti, costretti a popolare provvisoriamente la fascia pianora sub-montana del versante, fino a quando poi nell’80-79 a. C. fu realizzata la fortezza castramentata romana di Allifae, l’Alife odierna, che ospitò i veterani di Silla e in seguito, nel 42 a. C. una colonia di veterani dei Triumviri. Gli aspri ma sicuri siti fortificati d’altura tornarono a difendere nel Medioevo la popolazione della pianura minacciata dalle barbarie e specialmente in età Longobarda allorché, alla metà del IX secolo,

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Nella foto grande le antiche mura di Alife. A sinistra veduta di Castello del Matese; a destra Monte Cila

il sud dell’Italia cominciò ad essere sottoposto alle scorrerie dei feroci mercenari saraceni d’Africa e di Spagna a causa di dissidi tra principi longobardi. Le vecchie città romane di pianura, Capua, Alife e Salerno dove vennero organizzate le “vigiliae noctis” - le veglie notturne sulle mura di preti e cittadini - in assenza di soldati, si spopolarono e dal tempo dei Sanniti si rinnovò la fuga verso i monti. Nuovi agglomerati abitativi circondati da muraglie difensive (i Castra) sorsero ex novo un po’ ovunque sui colli da cui era possibile lungo i crinali dileguarsi sui versanti montuosi retrostanti. Alte torri di avvistamento o campanili di chiese e conventi, all’interno delle murazioni, controllavano le minacce di temute escursioni e assalti. Con l’arrivo dei Normanni, poi, si procedette a consolidare l’“incastellamento” dei territori di conquista; la valle alifana e quella telesina vennero incastellate dopo il 1062. Sui vecchi siti d’altura sannitici, sulle acropoli, negli antichissimi recinti della monticazione, circoscritti da terrazzamenti murati, nacquero borgate fortificate da nuove mura con torri per il controllo del territorio; chiese e campanili cristiani furono innalzati nelle aree consacrate alle divinità pagane, mentre nell’area pianora su un angolo della fortezza romana di Alife venne impiantato, intorno al 1065, il Castello Normanno dei Drengot con forma a “cittadella”, con pianta quadrata e con torri circolari poste ai quattro angoli e mastio. L’incastellamento territoriale Ricorrente, quindi, è la consuetudine dell’utilizzo nell’area apicale di impianti d’altura sannitici, le acropoli, in origine circoscritte da doppie murazioni parallele che la separano dalle

aree a quota inferiore. Nell’ocar si impianta sempre una torre o il mastio in genere a pianta quadrata con funzione difensiva, di avvistamento, o come dimora signorile divisa verticalmente in piani con cisterna di acqua interrata nel calpestio del piano terra. Intorno sono altri edifici (per il corpo di guardia, per il personale) e gli edifici di culto. Tutt’intorno l’area molto più vasta che in età sannitica poteva essere riservata al concentramento, stallo o monticazione degli armenti, al concentramento della popolazione inerme (in caso di guerre) e sito di residenza saltuaria o fissa. Dall’età alto-medievale diviene borgata della popolazione protetta intorno da mura munite di torri quadrate o rotonde, porte di accesso e postierle comunicanti con la soprastante area apicale, estremo rifugio in caso di assedio. Così l’incastellamento territoriale viene a comporre una fitta rete di castelli, borghi castramentati, fortezze, torri di avvistamento di sovente dislocate lungo le antiche vie romane dove sono utilizzati per l’avvistamento gli alti mausolei romani in abbandono che prendono il nome di “Torre”. Come il “Torrione” ad ovest di Alife, sulla via Latina e il mausoleo di Porta Napoli chiamato la “Torre di S. Giovanni” allorché presidia con armati il ponte davanti la città romana.

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Coincidenza storica. Resurrezione sociale, istituzionale e spirituale

Il punto

di ARTURO VECCIA

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on l’inizio del nuovo anno si è acuita l’incertezza istituzionale che da mesi attanagliava l’Italia, rendendo non più dilazionabili le necessarie azioni incisive per troppo tempo rinviate. L’apertura della crisi di Governo, ed ancor più il risultato delle recenti elezioni politiche, dal cui esito non è emersa una stabile maggioranza parlamentare in grado di affrontare i gravi problemi del Paese, hanno amplificato il disagio economico-sociale che da tempo coinvolge parti sempre più ampie della società. Lo scenario appena descritto costituisce, però, solo la cornice del quadro neorealistico che rappresenta le precarie condizioni generali della comunità nazionale. I giovani, gli anziani, i piccoli imprenditori vivono situazioni ai limiti della sostenibilità, spesso veri drammi familiari. Ma per carità, non fermiamoci ai contorni del “dipinto”: proviamo a focalizzare l’attenzione verso il centro della tela; proviamo a vagliare attentamente la trama del tessuto sociale e di sicuro emergerà la consapevolezza che i tempi sono ormai maturi per l’avvento di una vera resurrezione. Non possiamo, in latri termini, esimerci dall’osservare in chiave positiva e propositiva il complesso intreccio di rapporti e di sentimenti che in queste settimane di Quaresima ci offre sicure prospettive di rinascita. In effetti viviamo un inedito stallo istituzionale, che ci appare sempre più come empasse sociale e che ha fortemente incrinato i rapporti umani, etici e culturali. Nel già complesso panorama parlamentare, alle difficoltà per l’elezione dei Presidenti delle Camere e per la formazione del Governo, si aggiunge la previsione costituzionale del semestre bianco: il Capo dello Stato è di fatto impossibilitato ad effettuare qualsiasi intervento diverso dal conferimento del mandato esplorativo. In uno dei pochi momenti della storia repubblicana in cui pare necessitarsi lo scioglimento del Parlamento, l’organo a ciò deputato, il Presidente della Repubblica appunto, è impossibilitato perchè in scadenza di mandato. Mai infatti l’oculato Costituente del 1948 avrebbe immaginato il verificarsi di una tale incertezza istituzionale, ulteriormente aggravata, da un lato da dubbi comportamenti etici e da malevolenza amministrativa, dall’altro dal preoccupante fenomeno recessivo che agita l’economia reale e finanziaria. E’ vero, come dicevamo, siamo di fronte ad un inedito stallo istituzionale, ma ciò non ci esonera dall’attivarci fattivamente per la resurrezione sociale del sistema Italia. Non

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crediamo sia un caso che il periodo più difficile del Paese venga a coincidere con la Pasqua di resurrezione. E’ lo stesso Vangelo ad insegnarci che "la pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra d’angolo". Non è forse questa l’occasione epocale per il risveglio delle coscienze? E l’esempio non può che venirci ancora una volta dalla Chiesa e dalla sua impareggiabile capacità di rinnovarsi nel solco della tradizione. A ben riflettere, infatti, non possiamo trascurare la coincidenza degli avvenimenti straordinari che nello stesso periodo hanno riguardato anche il soglio di Pietro. La vacanza del seggio pontificio, l’inizio della legislatura italiana, l’elezione del Capo dello Stato: mai la storia ha annoverato tale contemporaneità di accadimenti. E’ indubbio che questi mesi saranno ricordati nei libri di storia per la straordinarietà degli eventi, ma da buoni cristiani dobbiamo auspicare che siano anche citati come i tempi della resurrezione sociale ed istituzionale, oltreché della rinnovata fidelizzazione spirituale. Una Pasqua che si è inaugurata con l’elezione di Papa Francesco I°, e ci auguriamo continui con il necessario compimento dei passaggi istituzionali di cui l’Italia ed il mondo intero abbisognano. Cambiamento, auspichiamo, intriso del coraggio, dell’umiltà e della fratellanza che caratterizzarono la vita sociale e spirituale del poverello di Assisi.


B VI U SI O N NI E

A c u ra

di Emi

el i e Mi c h s i r a P a li

e Me n d

i tt o

noi siamo infinito

Gioie e dolori di un giovane Holden nella pellicola di Chbosky Tit. originale The perks of being a wallflower Genere Drammatico Nazione USA Anno 2012 Durata 102 min. Regia Stephen Chbosky All’inizio degli anni Novanta imperversava la musica di David Bowie e le immagine di “The Rocky Horror Picture Show” venivano reiterate all’infinito sui palcoscenici dei teatri cittadini in rocambolesche “rappresentazioni di mezzanotte”. Charlie (Logan Lerman), Sam (Emma Watson) e Patrick (Ezra Miller) sono tre adolescenti di Pittsburgh che si nutrono della stessa musica e delle stesse immagini. Anzi, prendono parte personalmente ad una di queste performance notturne e una sera, al culmine della felicità, Sam si alza in piedi sul retro di un camioncino, all’intero di un tunnel, e comincia a “volare” con le braccia spalancate sulle note di “Heroes”. «Mi sento infinito» esclama Charlie, il più timido ed impacciato del gruppo. Ma alle gioie “infinite” si contrappongono i dolori e le ansie celati nel profondo dell’anima di questi giovanissimi, tesi come sono a scoprire il loro posto nel mondo. Sam, tormentata da una vecchia reputazione che la voleva incline ad ogni eccesso, cerca con tutte le sue forze di dimostrare quello che è veramente, una brava ragazza che vuole entrare al college. Patrick, il ribelle anticonformista del liceo, combatte ogni giorno contro i pregiudizi dei compagni trovando comprensione solo tra coloro che lo amano davvero. Charlie, nerd appassionato di letteratura americana, nasconde un doppio segreto, due perdite angoscianti che lo spingeranno progressivamente in uno stato allucinatorio al limite della follia. “The Perks of Being a Wallflower”, romanzo cult generazionale dello stesso regista Stephen Chbosky da cui il film è tratto, cattura l’essenza di un giovane Holden della post-modernità, sempre sull’orlo del burrone, dilaniato da gioie e dolori che trovano espressione nelle parole incredibili di Charlie: «Accettiamo l’amore che pensiamo e crediamo di meritare».

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hissà quanti, tra gli spettatori di “Noi siamo infinito”, hanno rivisto se stessi, o una parte, rispecchiati nelle vicende dei giovani protagonisti, nelle loro emozioni, le sofferenze, le solitudini, gli addii, gli arrivederci. Quella che all’inizio può apparire una leggera commediola adolescenziale si rivela ben presto qualcosa di più profondo, un manifesto generazionale che delinea con l’impeto silenzioso dei sentimenti, belli o detestabili che siano, i tormenti e le gioie della crescita, che ci porta a confrontarci con il mondo e, spesso, con un passato che inevitabilmente ci segna e forgia la nostra persona. Con delicatezza, quasi pudore, il regista Stephen Chbosky ci accompagna nel percorso di formazione di Charlie, senza scivolare nella retorica o, peggio, in melense atmosfere romantico-esistenziali, ma mantenendo uno stile sobrio dove a parlare sono gli sguardi e i gesti, le parole sussurrate o gridate, i primi amori. Noi siamo infinito conquista perla sua semplicità e sincerità, grazi anche a un trio di giovani attori, tra cui Emma Watson che dismessi i panni della maghetta di Harry Potter dimostra di sapere fare anche altro. Restano impresse, indelebili, le sequenze liberatorie di sfrenate corse notturne in auto, lungo un tunnel, con gli occhi e la testa ebbri di spensieratezza e libertà mentre David Bowie alla radio canta che “possiamo essere eroi, solo per un giorno”. E allora il mondo attorno quasi non conta più, tutto ciò a cui riesci a pensare è che ti senti come mai ti è capitato, ti senti infinito.

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Passaggio (Caiazzo. Entrata del Castello). Foto Rossano Orchitano

Alla finestra. Foto Paola Musto Alle origini (Letino). Foto Igino Palumbo C’era una volta... (Alvignano. Catello Aragonese). Foto Michele Menditto


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